Recensioni – N. 28 Agosto 2006

Recensioni – N. 28 Agosto 2006

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Michelangelo Ingrassia, La rivolta della Gancia. Il racconto dell’insurrezione palermitana del 4 aprile 1860, Palermo, L’EPOS, 2006, pp. 102.

Il pregevole saggio di Michelangelo Ingrassia, docente presso l’Istituto Superiore di Giornalismo di Palermo, analizza con il “tono del racconto” la rivolta della Gancia, uno dei fatti storici di notevole importanza nella realizzazione dell’unità d’Italia, ma troppo spesso ingiustamente dimenticato. La rivolta trae il suo nome dalla chiesa francescana dove trovarono rifugio alcuni rivoltosi.

La storia, come ha scritto Georges Duby, “è, in ultima analisi, un genere letterario”, e per non tradire tale ritmo narrativo e non venir meno al rigore scientifico, l’autore ha ritenuto opportuno non appesantire il “racconto” con note a pie’ di pagina, dedicando un capitolo ai riferimenti bibliografici, una sorta di bibliografia ragionata, utile agli studiosi che volessero tornare sull’argomento (pp.68-76). Oltre ai documenti d’archivio, Ingrassia ha consultato i numerosi opuscoli pubblicati nell’Ottocento e i lavori degli storici che hanno studiato la rivolta: da Francesco Renda a Massimo Ganci, da Denis Mack Smith a Gaetano Falzone, a Pietro Merenda per citarne solo alcuni. Una fonte privilegiata è stata quella dei quotidiani cittadini “L’Ora” e “Giornale di Sicilia” negli anni delle ricorrenze di quell’evento, articoli utili per tastare il polso sul grado di “memoria storica” del popolo palermitano.

Gli eventi del 4 aprile 1860 diedero un vero e proprio scossone, tanto che Crispi “convinse Garibaldi a comandare una spedizione in Sicilia” (p. 11). Senza quell’insurrezione “eroica ma sfortunata […] l’unità d’Italia non si sarebbe, almeno per allora, compiuta” (p. 61). La rivolta della Gancia fu diversa da quella “separatista” del 1820-21 e da quella “federale” del 1848 poiché ebbe “carattere nazionale” e si concluse “con il plebiscito dell’ottobre 1860 che sancirà l’unione della Sicilia con l’Italia” (p. 16).

L’insuccesso della rivoluzione del 1848, conclusasi con la restaurazione del potere borbonico, aveva sollecitato la costituzione di un Comitato Rivoluzionario Segreto allo scopo di contribuire alla realizzazione dell’unità d’Italia. Il 1859, l’anno della seconda guerra d’indipendenza, riaccese le speranze. E il 26 giugno a Palermo, nella Piazza Bologni e nella vicina via Toledo, la borghesia e la nobiltà palermitana organizzarono festeggiamenti per le vittorie franco-piemontesi sull’Austria. Nel settembre le dimissioni del generale Filangieri e i continui disordini provocati dai repubblicani, misero a dura prova il governo del Regno delle Due Sicilie alla cui corona si era succeduto Francesco II dopo la morte del padre Ferdinando II. Il mese successivo, fallito il moto di Bagheria, il Comitato Rivoluzionario si trovò diviso tra democratici – “fautori di un’immediata azione armata” – e moderati “che si dichiararono attendisti e si opposero al ricorso alle armi” (p. 18). Superando le divergenze, interventisti e attendisti decisero di organizzare un piano insurrezionale senza meglio precisare la data. Nel marzo del 1860 Mazzini sollecitò il Comitato Rivoluzionario a una immediata azione in un clima infiammato dai plebisciti per le annessioni della Toscana, Emilia e Romagna al Piemonte. Il re borbonico affidò la Presidenza del Consiglio al principe del Cassero. Il 3 aprile il governo dispose la chiusura dell’Università di Palermo: tutti avevano compreso che l’insurrezione era imminente.

Protagonista indiscusso della rivolta fu il fontaniere Francesco Riso, definito da Alexandre Dumas “il primo martire” del 1860, morto il 27 aprile in seguito alle ferite riportate nel combattimento. Questi prese in affitto un magazzino dei frati della Gancia e, da solo, vi nascose le armi; alla Magione, poco distante, affittò un altro magazzino. Per lo stesso scopo occultò altre armi nella casa paterna e nella propria. Riso suddivise gli insorti in tre gruppi per un totale di 83 uomini. Ma, a causa delle “voci del popolo” e dell’imprudenza “di alcuni congiurati”, che avevano raccontato il piano a un confidente dei gendarmi, la polizia ebbe notizia che si stava tramando qualcosa.

“Tutto finì com’era cominciato: all’improvviso, dopo appena mezz’ora di lotta disperata” (p. 27). Le pattuglie borboniche catturarono quattordici insorti, mentre cinque morirono in combattimento. Se a Palermo la rivolta fu subito spenta, essa si accese nei paesi limitrofi per diramarsi in tutta la Sicilia. Riso, gravemente ferito, fu condotto all’Ospedale Civico di San Francesco Saverio. Furono arrestati alcuni frati del convento, altri fuggirono, due rivoltosi si nascosero nella cripta della Chiesa della Gancia. Gaspare Bivona e Filippo Patti sopravvissero grazie al coraggio degli abitanti del quartiere che riuscirono, nonostante i pattugliamenti, a far passare alcuni viveri dalle grate di una finestrella. Gli abitanti, simulando una rissa finalizzata ad attirare l’attenzione delle guardie e creando una barriera con dei carretti, permisero ai due di uscire da un buco pazientemente creato nei giorni del nascondiglio. Quella buca, chiamata della salvezza, ancora oggi è ricordata da una lapide il più delle volte – commenta Ingrassia – coperta dalle “vetture che indisturbate e irrispettose parcheggiano davanti ad essa” (p. 35).

