La storiografia contemporanea ha fornito ricchi contributi alla biografia di Napoleone Colajanni (1847-1921), ma non ha focalizzato abbastanza gli anni compresi tra la guerra di Libia e quella mondiale(1). Eppure essi – dopo quelli connessi alle denunce dello scandalo della Banca Romana e alla confutazione delle teorie lombrosiane(2) – furono i più significativi nell’operosa attività politica del repubblicano siciliano, che propose in termini problematici il superamento del sistema giolittiano, messo in crisi proprio nel periodo cruciale in cui si dibattevano i temi del monopolio delle assicurazioni, del suffragio universale e del colonialismo(3). Nel giugno 1911 il progetto di legge sul monopolio delle assicurazioni suscitò un intenso dibattito alla Camera, dove il democostituzionale Leone Caetani approfittò dell’occasione per opporsi nettamente ad una eventuale spedizione in Tripolitania(4). Il tema agitava da parecchi anni lo scenario politico, su cui la stampa nazionalista aveva intrapreso una campagna favorevole per forzare il governo ad agire. La posizione antilibica di Caetani, seppure assunta per la prima volta in una sede istituzionale, passò quasi inosservata tra i partiti democratici: né i socialisti né i repubblicani accolsero l’invito, forse occupati e divisi da quelle riforme della legge elettorale, del monopolio delle assicurazioni e delle pensioni operaie che Giolitti aveva preannunciato nel programma governativo durante il suo IV ministero (30 marzo 1911-21 marzo 1914).
Sarà la guerra di Libia ad imprimere una svolta sulla politica estera e a favorire un cambio della direzione del partito repubblicano. Il suo indirizzo in politica internazionale – come venne ribadito in tutti i congressi nazionali – aveva una matrice mazziniana, propugnava l’autodeterminazione dei popoli e l’indipendenza delle nazioni, fu antitriplicista e come logico corollario anticolonialista. Sulla scia della tradizione mazziniana e della fedeltà ai valori nazionali, seppure con l’eccezione di una sparuta minoranza, i repubblicani furono contrari agli aumenti delle spese militari e condannarono il militarismo sin dalla prima guerra d’Africa(5).
In questa direzione si mosse Napoleone Colajanni, che dedicò largo spazio al colonialismo, alla guerra e alla politica estera su una miriade di periodici e quotidiani nazionali(6). Come antiafricanista convinto, egli criticò le spese militari, opponendosi a quanti auspicavano la conquista di una colonia africana e una valorizzazione organica dell’Eritrea(7). La “Rivista Popolare”, rilevata nel 1895 da Antonio Fratti e diretta da Colajanni sino alla morte (1921), si mostrò attenta a questi temi e al dibattito che si esplicò sulla stampa socialista(8). Dalle rubriche risulta che il periodico effettuava il cambio con le maggiori riviste socialiste europee, le quali riproducevano le sue vignette, come risulta dallo spoglio del settimanle viennese “Der Neue Gluhlichter”, di quello tedesco “Der Wahre Jacob”, di quello americano “The Judge” o del mensile francese “Devenir social”(9). Tuttavia il motivo dominante della sua elaborazione politica, già espressa dal suo direttore in polemica con altre riviste, fu l’accento che pose nella lotta contro le spese militari(10), nell’impegno per il primato del “diritto” contro le armi della “forza”(11), nel richiamo agli ideali pacifisti per sconfiggere lo spettro della guerra e nella necessità di ricercare i rimedi della questione sociale “non al di fuori nella fondazione di nuove colonie, ma in casa propria”(12). Il netto rifiuto del triste e “doloroso” fenomeno della guerra, invece, fu espresso in una miriade di articoli, con i quali denunciò il legame pernicioso tra colonialismo e imperialismo, inteso quest’ultimo come fenomeno più vasto imperniato sull’occupazione e sulla conquista territoriale(13). Nella definizione dell’avventura africana come atto di “brigantaggio coloniale”, egli contrappose ad essa la necessità di promuovere la “colonizzazione interna” e di emancipare le popolazioni del Mezzogiorno. Già nel volume Politica coloniale, pubblicato nel 1891 e considerato “l’opera più importante di polemica anticoloniale”(14), egli denunciò l’avventura in Eritrea con il suo groviglio di errori, violenze, inganni e violazioni:
L’incertezza, l’impreviggenza, la jattanza, la contraddizione, la menzogna sono i caratteri di tutta la breve storia della nostra politica coloniale(15).
La condanna dell’espansione coloniale, di cui il militarismo era l’aspetto più eclatante(16), fu dettata da alcuni motivi, che andavano dalle conseguenze negative sull’economia meridionale alla minaccia incombente sulle libertà politiche e parlamentari a causa della condotta imperialista di Francesco Crispi. La posizione crispina, già enunciata nel suo discorso del 14 ottobre 1889(17), fu aspramente criticata da Colajanni, che denunciò l’imbroglio coloniale diretto ad eludere la grave questione del Mezzogiorno e a sfociare in una guerra scellerata per l’ingiusta aggressione ad un popolo inerme e desideroso di conservare la propria libertà e indipendenza:
Di questa nostra slealtà gli abissini ormai hanno coscienza – e il fatto ci toglie quella forza morale necessaria per esercitare sugli inferiori una azione miglioratrice(18).
Analizzando il divario economico tra Nord e Sud, Colajanni respinse la tesi degli altri meridionalisti, che consideravano il colonialismo come la panacèa dei mali che affliggevano il meridione d’Italia: si trattava per lui di un semplice palliativo, poiché la soluzione si sarebbe dovuta trovare in un mutamento radicale della politica doganale e tributaria, nella trasformazione dell’assetto politico-istituzionale, nell’incremento della produzione nazionale e nell’introduzione del federalismo(19). Come discorso conclusivo, l’avversione per il colonialismo era dettata dalla sua fede nella democrazia, la quale “odia e combatte la politica coloniale, perché più si preoccupa della distribuzione equa di una modesta ricchezza che dell’accumulo di una colossale nelle mani di pochi cresi […], perché la sperimentò pericolosa per la libertà interna ed è convinta che l’imperium e la libertas […] sono termini che si contraddicono e si elidono, mentre la libertà armonizza e si concilia colla pace ch’è termine antinomico di politica coloniale”(20). Il tema della questione meridionale era così connesso alla politica coloniale e sviluppato in chiave critica della scuola antropologica, secondo cui la tesi dell’inferiorità razziale dei meridionali denotava un rapporto di subordinazione, le cui conseguenze alimentavano i pregiudizi e minacciavano l’unità nazionale. L’identificazione della questione con i fattori atavici e l’interpretazione naturalistica avrebbe finito per legittimare l’”assenteismo” dello Stato e avrebbe allontanato ogni soluzione di riforma politica(21). Così le tesi degli antropologi Cesare Lombroso e Alfredo Niceforo erano respinte, perché prefiguravano per il Sud un rapporto simile a quello che le potenze coloniali riservavano ai popoli conquistati:
La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità alla prima, dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco – dannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa, dell’Australia, ecc. che i feroci e scellerati civilizzatori dell’Europa sistematicamente distruggono per rubarne le terre(22).
Per quanto eclettico possa sembrare il programma anticolonialista di Colajanni, egli configurò il suo meridionalismo su rigorose analisi scientifiche, pervase da una lucida proposta di nuove soluzioni che investivano la politica economica e l’accentramento istituzionale. In entrambe le soluzioni il confronto con le “varie tendenze della democrazia radicale” e della criminologia positiva sfociò in un acceso dibattito su quattro aspetti fondamentali del dibattito politico e culturale: natura del socialismo, rapporto tra protezionismo e liberismo, riforma dell’ordinamento amministrativo, rilevanza della questione penale e eziologia del delitto nella società. Sul primo aspetto Colajanni sostenne la linea evoluzionista di Herbert Spencer, in contrapposizione a quella di Charles Darwin e di Karl Marx; sul secondo avviò un serrato confronto con il “fanatismo liberista” di economisti come Antonio De Viti De Marco, Luigi Einaudi, Maffeo Pantaleoni per avanzare una proposta di “protezionismo condizionato”(23); sul terzo criticò le dottrine lombrosiane per confutare la naturalità del delitto; sul quarto si ricollegò all’idea federale di Carlo Cattaneo in una ferma critica delle istituzioni statali accentrate per la promozione dell’associazionismo politico operante nella società civile(24).
