Parte Prima – Note a margine della concezione filosofico-politica negli anni 1924-30
I. Un decennio decisivo (1924-33).
Nel riproporre il valore ed il complesso significato dell’opera di Carlo Curcio dopo un lungo ed immeritato oblìo, reitero il convincimento che questa sua magistrale interpretazione delle vicende storiche della nostra nazione, in certa misura esemplari della stessa crisi della politica dell’Occidente nel Novecento, possa essere apprezzata pienamente solo attraverso due diversi registri interpretativi.
Penso infatti che la sua attività di pubblicista, la sua prosa evocativa di incisive immagini, ma anche pervasa da troppo rapide sintesi, siano qualcosa che richiede una specifica trattazione analitica. E del resto, si tratta qui di altrettanti mezzi espressivi con cui Curcio riesce, malgrado tutto, ad infrangere la vuota forma retorica dell’ideologia di quel Regime a cui non desiste, dal 1930, dal riproporre la critica per un’occasione mancata di operare una ‘rivoluzione’ promessa ed ormai chiaramente tradita. A questa ‘residua’ progettualità rivoluzionaria peraltro Curcio continuerà a professare, almeno fino al 1940, un ossequio non meramente fideistico e certamente non formale.
Su di un ben diverso versante si staglia invece la sua riflessione di maggior momento, che ci mostra la traccia di una sua geniale indagine nei penetrali della filosofia del diritto, della storia delle dottrine politiche, non senza una qualche incisiva anticipazione di formule oggi dominanti nella pretesa di una ‘scienza’ razionale ed oggettiva, con cui si vorrebbe afferrare la dinamica sostanza della politica.
A questo secondo aspetto della sua opera ho dedicato uno precedente studio, gentilmente pubblicatomi sugli Annali di Storia moderna e contemporanea, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dall’amico Cesare Mozzarelli, purtroppo prematuramente scomparso ed a cui qui rivolgo il riconoscente e commosso ricordo(1).
Tuttavia, una seconda occasione per affrontare questi quesiti, forse non solo per me tanto impegnativi, è stata una più recente relazione, presentata per la giornata di studio sulla figura di Curcio, organizzata dall’Istituto ‘Luigi Sturzo’ il 20 novembre 2003. In quest’ultima occasione, ho inteso evidenziare una sorta di ‘filo rosso’ nella teoria filosofico-politica di Curcio, che si ‘sdipana’ attorno all’idea di ‘rivoluzione’, una rivoluzione però da intendersi come ‘rivoluzione per la continuità’, il cui significato costituisce il vero sostrato argomentativo dell’intero fulcro della sua concezione storica e politica.
Qui, adesso, inizio, dunque, con l’indicare le motivazioni dei limiti temporali del presente scritto e della decisione di dargli un taglio eminentemente cronologico e bibliografico. Comincio da quest’ultimo aspetto, precisando che la gran quantità di scritti di Curcio (del resto non solo nel periodo in esame), il complesso intreccio delle sue collaborazioni a differenti giornali e riviste, la produzione di più ampio respiro nelle sue numerose monografie, costituiscono a mio avviso un tale intreccio di argomentazioni e di diversissimi criteri di indagine da richiedere, comunque, una preliminare, e non sempre facile, definizione quanto meno cronologico-bibliografica.
I limiti temporali sono qui dati dal terminus a quo rappresentato dal 1924 (anno dell’inizio della sua militanza ideologica su ‘Critica fascista’) e dal terminus ad quem del 1934, l’anno in cui Curcio sostanzialmente rifluisce sulla storia del pensiero politico, a tratti sulla ‘scienza politica’ (allora ai primordi) e soprattutto sulle dottrine politiche. Seguendo queste diverse direzioni, Curcio gradualmente si allinea al tema risorgimentale della ‘tradizione italiana’, comunque in maniera originale sviluppando la ricerca di una continuità, dall’epoca ‘romana’ della fondazione di un geniale ordine etico-giuridico all’orma profonda che lungo tutto l’arco del faticoso recupero del suo significato si compie, fra medioevo ed epoca moderna.
A questa ‘scuola italiana’ Curcio attribuisce la funzione di fulcro di ideali ‘repubblicani’, incentrati sulla rivendicazione delle autonomie, sul recupero della pluralità di ordinamenti giuridici all’interno di una necessaria unitarietà politica. Dunque è questo il volto del processo di cui Curcio indica una continuità (malgrado le molte cesure subìte) di ideali e di programmi d’azione : dalla romanità, all’ Impero ‘romano-germanico’ e da qui alla rivendicazione di libertà nazionale, latina, italiana (dapprima per lo ‘Stato-città’, o ‘Stato-regione’, poi per la nazione).
Nell’immediato prosieguo della sua riflessione – della metà, circa, degli anni Trenta – Curcio amplia poi lo sguardo su molte altre dimensioni della storia e della politica, giungendo, fra l’altro, a considerare l’importanza di fattori pre-logici, di elementi ‘meta-razionali’ e non pertanto meno decisivi per la politica. Da qui, riprendendo suggestioni soreliane, paretiane e soprattutto delle teorie di Cassirer, la genesi del suo studio sui ‘miti politici’, del 1940(2). Ma anche, e soprattutto – accentuata dai tragici rovesci delle sue speranze di pace e di armonico ordine internazionale – l’attenzione di Curcio per il pensiero ‘utopico’, per i pur generosi sogni di una ‘ritrovata’ armonia fra le nazioni d’Europa. Tema a lui familiare e caro da tanti anni, che particolarmente riassume una precisa incidenza nella sua riflessione alla fine del secondo conflitto mondiale, nella riproposizione dei progetti di pace ‘perpetua’ del Saint-Pierre, di Rousseau e di Kant, da questi autori formulati in un analogo clima ‘post-bellico’, negli echi di inenarrabili tragedie ed aberrazioni(3).