Gli arrestati furono portati al Carminello, in piazza Bologni, quartier generale delle truppe borboniche. Già la mattina del 4 aprile, con un telegramma, il capo della polizia Salvatore Maniscalco informò il re che una rivolta era stata “completamente” spenta. I membri del Consiglio di Guerra, convocato sui provvedimenti da prendere contro gli insorti, decisero di applicare misure rigorose.

Il re – che aveva riunito un consiglio straordinario – preferì seguire il parere di Giovanni Cassisi secondo cui un atto di clemenza avrebbe sortito maggiori effetti delle pene capitali. Le sentenze, pertanto, dovevano essere sospese. Il 7 aprile numerosi nobili palermitani – tra i quali i principi di Niscemi, Trabia e Pignatelli – furono arrestati con l’accusa di avere finanziato la rivolta. Il 14 aprile tredici “di coloro che, catturati a centinaia durante i combattimenti fuori Palermo, si trovarono rinchiusi nel forte di Castellammare, furono passati per le armi nel largo di porta San Giorgio” (p. 43). Per loro, secondo il principe del Cassero, non poteva essere applicato l’atto di clemenza del re dal momento che si erano “resi colpevoli” di fatti posteriori (p. 45). In realtà, ad essere fucilati vi furono anche cinque uomini che avevano partecipato all’insurrezione del 4 aprile. Le gravi ferite riportate da Riso lo fecero “prigioniero nel letto d’ospedale”, cadendo nell’”infame sospetto” di avere rivelato alla polizia i nomi dei suoi compagni. Ma, egli, osserva l’autore, fu sottoposto a tre interrogatori che non ebbero alcuna conseguenza dal momento che Riso parlò solo quando i nobili erano già stati arrestati e quando i patrioti erano stati fucilati.

Il saggio si chiude con il lungo elenco dei nomi dei “picciotti” del 4 aprile organizzati da Francesco Riso, dei frati del convento della Gancia arrestati e processati per la rivolta, dei caduti nello scontro a fuoco, e delle tredici vittime del 14 aprile 1860 delle quali solo la toponomastica cittadina, con la piazzetta delle Tredici vittime, e un monumento, ne ricordano il sacrificio.

La rivolta della Gancia, “con carattere popolare e antiborghese”, si infranse nella realtà del moderatismo dei ceti politici dominanti che sostennero il programma di unificazione nazionale non per dovere patriottico, ma per “calcolo sottile che il miglior modo di sopravvivere al crollo del Regno delle Due Sicilie, conservando i vecchi privilegi e l’antico potere, era quello di modificare le forme senza cambiare la sostanza” (p. 65). La riflessione, in termini diversi, ma uguale nel contenuto, è proprio quella che Tomasi di Lampedusa metterà in bocca al giovane Tancredi nel Gattopardo “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, – dirà al Principe di Salina – bisogna che tutto cambi”. Gli alti ceti sociali, infatti, “lanciarono il sasso del 4 aprile incoraggiandolo e finanziandolo, ma nascosero subito la mano” (p. 67). Essi si misero a capo delle “squadre dei picciotti” solo per fini egoistici: garantire i propri privilegi e interessi.

Claudia Giurintano

Roberto Patricolo, San Giorgio dei Genovesi. Le fabbriche, le stirpi, i simboli, le epigrafi, fotografie di Enzo Brai con presentazione di Giuseppe Pecoraro, Bagheria, edito dalla Provincia Regionale di Palermo, pp. 216.

La storia di un quartiere, la storia di un edificio, le storie di persone che hanno vissuto quei luoghi: così può definirsi l’ultimo volume pubblicato da Roberto Patricolo sulla chiesa San Giorgio dei Genovesi a Palermo, frutto maturo di una lunga e costante ricerca sulla chiesa e quanto ad essa sia in qualche modo riconducibile. L’autore ha, infatti, pubblicato alcuni volumi su diversi argomenti riguardanti il medesimo edificio sacro, già a partire dal 1977.

La puntuale e diligente ricerca è testimoniata dalle citazioni che costellano il testo, dalle significative appendici documentarie, poste a conclusione di ogni capitolo – che significativamente hanno tutti i titoli riprendendo citazioni latine sull’argomento trattato – nonché dal dettagliato regesto e dall’ampia appendice bibliografica (quest’ultima a cura di Agostino Merlino), che chiudono il volume.

Quasi come una serie di cerchi concentrici, l’articolazione e la successione dei capitoli, partendo dal contesto territoriale e da quello storico, si concentra progressivamente sui protagonisti della storia della chiesa palermitana della “nazione” genovese: quasi con un telescopio che, puntato sulla città di Palermo, arriva a circoscrivere il quartiere ed infine ogni particolare della chiesa ed i suoi abitatori.

La vivacità economica e commerciale che ha caratterizzato nei secoli i quartieri orientali della città, più vicini al porto della Cala, ha comportato una concentrazione di rappresentanti delle nazioni: tra queste una particolarmente numerosa e di maggior rilievo fu quella genovese. Il taglio della via Maqueda rafforzerà l’individualità della zona, compresa quella limitrofa alle Logge mercantili. Qui, nei pressi della medievale Porta San Giorgio – dal 1724 appellata anche Santa Rosalia – si concentrano le attività commerciali delle famiglie genovesi, presenti in città. Meticolosa e particolareggiata è la descrizione storica e l’analisi documentaria di Roberto Patricolo su tutta la zona interessata dalla presenza dei conventi dei Domenicani e dall’insediamento monastico carmelitano di Santa Maria di Valverde e da altri edifici religiosi.

