Giuseppe Tricoli, nel contesto della sua produzione storica, si occupa degli aspetti peculiari che assunse il fascismo in Sicilia prevalentemente in quattro suoi lavori: Bonifica integrale e colonizzazione del latifondo in Sicilia del 1983, Il Fascismo e la lotta contro la mafia del 1988, Alfredo Cucco. Un siciliano per la nuova Italia e Mussolini a Palermo nel 1924 del 1993. Non bisogna dimenticare, inoltre, le considerazioni espresse sull’argomento, nella corposa e pregevole prefazione all’opera di Villasevaglios Palermo felicissima.
In tutti i lavori sopraccitati Tricoli sottolinea la particolare posizione della Sicilia di fronte al neonato movimento fascista, considerato dai ceti dominanti dell’Isola come un fenomeno estraneo, geograficamente e politicamente, sbarcato al di qua del Faro per sconvolgere gli equilibri socio-economici esistenti. Tali equilibri, fondati su un’economia agraria, arcaica, latifondista, gestita con metodi parassitari dai ceti aristocratici e dall’emergente borghesia rurale costituita dalla categoria dei gabelloti, contadini arricchitisi alle spalle sia dei proprietari che dei braccianti, fortemente legati alla mafia delle campagne, erano fatalmente subiti dai ceti più deboli incapaci di sollevarsi contro le ingiustizie del potere costituito, e gestiti con soddisfazione dai ceti che su di essi fondavano il loro benessere. L’aristocrazia fondiaria, sempre assenteista e passiva, si accontentava del poco che ricavava dalle gabelle che peraltro, le consentivano di abbandonare le campagne per godersi il lusso della vita cittadina; i gabelloti avevano costruito sull’immobilismo dei ceti dominanti e dell’economia e sulla loro attività d’intermediazione basata sui ricatti, sulla prevaricazione e sullo sfruttamento, le loro inaspettate fortune.
Peraltro, in Sicilia, nell’immediato dopoguerra, era mancata l’esperienza squadrista per due motivi essenziali: in primo luogo nell’Isola non si era prospettata la minaccia bolscevica con la stessa virulenza con cui si era affacciata nel triangolo industriale della pianura italiana. Su un proletariato costituito quasi nella sua totalità da contadini, il modello collettivista sovietico faceva ben poca presa, sia perché l’ignoranza dell’ambiente rendeva difficile che venisse percepito, sia perché la tradizionale tendenza al possesso del ceto contadino e il suo atavico conservatorismo, mal si adattavano ai principi collettivistici.
In secondo luogo, così come era accaduto per tutti i grandi movimenti culturali del passato, il dibattito politico-culturale post-bellico, non era riuscito a penetrare nella particolare realtà siciliana, dominata da un immobilismo difeso ad oltranza dai ceti dominanti che, all’arrivo di mode culturali estranee, rispondevano trincerandosi nell’involucro ormai anacronistico del sicilianismo. I ceti dominanti, ma non dirigenti, perché dediti ad esercitare il loro dominio sulla società, sulla politica e sull’economia, con l’unico scopo di mantenere i privilegi secolari, guardandosi bene dall’agire per lo sviluppo dell’intera collettività, erano costituiti dall’aristocrazia parassitaria del latifondo e dalla mafia che alla prima assicurava protezione, assicurandosi in cambio fette di potere politico ed economico sempre più grandi, a discapito dei reali interessi dell’Isola. La classe dominante avrebbe dovuto puntare su uno sviluppo ed una modernizzazione che invece contrastavano con i programmi di chi sull’immobilismo aveva difeso posizioni immeritate o dall’immobilismo aveva ricavato vantaggi inaspettati.
Ricordiamoci a tal proposito che, nel 1799 i ceti dominanti siciliani, alleandosi con il Borbone detronizzato e con gli inglesi, avevano messo a disposizione la loro Isola affinché divenisse una vera e propria roccaforte contro la penetrazione napoleonica. I baroni erano diventati, allora, determinanti per il mantenimento dell’equilibrio militare nel mediterraneo, ma avevano altresì evitato che la Sicilia si aprisse, come era avvenuto per il resto dell’Europa, al vento di rinnovamento che la Rivoluzione francese aveva suscitato e che le baionette dei soldati napoleonici avevano diffuso. Ciò aveva permesso all’aristocrazia locale di mantenere l’assetto sociale ad essa confacente, favorendo ulteriormente quel “sequestro” della cultura siciliana, da secoli in atto, del quale Giovanni Gentile, già nel 1917, invocava la fine. Infatti la sua tesi su Il Tramonto della cultura siciliana deve intendersi come fine dell’isolamento e confluenza della ricchissima cultura regionale nel grande crogiolo della cultura nazionale italiana.
Un movimento che si diceva rivoluzionario non poteva piacere, quindi, a quei ceti dominanti che lo respingevano, dichiarandolo non solo estraneo alla cultura siciliana, ma non rispondente alle esigenze della popolazione. Il fascismo – sostenevano – era sorto nell’Italia settentrionale come reazione alle minacce bolsceviche, ma in Sicilia il bolscevismo non esisteva, quindi non era necessario importare un movimento che si presentava come restauratore d’equilibri che nell’Isola non erano stati mai minacciati. La classe dominante siciliana era riuscita da sola ad arginare tale pericolo nel critico biennio che era seguito alla fine della guerra, dimostrava, perciò, di non aver bisogno di un movimento politico estraneo alla cultura e alla mentalità siciliana, di cui non comprendeva l’essenza, tant’è che come primo provvedimento il nuovo questore di Palermo aveva ordinato il ritiro del permesso d’armi che colpiva, sì la componente mafiosa e delinquenziale in genere della società siciliana, ma anche l’aristocrazia terriera che, fino a quel momento, aveva provveduto alla difesa personale e dei suoi averi servendosi di guardie armate, quasi sempre reclutate negli ambienti della mala, a cui , grazie al suo prestigio, aveva sempre fatto rilasciare, dalle autorità competenti, il porto d’armi.
Il sicilianismo veniva ancora una volta usato, come era accaduto al tempo dei Vespri, al tempo del Caracciolo, al tempo dei provvedimenti eccezionali voluti dalla Destra storica, al tempo del delitto Notarbartolo e dell’incriminazione del ministro trapanese Nasi, e in tante altre occasioni, come arma contro la modernizzazione e il cambiamento.
