Gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento della storia statunitense furono caratterizzati dalla definitiva maturazione delle grandi forze produttive, i monopoli e i trusts, e contemporaneamente dal consolidamento delle strutture dello stato federale(1). Lo sviluppo di questo secondo fenomeno, agli albori del secolo americano, venne determinato da diversi fattori tutti concatenati fra loro: la risposta politica allo strapotere autocratico dei grandi industriali, banchieri e finanzieri; l’affermazione di un liberalismo maggiormente interventista e attento ai bisogni sociali del cittadino; l’espansione di forme di maggiore cooperazione fra le istituzioni statali e quelle federali, con la naturale predominanza di queste ultime; e infine l’evoluzione di un sentimento nazionale americano, dovuto anche al coinvolgimento del paese nella prima guerra mondiale(2).
Tutte queste tematiche vennero affrontate dai principali esponenti del movimento progressista, che con la loro vivacità intellettuale furono in grado di contrassegnare la vita culturale e politica del primo ventennio del Novecento in America. Per costoro il compito fondamentale della democrazia doveva essere quello di stimolare una sempre maggiore inclusione delle classi medie nel processo di governo e, allo stesso tempo, di riconoscere alle istituzioni democratiche locali, statali e soprattutto federali un ruolo attivo nella garanzia dei diritti di libertà, di uguaglianza e d’indipendenza dei cittadini, contro le palesi ingiustizie presenti nella società americana(3).
L’espansione dei poteri dell’esecutivo federale e del Congresso era stata un’evidente necessità dovuta alla risoluzione dei problemi politici del tempo. Si era verificato, in altre parole, il cambiamento di fatto della Costituzione materiale rispetto alle norme formali. Così, vi era stata in America una crescita costante delle funzioni legislative ed amministrative, e un considerevole allargamento della sfera federale a detrimento dei governi statali e locali, senza che vi fosse nessun cambiamento formale nell’impianto costituzionale(4).
L’idea federale, presente in tutti i documenti politici coloniali, così come nella Dichiarazione d’indipendenza, nelle costituzioni statali ed in quella federale, che aveva guidato la dottrina costituzionalista per due secoli, venne messa in crisi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento dalle dottrine sviluppate dai seguaci della scuola storica tedesca trapiantati in America, primo fra tutti l’hegeliano Francis Lieber, il quale propugnò la natura organica dello stato federale e rigettò la concezione contrattualista(5). Il professor Lieber, quindi, con le sue idee basate sul concetto idealistico di nazione, ebbe una notevole influenza su alcuni importanti autori del nazionalismo americano, quali Orestes A. Brownson, John A. Jameson, Elisha Mulford, Richard Ely, Herbert Baxter Adams, e Woodrow Wilson(6). Collegandosi a queste premesse il movimento nazionalista intese sostenere la superiorità del modello della comunità armonica e della concezione organica dello stato, rispetto a quello alternativo, sostenuto da James Madison nel Federalista, di una comunità divisa e parcellizzata in innumerevoli interessi particolari e bisogni privati, tutti in competizione fra di loro(7).
Ancora di più, al posto dei tradizionali concetti di patto della grazia e di federalismo, nelle università americane si iniziarono a studiare il costituzionalismo e il liberalismo riformatore e radicale, come successivamente il liberalismo idealistico di Thomas Hill Green, elaborati in Gran Bretagna nell’Ottocento. Tutto ciò finì naturalmente col confluire nel vasto movimento di rinnovamento politico-culturale dei primi decenni del Novecento denominato progressismo, nelle cui fila militarono intellettuali e politici di primo piano quali Herbert Croly, John Dewey, Edward Ross, Walter Lippmann, Louis Brandeis, Theodore Roosevelt, Robert La Follette e Woodrow Wilson(8).
Dal modello di un federalismo duale creato dalla Costituzione federale americana, interpretato in maniera autentica dal Federalista e dalla Corte Suprema di John Marshall, e realizzato nel corso dell’Ottocento, si passa, all’inizio del ventesimo secolo, per impulso proprio del movimento progressista, ad un modello cooperativo. Nella prima concezione, ossia quella di dual federalism, i governi degli stati e il governo federale rappresentano soggetti indipendenti che operano in sfere separate, al contrario nel sistema creato dal cooperative federalism gli stati e il potere centrale sono costituzionalmente obbligati a lavorare insieme, tutto ciò porta inevitabilmente ad un ampliamento delle prerogative e dell’autorità federale rispetto ai diversi soggetti statuali(9).
La rivalità il più delle volte sana, ma qualche volta anche pericolosa, fra potere federale e potere degli stati cede il passo ad un sistema incentrato sul ruolo predominante del governo nazionale del Presidente, il quale è legittimato dalla volontà popolare e dalla sua capacità di interpretare e guidare i bisogni della nazione. Si giunge, così, ad un modello fondato sulla naturale cooperazione che tutte le istituzioni, comprese gli stati, devono fornire al governo federale per garantire uno sviluppo armonico della società americana(10).
Il federalismo cooperativo sviluppato in maniera primaria e consapevole nel periodo della presidenza Wilson è ovviamente incuneato in una tradizione di pensiero che pur se esplicatasi appieno nel Novecento trae le sue origini nel secolo precedente, nelle idee economiche di Albert Gallatin, nella politica degli internal improvements di Daniel Webster e Henry Clay, e nel nazionalismo di Abraham Lincoln, e ha come immediato riferimento l’agire politico di Theodore Roosevelt. Ovviamente questo modello federale trova, successivamente a Wilson, la sua definitiva consacrazione nel New Deal di Franklin D. Roosevelt e nelle linee di politica economica sviluppate dalle presidenze di John F. Kennedy e Lyndon Johnson, dunque dagli anni trenta agli anni sessanta del Novecento.