Su questo impianto teorico-istituzionale, diretto ad una “instauratio ab imis” della struttura statale in senso federativo e autonomistico, il deputato nisseno congiunse la riforma del costume politico alla trasformazione sociale per combattere il colonialismo, per debellare fenomeni atavici come la mafia e per avviare a soluzione la questione del Mezzogiorno(25). La fiera opposizione al colonialismo, già espressa durante la prima guerra d’Africa, fu tenuta viva nel primo decennio del XX secolo(26) e ripresa allo scoppio della guerra libica (settembre 1911), quando Colajanni sollevò i temi consueti avanzati sullo scorcio del XIX secolo per invitare il governo a “volgere le cure al Mezzogiorno” e per ribadire la sua contrarietà alla “nuova e brigantesca impresa coloniale” in un’aspra condanna di quella che egli definì il risultato dell’”ubbriacatura tripolina”(27). In una devastante critica ai “guerrafondai partigiani della politica coloniale”, Colajanni denunciò “la deviazione delle cure dello Stato dalla Sicilia e dal Mezzogiorno” e rilevò la conseguenza pericolosa “che si potrà avere dalla conquista della Tripolitania”:
La deviazione – scrisse egli – non sarà intenzionale certamente, ma automatica poiché di centinaia di milioni e forse di miliardi quanti ne occorreranno per cercare di mettere in valore la Tripolitania non ne ha disponibili tanti da poterli contemporaneamente spendere in Sicilia, nel Mezzogiorno, nella Campagna romana e in altri punti dell’Italia centrale che non soffrono meno, forse, del mezzogiorno. Se i 600 milioni che assorbì l’Eritrea per procurarci soltanto le grandi amarezze di Dogali e di Adua fossero stati impiegati nelle parti del Regno che sono maggiormente bisognose dell’aiuto dello Stato con certezza le feste cinquantenarie sarebbero state celebrate con maggiore spontaneità e letizia.
La deviazione delle cure e dei milioni dello Stato italiano […] mi sembra più che un delitto, un grave errore politico(28).
In numerosi articoli pubblicati sulla “Rivista Popolare”, Colajanni concentrò la propria attenzione sulle varie posizioni delle forze politiche (socialisti, cattolici, repubblicani, radicali), ma riassunse con chiarezza anche quelle dei nazionalisti, dei sindacalisti rivoluzionari e dei pacifisti. Se riguardo ai socialisti egli cercò di attenuare le divergenze ideali e politiche, verso i cattolici assunse una posizione molto critica, scrivendo che “il movente” della guerra di Libia non era imputabile all’”antico fanatismo cristiano, che generò le crociate”, ma agli interessi economici che ruotavano intorno al Banco di Roma: “l’istituto di credito dei clericali che si è spinto arditamente sulla via della penetrazione economica in Tripolitania”(29). La convinzione di Arturo Labriola e di Giuseppe De Felice Giuffrida, secondo cui la conquista della Libia potesse trasformarsi in un serbatoio della manodopera eccedente nel Meridione d’Italia(30), fu duramente criticata da Colajanni, che considerò le loro posizioni alla stregua delle aspirazioni coloniali dei nazionalisti alla “terra promessa” e al diritto storico sul “mare nostrum”(31). La sua posizione fu resa nota anche sul quotidiano radicale umbro “La Democrazia”, dove il deputato repubblicano respinse ogni illusione della “terra promessa” per il fatto che la conquista della Libia non poteva dare alcun beneficio all’economia siciliana con lo sfruttamento di “ipotetiche” miniere di zolfo e di terre da colonizzare con la manodopera dei contadini. Per Colajanni la conquista della Libia, almeno in questa fase, era un’operazione illusoria, che non poteva essere giustificata neppure con l’esistenza di miniere, da cui potevano trarre benefici solo i capitalisti siciliani(32). Ma non mancò di rivolgere aspre critiche a Ernesto Teodoro Moneta, considerato un “rinnegato” e un affossatore del movimento pacifista per avere inviato due telegrammi di “plauso” alla condotta tenuta da Giolitti e da Di San Giuliano nel conflitto italo-turco(33).
Nei mesi successivi, a guerra già inoltrata, Colajanni chiarì meglio i termini della sua opposizione, rinvigorendo sul piano concreto la critica alla guerra di Libia e l’avversione alle spese coloniali(34). Difformemente alle sue idee, Colajanni votò nel febbraio 1912 il decreto di annessione della Tripolitania e Cirenaica, poiché gli sembrò doveroso riconoscere che essa non doveva essere soltanto prerogativa del partito di corte, ma di tutta la nazione: un eventuale ritiro – scrisse egli – “avrebbe significato il suicidio politico e morale dell’Italia, con grave suo danno futuro; con danno gravissimo immediato pei cinque milioni d’Italiani che vivono all’estero e che vi sarebbero maltrattati e calpestati come appartenenti ad una nazione senza volontà, senza consistenza, senza forza, senza energia. Perciò anche quelli che detestano l’impresa, hanno dato il loro voto al decreto di annessione”(35). Questa sua posizione fu meglio precisata in un nuovo articolo sulla guerra di Libia, dove mise in rilievo gli aspetti positivi, che potevano essere colti nella solidarietà nazionale, nella maggiore considerazione dei nostri connazionali all’estero, nel riconoscimento da parte degli stranieri del valore dell’esercito e della marina italiani(36).
Criticato da più parti, ed in modo particolare dall’ala intransigente dei repubblicani, la posizione di Colajanni fu difesa da Achille Loria, che per l’occasione gli inviò una lettera di solidarietà, con cui ricordò il caso di Jean Jaurès, critico implacabile del colonialismo, ma favorevole nel suo voto alla Camera per l’annessione del Marocco da parte della Francia(37). La critica dei repubblicani venne nell’XI congresso nazionale (18-20 maggio 1912), durante il quale prevalsero le posizioni anticolonialiste di Arcangelo Ghisleri(38). Ne riferì sulla “Rivista Popolare” lo stesso Colajanni, che annoverò tra i suoi più decisi oppositori Giovanni Conti, Eugenio Chiesa, Giovanni Battista Pirolini, Pio Viazzi, mentre plaudirono la sua iniziativa Salvatore Barzilai, Cesare Briganti e Gino Meschiari(39). Nonostante queste critiche, Colajanni fu rieletto “come indipendente” nelle prime elezioni a suffragio universale maschile del 1913 per la XXIV legislatura, durante la quale pronunciò numerosi discorsi sulla questione meridionale con lo scopo di eliminare le gravi sperequazioni tra le due Italie secondo la definizione di Giustino Fortunato(40). Egli fece parte del gruppo parlamentare repubblicano(41), non sempre condividendone le scelte politiche in politica estera. Il PRI, pur tra contrasti e lacerazioni interne, riqualificò la propria linea politica nella ripresa della lotta alla monarchia e al militarismo, mentre Colajanni attenuò la sua opposizione alla guerra libica e riesaminò l’impresa coloniale alla luce di considerazioni più realistiche, accentuando – secondo un suo studioso – “i termini di una innegabile involuzione conservatrice” con la manifestata insofferenza nei confronti degli scioperi(42).
Nel dicembre 1913 Colajanni deprecò l’inutile sperpero di denaro, che valutò intorno a “un miliardo e 200milioni” con grave peso sulle finanze dello Stato e sull’economia nazionale(43). Svanita “la speranza di volgere verso la Libia la nostra emigrazione” e rimastoci “l’orgoglio di portare la civiltà italica dove fiorì in altri tempi quella greca e romana”, Colajanni affermò che per ora l’unica certezza era quell’”opera incivile” compiuta sui “soldati a fare da boia”(44). Nel febbraio 1914, in un articolo apparso sulla “Rivista Popolare”, Colajanni precisò meglio le sue posizioni sulla guerra africana: l’Italia aveva guadagnato fiducia in se stessa, ma quel guadagno era stato rovinato dall’incapacità del governo, che non era riuscito a pacificare e sfruttare la colonia tripolina(45). Al di là del giudizio politico, nel quale confermava la sua definizione del colonialismo come forma di “brigantaggio collettivo”, egli sottolineò che l’Italia non avrebbe tratto alcun vantaggio economico dall’occupazione della Libia, così come il Mezzogiorno non vi avrebbe trovato terre fertili per i suoi emigranti, data la scarsa produttività di quel territorio(46). Fermamente convinto che la conquista della Libia era ormai un fatto compiuto, Colajanni condannò in linea di principio ogni forma di politica coloniale, ma non si oppose alla permanenza delle truppe italiane in Africa, perché – come sostenne in un suo discorso alla Camera del 28 febbraio 1914 – ritornare avrebbe significato non solo “squalificare l’Italia di fronte al consesso delle nazioni”, ma anche perdere “tutto quello che hanno conquistato di autorità morale i nostri sei milioni d’italiani che vivono all’estero”(47). Così egli invitò Giolitti a destinare per il futuro i finanziamenti alla Libia alle regioni più povere dell’Italia:
Quando voi farete o tenterete di fare in Libia i porti, le strade, i pozzi artesiani, gli sbarramenti, la Sicilia, la Calabria, il Lazio, la Sardegna vi grideranno: Queste opere fatele prima in casa nostra!(48).