Per contrapporsi alla posizione di arroccamento assunta contro il fascismo dai vecchi ceti dominanti, Gentile cercava di far comprendere, soprattutto ai giovani, che il fascismo, al di là della sua riduttiva funzione antibolscevica, era un movimento provvisto di un ampio respiro politico e culturale e di un convinto spirito rinnovatore che sarebbe riuscito finalmente a spazzare ” le tarlate carcasse che ingombrano ancora i circoli e le piazze”(1)#. Rilevava in tal modo la forza rivoluzionaria insita nel nuovo movimento sommamente idonea a ripudiare il passatismo provinciale per preparare una società nuova, fatta da uomini nuovi. Era un movimento cioè, che non voleva limitarsi a mutare gli equilibri istituzionali e politici, ma mirava a rieducare le coscienze. I martiri che il fascismo vantava anche in Sicilia, martiri uccisi dai rossi, come Gattuso e Schirò, o da quella mafia lungimirante che aveva in anteprima compreso il pericolo insito nel nuovo movimento, come Mariano De Caro e Domenico Perticone, indicavano ai giovani, che volevano uscire dall’asfissiante immobilismo, la strada da seguire(2)#.#
Mussolini aveva perfettamente compreso che in Sicilia il movimento fascista non si sarebbe imposto con la stessa facilità con cui si era imposto al nord, né avrebbe suscitato analoghi entusiasmi, perciò la sua visita alla regione, annunziata fin dall’indomani della presa del potere, venne rinviata di mese in mese fino alla primavera del 1924, all’indomani delle elezioni generali disciplinate dalla nuova legge Acerbo, che conferiva un premio di maggioranza, pari ai due terzi dei seggi parlamentari al partito o allo schieramento che avesse raggiunto il 25% dei suffragi. La legge si rivelò poi superflua per rafforzare il nascente movimento fascista, poiché le liste ad esso collegate superarono in media il 66% dei suffragi, attestandosi in Sicilia intorno al 70%. Tutto ciò appare come incongruente rispetto a quello che prima si è affermato. Come può un movimento visto come estraneo e non necessario ai bisogni della popolazione ottenere da quella stessa popolazione una percentuale di voti, che oggi chiameremmo “bulgara” addirittura superiore alla media nazionale?
Tutto ciò si spiega facilmente se consideriamo che del listone fascista facevano parte anche i rappresentanti del vecchio partito liberale che in Sicilia gravitava intorno a Vittorio Emanuele Orlando, a cui era stato conferito l’ambito ruolo di capolista e che l’intreccio politico- mafioso isolano, da sempre determinante sui risultati elettorali, era portato ad assecondare le novità vincenti cercando, tuttavia, di assoggettarle alle sue esigenze conservatrici. In altre parole, coloro che votarono per il nascente fascismo, in gran parte lo fecero senza rendersi conto di ciò che facevano, ovvero pensando a scopi che non avrebbero mai ottenuto. Infatti, i ceti dominanti e le loro clientele, si sentirono rassicurati dalla presenza in lista di Vittorio Emanuele Orlando, la cui candidatura era stata voluta dai vertici del PNF, peraltro, non come segnale di continuità con il passato, ma per il retaggio patriottico e combattentistico legato al nome di colui che aveva portato l’Italia alla vittoria nel 1918, strappandola al disfattismo che aveva cercato di sommergerla dopo la sconfitta di Caporetto. Infatti, a differenza di Orlando, Lanza di Scalea, Lanza di Trabia e Di Giorgio, figure emblematiche del patriottismo risorgimentale siciliano o del recente interventismo, altri illustri esponenti della classe dominante siciliana, come Aurelio Drago, non furono inseriti nel listone, malgrado le loro richieste, perché espressione di clientele equivoche e di un passatismo con cui il nuovo partito voleva rompere ogni legame. Chi pensava, dunque, di servirsi del movimento fascista in modo gattopardesco, cioè per lasciare tutto immutato, pur fingendo di adeguarsi alle novità politiche del momento, aveva fatto male i conti. I ceti dominanti siciliani non si rendevano conto di trovarsi, per la prima volta nella storia, di fronte ad un movimento rivoluzionario che, rinnovando in primo luogo le coscienze, mirava, attraverso le stesse, a rinnovare dalle basi la situazione politica esistente. Un movimento che non voleva un seguito di pecoroni e di opportunisti, ma il sostegno di uomini convinti di voler cambiare sé stessi e la realtà circostante tramite l’accettazione di quella rivoluzione ideale di cui il fascismo si faceva portatore.
In verità, nella Sicilia orientale si era registrata una maggiore sensibilità fra i giovani e fra il ceto accademico ed intellettuale, in genere, a recepire i fermenti innovatori, già diffusi dal futurismo e dal nazionalismo, e più fortemente elaborati dal nascente fascismo. Nella provincia di Siracusa, si era affermato un certo fascismo rurale che, ad imitazione di quello che era accaduto in Val Padana, aveva dato luogo ad alcune manifestazioni squadriste. In quella zona e nel ragusano, dove si registrava un notevole sviluppo nella produzione agricola, i piccoli e medi imprenditori agrari si erano scontrati contro i tentativi delle squadre socialiste di occupare le loro terre, peraltro all’avanguardia per le tecniche di coltivazione e di produzione, nell’intera Isola.
A Catania, inoltre, si erano formati dei gruppi di giovani attratti dal nazional-fascismo attorno ad alcuni docenti dell’ateneo locale come Cimbali, i fratelli Condorelli, Zingali, o attorno a giornalisti come Iannelli e Nicastro o nei circoli dominati da giovani intellettuali come Brancati, Anfuso, Villarolel che, su giornaletti più o meno effimeri, cercavano di penetrare al di là del conformismo culturale di derivazione giolittiana e di sconfiggere il torpore della provincia siciliana. Tale clima aveva favorito la nascita in queste province dei primi Fasci, anche se in ritardo di parecchi mesi, rispetto al nord della Penisola. Il movimento fascista catanese inizia la sua attività solo nel marzo 1920, nel giugno successivo nasce il Fascio di combattimento di Ragusa, mentre a novembre dello stesso anno è riferibile la nascita dei fasci nelle altre province dell’Isola(3).#
Nella Sicilia occidentale, regno indiscusso del latifondo e della mafia, la penetrazione delle nuove mode fu più difficoltosa e trovò accoglienza nei circoli intellettuali che facevano capo ad accademici come Francesco Ercole e Alfredo Cucco, peraltro direttore del periodico “La Fiamma Nazionale” che, dopo la fusione tra i Fasci di combattimento e l’Associazione nazionale Italiana, diventerà semplicemente “La Fiamma”. A Palermo i tentativi di alcuni giovani attratti dal futurismo e dal dannunzianesimo di costituire un movimento simile a quello milanese di Piazza San Sepolcro, erano miseramente falliti(4)#. La sezione del Partito fascista ivi costituitasi nel novembre del 1921, l’anno dopo contava solo poco più di mille iscritti costituiti, in maggioranza, da studenti, reduci, giovani ufficiali, la cui ansia di rinnovamento in un ambiente intorpidito come quello palermitano aveva poche opportunità di affermarsi. Nel luglio del 1923 si contavano nell’Isola 344 Fasci con 23.031 iscritti(5)#.#
La contrapposizione tra nazionalisti e fascisti aveva consentito il permanere al potere delle vecchie forze clientelari e mafiose.