Il modello duale, il quale ha la sua autentica e massima teorizzazione in James Madison, può essere anche rintracciato nel repubblicanesimo dei diritti degli stati di Thomas Jefferson e John Taylor, fino a giungere alla sua estremizzazione nell’idea politica di concurrent majority formulata da John C. Calhoun(11). Dopo una lunga fase di abbandono, in seguito alle vicende della guerra di secessione e all’avvento del federalismo cooperativo, questo modello trova una sua riaffermazione nel New Federalism di Richard Nixon e soprattutto negli anni ottanta viene rivalutato e aggiornato dalla idee espresse e dalle scelte operate da Ronald Reagan e dalla sua amministrazione(12).
L’inizio di questo consapevole mutamento prese avvio con la critica radicale alla Costituzione federale, che fu uno dei cavalli di battaglia del movimento progressista(13). Molti degli esponenti di primo piano del movimento sferreranno nei primi decenni del Novecento il loro attacco frontale nei confronti delle norme costituzionali fissate a Filadelfia e delle intenzioni, a loro dire, poco democratiche di coloro che le vollero, le difesero e le interpretarono per primi.
I federalisti e la Costituzione avevano già subito nei primi anni della repubblica forti critiche dagli antifederalisti, come più tardi era arrivato l’attacco da parte di John C. Calhoun, ma costoro difendevano la sovranità degli stati, la sezione meridionale degli Stati Uniti e nel caso di Calhoun, anche, il sistema di vita sociale e la peculiare istituzione della schiavitù(14).
Molti storici ed intellettuali progressisti, invece, fra i quali Wilson, Beard, Croly, Parrington e Commager, tenderanno sostanzialmente a distinguere lo spirito democratico insito nella Dichiarazione d’Indipendenza dal carattere repubblicano e più conservatore che si può riscontrare nella Costituzione federale(15).
Beard, ad esempio, con la sua analisi penetrante, ma non del tutto corretta in termini storici del contesto nel quale nacque la Costituzione, distingue nettamente fra coloro che la vollero, ossia i federalisti (i cui esponenti più importanti miravano a difendere i grandi interessi economico-finanziari dell’aristocrazia della cartamoneta e del patronage) che egli considera quali conservatori antidemocratici, rispetto al partito antifederalista jeffersoniano, che rappresentando le istanze dei piccoli proprietari terrieri e dei debitori viene identificato quale movimento democratico(16).
A giudizio di Parrington, in effetti, la comprensione del vero carattere della Costituzione federale del 1787 costituisce il grande merito della scuola storica legata alla corrente del progressismo.
Dal punto di vista storico, il maggior contributo del movimento progressista alla causa democratica è probabilmente costituito dalla scoperta del carattere fondamentalmente non democratico della costituzione federale. Che un fatto così ovvio fosse rimasto per tanto tempo nascosto, dipendeva da motivi politici facilmente comprensibili. Per un secolo la costituzione era stata un simbolo dell’unità nazionale. Criticarla era considerato sleale. […] Le divisioni di classe presenti al tempo della sua formazione erano ignorate, e dimenticato lo spirito aristocratico dei suoi fondatori(17).
Fra fine Ottocento e inizio Novecento non era più possibile disconoscere tutto ciò. Gli intellettuali e i politici progressisti prendevano atto che la Costituzione tutelava essenzialmente i grandi interessi finanziari e industriali, mentre le istanze democratiche che salivano dai ceti medi venivano sistematicamente frustrati dal sistema dei pesi e contrappesi costituzionali. La Corte suprema, inoltre, appellandosi rigidamente alle norme costituzionali bocciava sistematicamente tutte le leggi che tendessero ad un avanzamento sociale o alla promozione dei diritti positivi dei cittadini.
In questi termini la discussione si incentrò sulla convenienza o meno di apportare modifiche sostanziali ad un documento che, a detta di molti progressisti impediva il normale funzionamento di una democrazia avanzata.
Wilson, ad esempio, non giunse mai alle estremizzazioni di Beard o Parrington, vale a dire considerando la Costituzione come il frutto dei meri interessi economici dei padri fondatori i quali, in pratica, con questo documento avevano realizzato una contro-rivoluzione aristocratica e antidemocratica(18). Egli, in effetti, considerava la Carta fondamentale semplicemente non più adeguata per condurre gli Stati Uniti alla completa formazione di un sistema costituzionale moderno. A lui, quindi, non interessavano tanto le motivazioni economiche di Hamilton o Madison, quanto gli impedimenti che essi avevano costruito sul cammino di una sintesi vitale ed essenziale tra il volere della comunità e il suo governo centrale(19).
La Costituzione sostanziale non si era potuta a pieno affermare nella sua naturale evoluzione poiché si doveva restare ancorati alla Costituzione formale, la quale poteva andar bene alla fine del Settecento, ma non dava più risposte adeguate all’inizio del secolo americano. Il punto centrale dell’analisi comune ai vari autori diviene, in ogni modo, la teorizzazione dell’evoluzione del sistema costituzionale e l’affermazione, propria del movimento progressista, di una living constitution contrapposta alla corrente culturale conservatrice della original intention or interpretation(20).
L’obiettivo fondamentale della corrente filosofico-politica progressista era quello di costruire un’America su solide basi democratiche e protesa alla ricerca di prospettive più egualitarie. Per realizzare tutto ciò occorreva, in definita, che il governo fosse al servizio dell’uomo e non della proprietà. I due fattori fondamentali della complessa realtà americana vale a dire il corporativismo, inteso come sviluppo delle grandi corporations, e il nazionalismo determineranno, in questa prima fase del secolo, una particolarità del contesto istituzionale, sociale ed economico degli Stati Uniti rispetto agli altri sistemi politici occidentali esistenti in Europa, caratterizzati o da una diversa forma di liberalismo politico o dal paternalismo autoritario.
La rivoluzione americana delle corporations, per dirla con Orozco, congiuntamente alla ritrovata forza delle istituzioni politiche federali, rinvigorite dagli esponenti del movimento progressista, non porterà, come nel vecchio continente, all’avvento di un regime reazionario o totalitario. Il nuovo corso del “liberalismo corporativo nord-americano apporterà nei suoi giochi pragmatici tra pubblico e privato, tra libertà e uniformità, tra individualismo e standardizzazione, la forma più avanzata, aggressiva, flessibile e redditizia dell’ideologia e della politica capitalista del XX secolo”(21).
