Il venticinquesimo numero della nostra rivista si apre con il doveroso quanto doloroso ricordo del prof. Salvatore Riccobono, già eminente docente di Storia del Diritto romano nell’Università palermitana, elevato studioso di storia e civiltà romana, uomo profondo negli affetti e nei sentimenti, delicato e romantico poeta, nonché componente del Comitato scientifico della “Rassegna Siciliana”, suo assiduo e appassionato lettore. Egli oggi non è più tra noi, ma forse in una dimensione diversa dove finalmente potrà saziarsi di quella “visione di infinito”di cui tanto spesso parlava nelle sue meditazioni poetiche.
“Gentiluomo elegante e garbato che soleva offrirti due lilium del suo giardinetto come una stupenda corbeille” – così lo ricorda un’amica – incarnava il carattere di quella borghesia siciliana che, grazie all’ingegno e agli studi, aveva conquistato la città, pur non dimenticando la civiltà contadina da cui proveniva e la semplicità della vita della piccola provincia palermitana. Salvatore Riccobono portava nei modi eleganti, nella pacatezza del parlare, nella gentilezza dei modi, le stimmate di una classe sociale che aveva strappato la Sicilia dal quel sequestro culturale secolare di cui parla Giovanni Gentile, reinserendola nel circuito intellettuale europeo.
Il prof. Riccobono aveva respirato nella sua casa di Mezzomonreale, quell’amore per gli studi, quell’ammirazione per la grandezza romana che gli aveva trasmesso l’eminente zio Salvatore Riccobono senior, già rettore dell’Università palermitana, preside della facoltà di Giurisprudenza, insigne romanista, accademico d’Italia, il cui ricordo mai sarebbe sbiadito nella mente del nipote.
La mia frequentazione con il prof. Riccobono iniziò alla fine degli anni ottanta, quando sempre più spesso veniva a trovare il mio maestro, il prof. Giuseppe Tricoli, nella stanza che condividevo con lui al primo piano della palazzina di piazza Bologni occupata dalla facoltà di Scienze Politiche. Quelle visite, dapprima timide, poi sempre più confidenziali, avvenivano in un periodo particolare, sia per lui che per il prof. Tricoli. Il primo era da poco andato in pensione e, pur continuando a frequentare nei primi tempi del suo collocamento a riposo il suo vecchio Istituto di via Maqueda, se ne era a poco a poco allontanato, forse per rassegnarsi all’accettazione del suo nuovo ruolo nella società e nell’Università e forse anche per scacciare la nostalgia del passato e l’incalzare dei ricordi. “L’anima si piega/ in pensosa malinconia/-nostalgia di sfiorita giovinezza/di lunga affettuosa amicizia-/ripercorre nel tempo il passato/ i ricordi della fanciullezza/ il travaglio della vita/ e del presente la tristezza/ di amaro destino.”(1) Il secondo lottava con una terribile malattia che l’avrebbe portato ben presto alla morte. Tutti e due cercavano qualcosa e forse trovavano conforto ai dolori dell’anima e del corpo in quei colloqui che si protraevano per ore e durante i quali io mi imbevevo della, loro cultura e della loro umanità. Ricordo con dolcezza quei suoi occhi azzurri così bonari, dietro cui, malgrado il sorriso sereno, si nascondevano il ricordo di grandi dolori ed una profonda tristezza pervasa di rassegnazione cristiana. La vita aveva fortemente provato quest’uomo, con la lunga e penosa prigionia di guerra in India, con la perdita dell’unico figlio maschio, a soli undici anni, con la dolorosa recente fine della figlia minore Francesca e con la scomparsa della moglie Elisa. Egli trovava refrigerio ai tanti dolori che gli avevano dilaniato l’anima nel calore della famiglia, dei tanti amici e negli studi classici in cui rinveniva la fonte di quella humanitas ciceroniana che riteneva alla base dell’evoluzione sociale.
Nella sua conversazione era spesso presente il ricordo dello zio, i suoi viaggi con lui a Roma, il suo accompagnarlo alla sede dell’Accademia d’Italia, la sua partecipazione al Congresso sull’Europa del 1932, i colloqui sull’avvenire dell’Italia e del mondo alla vigilia della seconda guerra mondiale.