Nell’aprile del 1923 in seguito all’unificazione tra il partito fascista e il movimento nazionalista, che in Sicilia godeva di maggiore credibilità rispetto al movimento mussoliniano, probabilmente perché il programma troppo radicale di quest’ultimo appariva minaccioso, o perché si trattava pur sempre di un movimento tanto aristocratico ed elitario, quanto rozzo e plebeo era l’altro, si crea, finalmente, un corposo fronte politico capace di rendere credibile l’alternativa rappresentata dal nuovo movimento(6)#.#
Il ritardo della visita di Mussolini in Sicilia si spiega, perciò, sia con l’esigenza di avere un consenso personale che i risultati elettorali sembravano assicurare, sia, soprattutto, con la necessità di preparare i quadri locali del Partito in modo adeguato per evitare che la presenza del Capo del Governo potesse essere strumentalizzata dai vecchi partiti che avevano detenuto il potere, o peggio, essere negativamente condizionata da indesiderati appoggi mafiosi; a tal proposito, i giornali fascisti come “La Fiamma” di Palermo, la “Giovane Sicilia” di Catania, “Il Fascio di Siracusa” e “Il Fascio di Comiso”, vigilavano affinché si dedicasse ogni attenzione ad isolare la mafia.
I dubbi del duce e dei suoi più vicini consiglieri erano più che giustificati visto che in Sicilia le manovre trasformistiche erano cominciate già all’indomani della formazione del governo Mussolini. Personaggi che avevano sprezzantemente irriso al nascente movimento, come, per esempio, il succitato Aurelio Drago, erano ormai pronti a salire sul carro del vincitore per mantenere posizioni consolidate e privilegi immeritati, mentre la mafia già allungava i suoi tentacoli per infiltrarsi all’interno del nuovo partito e per svuotarlo della sua carica rivoluzionaria.
Per combattere quella che Storace aveva definito “l’opacità” del fascismo siciliano, malgrado nel primo governo Mussolini fossero presenti ben quattro ministri siciliani (Carnazza, Colonna di Cesarò, Gentile e Corbino), si agì immediatamente con l’invio in Sicilia dei più efficienti funzionari governativi, sostituendo sei dei sette prefetti siciliani(7)##; per evitare, poi, che il giovane movimento cadesse nelle mani di “vecchie camarille” e per formare dei quadri dirigenti locali d’alto livello, nel vertice dei prefetti e dei federali siciliani convocato a Siracusa, nel novembre del 1923, si decise una rigorosa epurazione del partito da ogni infiltrazione moralmente condannabile, inviando in loco il più ardito dei fascisti antemarcia, Piero Bolzon, con l’incarico di Commissario straordinario per la Sicilia. Si può considerare tutto ciò come una vera e propria “questione morale” ante litteram.
Lo scopo era quello di puntare su un reclutamento proveniente non dai vecchi partiti o dagli ambienti mafiosi, bensì dalle aree vergini fino a quel momento estranee alla politica, quindi la piccola borghesia impiegatizia e artigianale, il mondo imprenditoriale fino a quel momento vicino a settori demosociali, il proletariato, sia cittadino che rurale. In tale direzione si muove il processo di sindacalizzazione delle masse piccolo-borghesi siciliane, deciso personalmente da Edmondo Rossoni(8).# Per attirare i suddetti ceti si scelsero delle politiche particolarmente ad essi gradite come per esempio la battaglia contro l’aumento del prezzo del pane e dell’energia elettrica, oltre al provvedimento sulla liberalizzazione degli affitti che favoriva, invero, solo la classe borghese medio-alta.
I vecchi gruppi egemoni locali si resero ben presto conto che il rinnovamento non era semplicemente una parola lanciata a scopo propagandistico, ma era qualcosa di serio di cui il nuovo regime dava già i primi segni, sia con l’avvicendarsi dei funzionari governativi, sia con la proposizione di una questione morale, che sembrava non avere nessuna intenzione di rimanere una sterile e innocua promessa.
A Palermo i giornali portavoce dell’immobilismo politico sociale, come Il “Giornale di Sicilia” e, anche se in toni minori, “L’Ora”, assunsero una posizione di vigile attesa di fronte ai programmi di rinnovamento che mostravano una concretezza che intimoriva gli intorpiditi ambienti politici liberal-orlandiani. In altre parti dell’Isola, come a Messina, il vecchio establishment promosse dei veri e propri movimenti di contestazione al nascente fascismo, come nel caso del movimento del “soldino” che, promosso dal parlamentare messinese Lombardo Pellegrino, docente universitario epurato dal prefetto Frigerio, si estese alle altre province dell’Isola, prendendo a simbolo della protesta antifascista, una moneta con l’effige di Vittorio Emanuele III. Secondo il giornale fascista “La Fiamma”, si sarebbe trattato di un movimento manovrato dalla massoneria, da sempre invisa al fascismo. Anche i partiti politici esistenti, come la Democrazia Sociale, il Partito Popolare e il socialriformisti, pur se sostenitori del governo Mussolini e in esso presenti con propri rappresentanti, si mobilitarono per fermare il movimento fascista o meglio per spogliarlo della sua carica innovatrice e rivoluzionaria.