Herbert Croly, l’ispiratore del programma del partito progressista di Roosevelt denominato New Nationalism, nel libro The promise of American Life del 1909, sosteneva come vi fossero sempre state fin dai primi giorni della federazione due tendenze basilari nel pensiero politico americano, quella hamiltoniana e quella jeffersoniana(22). La prima veniva identificata con l’affermazione di un forte governo centrale, e di privilegi speciali nei confronti di una minoritaria aristocrazia finanziaria. La seconda visione politica era dominata dal governo minimo, dalla democrazia liberale e da eguali diritti e opportunità. A giudizio di Croly, la nuova società industriale statunitense di inizio Novecento non poteva fare a meno di una sintesi delle due tendenze.
Per la risoluzione dei nuovi problemi determinati dalla compresenza di “governo politico e governo industriale” negli stessi ambiti sociali, occorreva utilizzare mezzi hamiltoniani per raggiungere fini jeffersoniani. Non bisognava demonizzare il sistema delle grandi corporations, occorreva, invece, prendere atto che il sistema di organizzazione industriale rappresentava un avanzamento dell’economia liberale.
Ci sono due condizioni economiche indispensabili per l’auto-espressione individuale e qualitativa: una è la preservazione, in una certa forma, dell’istituzione della proprietà privata; l’altra è la trasformazione radicale della sua natura ed influenza attuale. […] La lealtà all’interesse nazionale implica la devozione verso un principio progressista. Essa a sua volta chiede, inequivocabilmente, che il principio progressista sia realizzato senza nessuna violazione dei vincoli nazionali fondamentali(23).
La nuova alleanza fra democrazia progressista e nazionalismo non viene da Croly demonizzata, ma occorre comprendere che questo fenomeno è in contrasto “più con le idee politiche di Jefferson che con quelle di Hamilton: il nazionalismo dell’ultimo può essere adattato alla democrazia senza danno essenziale; la democrazia del primo non può essere nazionalizzata senza essere trasformata”(24).
Il progressismo di Woodrow Wilson, allo stesso modo di quello di Louis Brandeis, su questa tematica fondamentale era, invece, maggiormente legato ad un volontarismo solidale e morale che poteva scaturire dai settori sani della società, dall’ottimismo sul valore imperituro delle tradizionali regole liberali e sulla capacità delle istituzioni nazionali di poterle applicare(25). Riguardo a queste due tendenze presenti nel movimento progressista, il realismo politico e l’ottimismo morale, Dessì sostiene, come
uno degli aspetti di maggiore interesse dell’età progressista sia questa compresenza tra il realismo con il quale venivano considerati e denunciati alcuni aspetti della vita sociale e l’ottimismo riguardo alle possibilità di cambiamento attraverso l’azione educativa e la testimonianza morale. In effetti questi due elementi, sebbene in forme diverse, continuarono nella cultura americana ben oltre gli anni del progressismo(26).
Wilson riteneva che alle grandi concentrazioni industriali dovesse essere impedito di corrompere il libero processo politico, attraverso una legislazione federale garante della libertà di impresa. L’imperativo era di riportare a una funzione sociale il capitale finanziario, la comunità nazionale deve, dunque, “studiare la maniera perché il capitale serva gli interessi del popolo nel suo insieme. Non possiamo chiuderci nei nostri affari personali, dobbiamo aprire i nostri pensieri al paese come un insieme e servire tanto l’intelligenza generale quanto il benessere generale”(27).
La sua fede nella ragione, inoltre, generava un’ottimistica visione del mondo in base alla quale il progresso economico e politico del paese sarebbe stato inevitabile e avrebbe condotto, se ben governato, a una società inclusiva, nella quale si sarebbero potuti armonizzare i differenti interessi. A giudizio di Steigerwald i tratti distintivi del pensiero liberale wilsoniano sono proprio questi: la tenacia individuale, la supremazia del bene comune e l’inevitabilità del progresso(28).
Dall’altra parte in quegli stessi anni, forse con maggiore realismo politico, molti si chiedevano come fosse possibile conciliare l’inarrestabile progresso con i tradizionali valori di libertà. La domanda chiave, a questo punto, per identificare i problemi politici e istituzionali scaturiti dalle trasformazioni economico-sociali di questo periodo, e per svelare le carenze dell’originaria Carta fondamentale, sembra porsela proprio Herbert Croly nel libro Progressive Democracy, del 1914. Come potevano gli americani, egli si interrogava, essere uomini liberi in una società complessa come quella moderna caratterizzata da una pervicace economia industriale?(29)
In maniera più esplicita un altro intellettuale progressista Walter Weyl, condirettore della rivista The New Republic della quale Croly era direttore, poteva sostenere che “la vecchia democrazia non forniva risposte ai problemi di un mondo nel quale le principali limitazioni alla libertà erano economiche e non politiche”(30).
Il termine libertà ebbe, indubbiamente, per i cittadini americani dell’età progressista un diverso significato rispetto a come era stato avvertito nelle epoche precedenti. In modo molto differente era stata percepita la conquista della libertà dagli inglesi nelle guerre d’indipendenza, o l’affermazione delle libertà civili e politiche durante il periodo costituzionale o, durante l’Ottocento, l’idea di libertà di contratto in campo economico e di libertà dalla schiavitù da parte dei neri americani. All’inizio del Novecento, ci fa comprendere Foner, tutti i progressisti erano d’accordo che occorresse dare nuovi contenuti al termine libertà.
Ispirata dalla sensazione che, nel nuovo secolo, le interpretazioni tradizionali della democrazia e della libertà fossero obsolete, l’epoca progressista produsse una mole di commentari sociali e un complesso insieme di movimenti finalizzati ad attaccare l’ineguaglianza economica e a trovare un terreno comune in una società oppressa dalle lotte per il lavoro e che stava sperimentando una massiccia immigrazione dall’estero(31).
