Manzoni e il risorgimento italiano in un recente saggio di Mario d’Addio di Claudia Giurintano – N. 26 Dicembre 2005

Manzoni e il risorgimento italiano in un recente saggio di Mario d’Addio di Claudia Giurintano – N. 26 Dicembre 2005

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In una gremita Aula Magna della Facoltà di Scienze Politiche di Palermo, il 9 dicembre 2005, in occasione della recente pubblicazione del libro di Mario d’Addio, Manzoni politico (Lungro di Cosenza, Marco Editore, 2005, pp.381), Francesco Mercadante, professore emerito dell’Università “La Sapienza” di Roma, alla presenza dell’autore, ha tenuto un seminario sul contributo di Alessandro Manzoni nel Risorgimento italiano, riflessioni suscitate dalla lettura del lavoro di d’Addio, “un libro importante” – ha commentato il relatore – il “primo libro” sul pensiero politico del grande scrittore italiano poiché solo ora l’argomento è stato trattato in modo organico e in un volume così “corposo”.

Il canone della storia del Risorgimento italiano, ha precisato Mercadante, non è fatto di una sola voce ma, da più voci rispetto alle quali Manzoni è un “”dio ignoto” dinanzi a cui si fa un inchino e via”. E nel canone, o nelle diramazioni del canone – che, in senso lato, fornisce lo schema fondamentale, l’elenco degli autori considerati modelli per definire la correttezza di opinioni e azioni – non ci sono giudizi di autorevoli personaggi sui meriti di Manzoni storico.

Il Risorgimento italiano, nel suo momento di grazia – dal gennaio 1848 al maggio 1849 – fu anche opera dei cattolici e del pensiero cattolico. Nel 1843 era apparso Il Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti che fu un successo politico, storico, letterario con pagine dedicate proprio a Manzoni. Ma, neanche Gioberti entra nel canone tanto che quando Giovanni Gentile parla di “profeti” del Risorgimento non ha interesse a enfatizzare il Primato, opera che Pio IX, salito al soglio pontificio nel 1846, aveva già letto facendo “impazzire l’Italia” perché aveva suscitato “la grande illusione”. Il canone si consolida in tutta la storiografia successiva al fallimento dell’idea guelfa; un fallimento che si consuma con l’eccidio di Pellegrino Rossi e nel 1849 con la condanna di Gioacchino Ventura, Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini “impiccati tutti – ricorda, in senso metaforico, Mercadante – allo stesso albero di Pio IX”. E fu questo il dramma dell’idea cattolica.

Il romanzo di Manzoni ebbe il merito di far nascere l’epos romantico della coscienza religiosa e civile. La “coscienza di nazione” grazie a questo strumento letterario si diffonde anche tra la gente comune; gli italiani leggono I Promessi Sposi in una lingua che è la stessa “dalle Alpi al Lilibeo” e la coscienza italiana ritrova la sua identità linguistica. La lucida consapevolezza dell’importanza dell’opera manzoniana, Mercadante la riscontra in Giuseppe Verdi, anche lui creatore dell’epos della coscienza religiosa e civile della nazione, come attestano, ad esempio, la Traviata o il Rigoletto, emblemi del profondo fermento dell’animo italiano. L’identità nazionale si costruì, pertanto, con le musiche di Verdi – che dedica il suo Requiem a Manzoni e non a Cavour – e, certamente, con I Promessi Sposi, opera che, attraverso l’espediente dell’ambientazione seicentesca, raccolse le istanze politiche e linguistiche del XIX secolo.

D’Addio, professore emerito dell’Università “La Sapienza” di Roma, intervenuto al Seminario, ha ricordato come Manzoni – poeta, scrittore, storico, filosofo e teologo – avesse, per l’appunto, un pensiero a trecentosessanta gradi. E se Rosmini, dodici anni più giovane, superò l’amico scrittore – conosciuto nel 1826 tramite Tommaseo – per l’universalità degli interessi di carattere enciclopedico, Manzoni ebbe una cura “ossessiva” per lo stile letterario, scorrevole e limpido rispetto all’esposizione “faticosa” e al periodare complesso spesso riscontrabili negli scritti del roveretano.