Palermo era il capoluogo di provincia siciliano dove il movimento fascista stentava particolarmente ad imporsi; probabilmente per la presenza della parte più consistente dell’aristocrazia latifondista gravitante intorno a Vittorio Emanuele Orlando e al vecchio ambiente liberale e per l’attività di quel nascente ceto imprenditoriale, facente capo ai vari Tagliavia e Florio, che si era fino a quel momento appoggiato alla Democrazia sociale del duca Di Cesarò, ceto che sarebbe stato conquistato dal fascismo sulla base della “[…] comune prospettiva di una politica mediterranea, finalmente attiva e vitale, che era nell’ascendenza della tradizione storica siciliana, animava le speranze dei ceti più intraprendenti dell’economia isolana, gonfiava le vele programmatiche della politica del nuovo governo fascista”(9)#.
La conquista dei ceti imprenditoriali sarebbe avvenuta lentamente, man mano che il fascismo dimostrava di concretizzare i suoi progetti su Palermo capitale del mediterraneo e ponte tra nord e sud, tra est ed ovest. Allora sarebbero stati conquistati al fascismo economisti di punta come Frisella-Vella, imprenditori come Bonci che, nel progettare il nuovo piano regolatore della Grande Palermo, avrebbe puntato tutto sul nuovo bacino portuale che si sarebbe steso fino Capo Mongerbino.
All’inizio, tuttavia, sia la borghesia intellettuale palermitana che i ceti imprenditoriali, guardarono con una certa diffidenza al nuovo fenomeno che sembrava peccare d’insensibilità verso la cultura secolare siciliana, mostrando una volontà di omologare tutto nell’alveo della grande cultura nazionale. A conferma di tutto ciò è il fatto che i voti riportati dal listone fascista nel territorio della provincia palermitana, nelle elezioni del 1924, furono di gran lunga inferiori a quelli ottenuti nelle altre province.
Le cose cambiano soprattutto quando alla testa del nuovo soggetto politico derivato dalla fusione del 1923, si pone un giovane e coraggioso oculista di Castelbuono, il futuro federale Alfredo Cucco, già leader del movimento nazionalista locale.
Espressione di quella borghesia intellettuale che in Sicilia, come nel resto del Paese, vuole approfittare dello sconvolgimento degli assetti sociali preesistenti alla guerra per emergere e rendersi protagonista del rinnovamento della Nazione che il fascismo promuove, Cucco riversò una particolare attenzione alla questione morale, secondo gli ordini impartiti dal Gran Consiglio del fascismo e a tal proposito procedette immediatamente allo scioglimento delle sezioni del PNF di Parco, Cefalù, Cerda e Marineo e poi, in un secondo tempo, di Termini Imerese, Arenella, Caccamo, Roccapalumba e Monreale, cacciando tutti gli iscritti non in regola con il certificato penale o dal passato politico compromettente. Il subdolo insinuarsi della vecchia mafia conservatrice in un movimento che voleva essere rivoluzionario e moralmente innovatore, preoccupava il giovane federale di Palermo che, a proposito di quell’organizzazione delinquenziale tipicamente siciliana, affermava: “[…] Questa piovra immane e molteplice dai tentacoli profondi ed implacabili, ma tenaci ed adunchi, che assieme al vecchio deputato complice e cointeressato tenta di insinuarsi nel campo fascista e sotto la maschera tricolore littoria rifarsi la verginità o l’impunità o una nuova possibilità di vita. È tutto il putridume del passato che tenta la via della propria conservazione ammantandosi delle spoglie fasciste e con turpe, istrionesco mimetismo, improvvisandosi propagatore del verbo nuovo. È contro tutta questa robaccia che il Fascismo e il Nazionalismo, oggi unica forza politica e spirituale, devono combattere e cioè contro tutto ciò che ha corrotto, intristito, intossicato l’Isola nostra, cioè contro la parte fino ad oggi preponderante dell’oscura politica nostrana […]”.#(10)
Per rendere ancora più chiara la componente antimafiosa insita nel programma del partito, al vertice fascista siciliano di Siracusa, si era data piena precedenza alla guerra senza quartiere alla mafia, eliminando la quale si sarebbe ottenuto il rafforzamento del fascismo e della presenza dello Stato in Sicilia e quindi si sarebbe potuto passare al programma di rigenerazione delle popolazioni sicule.
La battaglia di Cucco era condotta principalmente contro le infiltrazioni mafiose, ma non solo; egli si batteva anche contro il trasformismo e il gattopardismo dei vecchi partiti e della vecchia classe dominante, badando, inoltre, a tenere a freno anche l’intransigentismo che emergeva all’interno del giovane partito: “In Sicilia – scriveva – questa miniera inesauribile di deputati ascari e di politicanti meschini, in questa plaga, naturalmente generosa e socialmente arretrata, inaridita da tutte le incrostazioni parassitarie di un costume politico obsoleto, piagata da turpi fazioni e afflitta ed avvilita dalle opache “sciarre” municipali, sterile d’ideali e insanabilmente impeciata di vieti personalismi, il Fascismo ha oggi il suo alto compito di rigenerazione. […] Ricordo ancora che è necessario il più rigoroso controllo perché le nostre fila non siano mai inficiate da elementi indegni. L’indirizzo del Fascio deve essere ispirato alla più assoluta intransigenza morale. Saranno prese misure disciplinari per quei segretari politici che avranno trascurato comunque l’opera vigile e spietata d’epurazione e che non si riveleranno capaci di mantenere i gregari moralmente e politicamente in perfetta efficienza”#(11).
Cucco avrebbe pagato amaramente questo suo empito risanatore, coalizzando contro se stesso una serie di forze sociali diverse che non erano tuttavia, se non le componenti del vecchio ceto dominante, desiderose, sbarazzandosi dell’incauto federale, di ripristinare gli equilibri violati. “I vecchi potentati palermitani – ammantati di albagia e di un privilegio di investitura della rappresentanza politica – non potevano tollerare di essere battuti ed emarginati da un radical-borghese di provincia che, interpretando localmente l’ansia dei tempi nuovi del fascismo, poneva la cultura, la professionalità, la competenza, il lavoro, nella nuova gerarchia dei valori politici e sociali!”(12). La vendetta non tardò a manifestarsi da parte di quel vecchio mondo che lottava contro il rinnovamento e la prova ci viene data da in commento di Tina Withaker: “Cucco […] ha mirato troppo in alto ed è stato ridimensionato”(13)#. Apparendo chiaro che Mussolini avrebbe comunque premesso lo Stato al partito, fu organizzata dai potentati locali una vera congiura che mise l’uno di fronte all’altro il federale Cucco e il prefetto Mori. Il regime protesse Mori abbandonando Cucco ad una persecuzione giudiziaria che si sarebbe protratta per anni e che così lo stesso federale avrebbe commentato dopo esserne uscito completamente scagionato: “[…] I processi a serie che, in un primo momento, erano stati fomite di diffamazione, anche attraverso la stampa, tutta ufficiosa, ugulata dai persecutori poi, via via che si erano celebrati, erano stati tutti un trionfo per me. Di circa un centinaio di accuse, la più parte, cioè la più inconsistente, erano cadute in strada, lungo l’istruttoria. Quelle che avevano qualche parvenza di attendibilità erano arrivate al pubblico dibattimento, e tutte, ad una ad una, si erano liquefatte, volatilizzate, rivelatesi inesistenti”#(14).