Le battaglie intraprese per accrescere spazi e forme nuove di libertà – o se fosse stato necessario per dare regole efficaci alle storture causate dall’eccesso di libertà esistente – e le soluzioni prospettate dai maggiori pensatori progressisti, per la risoluzione dei principali mali sociali, furono molteplici e spesso di natura divergente(32). Si andava da coloro che volevano allargare lo spettro della libertà economiche, a coloro che auspicavano un poderoso controllo statale sulle posizioni dominanti l’economia di mercato. Su altri versanti c’erano quelli che portavano avanti la lotta contro la segregazione razziale nel sud del paese o per l’inclusione sociale dei nuovi gruppi etnici giunti in seguito alle ondate migratori e fino a coloro che si battevano per l’abolizione del lavoro minorile nelle fabbriche o che pensavano di instaurare un regime di proibizionismo sulla produzione e vendita degli alcolici.
In mezzo a tutto questo si poteva, comunque, trovare il filo conduttore che conduceva a un gruppo nutrito di intellettuali e politici riformatori, i quali rappresentavano al meglio gli interessi delle classi medie americane, “uomini e donne, spesso legati a organizzazioni sindacali, che cercavano di umanizzare il capitalismo rendendolo più egualitario e di rivitalizzare la democrazia restituendo il potere politico alla cittadinanza e l’armonia civile a una società divisa”(33).
Il punto di partenza comune a tutti gli esponenti del movimento progressista era, pertanto, da tutti individuato nella presa d’atto dell’avvenuta reale trasformazione dell’impresa e della sua organizzazione. Si era di molto affievolita in America la concezione ideale, propria della prima fase della storia della repubblica, di un’economia basata sulle piccole attività economiche personali che impiegavano pochi dipendenti legati al proprietario da vincoli molto stretti. Questo sistema era stato abbandonato per lasciare spazio ad uno nuovo fondato su grandi imprese di centinaia, o migliaia di dipendenti, organizzate finanziariamente in società per azioni e dirette da amministratori non proprietari(34).
Il compito che i riformatori si intestarono, all’inizio del Novecento, fu soprattutto quello di porre in evidenza, nei confronti dell’opinione pubblica americana, questa grande trasformazione realizzatasi nel corso di qualche decennio a partire dalla fine della guerra di secessione. Nello stesso tempo molti di questi intellettuali credettero di dover trovare delle soluzioni ottimali per risolvere i grandi scompensi sociali e politici che si erano determinati.
Secondo molti di questi protagonisti, infatti, un risultato significativo della metamorfosi del tessuto produttivo statunitense fu proprio quello di aumentare il grado di corruzione in campo politico, grazie alla commistione d’interessi fra grande capitale e classe dirigente del paese. Il ceto politico dimostrava di essere un succube strumento di questi crescenti interessi economici legati ai monopoli e ai cartelli, e tutto ciò non faceva altro che alimentare un sistema sociale, economico e politico nel quale regnava un fortissimo grado di inefficienza e corruzione.
I grandi interessi economici consolidatisi nei trusts avevano annullato “l’eguaglianza delle opportunità”. Il sorgere di una nuova classe dirigente fondata non altro che sul possesso di una ricchezza anonima e priva di senso di responsabilità sociale e politica, nonché la trasformazione delle imprese economiche in grandi società anonime, avevano provocato un impoverimento e una dispersione della morale sociale […]. Tutti questi elementi dovevano generare un senso di crisi, di fallimento negli americani della fine del secolo; e questa sensazione venne aggravata da altre circostanze verificatesi proprio a quell’epoca: la fine della Frontiera, l’afflusso della “nuova immigrazione” e sotto più di un aspetto, lo stesso movimento imperialistico(35).
L’epoca della frontiera, quale elemento determinante dei sentimenti di libertà e uguaglianza del popolo americano e del suo spirito d’avventura e di ricerca di nuovi confini per conquistare nuovi spazi di felicità terrena, si era conclusa mostrando caratteri di una incombente situazione di decadenza morale. L’eccezionalità americana, questo allontanamento reale e ideale sempre più grande dalle radici europee, aveva bisogno, a giudizio di Turner, di essere sempre alimentato(36).
Lo sviluppo della nazione americana ha non solo documentato un’avanzata su un’unica linea, ma anche un ritorno a condizioni primitive su una linea di frontiera in continuo spostamento e un nuovo sviluppo in questa zona. Lo sviluppo sociale americano è stato un inizio continuo, un punto di partenza sempre nuovo, su una frontiera mobile. Questa rinascita perenne, questa fluidità della vita americana, questa espansione verso Ovest con tutta la sua gamma di infinite possibilità, il suo contatto continuo con la semplicità della vita primitiva, alimentano e forniscono le forze che dominano il carattere degli americani. […] L’avanzata della frontiera ha significato un movimento regolare che s’allontanava sempre più dall’influsso dell’Europa, uno sviluppo costante di indipendenza su linee prettamente americane(37).
Vi era il timore che senza la lotta dei pionieri alle avversità naturali nei vasti territori da colonizzare del West e senza più la ricerca di una ancora non raggiunta “eguaglianza delle opportunità”, venissero messe in crisi alla radice le fondamenta della democrazia americana. Se era vero che lo spostamento della frontiera, attraverso la conquista territoriale dell’Ovest, avesse garantito “all’America e agli americani ricchezza, progresso e identità, la sua fine non minacciava solo l’economia del paese ma anche il suo futuro e le sue istituzioni”(38).
Le aspirazioni democratiche e la filosofia egalitaria quali condizioni proprie del contesto della frontiera americana non potevano essere facilmente adattate ad un paese giunto ad una fase oramai avanzata dello sviluppo industriale e avviato ad essere sempre più circoscritto alle grandi realtà urbane. L’America correva, il forte rischio di una regressione del proprio sistema democratico verso un modello politico dominato da un indifferente individualismo che riduceva la società civile a terreno di battaglia delle potenti lobbies economiche(39).