La potente comunità genovese, recuperando il culto al megalomartire Giorgio, già presente ed ampiamente documentato nella città, edifica nella chiesa San Francesco una Cappella Mercatorum, dove nel 1526 viene collocata l’ancóna marmorea, realizzata da Antonello Gagini, raffigurante il Patrono di Genova. Nella medesima chiesa la presenza genovese era già testimoniata dalla tavola raffigurante la Madonna dell’Umiltà, firmata nel 1346 da Bartolomeo da Camogli. Nel quartiere tale presenza si espande nei due oratori di San Lorenzo e dell’Immacolatella, che entrambi riflettono la struttura di potere della Repubblica ligure. Un’ulteriore traccia di questa espansione religiosa è data dalla presenza nella chiesa Sant’Antonino della tela di Gerardo Astorina raffigurante Nostra Signora della Misericordia di Savona (1440 ca.).

Nel 1576 l’architetto piemontese Giorgio De Faccio inizia i lavori per la nuova chiesa dei Genovesi a Palermo, dedicata al patrono San Giorgio, sul luogo ove esisteva già una chiesa della Confraternita di San Luca, fondata nel 1424. Puntuale è la descrizione del Patricolo dell’edificio e delle vicende costruttive, accompagnando la narrazione con una sorprendente e ricchissima serie di citazioni di documenti e di un nutrito repertorio di disegni nonché di un curatissimo corredo fotografico, appositamente realizzato con maestria dal maestro Enzo Brai.

La stessa puntuale attenzione è dedicata nel trattare ogni rispettiva cappella, ponendo l’attenzione e partendo dai committenti e proprietari, con l’analisi araldica, epigrafica, documentaria sia della famiglia, sia della storia del sito, sia delle opere d’arte in esse contenute. In qualche caso la scheda della cappella è accompagnata da un’appendice documentaria con inventari e testamenti.

Completa il volume la descrizione delle sepolture corredata dalla citazione epigrafica e da una breve descrizione del rispettivo defunto.

Sono questi abitatori che continuano, con la loro silente presenza, l’espansione della storia nel presente tramite la dettagliata analisi delle lastre tombali, non di rado preziose testimonianze dell’arte scultorea oltre che vive presenze dei rappresentanti a Palermo della “nazione genovese”.

Giuseppe Ingaglio

AA.VV., Uno/molti. Modi della filosofia, Bologna, Pendragon, 2004, pp. 177.

Il libro indaga in che modo il rapporto tra unità e molteplicità viene pensato da alcuni eminenti filosofi e da alcuni illustri scienziati. Gli autori dei cinque saggi che compongono l’opera – Annarita Angelini, Riccardo Caporali, Marco Ciardi, Rossella Lupacchini e Giovanni Matteucci – hanno voluto offrire studi che fossero rappresentativi di ognuno degli indirizzi (epistemologico, estetico, morale, storico-filosofico e storico-scientifico) nei quali si articola per tradizione il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Bologna, presso cui essi svolgono la loro attività didattica e di ricerca.

Come si sottolinea nella Premessa (pp. 7-11), i testi raccolti nel volume ricusano le soluzioni totalizzanti, schierandosi “dalla parte della pluralità: dalla parte del potenziale semantico – multiplo, molteplice, mutevole – delle linee, delle forme, dei simboli, dei modelli, degli oggetti, delle parole” (p. 7). Ne nasce una “discussione a cinque voci, talora disarmonica e dissonante, come può accadere in assenza di un principio d’ordine e quando prevalga l’eccesso dei dubbi, delle incertezze, delle perplessità” (p. 8). Secondo gli autori, queste diverse prospettive – tutte fragili, provvisorie, parziali – sono in relativa consonanza e, “se combinate, possono avvicinarsi transitoriamente, convenzionalmente, ipoteticamente, relativamente, a una soluzione generale senza lasciarsene ipostatizzare e pietrificare” (p. 9).

Il testo di Angelini, dal titolo La moltitudine di mezzi. Immagini e ossimori in Giordano Bruno (pp. 13-50), mostra come la “nova filosofia” propugnata dal Nolano passi anche attraverso una “riconsiderazione della topica di simboli, di allegorie, di metafore e di immagini dalla quale le tradizioni avevano ampiamente attinto” (p. 19). In opposizione alla tendenza iconoclasta di Cusano, Bruno recupera termini, tropi, miti e figure del passato (recente, antico e antichissimo), deformandone però scientemente il significato e l’intensione.

Un esempio significativo di “uso” e “riuso” della tradizione da parte del filosofo campano è costituito dall’immagine della scala naturae. Mentre, nel De infinito, ne viene irrisa la connotazione originaria, volta a rappresentare il “bell’ordine” scandito dalla gerarchia aristotelica degli enti o dal processo emanativo dei neoplatonici, il De la causa propone un modello “riformato” di scala, i cui estremi non sono più due princìpi contrari e diversi, cioè la sostanza prima e la molteplicità degli individui, ma “uno concordante e medesimo”: il mezzo e la pluralità delle forme vengono così riconosciuti come l’unico motore dell’universo e delle infinite trasformazioni che determina.

Nella Cena delle ceneri, Nolano utilizza l’immagine della nave per rappresentare questo sistema autoreferenziale in perenne movimento: in mancanza di ancoraggi assoluti e stabili, rimangono gli appigli, “solo in apparenza “fissi”, posti all’interno dello scafo entro il quale ciascuno e tutti si trovano, in ogni momento e per sempre, a navigare” (p. 32). Servendosi di un altro ossimoro, Bruno ricorre alla firmitas e alla finitio vitruviana e albertiana per definire la propria filosofia nei termini di “universal architettura”: in questo modo, a parere di Angelini, egli si prefigge di mostrare come “il piano del conoscere e del posse, simbolicamente riconducibile all’immagine della nave, e quello del esse, analogamente rappresentato dalla scala del De la causa, tendano a coincidere e a riconoscersi su un esse posse che si identifica nelle figure della fabbrica e del cantiere” (p. 33).