Tuttavia, la persecuzione giudiziaria e quindi l’emarginazione politica di Cucco determinarono gravi conseguenze sulla storia del fascismo siciliano, sia per il ritardo nella formulazione di una politica di rinnovamento in campo economico e sociale, sia in termini di radicazione e di consenso della stessa ideologia fascista all’interno della società siciliana.
I vertici del partito compresero chiaramente, alla maniera gramsciana, che non si sarebbe attuata la conquista politica della Sicilia senza coinvolgere la classe intellettuale, la cosiddetta intellighenzia. Dopo aver sensibilizzato la classe imprenditoriale, la piccola borghesia e il proletariato, penetrando sindacalmente nei Cantieri navali di Palermo, si fece di tutto per coinvolgere la classe intellettuale nei programmi del partito. Si cercò, innanzitutto, di penetrare nell’ambiente universitario, vera fucina di cultura e di mode culturali, ponendo il prof. Ercole a capo del locale Ateneo e affidando al famoso archeologo Biagio Pace la formazione di un’Università fascista di cultura generale a cui avrebbero aderito i più qualificati accademici siciliani. Cucco ebbe un ruolo fondamentale in tale operazione di “reclutamento culturale”; si deve a lui, infatti, il passaggio al gruppo comunale fascista di sommi intellettuali come Salvatore Riccobono, il prof. Baronia-Roberti, l’avv. Noto Sardegna, la captazione di Francesco Ercole e dei docenti universitari Colomba e Natoli nel gruppo dirigente fascista palermitano. La conquista della classe intellettuale siciliana sembrò coronata dal successo dopo la visita di Mussolini in Sicilia, dopo le enunciazioni programmatiche del duce sul futuro di Palermo e dell’Isola, dopo lo stanziamento di una cifra mai conosciuta dalla regione per la costruzione dell’infrastrutture indispensabili per il suo decollo economico (il 44,84 della spesa statale per opere pubbliche) e, soprattutto, dopo i primi successi riportati dall’operazione Mori contro la mafia. In tal modo il fascismo avrebbe conquistato, innanzitutto gli onesti, ma anche i pavidi, le vittime del sistema mafioso, insomma i milioni di siciliani sopraffatti da poche migliaia di delinquenti.
A tal proposito Tricoli riporta un caso emblematico, quello di un avvocato palermitano, uomo di cultura, pubblicista di spicco, storico, che fin dalle prime battute si era schierato contro il nascente movimento: Pietro Villasevaglios. Cominciata la campagna antimafia di Mori, quando si celebrarono i primi maxi processi con la determinante testimonianza di centinaia di siciliani che avevano, dopo secoli, osato frantumare il muro dell’omertà che da sempre aveva isolato in tutti i sensi la Sicilia dal resto dell’Italia e del mondo, è lo stesso Villasevaglios ad esprimersi entusiasticamente sul nuovo regime: “[…] Bastò la sensazione di uno Stato forte perché le vittime non solo deponessero il vero, ma a voce forte condannassero al cospetto degli stessi tormentatori le loro responsabilità. E così abbiamo assistito a questo spettacolo nuovo e magnifico di vedere oltre le vittime anche più di 200 testi confermare la responsabilità degli imputati”. Il Villasevaglios sottolineava altresì, che i risultati dell’operazione Mori avevano dimostrato che l’omertà non era una “specifica tabe organica e psichica”, “un’atrofia del senso morale” propria dei siciliani, magari dovuta ad un’inferiorità razziale, ma uno strumento di difesa contro la criminalità dilagante provocata dall’assenza dello Stato: “Ci auguriamo – auspicava l’intellettuale siciliano – che questa bonifica integrale sociale preceda di gran lunga quella agraria, in maniera che la Sicilia possa presto diventare il ponte maestro disteso tra l’Oriente e l’Occidente: il centro più importante della civiltà e del progresso tra i popoli del bacino mediterraneo”(15)#. Questo entusiasmo degli ambienti intellettuali siciliani, anche di quelli che si erano mostrati più riottosi all’avvento di un fenomeno politico giudicato estraneo, si sarebbe ben presto stemperato nella delusione, per diventare poi dissenso, in seguito alla crisi del 1929 che avrebbe impedito al fascismo di realizzare i programmi concepiti per la Sicilia, soprattutto in relazione alla sua proiezione culturale ed economica nel Mediterraneo. La crisi di Wall Street si presenterà in Sicilia con il crollo delle esportazioni di agrumi e di zolfo, con la paralisi dei cantieri navali, con la stagnazione della piccola produzione industriale già in crisi per il tramonto dei Florio.
A questo punto quegli intellettuali che avevano, malgrado la loro diffidenza iniziale, accettato il fascismo per i programmi e le realizzazioni, incominciarono ad essere infastiditi dalla sua invadenza in tutti i settori che, dopo le speranze suscitate dal ’25 al ’28, sembrava ora non apportare alcun benefico cambiamento. La stessa presenza dei gerarchi continentali appariva quasi una contaminazione degli usi, della mentalità e della cultura siciliani. Fu proprio il provvedimento sul trasferimento in continente dei funzionari siciliani, preso da Mussolini, per meglio amalgamare le popolazioni e per consentire alla burocrazia isolana di liberarsi dalle catene che la legavano, indipendentemente dalla sua volontà, agli ambienti mafiosi, a suscitare il risentimento isolano. Insomma il sicilianismo tornava a far capolino in funzione antifascista. Anche gli sventramenti dei vecchi rioni centrali, con la demolizione dei vecchi catoi, per la realizzazione del piano regolatore Giarrusso, furono visti dall’intellettualità palermitana come ferite inguaribili alla storia urbanistica cittadina e al suo passato storico.