La critica alla politica giolittiana fu sviluppata concordemente alle tesi che nel 1913 Colajanni aveva sostenuto in una ponderosa opera diretta a sostenere l’industrializzazione del Mezzogiorno: lungi dal creare contrapposizioni economiche con l’economia settentrionale e dal soffocare le industrie nazionali, l’indirizzo governativo avrebbe dovuto impedire lo spopolamento di vaste regioni del Paese e favorire la formazione del capitale con una politica protezionista, che appariva a Colajanni la vera chiave del progresso economico(49). Non si trattava di una “difesa ad oltranza” o di “un eccesso di zelo” verso il protezionismo, soprattutto per quanto riguardava l’ottimistica fiducia nella capacità “quasi automatiche” dell’industrializzazione, come è stato sostenuto(50); ma di salvaguardare i prodotti nazionali e modificare l’asettico e inerme ambiente meridionale mediante un’oculata politica governativa basata sullo sviluppo e sulla modernizzazione dell’intero Paese. Per la sua fedeltà ad una “politica nazionale”, Colajanni sembrò vicino alle posizioni dei nazionalisti, ma invece rivolse loro aspre critiche per il carattere “brutalmente” reazionario con cui avevano cercato di spogliarsi di ogni scoria liberale. L’unico aspetto positivo poteva essere il sostegno al protezionismo, ma il loro fanatismo e il linguaggio offensivo contro il liberismo di Luigi Einaudi, Achille Loria e Maffeo Pantaleoni suscitarono un giudizio negativo sui nazionalisti, criticati inoltre per le sovvenzioni ricevute per la pubblicazione della loro stampa(51).
Scoppiata la Grande Guerra, Colajanni aderì all’interventismo nel solco della tradizione mazziniana e “nel disegno di una guerra che avrebbe completato l’unità italiana con Trento e Trieste”, così decisivo delle sorti dello sviluppo della democrazia(52). Da una iniziale posizione favorevole alla neutralità armata, sostenuta il 15 agosto 1914 e giustificata per le enormi spese che un’eventuale partecipazione italiana comportava sul piano bellico, Colajanni assunse alla fine del mese una posizione interventista, dichiarandosi apertamente per la guerra all’Austria e per l’alleanza con la Francia e l’Inghilterra, la cui vittoria sarebbe stata quella della “civiltà e della libertà contro la barbarie degli Unni” e avrebbe portato alla liberazione dalla tirannide austriaca e al dominio dell’Adriatico, considerato mare nostrum(53): il 15 novembre si riferì alla neutralità come un tradimento, mentre il 31 dicembre ritornò sui lamenti carducciani durante la ricorrenza della morte di Guglielmo Oberdan(54). Prima del Patto di Londra (aprile 1915) e la partecipazione italiana al conflitto, il deputato siciliano cominciò a pubblicare sulla “Rivista Popolare” il resoconto degli atti di guerra, dello schieramento delle nazioni e dell’atteggiamentto dei partiti politici in Italia e all’estero.
Su questa linea interventista si mantenne fedele durante la sua attività parlamentare e come presidente del Consiglio provinciale di Enna, pronunciando numerosi discorsi e riconducendo le ragioni della guerra allo spirito prevaricatore tedesco. Allora la Germania, alleata dell’Austria-Ungheria, era presentata come una nazione che cercava di soffocare le nuove nazionalità per realizzare un pangermanesimo destinato a costituire l’impero coloniale tedesco. Per quanto riguardava l’Italia, la situazione era molto sfumata, perché il ricordo della tradizione risorgimentale non era ancora spento: e in ogni caso si occupava a farla rivivere proprio la politica austriaca che, per combattere in modo idealmente più efficace le aspirazioni dei popoli slavi, voleva annientare anche l’irredentismo filoitaliano che indeboliva le “marche” di frontiera del Trentino e di Trieste (appoggio del governatore asburgico di Trieste alle manifestazioni antiitaliane del 1° maggio 1914, diniego all’Università italiana di Innsbruck, politica contro gli impiegati italianizzanti nel comune di Trieste). Il 14 dicembre 1914 pronunciò alla Camera dei deputati un discorso con cui la guerra fu presentata come forza unificatrice, come redenzione della debolezza post-risorgimentale.
Il popolo – disse in quell’occasione Colajanni – aveva dato poco sangue per l’Italia. Guardate le schiere dei Mille […] troverete una grande prevalenza di borghesi più che di lavoratori. Io direi, anzi, […] che la mancanza di un vero contributo popolare al processo unitario risulta dal fatto che il sentimento unitario che avremmo desiderato vedere completamente sviluppato non è stato ancora sufficientemente raggiunto. E vorrei poter augurare […] che la guerra, che io spero vicina, ancor meglio che quella predicata dai nazionalisti, nell’infausto 1911, possa, attraverso il comune sangue versato, saldamente cementare la nazione italiana(55).
Sulla “Rivista Popolare” egli difese la posizione interventista di Mussoli-ni, sostenendo che essa rappresentava una continuità con la tradizione più viva del socialismo(56). La scelta interventista di Mussolini fu spiegata come il risultato di un dissidio interiore “tra la disciplina di partito” e “il sentimento d’italianità; tra il domma teorico del marxismo internazionalista e la realtà che trionfava tragicamente sui campi di battaglia”(57). Di fronte all’ambiguo neutralismo di Giolitti reagì Colajanni, che criticò con vigore la sua condotta, inficiata di slealtà e di “tradimento”, poiché per un verso esprimeva fiducia al governo Salandra e per un altro cospirava con gli ambasciatori dell’Austria e della Germania, con la pretesa di un compenso dovuto all’Italia per avere intrapreso la guerra senza alcun preavviso(58). Nel febbraio 1915 Colajanni si dichiarò favorevole ai provvedimenti del ministero Salandra, diretti alla proibizione delle manifestazioni neutraliste ad opera delle forze socialiste per evitare l’ingresso in guerra dell’Italia a fianco delle potenze occidentali. Per Colajanni l’intervento del governo, contro cui si era pronunciato il Partito repubblicano, era legittimo, anzi necessario, perché finalizzato a proibire le “violenze sistematiche, premeditate, volute, preannunziate con jattanza veramente teutonica dai socialisti italiani. Tollerarle ancora, senza tentare d’impedirle sarebbe lo stesso che incoraggiare non solo la delinquenza comune, ma un delitto contro la nazione”(59). Con questi provvedimenti, secondo Colajanni, non si voleva “contrastare la libertà pura, ma sibbene si vuole impedire la libertà di mal pensare, la libertà dell’antipatriottismo, la libertà del vilipendio delle istituzioni, la libertà … della violenza”(60). L’approssimarsi della guerra acuì i contrasti con i dirigenti socialisti per i pericolosi elementi di disgregazione che diffondevano nell’opinione pubblica, quando era necessaria la massima coesione nazionale: una critica che divenne più aspra nei mesi successivi e si trasformò in un vero atto di accusa verso i socialisti, tacciati di essere al servizio della Germania e di essere stati sudekumizzati dalla Spd, cioè contaminati e spossessati della loro anima nazionale, trasformandosi quindi in nemici dell’Italia(61). Persino il discorso di Filippo Turati alla Camera, che “avrebbe voluto essere ispirato all’idealismo socialista”, fu criticato da Colajanni e considerato “un anacronistico sfogo di chi dimenticava la realtà straziante del momento”(62). Di tenore diverso giudicò il discorso di Ciccotti, che nella seduta del 4 dicembre 1915 si poneva al di sopra delle sue convinzioni socialiste e dava la fiducia al governo in nome della causa nazionale(63).
In un articolo pubblicato il 31 maggio 1915, proprio dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia a fianco dell’Intesa, Colajanni ricollegò i motivi del suo interventismo alla possibilità di conquistare i territori italiani, alla sicurezza dei confini, alla liberazione di circa un milione di italiani dalla tirannide austriaca, allla sconfitta della barbarie germanica, all’indipendenza del Belgio, alla solidarietà delle nazioni democratiche, al trionfo del principio di nazionalità e alla garanzia di una lunga pace(64).