Dal 1818 al 1870 Manzoni rappresentò il grande personaggio politico a livello europeo che con la sua autorevolezza garantiva il processo di unificazione italiana; la sua casa divenne il punto di riferimento degli intellettuali europei. Dal canto suo, Rosmini ebbe il merito di inserire il Risorgimento italiano nel Risorgimento europeo, e nel suo progetto confederale di sottrarre alla Santa Sede il diritto di pace e di guerra trasferendoli alla confederazione con sede a Roma.

Grande fu la devozione di Manzoni nei confronti della Chiesa nella quale distinse sempre la materia di fede e di morale dalle posizioni politiche. E con ciò egli dava una risposta a Sismondi che aveva sostenuto che il cattolicesimo rendeva la coscienza dei cattolici schiava dell’autorità sacerdotale. La confutazione dei giudizi di Sismondi non si traducono in un “disconoscimento dell’intera opera che deve invece essere apprezzata per i contributi essenziali ad una nuova prospettiva storiografica che riconosce il ruolo che i popoli e le nazioni hanno nella storia” (p. 76). Manzoni – come si legge nella Morale cattolica – riteneva che solo nell’ambito del cattolicesimo si potesse pervenire alla vera libertà, si potesse “essere liberali”. La morale cattolica, infatti, non presuppone il servilismo quanto “l’obbligo morale di non obbedire alle leggi e ai comandi che impongono azioni contrarie al principio della giustizia” (p. 89). La religione cristiana è in grado di esercitare un’importante influenza sul sentimento di orgoglio nazionale dal momento che la sua morale “ci avverte che l’idea di patria e di nazione, ed il sentimento che vi corrisponde, se considerati nel loro giusto valore, cioè nella loro “verità” […] sono diversi dal nazionalismo che propone la nazione come supremo imperativo etico dell’individuo” (p. 102).

Manzoni è l’unico scrittore a essere stato ricordato in una enciclica, la Divini illius magisteri, nella quale Pio XI ha giudicato l’autore de I Promessi Sposi un “mirabile scrittore quanto profondo e coscienzioso pensatore” e, tale giudizio, precisa d’Addio, “dovrebbe risolvere il problema dell’eventuale incidenza di “venature giansenistiche” nel suo cattolicesimo” (p. 117 nota 23).

Sin dalla premessa al Manzoni politico l’autore avverte come la politica manzoniana abbia i suoi presupposti nelle Osservazioni sulla morale cattolica, nella Lettera a Cousin, nel Discorso storico su alcuni punti della storia longobardica, ne La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative, ne Dell’Indipendenza italiana. Altri giudizi si trovano nelle poesie e drammi Del Trionfo della Libertà, Aprile 1814, Il proclama di Rimini, Marzo 1821, Il conte di Carmagnola e l’ Adelchi, due personaggi, questi ultimi, che con il loro dramma bene interpretavano l’asservimento della nazione italiana.

Tra il 1801 e il 1805 Manzoni manifesta l’interesse per la politica. Nel 1801, ad appena sedici anni, influenzato da Francesco Lomonaco, compone Del Trionfo della libertà nel quale il poeta esalta la Rivoluzione francese e l’amor di patria come sentimento fondamentale della moralità e dignità umana. In tale componimento “non c’è solamente l’esaltazione della libertà e dell’eguaglianza giacobina […] vi si esprime anche l’amarezza e lo sdegno per il fatto che le speranze suscitate dalle vittorie francesi di una reale indipendenza ed autonomia degli italiani […] sono andate deluse” (pp. 12-13). Manzoni, pur ammirando Napoleone, mostra un riserbo nei confronti della sua politica, nei confronti del governo imposto dal generale corso. Del Trionfo della libertà verrà presto giudicato dallo stesso Manzoni come componimento di scarso valore poetico a conferma di una “revisione dei suoi primi entusiasmi politici” (p. 13). La delusione lo conduce a riflettere meglio sui problemi italiani grazie alla frequentazione di Vincenzo Cuoco che egli considererà il suo “primo maestro di politica”. Con Cuoco Manzoni comprende che “la libertà era strettamente connessa con l’indipendenza e soprattutto con l’unità politica dell’Italia”, unità che si traduceva nel “mettere fuori gli stranieri”.