Un tentativo di recupero dell’intellighenzia isolana sarà fatto dal fascismo, durante e dopo la seconda visita in Sicilia di Mussolini, nel 1937. In quell’occasione il duce potrà vantarsi dell’avvio di una nuova fase per l’industrializzazione di Palermo, dello studio di apposite leggi per la risoluzione del problema del latifondo, dell’inizio della colonizzazione libica e della ripresa della politica mediterranea, nel cui contesto la Sicilia verrà da lui definita come ” centro geografico dell’Impero”. A partire dal 1939, allo scopo di sconfiggere per sempre il revival sicilianista che finiva per ingessare l’Isola in un culto del passato che la astraeva da ogni forma d’apertura e di rinnovamento, vennero mandati in Sicilia i membri più prestigiosi della cultura nazionale: Martinetti, Pizzetti, Gentile, Pace, Magliaro, De Marsico, Rossoni, padre Gemelli, allo scopo di celebrare le glorie siciliane da Epicarmo a Verga, da Ciullo d’Alcamo a Rapisardi, Pirandello, Martoglio, Capuana, da Amari a La Masa, fino ad arrivare ai massimi esponenti dell’imprenditoria, quali erano stati i Florio. L’avvento della guerra, di lì a poco, rese inutile il progetto fascista di recupero dell’intellettualità isolana(16).#
Tuttavia, malgrado una politica che fu molto attenta ai bisogni dell’Isola, certo più di quanto lo fosse stata quella dei precedenti governi liberali, anche quando erano presieduti da siciliani come Crispi, Di Rudinì e Orlando, il fascismo rimase lontano, con le dovute eccezioni, dall’immaginario collettivo siciliano; rimase, insomma, sempre un movimento “straniero” anche se aveva tentato di bonificare le terre, di trasformare il latifondo, se aveva investito nell’Isola quantità incredibili di denaro pubblico per la realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche che sono rimaste a testimonianza di tanto impegno, anche se fu l’unico regime della storia d’Italia a combattere seriamente la mafia. I siciliani risposero alle attenzioni fasciste boicottando la campagna di bonifica, cercando di usare Mori anche per vendette private e da parte della vecchia classe dominante, per emergere nuovamente dopo la decapitazione di Cucco, protestando per la mancata realizzazione di alcune promesse della prima ora.
Ciò non toglie, però, che la persona di Mussolini diventasse per le popolazioni siciliane un vero e proprio mito, più di quanto lo era stato sessanta anni prima Garibaldi. La tipica indolenza siciliana fu colpita da questo giovane presidente del Consiglio che nelle sue visite in Sicilia, al contrario di come avevano fatto i suoi predecessori, al volante di una potente automobile sportiva, in treno, a cavallo, o a piedi, aveva testardamente voluto personalmente accertarsi dei reali bisogni delle popolazioni dalla grande città, all’angolo più sperduto del latifondo, per rendersi conto de visu di quali fossero i problemi più urgenti da affrontare e di come fossero inconsistenti le dicerie su una Sicilia naturalmente ferace, ma isterilita dall’ozio e dall’apatia dei suoi abitanti. A differenza di Fortis, che durante la sua visita in Sicilia agli inizi del secolo aveva così risposto alle richieste dei maggiorenti locali “Ma che cosa volete? Avete questo magnifico sole!”, Mussolini, nel suo primo discorso ufficiale ai siciliani, dall’alto della Torre Pisana a Palermo, così si era espresso:
Quello che io compio, o palermitani, è in primo luogo un pellegrinaggio di amore. In secondo luogo una ricognizione. Oh, io conosco i vostri antichi e per molto tempo inappagati bisogni, so quello che vi occorre, potrei enumerare i paesi e i comuni che non hanno strade, che non hanno acqua; non ignoro la desolazione del latifondo; né mi è sconosciuta la tragedia oscura della zolfara. Ma un conto è leggere, sia pure attraverso i rapporti, un conto è vedere, costatare, scendere in mezzo al popolo, al popolo che è buono, sobrio, tenace, laborioso. Un conto è ascoltare le voci a Roma, un conto è ascoltare le voci che salgono dalla profondità del cuore di un popolo (Acclamazioni entusiastiche).
Direi cosa assurda se affermassi che tutti i problemi che angustiano la vostra Isola bellissima sono stati affrontati e risolti; ma quello che con sicura coscienza vi posso dire è che la sintesi di tutti i vostri problemi è presente nella mia coscienza.
E un’altra cosa voglio aggiungere, questa: ho la volontà di risolverli e li risolverò (Il popolo prorompe in un’entusiastica prolungata ovazione).
Qualcosa si è fatto, ma molto ancora resta da fare.
Per fortuna a quella che io vorrei chiamare la coscienza del dovere e della responsabilità di governo, si aggiunge oggi l’assillo delle nuove forze e delle nuove generazioni. Siete voi e soprattutto voi che dovete porre con tenacia instancabile, con diligenza inflessibile, i problemi della vostra Isola, in modo che da problemi regionali, appaiano, in un dato momento nella loro vera essenza di problemi nazionali.#(17).
In quest’ultima frase ci sono due esortazioni di fondamentale importanza: la prima è rivolta ai siciliani perché rompano le catene del torpore e agiscano per rivendicare adeguatamente i loro diritti; la seconda è un’esortazione rivolta a tutti gli italiani che avrebbero dovuto, prima o poi, convincersi, dall’uomo della strada a quello di governo, che l’arretratezza del sud non poteva essere un problema riguardante solo le regioni meridionali, ma era un problema nazionale, perché se il sud non si fosse adeguato all’andatura del nord, l’Italia fatalmente sarebbe rimasta sempre un Paese destinato ad avanzare a velocità diverse, facendo una fatica immane per raggiungere risultati che non sarebbero mai state paragonabili a quelli delle più grandi potenze europee.
Non solo, quindi, Mussolini prospettava la questione siciliana come questione nazionale, ma la inquadrava in una prospettiva mediterranea, collegata ad una maggiore attenzione della politica estera italiana al Vicino Oriente e all’Africa settentrionale, trovando i principali strumenti di risoluzione della stessa nel potenziamento dei porti e dell’attività marinara, degli aeroporti e dei settori economici e industriali ad essi collaterali: cantieri navali, industria aeronautica, ecc..