Sempre nel 1915 Colajanni pubblicò a puntate sulla “Rivista Popolare” un saggio, raccolto anche in opuscolo, sul pensiero di Mazzini e la sua posizione sulla politica balcanica e sull’avvenire dei popoli slavi, in cui sostenne il principio mazziniano di nazionalità “come regolatore supremo delle relazioni internazionali”(65) e come elemento costitutivo della Nuova Europa:
I fatti sul terreno politico posero Mazzini al di sopra di Marx e dimostrarono che le nazioni sono entità naturali e vive che non si possono sopprimere e che non saranno soppresse nemmeno quando, realizzate le aspirazioni mazziniane, ci sarà un organismo internazionale che rappresenterà l’ultimo circolo entro il quale concentricamente saranno compresi quello delle nazioni, delle regioni, delle città, delle famiglie(66).
Nello stesso opuscolo sostenne il principio mazziniano dell’intervento contro il “sacro egoismo” di Antonio Salandra e ripropose una visione di politica internazionale come soluzione della “scellerata e immane guerra”, cioè l’appoggio leale alle nazionalità oppresse dalle potenze centrali e la distruzione degli “imperi briganteschi” plurinazionali (Austria e Turchia)(67). Di fronte alla sollevazione nazionale dei popoli danubiani e balcanici, di fronte alla minacciosa reazione dell’Austria-Ungheria e al suo sostegno del colosso germanico, di fronte alle ambizioni imperialistiche dei nazionalisti, la ripresa del pensiero mazziniano – sostenne con vigore Colajanni – potè uscire dai circuiti culturali strettamente connessi al PRI ed investì il campo dei socialisti riformisti, da Ivanoe Bonomi a Leonida Bissolati e ad Angiolo Cabrini, ed anche quello di alcuni settori del mondo cattolico legati alla Lega democratica nazionale di Eligio Cacciaguerra, di Giuseppe Donati e di Eugenio Vaina de’ Pava. Grazie all’azione culturale di ristretti gruppi fu possibile salvaguardare l’identità nazionale e tenere vivo il significato della politica internazionale quale era stata intesa da Mazzini. Al convegno del Pri, tenuto a Roma nel febbraio 1916, Colajanni impostò il suo discorso alla luce della dottrina mazziniana, contribuendo così alle deliberazioni conclusive, votate nell’assise repubblicana e finalizzate a contrastare il militarismo tedesco, a fondare un nuovo assetto europeo secondo il principio di nazionalità e sul rispetto della libertà politica ed economica di ogni Stato. L’auspicio degli “Stati Uniti d’Europa” era così strettamente congiunto alla limitazione obbligatoria degli armamenti e alla riduzione progressiva fino al disarmo, all’abolizione della diplomazia segreta e alla pubblicità negli affari esteri, alla costituzione e all’impegno d’una entità sovranazionale in difesa di uno Stato invaso o minacciato(68).
In questo contesto Colajanni guardò con simpatia alla Francia e alla Gran Bretagna per motivi ideali e per la possibilità che esse potessero conservare l’equilibrio europeo. La sua azione fu ispirata dalla preoccupazione che le forze dell’assolutismo non prevalessero e non consentissero alla Germania di conquistare una zona coloniale nell’Europa centro-orientale, contro le indicazioni stabilite nel convegno di Bruxelles del 1884 e dirette a stabilire le modalità degli acquisti coloniali senza turbare la pace europea. Nel biennio 1915-16 Colajanni elogiò l’opera dei soldati italiani “impegnati nella difesa della patria”, schierandosi a favore degli alleati: “dai “valorosi russi”, che nonostante le gravi perdite hanno saputo resistere al nemico; agli eserciti francesi, che si sono resi più valorosi degli eserciti di Napoleone nella difesa delle loro terre; agli inglesi, che hanno saputo rinunciare all’individualismo avanzato che coltivavano da circa sei secoli”. Dell’ispirazione democratica del suo interventismo lasciò traccia in un volume, in larga misura basato sulla denuncia dell’imperialismo tedesco e del pericolo rappresentato per la libertà d’Europa(69).
Per me – scrisse Colajanni – non c’è dubbio alcuno: [le responsabilità] spettano alla Germania, di cui l’Austria-Ungheria non è stata che lo strumento, sebbene essa vi fosse più interessata e le appartenesse l’episodio ultimo, la favilla che accese l’incendio: l’ultimatum alla Serbia e il rifiuto di contentarsi delle soddisfazioni che questa era pronta a darle e che non potevano arrivare al suicidio – cioè alla rinunzia della propria autonomia, della propria indipendenza.
La profonda mia convinzione sulla responsabilità della Germania non risulta soltanto dai documenti diplomatici del mese di luglio; ma anche e più dalla sua attitudine, dalla sua preparazione alla guerra, dalla sua decisa intenzione di provocarla(70).
Tra le responsabilità addotte alla Germania nello scoppio della guerra, Colajanni indicò l’aumento considerevole delle spese militari con la politica di armamento terrestre e navale, il rifiuto di effettuarne una riduzione secondo le indicazioni della Conferenza dell’Aja, il disinteresse nelle controversie tra Austria e Serbia. Così l’assassinio del granduca Francesco Ferdinando, perpetrato a Sarajevo il 28 giugno 1914, diede all’Austria-Ungheria il pretesto “d’invadere le terre altrui” con l’appoggio della Germania(71). La guerra fu ricondotta non alla lotta razziale o all’antagonismo religioso, ma all’”esasperato sentimento nazionale”(72) e al disegno egemonico tedesco. Ricollegandosi ai saggi di Paolo Giordano e di Henry Hauser(73), Colajanni criticò aspramente Benedetto Croce per la sua apologia della Germania(74). Durante l’accesa polemica con il filosofo napoletano, egli respinse i sentimenti “germanofili”, sottoponendo a una stringente disamina la sua posizione a favore degli Imperi centrali. Anzi, per parecchi mesi, tenne vivo nella sua rivista il dibattito sulle posizioni “tripliciste” di Croce e sulla sua profonda avversione ad un’alleanza dell’Italia con l’Intesa(75). Un articolo di Croce, pubblicato su “La Critica” del 1915, fornì a Colajanni l’occasione di criticare la sua posizione sulla guerra, che per il deputato siciliano doveva essere ricondotta ad un “hegelismo fanatico”, secondo cui ogni evento bellico appartenesse alla natura profonda dei popoli, al loro istinto primordiale di affermarsi sulla scena del mondo e di accrescervi la propria potenza(76).
La contrapposizione interventismo-neutralismo, se condizionò la politica italiana negli ultimi anni del conflitto bellico, influì notevolmente sulle scelte politiche di Colajanni. Il processo di radicalizzazione politica, già in atto sin dalle radiose giornate di maggio, si accentuò e proseguì con i successivi sviluppi nello sforzo di resistenza interna durante la guerra. La crisi di governo Salandra, sopraggiunta nel giugno 1916, ricevette particolare attenzione da parte di Colajanni, che riconobbe la gravità del momento, ma non mancò di rilevarne la scarsa duttilità politica e il poco rispetto delle varie correnti parlamentari(77). Il nuovo gabinetto Boselli, entrato in carica il 19 giugno, riscosse la fiducia di Colajanni, che accolse con favore l’ingresso del repubblicano nella nuova compagine governativa per la possibilità che egli poteva nel denunciare accordi sotteranei da parte della monarchia(78). La rottura delle relazioni diplomatiche degli Stati Uniti con la Germania e l’intervento della potenza americana in guerra furono salutati con entusiasmo da Colajanni per il contributo che essi avrebbero dato nella lotta contro la barbarie. Una posizione critica assunse, invece, nei riguardi della rivoluzione russa (ottobre 1917), che non era altro che una immane tragedia per la democrazia europea e per la civiltà mondiale; anzi il nuovo regime – secondo un suo giudizio espresso l’anno successivo – aveva messo in difficoltà gli alleati ed aveva rafforzato il militarismo tedesco, senza mantenere la promessa della liberazione del popolo russo e salvaguardare l’identità nazionale della Lituania, dell’Estonia e dell’Ucraina(79).
Fu in questa nuova situazione internazionale e in un pesante clima di radicalizzazione dello scontro politico che egli aderì al Fascio parlamentare di difesa nazionale, promosso nel dicembre 1917 da un gruppo di deputati interventisti sull’onda della commozione suscitata dal disastro di Caporetto e destinata a essere sempre più egemonizzata dalla destra nazionalista(80). L’adesione di Colajanni, seppure coerentemente in linea ad un progetto di riscossa nazionale, segnò un decisivo mutamento del suo atteggiamento nei confronti della sinistra, tacciata di voler disperdere il risultato della vittoria e con essa l’immane sforzo bellico compiuto per conseguirla. A spingerlo verso il nuovo raggruppamento politico contribuì soprattutto la convinzione che bisognava rinsaldare il legame politico tra uomini e partiti disposti a lottare contro il mito della rivoluzione russa e il propagarsi delle idee bolsceviche tra i lavoratori. L’esperimento leninista e la tenace volontà dei socialisti d’introdurlo anche in Italia divenne un bersaglio per Colajanni, che negli ultimi anni della sua vita si batté per scongiurare la minaccia della rivoluzione comunista(81).