Dal 1805 al 1808, Manzoni raggiunge la madre, Giulia Beccaria, a Parigi entrando in contatto con i rappresentanti della cultura francese che si riunivano nel salotto di Madame Cordorcet e del suo convivente, il linguista Fauriel, con il quale Manzoni instaura una profonda amicizia e, secondo d’Addio, dal quale è probabile abbia appreso i più importanti episodi sulla Rivoluzione francese influendo, anche, nell’indirizzo spiritualistico e storicistico della sua cultura. Grazie a Fauriel apprende l’opera di Germaine de Staël, De la littérature, e Il genio del cristianesimo di François-René de Chateaubriand.

Dopo il matrimonio con Enrichetta Blondel, il 6 febbraio 1808, Manzoni conosce l’abate giansenista Eustachio Degola. Molto si è detto sul giansenismo manzoniano ma, l’autore osserva che “dopo circa un secolo di studi l’opinione di gran lunga prevalente è che nel cattolicesimo manzoniano non sussiste, dal punto di vista teologico-dogmatico, alcun principio o posizione eterodossa” (pp. 23-24). Tra il 1828 e il 1860 Manzoni guarda agli avvenimenti politici francesi pensando che essi possano influire sulla situazione italiana. Il 1848 riaccende in lui la speranza dell’indipendenza italiana. E il medesimo interesse lo ripone nei confronti di Pio IX, la cui vicenda politica avrebbe avuto dei riflessi sul conflitto con l’Austria e sull’indipendenza italiana.

È il periodo in cui si dibatte tra soluzione unitaria e soluzione confederale. Di quest’ultima se ne fa convinto assertore l’amico Rosmini, ma, Manzoni giudicherà l’idea del sacerdote roveretano la “brutta utopia” da contrapporre alla “bella utopia” dell’unità politica della penisola. Lo Stato rappresenta, a suo avviso, “l’unità politica sussistente di popolazione e territorio” capace di esprimere “la forza che promana dalla sua organizzazione e che si manifesta essenzialmente nella forza militare e nell’esercito” (p. 355). Sotto questo punto di vista, lo Stato piemontese, rispetto agli altri, trova la sua legittimazione nella “dignità” e può contare sulla “stima e fiducia reciproca del Re e del paese” (p. 359).

Le aspirazioni verso un’Italia unita, libera e indipendente, con una costituzione garante delle libertà civili e politiche, collocano Manzoni nel filone del liberalismo. Fu lo stesso Conte di Cavour, in un discorso nell’aprile del 1861, ad annoverare lo scrittore italiano tra i liberali, affermando che in Italia il partito liberale era il più cattolico d’Europa. Ancora più espliciti furono Francesco De Sanctis – che definì Manzoni “il capo della scuola liberale” (p. 42) – e Benedetto Croce che lo riconobbe “il capo della scuola cattolico-liberale” intendendo con cattolicesimo liberale “l’orientamento politico dei cattolici che avevano fatto proprio il programma di unità e di indipendenza del risorgimento italiano sulla base di una mera “recezione” dei principi politici del liberalismo” (p. 47). L’espressione, precisa d’Addio, manca negli scritti di Manzoni che “si dichiarò liberale senza ulteriori qualificazioni” (p. 48); un liberalismo di ispirazione cattolica certamente diverso da quello di Madame de Staël, di Guizot, di Constant e diverso dallo stesso Felicité Robert de Lamennais “perché non coinvolge nell’impegno politico la religione” (p. 51). La premessa della politica manzoniana è nella morale che deve fissare i limiti di quell’”attività finalizzata al governo della società, a coordinare, indirizzare, disciplinare l’attività dei consociati e a garantire la loro tranquillità e sicurezza” (p. 71).