Aptituto patientis. Spinoza, la moltitudine, la tolleranza (pp. 51-79), il saggio di Caporali, approfondisce il tema della tolleranza nel pensiero del filosofo olandese allo scopo di mettere in luce la questione del rapporto fra sovrano e governati. Se in Spinoza l’idea classica di tolleranza – cioè “la logica “postribolare” della concessione, quella per la quale Tommaso vede il principe rassegnarsi ai culti diversi allo stesso modo in cui si rassegna ai bordelli e ai vizi umani” (p. 53) – risulta tutto sommato marginale, è però possibile rinvenire nella sua opera una peculiare declinazione concettuale della tolerantia, incentrata sul rovesciamento dei ruoli tradizionali del “tollerante” (della summa potestas, cioè dell’uno) e del “tollerato” (dei subalterni, cioè dei molti). Come evidenzia Caporali, quest’originale idea di “sopportazione” viene a costituire, nell’ambito della filosofia politica spinoziana, “una sorta di “basso continuo”, le cui variazioni risultano decisive, determinanti per il mettersi in forma dell’”imperium”” (ibid.).

Ne Il sogno della materia prima. Prout, Mendeleev, la nuova chimica e la filosofia antica (pp. 80-111), Ciardi ripercorre le tappe principali della rivoluzione chimica. Nel corso del Settecento, la tradizionale visione della materia – fondata sui quattro elementi di Aristotele (aria, acqua, terra e fuoco) e sui cosiddetti tria prima di Paracelso (zolfo, sale e mercurio) – viene definitivamente a crollare sotto i colpi di una serie di ricerche ed esperimenti assai fruttuosi, condotti in primis da Cavendish, Priestley e Lavoiser.

Nel 1816 Prout pubblica l’ipotesi secondo cui l’idrogeno sta alla base di tutta la materia, e dunque ogni elemento chimico deriva dall’unione di un numero diverso di atomi di idrogeno; come sottolinea Ciardi, l’elaborazione di questa ipotesi risente in maniera decisiva delle concezioni espresse dagli antichi intorno alla “materia primordiale”. Contro Prout si schiera Mendeleev, che nel 1869 abbozza la prima versione della sua celebre tavola periodica, finalizzata a ordinare gli elementi chimici secondo i loro rispettivi pesi atomici: egli è convinto che la base della realtà materiale sia costituita dell’esistenza di molteplici elementi non riducibili ad un unico modello, ma soggetti alla disciplina di una legge generale.

Il testo di Lupacchini, L’ineffabile pasticcio dei quanti (pp. 112-142), analizza alcune linee di ricerca che trovano il loro punto di convergenza nella teoria dei quanti. In generale, rispetto al meccanicismo deterministico atomista dominante nel pensiero scientifico del XIX secolo, la nuova fisica energetica – incentrata sul concetto di energia come “capacità di produrre cambiamenti” (p. 117) – ritiene che il mondo fisico non sia composto di atomi inalterabili, bensì di forme, e risulti dall’insieme degli effettivi processi di interazione e delle possibili modalità di trasformazione. Accantonata ogni ipotesi esplicativa “sostanziale”, l’energetica si propone allora lo scopo di “indicare una possibile struttura matematica della fisica, in grado di tradurre in un semplice rapporto numerico la relazione che governa il passaggio da un determinato ordinamento “seriale” dei nostri dati percettivi in un altro” (ibid.).

Partendo da tale distinzione, Lupacchini mette in risalto come la meccanica quantistica e quella classica siano inconciliabili: la prima, infatti, descrive la realtà con strumenti matematici che, pur dando conto degli eventi, non si riferiscono necessariamente ad entità reali. Per la meccanica quantistica non è possibile stabilire alcuna corrispondenza tra l’onda associata al moto degli elettroni e la traiettoria del moto; l’elettrone risulta irraggiungibile “perché è logicamente impossibile, per la nuvola di probabilità, assumere due forme diverse nel medesimo tempo, quella delocalizzata delle onde e quella localizzata delle particelle, e qualsiasi osservazione comporta la possibilità di preparare la nuvola in modo che assuma solo una delle due forme” (p. 142).

Obiettivo di Figurazione del senso come unità del molteplice (pp. 143-172) è prendere in esame “alcuni aspetti della declinazione del nesso tra unità e molteplicità che passa attraverso concezioni dell’esperienza non sintetiche ma articolative” (p. 146). Secondo Matteucci, l’autore del saggio, le prospettive di Dilthey, di Cassirer e di Dewey mostrano come sia possibile pervenire a “una figurazione di senso che realizza il nesso tra unità e molteplicità senza collassare in determinazioni categoriali, ossia come unità nel (non del) molteplice” (p. 172). Non dimentichi della terza Critica kantiana, questi studiosi riescono infatti a “valorizzare lo statuto esperienziale dell’arte, scorgendo nelle opere non mere rappresentazioni di nature o di idee, bensì moduli d’esperienza possibile, attuazioni e prospettazioni – cioè – del nesso tra l’unità di un senso sempre nuovo da articolare e la molteplicità dei momenti in cui e per cui tale senso si figura” (p. 145).