Il momento politico culminante e di maggiore visibilità del progressismo americano fu certamente la campagna elettorale per l’elezione del Presidente nel 1912. In queste elezioni il vero scontro non si sviluppò come avveniva tradizionalmente tra il candidato uscente, in questo caso il Presidente repubblicano William Howard Taft, e lo sfidante democratico Woodrow Wilson. Infatti, in seguito alla spaccatura ideologica verificatasi fra alcuni dei maggiori esponenti repubblicani, Theodore Roosevelt decise di ricandidarsi alla testa del nuovo partito progressista, il quale era per buona parte costituito dai maggiori esponenti dell’ala sinistra riformista dello stesso partito repubblicano(40).
La competizione elettorale si concentrò, sui due candidati dotati di maggiore carisma e spessore politico, Roosevelt e Wilson, e sui loro programmi elettorali denominati New Nationalism e New Freedom(41). I due programmi erano, in effetti, molto simili e si fondavano sulla lotta contro lo strapotere economico e politico dei grandi monopoli, i quali falsavano la libera concorrenza e penalizzavano i cittadini delle classi medie americane, sia nella loro veste di consumatori sia in quanto attori liberi e consapevoli della vita pubblica.
Nell’elaborazione del suo programma New Nationalism, il cui nome venne ripreso da un suo famoso discorso pronunciato nel 1910, Roosevelt si ispirò, come abbiamo sottolineato, all’opera The promise of American Life di Croly(42). Nel libro di Croly, così come nel programma di Roosevelt, si propugnava un più forte intervento dello stato, l’avvento di uno spirito nazionalista che guidasse l’intero popolo americano e la realizzazione di molte delle riforme prospettate per un decennio dal movimento progressista: le elezioni primarie, il ricorso al referendum popolare, la legge sulla limitazione dell’orario di lavoro, e quelle sull’aumento delle retribuzioni minime per i lavoratori dipendenti, sulla graduale tassazione dei redditi personali e sull’imposizione fiscale delle successioni.
Il New Nationalism, collocava le esigenze nazionali ad un livello superiore rispetto agli interessi dei gruppi di pressione ed ai bisogni delle differenti sezioni del paese rivelandosi, in definitiva, come
una chiara sintesi delle vecchie dottrine rooseveltiane con un pizzico delle più ardite idee progressiste. Si debbono conseguire i fini democratici, affermò Roosevelt, con i mezzi propri della politica di Hamilton, attraverso le principali linee di sviluppo rappresentato da uno stato forte e centralizzato, interventi del governo estesi alla vita economica, azione politica scevra da interessi e sollecitudini particolari(43).
A Roosevelt che voleva sostanzialmente brandire il bastone dello stato per tenere a bada e sotto il proprio controllo le grandi concentrazioni industriali e piegarle ad una politica maggiormente compassionevole nei confronti del popolo americano, si contrapponeva la New Freedom di Wilson(44). Quest’ultimo, aiutato nell’elaborazione del suo programma dalle idee dell’avvocato difensore dei diritti dei lavoratori e consumatori Louis D. Brandeis, proponeva la ricetta del nuovo liberalismo fondato sull’autentica ed effettiva concorrenza, sul libero commercio internazionale, tradotto in realtà dallo smantellamento dei dazi doganali, e sullo smembramento, per mezzo di un’attenta regolamentazione antitrust, dei grandi monopoli(45).
Nell’analisi di Wilson la vita sociale e politica statunitense dei primi decenni del Novecento rappresenta qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato. Si è in presenza di un nuovo ordinamento sociale e di sconvolgimenti economici talmente rilevanti che le vecchie formule politiche non danno più risposte adeguate. Lo sviluppo economico e sociale ha trasformato a tal punto la vita dei cittadini americani che sembra essere nata una nuova nazione differente da quella creata con la nascita dello stato federale. Per questo motivo è necessario che la libertà sia tutelata in forme nuove rispetto al passato(46).
Questo vero liberalismo doveva essere attento alla tutela e alla promozione dei diritti individuali dei cittadini delle classi medie americane, attraverso una precisa legislazione che impedisse alla parte più forte e ricca del paese di sopraffare la più debole rappresentata dalla media borghesia volenterosa e dal crescente numero di lavoratori salariati. Occorreva modificare l’assunto hamiltoniano, secondo il quale il governo degli Stati Uniti dovesse fondamentalmente garantire e proteggere i grandi proprietari contro le macchinazioni dell’elemento popolare. Hamilton, riteneva che lo stesso governo non dovesse essere ostile anzi, avesse l’obbligo di rafforzare i suoi legami con la proprietà fino al punto da riflettere i desideri dei maggiori interessi economici(47).
Da quando vi furono governi, vi fu sempre contesa fra due maniere di governo. Una delle quali maniere, o teorie di governo, ricorda in America il nome di Alexander Hamilton: un grand’uomo a mio vedere, ma non un grande americano. Egli non capì il modo di vivere degli americani. Credeva che le sole persone che potessero capire che cosa sia governo e ne potessero reggere uno, fossero quelle che avevano la più grande partecipazione finanziaria alle imprese commerciali e industriali del paese(48).
Il giornalista e scrittore Walter Lippmann nel suo Drift and Mastery, del 1914, criticò la Nuova libertà di Wilson poiché, a suo giudizio, si trattava soltanto una riproposizione della vecchia teoria jeffersoniana fondata sull’autonomia dell’individuo e sull’eguaglianza delle condizioni rispetto allo strapotere dello stato e, allo stesso tempo, della anacronistica superiorità del sistema della piccola proprietà in un mondo oramai dominato dalla complessità dei processi collettivi e dall’accentramento del potere economico(49).