I vecchi ceti dominanti, malgrado l’impegno di Cucco e della nuova classe dirigente fascista, cercarono di monopolizzare la visita di Mussolini del 1924, per far comprendere al nuovo capo dell’Italia, che in Sicilia sarebbero sempre rimasti loro a comandare. Furono i nobili palermitani ad aggiudicarsi la maggior parte del tempo del duce, o scortandolo con le proprie macchine, o conducendolo nei loro feudi o costringendolo a innumerevoli visite e pranzi presso opere benefiche, da loro presiedute o presso antiche dimore patrizie di loro proprietà, mentre la mafia, nella persona dell’ineffabile(18) sindaco di Piana degli Albanesi Cuccia, e non solo, che di lì a qualche mese avrebbe sperimentato l’amara vita delle carceri regie, intendeva far capire all’illustre personaggio chi veramente comandasse in Sicilia, dove perciò era superfluo l’imponente schieramento di forza pubblica che scortava il capo del governo.
La lotta alla mafia fu senza dubbio il maggior successo riportato dal fascismo in Sicilia e l’impresa che ne accrebbe il seguito popolare. Anche oggi si sente dire nei paesi agricoli dell’interno della provincia siciliana che ai tempi di Mussolini “si poteva dormire con le porte aperte”. Per la prima volta una popolazione abituata nei secoli ad essere dominata dal prepotente o dai prepotenti di turno, sperimentava la sensazione, mai provata, di essere tutelata dallo Stato, sentiva la presenza di uno Stato, fino ad allora sempre latitante.
La certezza della protezione dello Stato rompeva l’omertà dei siciliani, li rendeva arditi, impazienti, con la loro collaborazione con le autorità, di liberarsi per sempre dai tentacoli della piovra mafiosa.
L’operazione Mori che, se non distrusse, tramortì la mafia, fino all’arrivo degli americani, non fu una semplice azione di polizia. Essa voleva anche essere una azione di educazione delle masse, sulla cui psicologia si agiva, anche attraverso grandi imponenti manifestazioni folkloristiche o attraverso la diffusione delle immagini comprovanti l’arresto e l’umiliazione dei peggiori mafiosi dell’Isola, per assicurare il popolo della prevalenza dello Stato sulla delinquenza organizzata. E le masse recepirono che lo Stato era adesso più forte della mafia. La lotta contro la delinquenza organizzata doveva essere e, soprattutto, apparire nei confronti dei cittadini una vera e propria azione insurrezionale di popolo, una feroce rivolta delle coscienze.
Quando nel 1928 Mori fu rimosso dal suo incarico, Mussolini non volle, come ha fino ad ora sostenuto la storiografia marxista, fermare il prefetto di ferro per evitare che dopo aver colpito la manovalanza mafiosa, si spingesse troppo in alto, fra gli stesso sostenitori del fascismo. Niente può essere più falso se pensiamo che Mussolini permise l’imputazione del suo più stretto collaboratore in Sicilia, Cucco, che venne immediatamente espulso dal partito, per rientrarvi solo quando la sua innocenza era stata completamente provata e non si oppose all’arresto del fratello del suo ministro della Difesa, Di Giorgio, che, a tal proposito, venne immantinente sollevato dall’incarico. Mussolini richiamò Mori quando ritenne, forse sbagliando, che la campagna militare contro la mafia poteva considerarsi conclusa, per evitare di dare al popolo siciliano l’impressione di trovarsi in un perpetuo stato di guerra, e che doveva ora intraprendersi “un’articolata azione politica, finanziaria ed economica, al fine di realizzare nella campagna siciliana una serie di opere infrastrutturali di bonifica, ma soprattutto tendente a coinvolgere la vecchia rendita in un processo di trasformazione della struttura dell’agricoltura siciliana in senso imprenditoriale e produttivistico, a frantumare la realtà economica e sociale del latifondo, con l’appoderamento dello stesso”(19)# e la creazione delle condizioni adatte a debellare per sempre il fenomeno mafioso e le ragioni intrinseche della sua nascita e del suo sviluppo.
Questo fu il significato della cosiddetta legge Mussolini del 1928 su un programma di bonifica integrale che sarebbe stato ampliato e meglio articolato con la successiva legge Serpieri del 1933. Tale programma si inquadrava, secondo Tricoli “[…] nell’ottica di un meridionalismo come problema nazionale e non settoriale (che) favorisse lo sviluppo più equilibrato dell’intera economia nazionale e, perciò, delle sue due tradizionali aree geo-economiche”#(20).
Rappresentava, peraltro, l’applicazione pratica della teoria della “terza via”, al di là del capitalismo individualista e del marxismo collettivista, poiché mirava a sottrarre le politiche agricole dalla tradizionale assoluta autonomia del privato, ma anche dalla coercizione statalista del socialismo.
Si è spesso detto che la politica di bonifica fu soltanto uno strumento di propaganda del regime, abbandonata non appena i successi riportati nella paludi Pontine, si ritennero sufficienti a dare un’immagine vincente del fascismo. Ciò sarebbe provato dal fatto che in Sicilia le varie leggi sulla bonifica integrale apportarono cambiamenti e miglioramenti agrari di proporzioni molto modeste.
Che ciò non sia vero è invece comprovato dal fatto che, dopo alcuni anni di stasi dovuti alle conseguenze della crisi di Wall Street e della guerra in Etiopia, il programma di bonifica in Sicilia fu ripreso nel 1938 con maggior lena, anzi per la Sicilia, vista la scarsa riuscita dei provvedimenti precedenti, fu adottata una legge apposita che tenesse conto delle peculiarità del mondo rurale isolano e, soprattutto, degli atavici problemi del latifondo. Nel 1940, infatti, fu varata la legge Tassinari sull’assalto del latifondo siciliano che, malgrado il quasi contemporaneo sopraggiungere del conflitto mondiale, determinò, in pochi mesi, la realizzazione di ben otto borghi rurali e di ben 2507 case coloniche.
Ma perché la legge Mussolini e la successiva legge Serpieri che avevano permesso la bonifica di ben 2.600.000 ettari di terreno paludoso e malsano nell’Agro Pontino, nel Tavoliere pugliese e nel Basso Volturno, oltre alla costruzione di ben cinque nuove città nel Lazio e due in Sardegna, non determinò in Sicilia i miglioramenti prospettati? La vera motivazione non si può trovare se non nella resistenza e nell’inerzia dei proprietari terrieri siciliani che si sottrassero sistematicamente dal sostenere la parte delle spese loro spettanti per la bonifica dei loro terreni, o per atavico parassitismo o per la riottosità ad investire notevoli somme per risultati che non vedevano come immediati e che, tutto sommato, avrebbero più avvantaggiato i ceti contadini che i proprietari stessi, i quali continuavano ad accontentarsi di una rendita non alta, ma sicura, anche se gestita dal ceto dei gabelloti, a cui gli agrari erano ormai legati da vincoli di convenienza reciproca, ma anche di soggezione.