Al fine di mettere meglio in luce la profondità storica e semantica del binomio uno/molti, i saggi qui esaminati hanno dunque scelto di privilegiare “le declinazioni più tenui, più fluttuanti, più precarie e relative” (p. 9), accettando sconfinamenti in campi disciplinari altrui nella convinzione – spiegano i cinque studiosi nella Premessa – che non esistano situazioni di pertinenza esclusiva di questo o di quell’indirizzo, e che “gli ambiti della ricerca filosofica siano definibili anche attraverso le interconnessioni, gli apporti e le interferenze di linguaggi e di discipline diverse dalla filosofia” (p. 10).

Piero Venturelli

Sandro Ciurlia, Diritto, Giustizia, Stato. Leibniz e la rifondazione etica della politica, Prefazione di M. Proto, Lecce, Pensa Multimedia, 2005, pp.180.

Il contributo critico che Sandro Ciurlia ci offre con questo volume si configura, da una parte, come un’ulteriore tappa nel lavoro di esplorazione del continente leibniziano condotto dallo studioso con riconosciuta perizia e sottigliezza ermeneutica, dall’altra, come un’attenta ricognizione di un aspetto dell’opera leibniziana che concerne il problema dell’incidenza della riflessione politica o, per meglio dire, etico-politica, sull’architettura generale del pensiero del filosofo tedesco.

Non si tratta di una questione poco rilevante né di carattere puramente accademico-erudito. L’analisi della politica in Leibniz può condurre non solo ad esiti diversi nella rilettura di questo autore ma può, entro certi limiti, incidere sulla fecondità di certe intuizioni leibniziane e sulla loro possibile utilizzabilità nella prospettiva della formazione di una identità europea fondata sul pluralismo culturale e sulla condivisione di alcuni fondamentali principi di carattere costituzionale.

Alla luce di queste sollecitazioni, gli scritti politici di Leibniz possono sfuggire al “sostanziale disinteresse” presente nella storia della critica ed essere utilmente riconsiderati. La noncuranza verso le meditazioni politologiche di Leibniz – si chiede Ciurlia – “è giustificata dalla limitata originalità di tale tipo di riflessione o essa non ha ancora ricevuto l’attenzione ed il rilievo che merità? Quanto hanno contato certe ipoteche interpretative del passato, responsabili di aver dettato per generazioni le linee-guida del dibattito?” (p.25).

Gli esempi, a questo proposito non mancano. Nelle pagine dedicate a Leibniz dell’antologia dal titolo Il politico. Da Hobbes a Smith, a cura di M. Tronti (Feltrinelli, Milano 1982), Tito Magri osserva che i problemi della politica non hanno mai assunto per la filosofia di Leibniz un rilievo centrale. Non che Leibniz non si sia praticamente interessato di politica: è vero piuttosto il contrario. Nessuno, forse, dei grandi filosofi del Seicento ha svolto un’attività politica paragonabile a quella di Leibniz al servizio delle case di Magonza e di Hannover, in rapporto con la casa del Brandeburgo, con Pietro il Grande, con l’Imperatore. Se consideriamo l’opera di Leibniz a favore dell’unità dei cristiani come una parte rilevante della sua attività politica, si deve concludere che la politica rappresentò l’interesse pratico fondamentale e che la pace e l’ecumenismo siano stati i problemi politici decisivi attorno a cui si è incardinata l’attività di Leibniz finalizzata a quella che J. Baruzi definiva “l’organizzazione religiosa della terra”.

Ma questa intensissima attività non troverebbe una corrispondenza adeguata sul piano della riflessione teorica. Secondo Magri, qui richiamato come autorevole rappresentante di una consolidata linea interpretativa, il filo conduttore del pensiero di Leibniz è costituito dalla definizione laboriosa delle categorie della Morale e del Diritto naturale nelle quali verrebbe assorbita la categoria della politica. Ne deriva che Leibniz rimanga schiacciato in un orizzonte pre-moderno nella misura in cui non attribuirebbe alla politica una dimensione autonoma.

Lo studio di Ciurlia, se non rovescia nettamente questa linea interpretativa, per lo meno la ridimensiona, rendendola problematica con argomentazioni abbastanza convincenti. Il richiamo esplicito, nel sottotitolo del suo volume, all’idea di una “rifondazione etica della politica” implica la ricerca di un legame complesso, o meglio di un a intersecazione di piani per cui la Politica, la Morale, il Diritto non si presentano come sfere della vita umana senza legami e influenze reciproche, come realtà non comunicanti. Si può discutere quanto, in questo gioco di relazioni, prevalga questa o quell’altra istanza, in momenti diversi, ma sempre dentro una prospettiva unitaria che privilegia le conciliazioni rispetto alle opposizioni, in cui le parti partecipano all’ordine del tutto, in cui, attraverso la ricerca di un linguaggio universale si unificano le conoscenze ma non si uniformano gli specialisti e, sul piano pratico, individui, popoli e Stati tendono ad un ordine etico-giuridico-istituzionale che non livella le differenze ma impedisce che degenerino in particolarismi esasperati, in giochi egocentrici che dissolvano l’armonia dell’insieme.

In questa prospettiva universalistica la politica non può essere disgiunta da quella che Ciurlia definisce la “piattaforma speculativa” su cui si regge l’intero sistema leibniziano: “le idee e le proposte di natura giuridico-politica di Leibniz sarebbero incomprensibili, prescindendo dalle idee d’ordine logico-epistemologico che maturano nel giovanissimo Leibniz alla fine degli ani Sessanta. Il tutto costituisce il basamento del sistema su cui si fonderanno tutte le sue meditazioni future” (p.37).

Da questa base scaturiscono i più arditi progetti del Leibniz diplomatico e filosofo della politica intesa come un campo di attività retto da principi razionali, attività organizzata che riflette il principio di organizzazione della ricerca scientifica.