In termini altrettanto forti Herbert Croly nello stesso anno 1914, avanza la propria critica progressista alla New Freedom, dal momento che il Presidente degli Stati Uniti e gli uomini del suo governo sostengono fiduciosamente che la loro serie di riforme economiche generali tornerà a beneficio del salariato non meno che del produttore locale; ma la cosa non si può sostenere. […] Ciò di cui il salariato ha bisogno non è che l’attuale regime di privilegio venga equilibrato, bensì che venga costituito un nuovo sistema che ponga riparo alle inadeguatezze e ai difetti del vecchio(50).
Tutto ciò era indubbiamente vero, ma l’intenzione di Wilson non era quella di approfondire mere questioni sindacali, ma innanzitutto quella di porre in evidenza le forti disuguaglianze sociali che comportavano un rischio serio per la tenuta delle istituzioni democratiche dell’epoca. Nella New Freedom Wilson, pertanto, si domanda cosa sia il progresso, qual è la sua parabola, e cerca di fornire ai cittadini americani quelle che egli ritiene delle risposte chiare.
Gli americani percepivano chiaramente di non poter controllare il corso degli affari. Erano mutate le condizioni di giustizia ed equità, ma la vecchia politica non era più adeguata. Bisognava essere pronti a rivoluzionare la società politica così come quella economica. Occorreva una rivoluzione pacifica delle largamente maggioritarie classi medie che ripristinasse su nuove basi il perseguimento dell’interesse generale. Un disegno comune a tutti gli esponenti progressisti, che potremmo anche definire jeffersoniano, era, comunque, quello di far tornare l’America ad essere un paese nel quale l’uguaglianza delle opportunità e la democrazia sociale fossero il risultato di un sistema nel quale la politica avesse come scopo di servire i cittadini e non il grande capitale.
Partendo da queste premesse, molti progressisti sostenevano che non si potesse semplicemente tornare alla Repubblica dei principi originari(51). L’anelito progressista doveva trasformare il federalismo americano, tendendo ad adattare il sistema istituzionale della repubblica alle mutate condizioni della società civile e delle strutture economiche. Soltanto un modello fondato su una reale cooperazione fra stati federati e stato federale, con la supremazia di questo ultimo, poteva dare delle risposte efficaci ai problemi dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. Occorreva, pertanto, tornare a comprendere l’antico spirito costituzionale e adeguarlo ai tempi presenti.
Giuseppe Bottaro
NOTE
(1) Questo importante periodo della storia statunitense è molto ben sviluppato, fra gli altri, da Arthur Schlesinger, The Rise of Modern America 1865-1951, New York, 1951, e John L. Thomas, La nascita di una potenza mondiale: gli Stati Uniti dal 1877 al 1920, Bologna, 1988.
(2) Cfr. Samuel P. Hays, The Response to Industrialism 1885-1914, Chicago, 1995. Per una maggiore comprensione dei fermenti culturali, politici ed economici di questo periodo e sui personaggi più importanti cfr. Charles A. e Mary Beard, The Rise of American Civilization, 2 voll., New York, 1933, Richard Hofstadter, L’età delle riforme: da Bryan a Roosevelt, Bologna, 1962, e il terzo vol. di Vernon L. Parrington, Storia della cultura americana. L’avvento del realismo critico 1860-1920, vol. III, Torino, 1969.
(3) Sul movimento progressista e sui profondi cambiamenti intervenuti in seguito alla sua affermazione, nei primi decenni del Novecento, vedi Arthur Mann, The Progressive Era: Major Issues of Interpretation, Hinsdale, Ill., 1975, Arthur S. Link e Richard L. McCormick, Progressivism, Arlington Heights, Ill., 1983, Arnaldo Testi, a cura di, L’età progressista negli Stati Uniti, Bologna, 1984, John W. Chambers, The Tyranny of Change. America in the Progressive Era, 1890-1920, New Brunswick, 2000, e Lewis L. Gould, America in the Progressive Era, 1890-1914, New York, 2001,. Per le riforme politiche ed economiche realizzate nell’età progressista cfr. Lewis L. Gould, Reform and Regulation: American Politics from Roosevelt to Wilson, New York, 1986.
(4) Su queste tematiche vedi Woodrow Wilson, Constitutional Government in the United States, New York, 1908, ristampa a cura di, Sidney A. Pearson, New Brunswick, 2002.
(5) Cfr. Francis Lieber, Political Ethics, Philadelphia, 1838, e Id., Civil Liberty and Self-Government, 2 voll., Philadelphia, 1853.
(6) Orestes A. Brownson, The American Republican, New York, 1865, ed. it., La repubblica americana: costituzione tendenze e destino a cura di, Dario Caroniti, Roma, 2000, John A. Jameson, The Constitutional Convention: Its History, Powers, and Modes of Proceeding, Chicago, 1867, Elisha Mulford, The Nation: The Foundations of Civil Order and Political Life in the United States, New York, 1870, Herbert Baxter Adams, Methods of Historical Study, Baltimore, 1884, Richard Ely, An Introduction to Political Economy, New York, 1889, e Woodrow Wilson, The State: Elements of Historical and Pratical Politics, Boston, 1889.
(7) Cfr. Alexander Hamilton, James Madison, John Jay, Il federalista, a cura di Mario D’Addio e Guglielmo Negri, Bologna, 1980. Sulla concezione pluralista e federalista madisoniana, cfr. Lance Banning, The Sacred Fire of Liberty: James Madison and the Creation of the Federal Republic, 1780-1792, Ithaca, N.Y., 1995.
(8) Sui protagonisti del movimento progressista, e sulle principali tematiche sviluppate, vedi anche Ottavio Barié, a cura di, Il pensiero politico nell’età di Wilson, Bologna, 1961, e Christopher Lasch, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Milano, 1992.