Tra il 1828-1829 Manzoni approfondisce l’eclettismo di Cousin attraverso cui affronta il tema “del nesso fra la verità e le verità particolari” (p. 129). Nella seconda edizione della Morale cattolica, del 1855, lo scrittore italiano riconsidera in modo organico il problema dei rapporti tra giustizia e utilità. Non distinguere l’utilità dalla giustizia significa, riprendendo la riflessione rosminiana, legittimare il dispotismo della maggioranza sulla minoranza, sconoscere i diritti e gli interessi “senza che, paradossalmente, ne risulti offesa la morale” (p. 139). L’utile, pertanto, non può essere considerato il fondamento della giustizia e del diritto, né della politica. Ridurre la politica all’utile era stato il “triste privilegio” di Machiavelli del quale Manzoni apprezza, comunque, le qualità di storico, di studioso di fatti politici, degli ideali repubblicani de I Discorsi. Ambientando I Promessi Sposi nel Seicento, Manzoni non può non considerare le riflessioni del Segretario fiorentino ritenuto il “padre” della ragion di Stato. Nell’edizione Fermo e Lucia, don Ferrante pone una distinzione tra la “politica positiva” di Giovanni Botero e la “politica speculativa” di Machiavelli (p. 150). Nella successiva versione del romanzo la biblioteca di don Ferrante si arricchisce di ben duecento volumi tra i quali Bodin, Cavalcanti, Boccalini, Paruta anche se le sue preferenze sono riposte in Machiavelli e in Botero. Il rapporto di Manzoni con Machiavelli, osserva d’Addio, è “complesso, dato che il rifiuto dell’assolutizzazione del potere e del principio che il fine politico giustifica la violazione di ogni norma etica e religiosa è deciso e senza riserve, mentre il giudizio sulla sua opera come “politica speculativa” e la considerazione che ci troviamo dinanzi ad un autore “profondo” esprimono la convinzione che grazie a quell’opera la politica scopre la dinamica della “verità effettuale”” (p. 151). Tra i consigli “avveduti” del Segretario fiorentino, Manzoni ricorda la critica alle milizie mercenarie, l’esaltazione delle virtù civiche, l’esortazione a Lorenzo dei Medici a unificare l’Italia. Il conte di Carmagnola, ad esempio, rappresenta l’emblema del “dramma del potere, lo scontro fra quanto di nobile, di giusto il condottiero intendeva affermare con la sua generosa condotta dei vinti e la “ragion di Stato” del Senato veneziano” (p. 159). Stessa cosa, precisa d’Addio, può dirsi dell’Adelchi come “tragedia del potere”, nella quale i protagonisti “sperimentano sino in fondo quanto siano illusorie la sicurezza, la fedeltà, il prestigio, gli onori che il potere sembrava garantire loro” (p. 160).

L’intimo rapporto, la reciproca integrazione esistente tra storia e politica è il criterio conduttore degli scritti Discorso su alcuni punti della storia longobardica e La Rivoluzione francese del 1789. Nel Discorso, Manzoni sostiene che la storia dei rapporti tra i Longobardi e gli italiani sia “il presupposto per intendere la genesi storica delle prime entità politiche italiane, in cui si espressero comuni istituzioni e forme di garanzia giuridica cui parteciparono i detentori del potere e coloro che ne erano soggetti” (p. 168). Il potere ha la funzione di limitare le superiorità “di fatto o naturali” e trova la sua legittimazione nella superiorità del diritto che, secondo Manzoni, riproporrebbe il principio paolino Omnis potestas a Deo. Il cristianesimo, pertanto, diventa il presupposto “per cui la superiorità di diritto acquista nel corso della storia europea, medievale e moderna, un significato forte” e lo Stato costituzionale di diritto è il “risultato di quel processo storico di continuo perfezionamento della società e della sua organizzazione politica promosso e sostenuto dal Cristianesimo” (p. 176). Tanto più la politica si avvicina alla morale tanto più la partecipazione degli individui alla vita politica si allarga. Manzoni, infatti, finisce per giustificare il “sistema della maggioranza” la quale è “entità giuridica” che esiste grazie alle leggi e all’interno delle quali si svolge la dinamica maggioranza-minoranza.