In questo contesto, nell’immediato dopoguerra, Colajanni collegò infatti la conclusione del conflitto con lo spettro della rivoluzione leninista, che avrebbe vanificato i risultati di una vittoria militare conseguita a prezzo di immani sacrifici. Egli intervenne più volte alla Camera per deplorare il fatto che il maggior reclutamento di soldati al Sud aveva provocato una forte diminuzione della manodopera agricola, non compensata poi da adeguati provvedimenti governativi; ma non mancò d’intervenire durante il dibattito sulla questione contadina, mettendo in rapporto il suo rifiuto della collettivizzazione delle terre con l’individualismo dei contadini, che nel Mezzogiorno come in Russia “volevano per sé il loro pezzo di terra”(82). Sull’esperienza dei soviet e del “bolscevismo dissolvitore” egli espresse la più netta ripulsa, ma difese con fermezza la “causa grandiosa” del socialismo e dei suoi rappresentanti, costretti ad abbandonare il congresso internazionale di Berna (1919). La critica fu rivolta ad Oddino Morgari e a Giulio Casalini, i quali – secondo Colajanni – si erano ritirati dal congresso, perché “si è permesso di discutere le responsabilità della guerra senza assegnarle all’anonimo capitalismo; e soprattutto perché non ha fatto l’apologia del bolscevismo, anzi gli si è mostrato avverso”(83). Ma ad essere preso di mira fu anche Filippo Turati, accusato d’ambiguità e di cedimento ai massimalisti per solidarietà di partito e per devozione ad una vocazione unitaria che sarebbe diventata sempre meno difendibile e aleatoria(84). In polemica con il deputato milanese, Colajanni imputò il fallimento degli ideali di giustizia alla crisi del socialismo europeo, che non era riuscito a contrastare le aspirazioni belliciste della borghesia(85). Così accusò i socialisti di voler “preparare una Caporetto della pace” e non esitò a definire “scellerato” il bolscevismo, la cui diffusione potrà essere scongiurata dal Fascio parlamentare, insieme ad “un Fascio uguale, più largo, più combattivo, che nel paese potrà, dovrà salvarci dal pericolo e della tirannide del bolscevismo”(86).
Alla stessa stregua Colajanni guardò con sospetto la proposta repubblicana della Costituente nel timore che uno sconvolgimento politico-istituzionale potesse favorire una disastrosa avventura comunista(87). La critica fu rivolta soprattutto a Oliviero Zuccarini e al suo periodico “L’Iniziativa”, accusato di avere tradito l’insegnamento di Mazzini e di avere espresso “sincera solidarietà con gli uomini che vorrebbero ridurre la patria nostra alle condizioni della Russia”(88). L’eccidio di palazzo D’Accursio, perpetratosi il 21 novembre 1920, segnò l’apertura favorevole verso i fascisti, la cui azione fu giustificata per la risposta alle provocazioni dei socialisti. In un netto rifiuto degli opposti estremismi, Colajanni considerò “falso che ci fosse equivalenza nella bestialità tra Fascisti e socialisti”, gli uni per l’”inesistenza” delle loro responsabilità e gli altri per l’istigazione a “reati brutali e orrendi come quelli del Tribunale rosso di Torino, del Consiglio comunale di Bologna, dell’occupazione delle fabbriche, degli incendi, delle violenze, degli assassini agrari dell’Emilia”(89). La condanna degli scioperi, definiti “semina della miseria”, fu così netta da indurre Colajanni a giudicarli inutili e pericolosi per la sopravvivenza delle istituzioni liberali. Secondo il suo giudizio, le responsabilità erano imputabili alla propaganda rivoluzionaria dei massimalisti, i quali illudevano le masse popolari con il miraggio d’una palingenesi sociale imminente e d’una nuova organizzazione politica(90). Ma la polemica colajannea non fu rivolta soltanto ad episodi circoscritti alla realtà italiana, ma investì anche la natura del comunismo, ritenuto “il grande e pericoloso nemico interno, più pericoloso di quel che sia stato l’Impero austro-ungarico”:
Più pericoloso perché le persecuzioni e le minacce dell’Impero austro-ungarico destavano la vigorosa reazione patriottica e facevano sorgere il sentimento nazionale italiano, mentre il partito comunista, pur propugnando gl’interessi della patria altrui, nega risolutamente la patria propria, nega il diritto alla vita della nazione italiana per affermare e favorire l’avvento di un falso internazionalismo in cui la Russia asiatica e medioevale dovrebbe mantenere non una egemonia che consente una certa libertà, la dittatura più assoluta e più tirannica(91).
Allo stesso modo Colajanni guardò con diffidenza l’apertura dei repubblicani alle “nuove tendenze bolsceviche” per contrastare l’equivoco “tendenzialmente repubblicano” di Mussolini e dei suoi adepti(92). Sulla “Rivista Popolare” egli intraprese un’aspra polemica nei confronti del gruppo dirigente del PRI, accusato di “scimiottatura leninista” e di avversione preconcetta al nascente movimento fascista(93). Egli considerò infatti il fascismo delle origini “un argine all’avanzata del massimalismo socialista, una salutare e genuina reazione al terrore rosso, all’anarchia serpeggiante nel paese”(94). In una valutazione comune ad altri interpreti coevi, Colajanni considerò il fascismo alla stregua di un fenomeno provvidenziale ed effimero, destinato a scomparire dalla scena politica, non appena avrebbe esaurito il suo compito di contrasto del bolscevismo antinazionale. Ma la scomparsa, avvenuta nel settembre 1921, lasciò sospeso il suo giudizio sul fascismo, la cui evoluzione conservatrice contraddiceva quegli ideali di democrazia politica, di progresso sociale e di solidarietà dei popoli ai quali Colajanni si mantenne fedele nel corso della sua operosa e inquieta esistenza.
Nunzio Dell’Erba
NOTE
(1) Sull’attività politica di Colajanni, dal suo esordio nel volontariato garibaldino al 1903, colma una lacuna il volume di J.-Yves Frétigné, Biographie intellectuelle d’un protagoniste de l’Italie libérale: Napoleone Colajanni (1847-1921). Essai sur la culture politique d’un sociologue et député sicilien à l’age du positivisme (1860-1903, Ecole française de Rome, Roma 2002. Dopo questa edizione francese è preannunciato un altro volume: Dall’ottimismo al pessimismo: itinerario politico e intellettuale di Napoleone Colajanni dalla svolta liberale al fascismo, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento, 2006.
(2) N. Colajanni, Banche e parlamento: fatti, discussioni e commenti, Treves, Milano 1893; Id., Per la razza maledetta, Palermo, Sandron, 1898; Id., Settentrionali e meridionali. Agli italiani del Mezzogiorno, Palermo, Sandron, 1898.
(3) B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 61-62.
(4) Durante il suo intervento Caetani si chiese quale fosse “il valore strategico della Tripolitania” ed affermò: “La Tripolitania lo insegna la storia di oltre 2.000 anni, non ha mai avuto valore strategico nella storia del bacino del Mediterraneo per la ragione, che ha la costa la più infida di tutto il mare nostro […]. Le vicende della Tripolitania non ebbero influenza alcuna sui destini del nostro Paese”; cfr. il discorso di L. Caetani, 7 giugno 1911, in Atti del Parlamento italiano, Camera dei deputati, sessione 1909-11, Discussioni, vol. XIII, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1911, pp. 15361-15374. La citazione è alla p. 15368.
(5) Riguardo all’occupazione di Massaua, Colajanni “aveva affermato l’esistenza di un contagio psichico analogo al contagio biologico, che spingeva le moltitudini a sentire in modo identico e a manifestare in identica forma le sensazioni quasi si trattasse di un individuo solo”; cfr. A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale, Roma, Tibergraph, 1989, p. 42. Per un altro storico, Colajanni portò alla ribalta il tema del colonialismo, contribuendo a rendere più vistoso il contrasto fra il dibattito sulla situazione italiana e quello ampio sulle questioni coloniali da parte delle altre potenze europee; cfr. N. Labanca, In marcia verso Adua, Torino, Einaudi, 1993, p. 69.