(9) Su questi temi vedi Jane P. Clark, The Rise of a New Federalism: Federal-State Cooperation in the United States, New York, 1938, Edward S. Corwin, The Passing of Dual Federalism, “Virginia Law Review”, vol. 36, 1950, pp. 1-24, William Anderson, The Nation and the States: Rivals or Partners?, Minneapolis, 1955, M.J.C. Vile, The Structure of American Federalism, Oxford, 1961, Daniel J. Elazar, American Federalism: A Working Outline, Philadelphia, 1970, William H. Stewart, Concepts of Federalism, Lanham, Md., 1984, Michael P. Zuckert, Federalism and the Founding: Toward a Reinterpretation of the Constitutional Convention, “Review of Politics”, vol. 41, 1986, pp. 166-210, e Vincent Ostrom, The Political Theory of a Compound Republic: Designing the American Experiment, Lincoln, 1987.
(10) Cfr. Daniel J. Elazar, The American Partnership: Intergovernmental Cooperation in the Nineteenth-Century United States, Chicago, 1962, e Morton Grodzins, The American System: A New View of Government in the United States, Chicago, 1966.
(11) Sul repubblicanesimo jeffersoniano e tayloriano cfr. Federico Mioni, Thomas Jefferson e la scommessa dell’autogoverno: virtù, popolo e Ward System, Reggio Emilia, 1995, Luigi Marco Bassani, Il pensiero politico di Thomas Jefferson. Libertà, proprietà e autogoverno, Milano, 2002, e Giuseppe Bottaro, L’illusione repubblicana. John Taylor of Caroline, Milano, 2002. Sul pensiero politico di Calhoun vedi Giuseppe Buttà, Democrazia e federalismo: John C. Calhoun, Messina, 1988, e Massimo L. Salvadori, Potere e libertà nel mondo moderno. John C. Calhoun: un genio imbarazzante, Roma-Bari, 1996.
(12) Cfr. Daphne A. Kenyon and John Kincaid, eds., Competition among States and Local Governments: Efficiency and Equity in American Federalism, Washington, D.C., 1991, John Kincaid, From Cooperation to Coercion in American Federalism: Housing, Fragmentation and Pre-emption, 1780-1992, “Journal of Law & Politics”, vol. IX, 1993, pp. 333-431, e David B. Walker, The Rebirth of Federalism, Chatam, N.J., 2000.
(13) Sulla Costituzione federale del 1787 e sul dibattito politico e intellettuale dal quale essa scaturì vedi Clinton Rossiter, 1787: The Grand Convention, New York, 1966, Forrest McDonald, Novus Ordo Seclorum: The Intellectual Origins of the Constitution, Lawrence, 1985, e Michael Kammen, The Origins of the American Constitution: A Documentary History, New York, 1986.
(14) Cfr. Giuseppe Buttà, Democrazia e federalismo: John C. Calhoun, Messina, 1988. Il movimento antifederalista jeffersoniano fu in realtà composto da personalità molto rilevanti, e le teorie che da esso scaturirono sono, ancora oggi, considerate come uno dei fattori trainanti nei primi decenni del processo politico del federalismo statunitense. Su queste tematiche, fra gli altri, vedi Noble E. Cunningham, The Jeffersonian Republicans: the Formation of Party Organitation, 1789-1801, Chapel Hill, 1957, N.K. Risjord, The Old Republicans: Southern Conservatism in the Age of Jefferson, New York, 1965, e soprattutto Herbert J. Storing, The Complete Anti-Federalist, 7 voll., Chicago, 1981. Più in generale sulle controversie politiche fra federalisti e antifederalisti nel periodo successivo all’entrata in vigore della Costituzione, cfr. Lance Banning, After the Constitution, Party Conflict in the New Republic, Belmont, California, 1989, Stanley Elkins e Eric McKitrick, The Age of Federalism, the Early American Republic, 1788-1800, New York, 1993.
(15) Cfr. Woodrow Wilson, Constitutional Government in the United States, New York, 1908, Herbert Croly, The Promise of American Life, New York, 1909. Charles A. Beard, An Economic Interpretation of the Constitution of United States, New York, 1913, Vernon L. Parrington, Storia della cultura americana, Torino, 1969, Henry S. Commager, Lo spirito americano, Firenze, 1952.
(16) Su queste tematiche cfr. dello stesso Charles A. Beard, Economic Origins of Jeffersonian Democracy, New York, 1915.
(17) Vernon L. Parrington, Storia della cultura americana. L’avvento del realismo critico 1860-1920, vol. III, cit., pp. XXXV-XXXVI.
(18) “La nuova scuola critica fu storica piuttosto che giuridica. Si preoccupò anzitutto delle origini e dovette tener conto delle teorie politiche e degli interessi di classe di chi aveva elaborato il documento nel secolo XVIII. Smise di considerare i padri fondatori come superuomini, dediti altruisticamente a un alto dovere patriottico: volle vederli nella loro qualità di abili statisti, carichi di pregiudizi aristocratici, che timorosi di perdere il controllo della nuova impresa repubblicana s’erano preoccupati di elaborare un meccanismo che ponesse gravi restrizioni alla volontà maggioritaria”. Ivi, pp. XXXVI-XXXVII.
(19) Cfr. David E. Marion, Alexander Hamilton and Woodrow Wilson on the Spirit and Form of a Responsible Republican Government, cit., pp. 309-328.
(20) Cfr. Sidney A. Pearson, Reinterpreting the Constitution for a New Era: Woodrow Wilson and the Liberal-Progressive Science of Politics, New Brunswick, 2002, p. XXXIX.
(21) Josè L. Orozco, La rivoluzione americana delle “corporations”. Filosofia e politica, a cura di Giuseppe Buttà, Roma, 2005, p. 21.
(22) Cfr. Herbert Croly, The Promise of American Life, New York, 1909. Croly fu uno degli intellettuali più noti del movimento progressista e uno dei maggiori propugnatori di un esecutivo forte quale rimedio alle ingiustizie a allo sfruttamento delle classi sociali più deboli. Nel 1914, insieme con Walter Lippmann e Walter Weyl, due altri noti giornalisti, Croly fondò la rivista The New Republic che divenne ben presto l’organo ufficiale del movimento progressista. Su questi temi cfr. Charles Forcey, The Crossroads of Liberalism. Croly, Weyl, Lippmann and the Progressive Era 1900-1925, New York, 1961, e D.W. Levy, Herbert Croly of the New Republic: The Life and Thought of an American Progressive, Princeton, N.J., 1985.