Nel saggio La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative, Manzoni, ormai ottantenne, affronta il tema della Rivoluzione francese dopo avere dedicato la sua vita al costante studio della storiografia francese sull’argomento. Gli avvenimenti politici italiani tra il 1859 e il 1862 avevano spinto Manzoni ad affrontare una comparazione con la Rivoluzione francese evidenziando le diverse caratteristiche e spiegando perché in Italia gli eventi avevano fatto nascere un governo e delle istituzioni stabili. In molte altre sue opere l’89 era stato oggetto di richiamo poiché la Rivoluzione francese era da “annoverare tra i grandi avvenimenti storici” (p. 191) per avere promosso l’uguaglianza civile e politica anche se i tentativi di riforme costituzionali avevano finito per produrre un assolutismo più oppressivo di quello dell’ Ancien Régime. E il personaggio simbolo, Maximilien Robespierre, testimoniava – come emerge dal dialogo Dell’Invenzione – l’influenza della filosofia sugli avvenimenti rivoluzionari dal momento che, l’artefice del “Terrore”, come aveva osservato Philippe Buchez nella sua monumentale Histoire Parlementaire, era stato il “più coerente interprete della filosofia di Rousseau” (p. 217). In questo scritto, pertanto, la Rivoluzione viene analizzata nella prospettiva filosofico-politica; nel saggio comparativo, invece, la Rivoluzione è un fatto solo politico-ideologico riferito, in particolare, alla instabilità di governo. Qui egli mostra l’interesse di studiare il modo in cui avvenne la “rottura” rivoluzionaria, di comprendere la sua origine ideologica e analizza solo i primi quattro mesi della Rivoluzione, la cui storia – secondo Manzoni – deve considerare “le reali forze politiche, i loro orientamenti e le loro convinzioni, soprattutto la loro “ideologia”, e prestare particolare attenzione alle azioni e ai “soggetti” collettivi, il Terzo Stato, l’Assemblea nazionale, i gruppi, le folle, le moltitudini, le masse, che hanno un ruolo spesso determinante nella Rivoluzione: occorre analizzare la genesi e la diffusione delle attese, delle speranze, dei timori e delle paure che si traducono in azione collettiva di pesante pressione, che condiziona o impone le decisioni degli organi ufficiali” (p. 273). Tale analisi conduce lo scrittore milanese a valutare correttamente il comportamento di Luigi XVI e la sua sincera volontà di portare avanti le riforme. Il suo errore, come quello di Necker, fu quello di “confidare nello spirito di moderazione del Terzo Stato” nella convinzione che questo avrebbe svolto il suo mandato secondo le procedure indicate dal decreto di convocazione degli Stati Generali (p. 280).

La Rivoluzione francese aveva fatto emergere le masse popolari come nuovo soggetto politico e, così come Rosmini, Manzoni era stato attento studioso della “ragion pratica delle masse”, della psicologia delle “folle”. Egli parlava di “falsa coscienza” – che d’Addio fa corrispondere al concetto di ideologia – per definire le convinzioni astratte delle masse, le false idee che non corrispondono alla realtà. E, usando la terminologia rosminiana, poneva anche una distinzione tra gli errori “pratici” delle masse e gli errori “speculativi” degli “acculturati” i quali “conferiscono una “credibile” giustificazione razionale ai convincimenti del popolo e che sono spesso il presupposto dei provvedimenti dell’autorità assunti sotto la pressione popolare” (p. 199). Le “false coscienze” non si manifestano solo in epoche storiche caratterizzate dalla superstizione ma, anche nel mondo moderno, ispirando sia le masse che i colti. All’instabilità di governo prodotta dalla Rivoluzione francese si contrappone la Rivoluzione italiana del 1859 che aveva fatto nascere uno Stato unitario la cui sovranità non si era identificata con il “dominio” o con la sua “potenza” ma si era espressa come “superiorità del diritto, che trova nel principio oggettivo ed universale della giustizia la sua legittimazione” (p. 367).

Con Manzoni politico d’Addio ci presenta un grande pensatore collocato nel filone del liberalismo “giuridico” di ispirazione cristiana, un pensatore fortemente critico delle “false coscienze” e delle ideologie il quale da Machiavelli accoglie il realismo politico convertendolo in moderatismo, quel realismo che lo spinge a rinunziare all’elezione al Parlamento piemontese per il Collegio di Arona, confessando a se stesso di non avere le doti di carattere e di passione richieste dalla politica.

Claudia Giurintano