Il Diritto, in particolare, assume le connotazioni di un ordine discorsivo, linguisticamente organizzato e formalizzato. Il Diritto – avverte Ciurlia – resta per Leibniz il principio regolatore delle dinamiche umane perché riduce, senza annullarlo, il carattere aleatorio e variabile della vita sociale. Si tratta di un’esigenza avvertita da Leibniz con particolare forza, un’esigenza di regole rigorose, capace di governare i contrasti alla luce di una metodologia certa e sicura. Certo, ragionare giuridicamente e operare giuridicamente significa sempre applicare l’universalità della legge ai fatti particolari e quindi richiedere un’attività interpretativa ma ciò che più conta – per Leibniz – è che una rigorosa logica giuridica riduca, fin dove è possibile, i margini dell’errore e limiti le possibilità dell’arbitrio.

L’opera di Leibniz, nell’imponenza e profondità dei temi e dei problemi affrontati, resta, per molti aspetti, sovraccarica di elementi legati alla tradizione ma è indubbio – il saggio di Sandro Ciurlia lo dimostra ampiamente – che è possibile rintracciare dentro il guscio teologico e metafisico del sistema leibniziano un nocciolo razionale pieno di sollecitazioni per il futuro. Liberata dai limiti strutturali del suo tempo, la riflessione politica di Leibniz potrebbe così diventare un utile sostegno alla costruzione dell’identità politico-culturale del cittadino europeo.

Antonio Quarta

Gaetano Augello, Agostino La Lomia. Un Gattopardo nella terra del Parnaso, Canicattì, Ed. Cerrito, 2006, pp. 285

La pregiata e divertente ricerca di Gaetano Augello sul folkloristico personaggio dell’aristocrazia siciliana, il barone Agostino La Lomia, è, in verità un omaggio alla città sua e del protagonista del libro. È infatti, Canicattì, con il suo Parnaso, con l’arguzia dei suoi personaggi, con le sue tradizioni che s’impone su tutto e su tutti, diventando il filo conduttore di una storia che si snoda all’ombra dei protagonisti dell’Accademia parnasiana con particolare attenzione per l’originale barone, a ragione definito “l’ultimo dei Gattopardi”.

Agostino La Lomia, infatti, volle imporsi nell’immaginario collettivo come l’ultimo rappresentante di un mondo, ormai in via di estinzione, fatto su misura per una aristocrazia spagnolesca e parassitaria, paternalista e sciupona, legata alle tradizioni, ma desiderosa di essere à la page. Il barone si serviva delle sue stranezze, del suo abbigliamento estroso, per vivere un’eterna mascherata, per nascondere dietro il travestimento esteriore, le insicurezze di una vita fondata sull’effimero e sul sogno, effettivamente vuota di affetti, di scopi e di certezze. La solitudine del barone si evince, oltre che dalla sua continua ricerca del protagonismo – nota è l’anticipazione del suo funerale che ebbe l’onore della cronaca fra i maggiori giornali del tempo – dall’originale, ridicolo, ma anche commovente rapporto con gli animali di casa, il gatto, eredità del defunto don Paolo Meli, chiamato Paolo, in onore del vecchio proprietario, “Annarino”, per la sua tendenza a girovagare sui tetti e fra le strade del quartiere, in cerca di gatte disponibili, investito del titolo di referendario, per poter essere ufficialmente accolto alla corte dell’aristocratico canicattinese, e il merlo, Don Turiddu Capra, Duca di santa Flavia. Paradossalmente il gatto alla sua morte ebbe l’onore di un lungo necrologio sul “Giornale di Sicilia” e su altri due quotidiani a diffusione nazionale, onore che il buon barone, alla sua morte, non avrebbe avuto.

La sua ostentata originalità, il suo legame agli usi e alle tradizioni della sua terra, con l’illusione di perpetrare un passato ormai anacronistico, fanno di questo personaggio, avulso dalla realtà, un perfetto protagonista di quella mentalità parnasiana, con la quale i fondatori dell’Accademia canicattinese, elevarono a filosofia il modo di vivere dei loro concittadini, la tendenza all’autoironia, al sorridere della vita quotidiana, anche nei suoi aspetti drammatici e a volte tragici.

Il racconto risulta scorrevole, avvincente e spesso esilarante, soprattutto quando magistralmente,viene sottolineato il ridicolo della realtà quotidiana, quando, come spesso avviene nella terra di Pirandello, di Sciascia, di Camilleri, essa diventa paradosso. Così non possiamo non sorridere davanti alla descrizione di don Paolo Meli il ” don Pirrone locale”, il parroco, vicino e amico del barone o a quella della sua perpetua Deca la Marina intesa la Simenta: “Era una donna molto alta con la testa asimmetrica rispetto al corpo oblungo. All’interno della bocca faceva la sua figura un solo dente a sua volta asimmetrico rispetto a tutto il resto. Era per tutti la “Simenta” perché il suo viso ricordava un grosso seme per la forma allungata e irregolare e il colorito giallognolo” (p. 21).

Estremamente divertenti risultano le pagine che Augello dedica alle “quotazioni nella borsa dello spirito”; esse concernerebbero il variare dei prezzi relativi all’affitto della sedia, durante la S. Messa, o dei requiem che ogni anno per i morti, il prete recitava, dietro compenso, per i defunti delle famiglie che ne facessero appositamente richiesta. La religiosità popolare, come spesso avviene nel meridione, risulta inficiata da superstizioni e da riti di tipo pagano che tuttavia rasserenano l’animo dei più umili e rendono la vita dei meno sfortunati più sopportabile.