Ricordo quando ci raccontava delle sofferenze patite nei sei anni della sua prigionia sotto gli inglesi, alle falde dell’Himalaya; riuscì a sopportare la lontananza dalla patria, dalla famiglia, dalla sua confortevole casa pregna di ricordi e dell’odore inconfondibile dei libri, nonché le umiliazioni subite dai vincitori, organizzando fra i soldati e gli ufficiali prigionieri un vero e proprio corso di lezioni di Storia del diritto romano che dava sollievo sia a lui che ai suoi discenti. Ci raccontava che nelle ore passate ad insegnare la civiltà dell’antica Roma, si dimenticava del presente doloroso e si sentiva trasportato in un mondo ideale e perfetto dominato da quell’humanitas classica che fu costantemente alla base delle sue scelte di vita: “Erano gli anni in cui tutta la terra veniva travolta da inumane atrocità, – avrebbe poi scritto in un suo saggio intitolato appunto Humanitas – da infiniti lutti, quando milioni di uomini morivano sui campi di battaglia o languivano nei campi di concentramento, e le popolazioni civili vivevano sotto l’incubo angoscioso di incessanti bombardamenti aerei: il mondo intero trasformato in un mare di sangue. Durante quel tempo, gli animi avviliti e smarriti si esaurivano nella vana ricerca del perché di quell’universale carneficina fratricida. La crisi di tutti i valori spirituali era al colmo; le basi fondamentali della nostra medesima civiltà apparivano d’un colpo annientate”. Fu quella considerazione che lo riportò indietro agli anni dei suoi studi giovanili sull’humanitas romana, alla ricerca delle origini di quel sentimento che precede la stessa pietas cristiana e che trova la sua fonte nelle relazioni umane attraverso le quali l’uomo acquista la coscienza della propria dignità, della sua superiorità rispetto agli animali sprovvisti di ragione e dell’affinità con gli individui della sua specie, “homo sum, umani nil a me alienum puto”. Da tale considerazione deriva l’impossibilità di infliggere agli esseri della sua stessa specie trattamenti non consoni alla dignità umana. Il naturale sviluppo di tale sentimento consente alla società di evolversi sollevandosi dalla barbarie originaria con la comprensione che l’altruismo “reca vantaggi più immediati e duraturi degli atti ed atteggiamenti egoistici e primordiali”. In Cicerone il termine humanitas si arricchì di una vasta gamma di significati: cortesia, liberalità, cordialità, generosità, cultura e civiltà. E mentre negli anni dell’Impero, con la ricezione dello stoicismo, il termine si sarebbe permeato di aspetti etici, con la diffusione del cristianesimo finì per illuminarsi dei riflessi del divino, diventando amore per il prossimo, pietà e carità verso tutti.
Così spiegava l’assenza d’umanità con cui gli anglosassoni trattavano i prigionieri di guerra, con la loro mancanza d’educazione e cultura classica che invece avrebbero sempre distinto nei secoli gli italiani come i veri eredi della grandezza morale romana.
L’umanità ciceroniana e cristiana era il sentimento che più colpiva nel prof. Riccobono, quel sentimento che gli stessi studenti leggevano nei suoi occhi azzurri al momento degli esami e che lo faceva apparire disponibile e fornito – come afferma il suo allievo prof. Cerami – di un’innata arte maieutica, cioè della capacità di cavare il meglio da ognuno di loro.
Addio caro e indimenticabile maestro; la sua anima starà ormai solcando i mari in vista della sospirata Itaca, il ritorno al Padre, la meta agognata del riposo e della fine delle sofferenze, di cui i suoi commoventi versi in occasione del ritorno in Sicilia, dopo la lunga e dolorosa prigionia, appaiono oggi una metafora:
Dalla nave la prua volge all’Occidente.
Improvvisa – come d’incanto –
Una macchia enorme si profila
All’orizzonte, ove tramonta il sole.
Pallidi si stagliano nel cielo
I contorni di quella massa oscura
Che segnano le linee maestose
Di una montagna eccelsa
Gigante mirabile fino alle stelle.
L’Etna appare ai nostri occhi
Increduli, primo saluto
Ai reduci di lungo, doloroso esilio
Nella indica terra.
Ritorno triste e stanco dopo estenuante vigilia.
Ma sacra è la scia della nave che torna.
NOTA
S. Riccobono Nebbia a mezzanotte componimento scritto nel novembre del 1988 in occasione della morte di Riccardo Orestano.