(6) N. Colajanni, Le due utopie, in “Rivista Italiana del Socialismo”, febbraio 1887, a. II, n. 4, pp. 97-105; Id., Colonie e commercio, in “Giornale degli Economisti”, novembre 1891, a. II, fasc. I, pp. 410-442; Id., Nell’Africa italiana, in “Il Secolo”, 1-2 dicembre 1897. Per la sua posizione antecedente alla guerra di Libia cfr. S. Massimo Ganci, Profilo di Napoleone Colajanni dagli esordi al movimento dei fasci dei lavoratori (1959), in Id., L’Italia antimoderata. Radicali, repubblicani, socialisti, autonomisti dall’Unità ad oggi, Parma, Guanda, 1968; Id., Introduzione a Democrazia e socialismo in Italia. Carteggi di Napoleone Colajanni 1878-1898, Milano, Feltrinelli, 1959; F. Vegas, Colajanni e la questione coloniale, in Aa. Vv., Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento, Epos, Palermo 1983, pp. 116-119; R. Tumminelli, La polemica di Colajanni sulla guerra e il colonialismo, in “Il Risorgimento”, ottobre 1982, a. XXXIV, n. 3, pp. 213-219.
(7) Lo Zotico [N. Colajanni], Che cosa fare dell’Eritrea?, in “Rivista Popolare di Politica, Lettere e Scienze Sociali” (d’ora in poi “RP”), 30 ottobre 1897, a. III, n. 8, pp. 141-143. Il riferimento era all’articolo di D. Primerano, Che cosa fare dell’Eritrea, in “Nuova Antologia”, 16 ottobre 1897, vol. 155, pp. 614-636, segnalato da A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale cit., p. 145.
(8) Il saggio più completo è quello di M. Savoca, La Rivista Popolare di Napoleone Colajanni, in “Archivio Storico Siciliano”, 1998, serie IV, vol. XXIV, fasc. I, pp. 323-443.
(9) Per i rapporti di Colajanni con la cultura socialista francese cfr. G. Biagio Furiozzi, Sorel e l’Italia, Messina-Firenze, D’Anna, 1975, p. 65, p. 99, pp. 117-120 e pp. 155-157; S. Massimo Ganci, I rapporti tra Sorel-Colajanni nella “crisi del marxismo” (1896-1905), in “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”, 1976, a. XVII, pp. 191-217.
(10) N. Colajanni, Armi e politica, in “RP”, 30 giugno 1904, a. X, n. 12, pp. 313-314; Id., Responsabilità della Germania nella corsa agli armamenti, ivi, 31 agosto 1910, a. XVI, n. 16, pp. 425-434; Id., Consummatum est!. (La rinnovazione della Triplice), ivi, 15 dicembre 1912, a. XVIII, n. 23, pp. 566-570.
(11) N. Colajanni, Il socialismo, Palermo-Milano, Sandron s.d (ma 1898), p. 325. L’opera costituisce un’edizione “rivista e accresciuta” del volume pubblicato nel 1884; cfr. Il socialismo. Appunti, Catania, Tropea, 1894. Sulla fortuna dell’opera cfr. E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 34-35.
(12) R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Torino, Einaudi, 1958, p. 335.
(13) N. Colajanni, Democrazia imperialista? La più grande in Italia, in “RP”, 15 giugno 1901, a. VII, n. 11, pp. 205-207. Lungo questa linea di pensiero, Colajanni precisava: “Un imperialismo alimentato dalla miseria e che dev’essere mezzo per raggiungere la ricchezza e non risultato della medesima non è mai esistito” (p. 207). Per altri aspetti si veda A. Aquarone, Dopo Adua: politica e amministrazione coloniale cit., p. 265 (nota 15) e p. 271.
(14) R. Battaglia, La prima guerra d’Africa cit., p. 335. Il giudizio è confermato da un altro storico, che definisce l’opera colajannea “l’unico serio tentativo di riassumere le tesi anticolonialiste italiane”; cfr. R. Rainero, L’anticolonialismo italiano da Assab ad Adua, Milano, Edizioni di Comunità, 1971, p. 244.
(15) N. Colajanni, Politica coloniale, Palermo, Clausen, 1891, p. 39. Per una ponderata valutazione del suo anticolonialismo si vedano R. Battaglia, La prima guerra d’Africa cit., pp. 173-174 e pp. 465-466; A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. Dall’Unità alla marcia su Roma, Milano, Mondadori, 1992 (I ed. 1976), pp. 353-354 e pp. 439-440.
(16) Nel 1894 Colajanni sottolineava così questo aspetto: “Il più gran malanno della politica coloniale è il militarismo. La nostra cronaca africana narra cose vergognose. L’insipienza fu pari alla corruzione; questa pari alla crudeltà; si conoscono fatti scandalosi, disonesti favoritismi e sfacciate ladrerie, si sanno da tutti le stragi e gli atti orribili di giustizia sommaria colà perpetrati. E pensare che eravamo andati là per civilizzare i barbari!”; cfr. N. Colajanni, Il Madagascar e la politica coloniale, in “La Rivista Popolare”, 15 dicembre 1894, a. II, n. 19, p. 645.
(17) Il discorso crispino del 14 ottobre 1889 è riportato in F. Crispi, Scritti e discorsi politici (1849-1890), Roma, Unione cooperativa editrice, 1890, pp. 713-743.
(18) N. Colajanni, Politica coloniale cit., p. 66.
(19) Sulla visione politica di Colajanni e le sue implicazioni con la questione del Mezzogiorno cfr. Massimo L. Salvadori, Il mito del buon governo. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi, 1960, pp. 206-236; C. Petraccone, Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 150-153 e pp. 211-214; Id., Le ‘due Italie’. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 70-71, pp. 84-85.
(20) N. Colajanni, Politica coloniale cit., pp. 318-319. Sul dibattito precedente al volume colajanneo cfr. M. Grazia Patanè, Le polemiche sul colonialismo nel movimento repubblicano e socialista (1887-1890), in “Archivio Trimestrale”, 1979, a. V, pp. 637-654; 1980, a. VI, pp. 129-137.
(21) N. Colajanni, L’assenteismo dello Stato italiano nel mezzogiorno, in “RP”, 30 agosto 1899, a. V, n. 4, pp. 64-66. Su questo aspetto Colajanni scrisse che “in Italia l’assenteismo dello Stato si svolge a tutto danno dell’Italia meridionale e delle isole […]. Con un regime federale avrebbe il diritto di contribuire meno del resto della penisola sulle spese di mantenimento dell’esercito” (p. 65).
(22) N. Colajanni, Per la razza maledetta, in “RP”, 30 settembre 1897, a. III, n. 6, p. 106.
(23) N. Colajanni, L’utopia liberista. (Far male al Nord, senza arrecare del bene al Sud!), in “RP”, 15 e 31 agosto 1903, a. IX, n. 15 e 16, pp. 405-409 e pp. 427-432; Id., A proposito di uno stravaso di bile di un liberista, ivi, 30 ottobre 1903, a. IX, n. 20, pp. 549-556. Sui rapporti tra Colajanni e Pantaleoni si veda L. Michelini, Marginalismo e socialismo: Maffeo Pantaleoni (1882-1904), Milano, Franco Angeli, 1998, passim. Ma per alcuni riferimenti alla posizione di Colajanni cfr. G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale 1890-1915, Bologna, il Mulino, 1974, pp. 119-126; A. Cardini, Stato liberale e protezionismo in Italia (1890-1900), Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 228, p. 234 e pp. 247-248.
(24) Sul dibattito politico suscitato dalle sue opere cfr. N. Colajanni, Introduzione, in Il socialismo, II ed., Palermo-Roma, Sandron, s. d. (ma 1898), pp. III-VII. La prima edizione era apparsa quattordici anni prima con il titolo Il socialismo. Appunti, Catania, Tropea, 1884.
(25) G. Angelini, Colajanni e la questione meridionale, in Aa. Vv., Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento cit, pp. 98-115.
(26) Si veda ad esempio N. Colajanni, Per la nostra politica coloniale, in in “RP”, 15 febbraio 1908, a. XIV, n. 3, pp. 67-69.
(27) N. Colajanni, Da Verbicaro a Tripoli; da Mazzini a Giolitti, I. I partiti politici e l’impresa di Tripoli, in “RP”, 30 settembre 1911, a. XVII, n. 18, p. 484 e p. 485; Id., L’ubbriacatura tripolina, in “La Ragione”, 29 agosto 1911. Di “ubbriacatura coloniale” parlò invece durante l’impresa di Adua; cfr. La Rivista [N. Colajanni], L’utopia africana e l’impotenza del militarismo, in “RP”, 30 ottobre 1895, a. I, n. 8, pp. 113-115. Il riferimento è alla p. 113.
(28) N. Colajanni, Da Verbicaro a Tripoli; da Mazzini a Giolitti, I. I partiti politici e l’impresa di Tripoli cit. p. 485.
(29) Ivi, p. 486.