Fra un sorriso e un altro, scaturisce la nostalgia per quella società patriarcale, fatta di piccole cose, ma soprattutto caratterizzata da una vita vissuta in perenne compagnia, che, ahimé si contrappone facilmente alla solitudine attuale che attanaglia ciascuno di noi. I rapporti di buon vicinato, oggi inesistenti, rendevano normale il concetto di famiglia allargata, non soltanto a parenti ed affini, ma anche ad estranei che, per contiguità, diventavano partecipi di gioie e dolori, di abbracci e di scontri, di divertimenti e di lutti, rendendo più divertenti i momenti di letizia e più sopportabili, perché condivisi, i momenti di dolore.

Alla fine del libro, Canicattì continua ad essere protagonista dell’analisi dell’autore, imponendosi ancora attraverso le sue tradizioni culinarie; infatti, l’ultima parte del lavoro di Gaetano Augello, curata dalla figlia Carmen, è costituita da una serie di ricette di cucina, tratte dal ricettario della cognata del barone, pienamente conformi alla tradizione culinaria cittadina.

Gabriella Portalone

Paolo Pastori, Da Atene a Napoli via Marbugo-Treviri. L’itinerario di Antonio Labriola e Georges Sorel verso la rifondazione etica della politica, Trepuzzi (Le), Publigrafic Edizioni, 2002, pp. 172.

Nel panorama della riflessione filosofica occidentale, la figura di Socrate è sempre stata unica e paradossale. Come aveva sottolineato, già nel 1913, H. Maier, “non si può cancellare l’impressione di trovarsi di fronte ad un grandissimo, a uno di coloro che non hanno vissuto solo per la loro età e per il proprio popolo, né soltanto per qualche secolo, ma che conserveranno la loro importanza finché ci saranno gli uomini”. L’enfasi non è eccessiva. La rivoluzione socratica è stata clamorosa e duratura. La concezione della filosofia come maieutica, il metodo brachilogico incentrato sull’ironia, cioè sulla dissimulazione della propria ignoranza dinanzi alla pretesa sapienza altrui, la scoperta del concetto, l’idea della virtù come una forma di sapere ricercabile ed insegnabile rendono Socrate uno dei baluardi della cultura filosofica occidentale. Eppure tanta grandezza è persino bizzarra, se si considera che l’autore non ha scritto, anzi c’è chi si è spento, addirittura, a mettere in discussione la sua esistenza. Il fascino di questa figura, tuttavia, rimane intatto, tant’è che per la filosofia di ogni epoca è stato un ineludibile elemento di confronto.

Nell’Ottocento, questo confronto assume particolari venature etico-politiche in autori impegnati a ridefinire concettualmente un mondo che cambia ed intenti a fare della politica uno strumento volto a garantire il progresso ed il benessere delle comunità umane. All’illustrazione della presenza di Socrate di quattro grandi figure (Hegel, Bertrando Spaventa, Labriola, Sorel) della tradizione filosofico-politica otto-novecentesca è dedicato questo prezioso studio di Paolo Pastori. Sottolineando l’importanza del pensiero di Socrate in tal senso, l’autore ne definisce l’opera come un “archetipo”, vale a dire come un paradigma valoriale e critico di riferimento, che ripropone ad ogni epoca motivi speculativi decisivi per la costituzione della dignità morale dell’individuo e dell’identità politico-civile delle società umane.

Come sottolinea l’autore, “[…] per un insieme di convergenze politico-ideologiche e storico-filosofiche, la figura di Socrate risulta il fuoco centrale di un’intersezione fra la riscoperta dell’importanza del fattore morale (riflesso ‘volgarizzato’ dell’imperativo categorico di Kant) e la rinnovata consapevolezza della complessità dell’esperienza umana […]” (p. 7). L’”antefatto” di tale vicenda viene rintracciato da Pastori in Hegel, per il quale Socrate riveste un ruolo tutto particolare. Per il filosofo tedesco, Socrate rappresenta l’emblema del confronto tragico tra le leggi della polis ed il principio di libertà su cui si fonda la ricerca filosofica individuale.

Sandro Ciurlia

Zerlmira Marazio, Il mio fascismo storia di una donna, Ed.Melaverde, 2005, pp. 260

È un racconto intenso e sofferto, dove la testimonianza si sovrappone ai ricordi, la memoria diviene diario di uno dei periodi più discussi della nostra storia; qui l’odio e la rabbia si distendono nei gesti quotidiani dello studio, della scrittura, della ricerca di una normalità interrotta soltanto dall’entusiasmo che esplode nelle cerimonie solenni, nel desiderio di “riscattare l’onore dell’Italia”, nella volontà di scoprire, al di là della realtà contingente, qualcosa di duraturo, di eterno, di Assoluto.

E questo Assoluto è, dice Mirella, “il fascismo, cioè la Patria per cui era doveroso vivere e, se necessario, morire” (p.100).

C’è rispetto per idealità politiche diverse, ma affiora, talvolta la rabbia per chi ha accolto lo straniero, dimenticando le glorie passate dell’Italia e c’è l’orgoglio di riconoscersi in un governo, moderno, che ha varato, fra le altre, anche la legge sulla socializzazione delle imprese.

“Ora lo ritrovo il Mussolini che conoscevo io! – esclama – Quello che sta col popolo lavoratore, che oggi lo rende partecipe dello sviluppo economico del nostro paese.

Il fascismo ama gli operai e li nobilita, altrochè marxismo! A noi giovani della Repubblica Sociale – continua la scrittrice – quell’ innovazione parve una cosa meravigliosa che avrebbe sanato i dissidi interni e ridato energia alla nazione” (p.111).

A poco a poco, tuttavia, l’entusiasmo, la fiducia, la sicurezza nella vittoria lasciano spazio alla tristezza, allo sconforto, al dolore.

Siamo agli inizi del 1945: anche a Torino si viveva tra bombardamenti, imboscate, agguati e la guerra civile infuriava; spesso, racconta Zelmira Marzio, “da casa littoria partivano camion e auto per andare a compiere azioni di rastrellamento dei ribelli odi recupero dei caduti a sostegno dei presidi minacciati”.