(23) Herbert Croly, The Promise of American Life, cit., pp. 209-211.
(24) Ivi, p. 214.
(25) Sul progressismo di Wilson e più in generale sul suo pensiero politico cfr. Arthur S. Link, Woodrow Wilson and the Progressive Era, 1910-1917, New York, 1954, John M. Blum, Woodrow Wilson and the Politics of Morality, Boston, 1956, Earl Latham, eds., The Philosophy and Policies of Woodrow Wilson, Chicago, 1958, e Niels A. Thorsen, The Political Thought of Woodrow Wilson, 1875-1910, Princeton, 1988. Sulla figura di Brandeis vedi Alpheus T. Mason, Brandeis. A Free Man’s Life, New York, 1946.
(26) Giovanni Dessì, Walter Lippmann. Informazione/Consenso/Democrazia, Roma, 2004, pp. 32-33.
(27) Woodrow Wilson, The Banker and the Nation, “Discorso alla Convenzione Annuale dell’Associazione Americana dei Banchieri”, Denver, 1908.
(28) Cfr. David Steigerwald, The Synthetic Politcs of Woodrow Wilson, “Journal of History of Ideas”, vol. 50, 1989, pp. 465-484.
(29) Cfr. Herbert Croly, Progressive Democracy, New York, 1914, p. 384.
(30) Walter E. Weyl, The New Democracy, New York, 1912, p. 3.
(31) Eric Foner, Storia della libertà americana, Roma, 2000, p. 193.
(32) Cfr. Arthur S. Link e Richard L. McCormick, Progressivism, Arlington Heights, Ill., 1983, e Lewis L. Gould, Reform and Regulation: American Politics from Roosevelt to Wilson, New York, 1986.
(33) Eric Foner, Storia della libertà americana, cit., pp. 193-94.
(34) Cfr. H. V. Faulkner, Politics, Reform and Expansion, 1890-1900, New York, 1959.
(35) Ottavio Barié, a cura di, Il pensiero politico nell’età di Wilson, Bologna, 1961, p. 9.
(36) Cfr. Massimo Teodori, Raccontare l’America. Due secoli di orgogli e pregiudizi, Milano, 2005, pp. 12-15.
(37) Cfr. Frederick J. Turner, La frontiera nella storia americana, Bologna, 1967.
(38) Giuseppe Mammarella, L’eccezione americana. La politica estera statunitense dall’Indipendenza alla guerra in Iraq, cit., p. 86.
(39) Su queste tematiche vedi l’introduzione al vol. III di Vernon L. Parrington, Storia della cultura americana. L’avvento del realismo critico 1860-1920, vol. III, cit.
(40) Nelle stesse elezioni si ripresentò per la terza volta anche il candidato del partito socialista Eugene Debs. Occorre sempre distinguere fra il progressismo quale movimento culturale e politico di stampo riformatore, animato dai maggiori intellettuali americani del primo ventennio del Novecento, e il partito progressista che, nel 1912, fu sostanzialmente una creazione di Roosevelt e dei suoi seguaci repubblicani.
(41) Per una comparazione fra queste due spiccate personalità di inizio ventesimo secolo e per la loro importanza nella storia degli Stati Uniti cfr. John M. Cooper, The Warrior and the Priest: Woodrow Wilson and Theodore Roosevelt, Cambridge, Mass., 1983. Sulla figura di Roosevelt cfr. John M. Blum, The Republican Roosevelt, 1954, George E. Mowry, The Era of Theodore Roosevelt and the Birth of Modern America, 1900-1912, New York, 1962, William H. Harbaugh, The Life and Times of Theodore Roosevelt, 1975, e Lewis L. Gould, The Presidency of Theodore Roosevelt, Lawrence, 1991.
(42) Herbert Croly, The Promise of American Life, cit..
(43) Richard Hofstadter, Theodore Roosevelt: il conservatore progressista, in La tradizione politica americana, cit., p. 228.
(44) Woodrow Wilson, The New Freedom: A Call for the Emancipation of the Generous Energies of a People, New York, 1913, ed. italiana, La nuova libertà. Invito di liberazione alle generose forze di un popolo, Milano, 1914
(45) Sul ruolo economico, sociale e politico dei grandi monopoli e sul loro rapporto con la democrazia liberale americana fra fine Ottocento e inizio Novecento cfr. Josè L. Orozco, La rivoluzione americana delle “corporations”. Filosofia e politica, cit.
(46) Cfr. Woodrow Wilson, La nuova libertà, cit., pp. 9-10.
(47) Per ciò che concerne le linee di politica economica hamiltoniana vedi il cap. II, La minaccia monarchica, del mio L’illusione repubblicana. John Taylor of Caroline, Milano, 2002, pp. 33-62.
(48) Woodrow Wilson, La nuova libertà, cit., p. 45.
(49) Walter Lippmann, Drift and Mastery. An Attempt to Diagnose the Current Unrest, Englewood Cliff, N.J., 1961, pp. 82-83. Nell’ultima parte del primo mandato di Wilson, Lippmann cambierà idea sulla politica del Presidente ed elogerà pubblicamente le sue idee liberali e radicali. Quando, poi, Wilson spinse sulla politica delle riforme invocate dai progressisti e decise di nominare Louis Brandeis alla Corte suprema, Lippmann divenne un fervente sostenitore del Presidente. Sulla complessa figura di Lippmann cfr. Giovanni Dessì, Walter Lippmann. Informazione/Consenso/Democrazia, Roma, 2004.
(50) Herbert Croly, Progressive Democracy, New York, 1914, cap. V. in Il pensiero politico nell’età di Wilson, a cura di Ottavio Barié, Bologna, 1961, pp. 94-95.
(51) Cfr. John P. Diggins, Republicanism and Progressivism, “American Quarterly”, vol. 37, 1985, pp. 572-598.