(30) Sulle posizioni filolibiche dei due esponenti socialisti rinvio ai saggi di D. Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1970, pp. 203-207; R. Spampinato, Giuseppe De Felice Giuffrida, in Aa. Vv., I Fasci siciliani, vol. II: La crisi italiana di fine secolo, Bari, De Donato, 1976, pp. 144-146.
(31) [N. Colajanni], La Tripolitania non è … la terra promessa, in “RP”, 31 ottobre 1911, a. XVII, n. 20, p. 534.
(32) N. Colajanni, La Sicilia e la conquista della Tripolitania, in “La Democrazia”, 18 settembre 1911, cit. da G. Biagio Furiozzi, Socialisti e radicali nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 94.
(33) [N. Colajanni], La liquidazione della Società per la pace e per l’arbitrato in Italia, in “RP”, 15 ottobre 1911, a. XVII, n. 19, p. 508; Id., Ernesto Teodoro Moneta si difende … come può, in “RP”, 30 novembre 1911, a. XVII, n. 22, pp. 590-591. Per la critica di Colajanni a Moneta un accenno si trova in R. Giacomini, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento, Milano, Angeli, 1990, p. 180.
(34) S. Bono, La guerra libica 1911-1912, in “Storia contemporanea”, marzo 1972, a. III, n. 1, pp. 70-72; H. Ullrich, L’atteggiamento politico di Colajanni negli anni 1912-1914, in “Bollettino della Domus Mazziniana”, gennaio 1973, a. XIX, n. 1, pp. 87-92.
(35) Cfr. Atti Parlamentari, XXIII Legislatura, tornata del 23 febbraio 1912, pp. 17178-17180; N. Colajanni, La grande seduta storica, in “RP”,
(36) N. Colajanni, Il bilancio della guerra libica, in “RP”, 15 ottobre 1912, a. XVIII, n. 19, pp. 458-461. Per altri riferimenti si veda l’interessante saggio di M. Savoca, La Rivista Popolare di Napoleone Colajanni cit., p. 366 e ss.
(37) Cfr. Una lettera di Loria, in “RP”, 31 marzo 1912, a. XVIII, n. 6, p. 141. Nella lettera, datata 21 marzo 1912, Loria aveva ricordato che Jaurès, “dopo avere svelato nell’Humanité i retroscena finanziari dell’impresa marocchina, la sancì col suo voto” (p. 141). Per la posizione del socialista francese sulla questione coloniale si veda M. Rebérioux, Introduction a J. Jaurès, Textes choisis, I: Contre la guerre et la politique coloniale, Paris, Editions sociales, 1959, pp. 15-58. Ringrazio la collega Aurelia Camparini per la segnalazione del testo antologico su Jaurès, di cui ha fornito ottimi saggi.
(38) Cfr. PRI, Resoconto delle sedute del XI Congresso Nazionale. Ancona, 18-19-20 maggio 1912, Forlì 1914. Per le posizioni anticolonialiste di A. Ghisleri si veda il suo opuscolo, La guerra e il diritto delle genti secondo la tradizione italiana. Conferenza tenuta nel Teatro di Forlì il 3 novembre 1912, con appendice di note e documenti, Roma, Libreria Politica Moderna, 1913.
(39) [N. Colajanni], Il congresso repubblicano di Ancona, in “RP”, 31 maggio 1912, a. XVIII, n. 10, pp. 253-254.
(40) Proprio in questo periodo Colajanni dedicò sulla “Rivista Popolare” cinque articoli all’insigne meridionalista; cfr. N. Colajanni, Il problema meridionale nei discorsi e negli scritti di Giustino Fortunato, in “RP”, 15 aprile 1912, a. XVIII, n. 7, pp. 174-176; 30 aprile, n. 8, pp. 205-209; 30 giugno, n. 12, pp. 319-323; 15 luglio, n. 13, pp. 349-353; 30 luglio, n. 14, pp. 377-381.
(41) L’elenco completo dei deputati aderenti al Gruppo parlamentare repubblicano è riportato nell’appendice a cura di M. Tesoro, Il partito repubblicano da galassia a partito nazionale, in Aa. Vv., Il partito politico nella bella époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra ’800 e ’900, a cura di G. Quagliarello, Milano, Giuffrè 1990, p. 523.
(42) S. Fedele, Napoleone Colajanni. Profilo di un protagonista, in “Archivio Trimestrale”, aprile-giugno 1986, a. XII, n. 2, p. 304.
(43) [N. Colajanni], L’impresa libica: quanto costa; e come si disonora. Autorizza anche la profanazione del nome di Garibaldi, in “RP”, 31 dicembre 1913, a. XIX, n. 24, p. 645. Alcuni mesi dopo Colajanni ritornò sull’argomento e ribadì: “A conti fatti l’impresa libica ci costa un miliardo e duecento milioni […]. Che cosa vi abbiamo guadagnato? […]. La spedizione libica ha disorganizzato l’esercito e lo ha posto in una condizione di terribile inferiorità in Europa”; cfr. N. Colajanni, La discussione Libica, in “RP”, 15 febbraio 1914, a. XX, n. 3, pp. 68-69.
(44) [N. Colajanni], L’impresa libica: quanto costa; e come si si disonora. Autorizza anche la profanazione del nome di Garibaldi cit., p. 645.
(45) N. Colajanni, La discussione Libica, in “RP”, 15 febbraio 1914, a. XX, n. 3, pp. 66-70.
(46) Una posizione simile venne espressa da Gaetano Mosca e da Gaetano Salvemini, i quali sostennero che l’Italia non avrebbe tratto alcun beneficio sul piano della colonizzazione agricola e dell’emigrazione; cfr. G. Mosca, Italia e Libia. Considerazioni politiche, Milano, Treves, 1912; G. Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di A. Torre, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 90-332.
(47) Cfr. il discorso di N. Colajanni alla Camera dei deputati, 28 febbraio 1914, ora parzialmente pubblicato in Id., La condizione meridionale. Scritti e discorsi, a cura di A. Maria Cittadini Ciprì, Napoli, Bibliopolis, 1994, p. 452.
(48) Ivi, p. 453.
(49) N. Colajanni, Il progresso economico, voll. I-III, Milano, Bontempelli, 1913.
(50) A. Aquarone, L’Italia giolittiana (1896-1915). Le premesse politiche ed economiche, Bologna, il Mulino, 1981, p. 394.
(51) Lo zotico [N. Colajanni], E’ caduta la maschera del nazionalismo, in “RP”, 15 aprile 1914, a. XX, n. 7, pp. 262-263; La Rivista [N. Colajanni], Dagli eccidi alla protesta: e viceversa, in “RP”, 15 giugno 1914, a. XX, n. 11, pp. 289-290. Sul programma dei nazionalisti e la loro posizione nei confronti del liberismo cfr. F. Perfetti, Il movimento nazionalista in Italia (1903-1914), Roma, Bonacci, 1984, pp. 172-179.
(52) L. Lotti, Il Partito repubblicano dal 1895 al 1921, in Aa. Vv., Napoleone Colajanni e la società italiana tra otto e novecento cit., p. 65.
(53) La Rivista [N. Colajanni], La guerra scellerata e vergognosa, in “RP”, 15 agosto 1914, a. XX, n. 15, pp. 393-397; N. colajanni, Le probabili conseguenze della nostra neutralità, ivi, pp. 397-400; ID., La guerra scellerata e vergognosa. Ora angosciosa!, in “RP”, 31 agosto 1914, a. XX, n. 16, pp. 409-410. Sull’interventismo di Colajanni un cenno si ritrova, in B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla guerra mondiale, L’Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi 1966, passim; Id., Da Giolitti a Salandra cit., p. 160. Ma più diffusamente si sofferma A. John Thayer, L’Italia e la Grande guerra. Politica e cultura dal 1870 al 1915, vol. II, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 378-379, 386, 392, 443, 556.
(54) N. Colajanni, Il nuovo ministero Salandra, in “RP”, 15 novembre 1914, a. XX, n. 21, p. 513-514; Id., La commemorazione di Guglielmo Oberdan, in “RP”, 31 dicembre 1914, a. XX, n. 24, p. 581.
(55) In Atti del Parlamento italiano, Camera dei deputati, sessione 1913-15, Discussioni, vol. VI, Tipografia della Camera dei deputati, pp. 5561-5565.
(56) N. Colajanni, Nel campo socialista. Il caso Mussolini, in “RP”, 30 novembre 1914, a. XX, n. 22, pp. 540-541.
(57) Ivi, p. 540.
(58) [la rivista] N. Colajanni, La nostra guerra. Pel trionfo della giustizia e della civiltà, in “RP”, 31 maggio 1915, a. XXI, n. 10, p. 245.