Migliaia, riferisce l’autrice, erano i giovani schierati dall’altra parte, “che avevano preferito darsi alla macchia anziché correre a difendere la patria invasa dal nemico. Le violenze che essi compivano ci facevano inorridire”, ma l’odio chiamava odio, alla violenza si rispondeva con la violenza, alle fucilazioni seguivano, dall’altra parte, nuove fucilazioni.

“Sapevamo, racconta, che non c’erano più speranze, che tutto stava per finire: non lo volevamo ammettere, ma sentivamo che era così. Si continuava a vivere, a lavorare, a parlare, come se tutto fosse come prima, ma eravamo consapevoli che erano gli ultimi giorni della nostra amata Repubblica. Nel nostro inconscio ci sentivamo come i personaggi dell’Enrico IV pirandelliano: obbligati a recitare un ruolo in cui non credevamo più, in una farsa che si stava mutando in tragedia” (p. 217).

Non era un incubo, ma una realtà terribile!

“Noi – dice – che ci credevamo i depositari della verità, i difensori dell’onore dell’Italiaeravamo, non soltanto i vinti, ma i reietti, i traditori, i fratricidi a cui bisognava dare la caccia”.

E insinua il dubbio:

“Perché Dio aveva dato la vittoria agli Alleati e aveva permesso lo sfacelo della nostra Repubblica? Perché aveva abbandonato gli italiani, un popolo povero e laborioso che cercava il suo posto al sole? Perché aveva consentito che la potenza economica, e quindi la forza militare, trionfassero sulla disperata resistenza di chi difendeva l’onore della patria?” (p. 236).

Presto fu necessario pensare a salvarsi, a cercare scampo nella fuga e, dopo aver bruciato tutto quello che poteva collegarla agli avvenimenti trascorsi, Zelmira Schiera trovò rifugio in un convento di suore, poi in un palazzo semidistrutto; quando fu chiaro che questo non bastava, ecco il lungo viaggio fino in Sicilia, alla nuova, ma sempre desiderata professione di insegnante prima, e di direttrice didattica negli anni successivi.

“Nel tracciare questo memoriale – conclude l’autrice – ho voluto tentare di esprimere i sentimenti che mi animavano: ho scritto perciò con la testa di oggi, ma con il cuore di allora”.

“Quella di noi fascisti repubblicani sembra una vicenda assurda. Ho indagato a lungo dentro di me alla ricerca di un senso.

Nella vita di ogni essere umano c’è un filo sottile che tiene legati tutti gli eventi e li giustifica. Io l’ho trovato in me e l’ho definito: la ricerca dell’Assoluto. Ne ero e ne sono ancora assetata. Ho creduto per vent’anni che quell’Assoluto fosse la Patria, cioè – come ho già detto – il fascismo.

Sono sempre alla ricerca di una perfezione che non potrò mai raggiungere, se non di là, dove l’Assoluto, il solo vero Assoluto, mi attende.

Per me vivere è sempre servire un ideale” (p. 255).

Fausta Puccio

Sergio Marano, Sinfonia prussiana,Treviso, Santi Quaranta, 2006

“Ma gli animali, pensava, anche i più feroci, vivono in pace tra loro. Perché gli uomini no? Gioiscono anzi del sangue che fanno versare e non se ne vergognano”.

È una delle innumerevoli riflessioni sulla guerra che Sergio Marano consegna ai protagonisti del suo recente romanzo: Sinfonia prussiana.

Nato a Mantova nel 1923 da famiglia trapanese, il nostro autore ha trascorso a Trapani gli anni della giovinezza. Dal 1954 vive a Castelfranco Veneto, insegnando discipline letterarie a Treviso. Il suo debutto da scrittore è del 1989, con la raccolta di racconti siciliani Pietrarsa.

Nel 1993 pubblicò Il bosco di Rinaldo, in cui rievocava “una carcerazione sofferta all’Ucciardone di Palermo (1943-1946) per avere partecipato, in modo non violento, a una “cellula d’italianità” contro l’invasione anglo-americana della Sicilia: l’episodio di resistenza accadde, a Trapani, nell’estate del 1943″. Tra quei “fedelissimi” fascisti (condannato a dieci anni di reclusione) vi era anche il futuro deputato, saggista e poeta trapanese Dino Grammatico.

Nel 2001, Marano diede alle stampe Le trottole di legno, un volume autobiografico.

Sinfonia prussiana, adesso, avvalora e conferma il percorso di narratore da lui intrapreso. La vicenda di Emil e Anneliese – giovani di umile status, alle prese con la loro accidentale, travagliata e infelice storia d’amore – travolti da una guerra napoleonica in Turingia e Sassonia nel 1806 è molto ben rappresentata. L’autore dimostra notevole destrezza nella definizione degli scenari e dei profili psicologici dei personaggi che li attraversano. Rilevante è anche l’abilità dell’autore nel districarsi tra eventi storici assai complessi e nel dominio del frasario militaresco.

Molte pagine del romanzo scorrono con ammirevole precisione affabulatoria: si intuisce l’efficace labor limae che le ha accompagnate e si avvertono il ricco patrimonio di letture di argomento “marziale” dell’autore (supponiamo da La Certosa di Parma di Stendhal a L’ussaro sul tetto di Jean Giono) e il suo sguardo rivolto alla grande tradizione mitteleuropea. Molti sono anche, nel romanzo, i riferimenti e le allusioni all’auspicio di un’Europa – allora di là da venire – coesa e in pace. Un’ottima prova, insomma, a nostro avviso, per Marano.

Salvatore Mugno