L’Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia, fondato nel 1925, per gestire la realizzazione del programma di bonifica per tutta l’Isola, aveva molteplici compiti come lo studio dei progetti di bonifica, l’assistenza tecnica ai privati e ai Consorzi, il finanziamento dei lavori, e l’esecuzione delle opere pubbliche connesse alla bonifica stessa. Molte furono le opere realizzate direttamente dallo Stato, poche quelle che i privati realizzarono, seppure con i sussidi statali. L’Istituto, insomma, non riusciva a rompere il guscio di immobilismo che avvolgeva il mondo agrario siciliano .
Quando poi, con la legge Tassinari del 1940 si cercò di ovviare a tale immobilismo, con una norma in base alla quale lo Stato si sarebbe sostituito al proprietario inerte dietro pagamento degli interventi attuati o dietro cessione di una quantità di terreno pari, come valore, alle spese sostenute, terreno che sarebbe stato diviso fra i contadini del luogo per formare la piccola proprietà e si tentò di ribaltare gli atavici equilibri sociali con l’eliminazione della figura del gabelloto, puntando sul rapporto diretto tra proprietario e lavoratore, regolato da un contratto collettivo, il Patto Colonico, basato sulle forme più moderne di mezzadria, il fascismo si guadagnò oltre alla diffidenza iniziale, la malcelata ostilità di agrari e gabelloti.
Così si spiega il libello scritto clandestinamente, nel 1941, da Lucio Tasca, gradito agli ambienti mafiosi e agli ambienti del separatismo post-bellico e nominato dagli americani, dopo lo sbarco, sindaco di Palermo. In tale libello dall’eloquente titolo Elogio del latifondo siciliano, il Tasca si sforzava di dimostrare la razionalità dell’economia latifondista e i suoi vantaggi per il clima e la struttura morfologica siciliana. Si dilungava poi, nell’elogio del borgesato , quella classe fatta di gabelloti e campieri, che nel latifondo regnava indisturbata, alle spalle dei contadini, ma anche alle spalle dei padroni.
L’opuscolo di Lucio Tasca ci riporta al monologo tenuto dal Principe di Salina all’attonito e smarrito Chevalley: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare loro i più bei regali.[…] Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo dalle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; […]i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti […].”#(21)
Queste parole riassumono magistralmente il pensiero di Giuseppe Tricoli sulle responsabilità della classe dominante siciliana, e del becero sicilianismo di cui si ammantava per nascondere i suoi loschi interessi affinché nulla cambiasse, nulla venisse sottratto al suo egoistico controllo.
Gabriella Portalone
NOTE
(1) G. Tricoli, “Il Fascismo e la lotta contro la mafia”, Palermo, ISSPE, 1989, p. 9.
(2) Gigetto Gattuso era un giovane fascista di Caltanissetta ucciso dai rossi, così come Giorgio Schirò, fascista di Piana degli Albanesi; De Caro, di Sciacca, e Perticone di Vita, frazione di Marsala, furono uccisi in un vile agguato mafioso. Anche il fratello di Domenico Perticone, Bartolomeo, sarebbe stato ucciso poco tempo dopo dalla stessa mano mafiosa. Cfr. P. Nicolosi, Gli antemarcia di Sicilia, Catania 1962.
(3) G. La Terza, Cronaca della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Catania, ibidem; V. Agozzino, Cronache della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Agrigento, ibidem; G. Catalano, Cronache della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Messina, ibidem.
(4) Vincenzo Purpura e Vittorio Ambrosiani avevano tentato, nell’aprile del 1919, di formare un gruppo fascista con sede in Via dell’Orologio. Vi erano state altresì in tal senso anche alcune iniziative pubblicistiche come “Il veltro” di Guido Russo Perez, La “Fiamma nera” di Finizio, “l’Avanguardia studentesca dei Fasci di combattimento” di Chilà, la “Lega Nazionale contro il bolscevismo e il comunismo” di Vincenzo Pedalà, il “Gruppo dannunziano” di Pietro Scozzari a Misilmeri. Si trattò di coraggiose iniziative quasi immediatamente fallite. Cfr. G. Tricoli Mussolini a Palermo nel 1924, Palermo, ISSPE, 1993, p. 29 e inoltre Cfr. G. Falzone, Cronache della vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di Palermo in Panorami di realizzazione del fascismo, vol. VI.
(5) G. Micciché, Dopoguerra e fascismo in Sicilia, Roma 1976, pp. 142-143.
(6) M. Scaglione, Studi sulle origini del nazionalismo in Sicilia, Palermo, ISSPE, 1985.
(7) Il prefetto Metzinger, sostituito dal nuovo regime, con il più dinamico e motivato Gasti, veniva raffigurato dai giornali satirici palermitani, in camicia da notte, con la papalina in testa e la candela in mano. Cfr. G. Tricoli, Mussolini a Palermo nel 1924, Palermo, ISSPE, 1993, p. 21 e segg.
(8) B. Pace, Fascismo siciliano, Roma 1924.
(9) G. Tricoli, Introduzione a Palermo felicissima di Pietro Villasevaglios, Palermo, Società siciliana per la Storia Patria, 1992, p. XIX.
(10) G. Tricoli, Alfredo Cucco. Un Siciliano per la Nuova Italia, Palermo, ISSPE, 1987, p. 27.
(11) Ibidem.
(12) Ivi p. 30.
(13) R. Trevelyan, Principi sotto il vulcano, Milano 1967, p. 357.
(14) G. Tricoli, Alfredo Cucco, cit. p. 32.
(15) G. Tricoli, Introduzione a Palermo felicissima, cit., pp. XXIII-XXIV
(16) G. Tricoli, Introduzione, cit. pp. XXVI e segg.
(17) G. Tricoli, Mussolini a Palermo, cit. pp. 200-201.
(18) G. Tricoli, Il fascismo e la lotta contro la mafia, cit. pp. 52-53.
(19) G. Tricoli – M. Scaglione, Bonifica integrale e colonizzazione del latifondo in Sicilia, Palermo, ISSPE, 1983, p. 11.
(20) G.Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Roma 2002, pp. 146-148.