(59) N. Colajanni, Contro la libertà…della violenza, in “RP”, 28 febbraio 1915, a. XXI, n. 4, p. 89.
(60) Ivi, p. 89. Su questo articolo ha richiamato l’attenzione A. Ventrone nel suo libro La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003, p. 100.
(61) N. Colajanni, Italia e Francia, in “RP”, 15 aprile 1915, a. XXI, n. 7, pp. 171-174; Id., Gli austriaci… d’Italia perdono la pazienza, ivi, 30 aprile 1915, a. XXI, n. 8, p. 191.
(62) N. Colajanni, La nostra guerra cit., p. 245.
(63) Cfr. siculo [N. Colajanni], I contrasti del socialismo italiano, 15 dicembre 1915, a. XXI, n. 23, pp. 561-564; la rivista [N. Colajanni], La grande affermazione del patriottismo italiano, ivi, pp. 559-561; la rivista [N. Colajanni], I socialisti italiani contro la guerra nazionale, in “RP”, 31 marzo 1916, a. XXII, n. 6, pp. 123-125.
(64) N. Colajanni, La nostra guerra, in “RP”, 31 maggio 1915, a. XXI, n. 10, pp. -.
(65) N. Colajanni, Il pensiero di Giuseppe Mazzini sulla politica balcanica e sull’avvenire degli slavi, Roma, Libreria Politica Moderna, 1915, p. 31.
(66) Ivi, p. 12.
(67) Ivi, p. 12 e p. 39.
(68) Cfr. Il Convegno repubblicano di Roma, in “RP”, 29 febbraio 1916, a. XXII, n. 4, pp. 82-84. In questo convegno Colajanni attualizzò anche il pensiero di Mazzini alla realtà politica dei popoli danubiano-balcanici con un richiamo alle Lettere slave del pensatore genovese.
(69) N. Colajanni, Le cause della guerra, Federico Sangiovanni, Napoli 1916. Il volume fu ripubblicato l’anno successivo con nuove aggiunte e alcune modifiche di carattere formale; cfr. Id., Le responsabilità e le cause della guerra, “La Rivista Popolare”, Roma-Napoli 1917.
(70) N. Colajanni, Le cause della guerra cit., pp. 4-5.
(71) Ivi, p. 34.
(72) Ivi, p. 25.
(73) P. Giordano, L’Impero coloniale tedesco, come nacque e come finisce, Milano, Treves, 1915; H. Hauser, Le problème colonial, Paris, Librairie Chapelot, 1915.
(74) N. Colajanni, Le cause della guerra cit., p. 105.
(75) In una lettera a Gentile del 15 marzo 1915, Croce confidava all’amico siciliano di sperare “sempre che avvenga un’intesa con l’Austria e che l’Italia resti così al gruppo degli Imperi centrali, conforme ai trattati e conforme ai suoi interessi politici ed economici”; cfr. B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), Milano, Mondadori, 1981, p. 491. Sull’atteggiamento “germanofilo” di Croce cfr. N. Colajanni, La laida reticenza della filosofia del Senatore Croce, in “RP”, 15 agosto 1915, a. XXI, n. 15, pp. 359-360; Id., L’ingenuità di Benedetto Croce, ivi, 15 ottobre 1915, a. XXI, n. 19, pp. 464-467; Id., Le postille austro-tedesche del senatore Croce, ivi, 15 aprile 1916, a. XXII, n. 7, pp. 150-153; Id., Gl’italiani contro il Senatore Croce, ivi, 30 aprile 1916, a. XXII, n. 8, p. 158.
(76) A questo proposito Colajanni scrisse che “il senatore Croce […] non vedeva le ragioni chiaramente nazionali dell’intervento dell’Italia in guerra”; cfr. N. Colajanni, L’ingenuità di Benedetto Croce cit., p. 465.
(77) la rivista [N. Colajanni], La crisi, in “RP”, 15 giugno 1916, a. XXII, n. 11, pp. 223-224.
(78) la rivista [N. Colajanni], Il nuovo Ministero. I repubblicani al governo: da Barzilai a Comandini , in “RP”, 30 giugno 1916, a. XXII, n. 12, p.
(79) la rivista [N. Colajanni], Il grande tradimento russo, in “RP”, 15 dicembre 1917, a. XXIII, n. 23, p. 443.
(80) F. Lorenzo Pulle – G. Celesia di Vegliasco, Memorie del Fascio Parlamentare di Difesa Nazionale, Bologna, Cappelli, 1932.
(81) Sull’argomento cfr. G. Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana 1917-1925, Roma-Bari, Laterza, 1982; G. Sabbatucci, Il mito dell’Urss e il socialismo italiano, in Aa. Vv., L’Urss il mito le masse, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 45-78.
(82) Cfr. il discorso di N. Colajanni alla Camera dei deputati, 12 luglio 1919, ora parzialmente pubblicato in Id., La condizione meridionale. Scritti e discorsi cit., p. 637.
(83) N. Colajanni, Il Congresso internazionale socialista di Berna e le responsabilità della guerra, in “RP”, 15 febbraio 1919, a. XXV, n. 3, p. 41.
(84) lo zotico [N. Colajanni], Il movimento bolsceviko ed il gruppo parlamentare socialista, in “RP”, 30 aprile 1919, a. XXV, n. 8, pp. 166-167. Ma il riferimento potrebbe essere esteso ad altri articoli, che suscitarono la reazione di Turati e un suo drastico giudizio in una lettera ad A. Kuliscioff: “È umiliante […] essere rimasto nell’aula forse tre ore per ascoltare quella vecchia pettegola (al femminile) di Napoleone Colajanni. Ma, poiché la Camera sta a sentirlo, e lo prende sul serio, e poiché i suoi discorsi da donnetta sono un continuo attacco a Turati, a Treves, a Very Well, alla Giudice ecc., ho pur dovuto star là (tanto più che Treves era inchiodato in revisione) per rimbeccarlo di tanto in tanto”; cfr. la lettera di Turati ad A. Kuliscioff, 21 febbraio 1918, in F. Turati e Anna Kuliscioff, Carteggio, IV: 1915-1918. La Grande guerra e la rivoluzione, tomo II, Torino, Einaudi, 1977, p. 884.
(85) la rivista [N. Colajanni], Ritornando sulla giornata parlamentare del 29 aprile, in “RP”, 15 maggio 1919, a. XXV, n. 9, pp. 185-187. “L’imperialismo, ecco il nemico, che noi detestiamo. Che cosa hanno fatto i socialisti della Francia e dell’Inghilterra contro i loro imperialismi, veri e maggiori? Nulla” (p. 187).
(86) la rivista [N. Colajanni], Il disfattismo della pace, in “RP”, 15 aprile 1919, a. XXV, n. 7, p. 140. Nell’articolo Colajanni aggiunse: “Questo Fascio dovrà educare e combattere per la salvezza dell’Italia; dovrà impedire che i frutti della vittoria contro i nemici stranieri non vengano perduti durante la pace colla organizzazione della guerra civile preconizzata, augurata e preparata dal leninismo indigeno” (p. 140).
(87) N. Colajanni, Il Congresso repubblicano di Firenze, in “RP”, 15-31 dicembre 1918, a. XXIV, n. 23-24, pp. 430-431; Id., Il programma di Firenze del partito repubblicano, in “RP”, 15-31 gennaio 1919, a. XXV, n. 1-2, pp. 15-18.
(88) lo zotico [N. Colajanni], La scissione del partito repubblicano provocata dalle nuove tendenze bolsceviche, in “RP”, 15 dicembre 1920, a. XXVI, n. 23, p. 389.
(89) Ivi, p. 389.
(90) Sulla critica degli scioperi e del massimalismo socialista cfr. la rivista [N. Colajanni], Gli scioperi criminosi, in “RP”, 15-31 gennaio 1920, a. XXVI, n. 1-2, pp. 7-9; Id., La rivolta dei metallurgici e il massimalismo dei socialisti antibolscevichi. Verso la rivoluzione?, in “RP”, 15-31 agosto 1920, a. XXVI, n. 15-16, p. 241.
(91) la rivista [N. Colajanni], Contro l’Italia e per la guerra civile, in “RP”, 31 dicembre 1920, a. XXVI, n. 24, pp. 406-408. La citazione si trova alla p. 406.
(92) lo zotico [N. Colajanni], La scissione del partito repubblicano provocata dalle nuove tendenze bolsceviche cit., p. 389.
(93) Su questi temi rinvio a S. Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo (1919-1926), Firenze, Le Monnier, 1983.
(94) G. De Stefani, Napoleone Colajanni e la crisi del primo dopoguerra italiano (1919-1921), in Aa. Vv., Napoleone Colajanni e la società italiana tra otto e novecento cit., p. 135.