Infine, la sua grande opera, nel 1958, Europa. Storia di un’idea, in due ponderosi volumi editi da Vallecchi nel 1958, in quella Firenze in cui Curcio svolge la seconda e conclusiva esperienza di docente universitario alla ‘Cesare Alfieri’, allora prestigiosa Facoltà di Scienze Politiche. Né con questo, non si può dire che fossero ora del tutto cancellati e scomparsi i suoi interessi per l’idea di nazione, per l’ideale ‘nazionalitario’, distinto e contrapposto ai trascorsi, tragici deliri del nazionalismo esasperato. Tutt’altro. Lungo tutto l’arco della sua produzione post-bellica, Curcio raffronta incessantemente il diritto di ‘autodecisione dei popoli’, la volontà di ogni nazione di darsi proprie strutture politiche indipendenti, alla necessità di realizzare pienamente le condizioni per la garanzia dei diritti universali, indicando, peraltro, il luogo ottimale di questa contestuale rivendicazione nell’Europa. Tutti aspetti sui quali vorrei soffermare questa mia rievocazione nell’immediato nelle pagine che seguono, non senza ripropormi ulteriori ricerche.
II. La militanza politica e la ‘vexata quaestio’ del corporativismo: la collaborazione a ‘Critica fascista’ (1924-30).
Riguardo ai limiti non solo cronologici della presente rievocazione, e precisamente alle motivazioni di una tale delimitazione fra il 1924-34, va qui sottolineato che sono questi gli anni in cui si può cogliere in piena luce una decisa svolta di Curcio. Appunto dal piano puramente ideologico a quello dell’indagine filosofico-politica e filosofico-giuridica. Una svolta che si delinea proprio su due precisi versanti. Da un lato, con la collaborazione alle riviste ‘Critica Fascista’ (dal 1924) e ‘Lo Stato’ (dal 1930). E, dall’altro lato, con il salto di qualità che nel 1926 Curcio compie iniziando a collaborare alla prestigiosa ‘Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto’ [da qui in poi: ‘RIFD’](4).
Lo spazio delineato da questo intreccio fra linee di riflessione tanto diverse (definibile grosso modo come quella politico-ideologica e quella filosofico-giuridica) è del resto localizzabile nel periodo iniziale della presenza di Curcio nella Facoltà di Scienze politiche di Perugia, testimoniato soprattutto dalla prolusione, del 26 marzo 1928, al corso di Storia delle dottrine politiche, più tardi pubblicata con il titolo Il carattere storico del pensiero politico italiano.
Va subito precisato, e più volte dovrò ripetermi al riguardo, che questa svolta avviene contestualmente ad una persistente adesione formale al Regime, come si può constatare particolarmente sulle pagine di ‘Critica Fascista’ rispetto soprattutto alla ‘RIFD’. Sarà successivamente al 1929 che si avverte nei suoi scritti una graduale attenuazione delle tematiche ideologiche, con un immediato riflesso sul piano filosofico-politico. A partire specialmente dal 1930 la fase di attenuata intensità ideologica è visibile non solo in alcuni suoi importanti contributi sulla ‘RIFD’, ma anche nell’inizio della sua collaborazione alla rivista di Costamagna, ‘Lo Stato’.
E questo è un fatto che apre comunque alcuni interrogativi sui quali ci dovremo qui interrogare. L’aspetto che comunque dobbiamo adesso porre al centro della nostra analisi riguarda la profluvie di scritti su ‘Critica Fascista’. Troppo brevi composizioni, che il più delle volte non parrebbero aprire alcuno spazio alla riflessione critica(5), ma non di rado anche qui si accende una maggior ampiezza tematica, che, è pur vero, caratterizza soprattutto i lavori di maggior momento, a partire dalla ‘trilogia’ di articoli, del 1925, intitolata Il Mezzogiorno e la nuova politica nazionale(6). D’altronde, proprio questa del Mezzogiorno si pone al centro delle sue principali tematiche, come si può constatare in quello stesso intorno di anni, a cominciare dalla rivista ‘Sud’, in quello stesso anno 1927 in cui viene da lui fondata e diretta(7).
Un altro tema che lo impegna seriamente in quegli anni 1925-27 è quello del corporativismo, nella cui trattazione si coglie la crescente disillusione di Curcio, come si può vedere da diversi lavori, monografie, articoli su giornali e saggi su riviste: Le Classi nello Stato corporativo(8), Le funzioni extraeconomiche delle associazioni sindacali(9), L’extraeconomicità dei sindacati(10), La crisi e la trasformazione del diritto(11).
Testi dai quali in un crescendo di parole, frasi e formule si evince che, dietro le dichiarazioni ufficiali (in una sua pur formale ortodossia ideologica), il quesito del corporativismo occupa ancora seriamente Curcio, intensificandosi dal 1926, in una consapevolezza delle inadempienze del ‘fascismo-regime’.
In tale contesto, con Le funzioni extraeconomiche delle associazioni sindacali, si delinea una critica dell’idea della presenza nell’ordinamento statuale di una ‘pluralità di ordinamenti giuridici’ irriducibili all’assoluto primato dello Stato. Tesi invece sostenuta allora da Santi Romano e da Sergio Panunzio. In quel momento, proprio lo scrittore pugliese era impegnato in un duro confronto con Costamagna, il quale – recensendolo(12) – aveva attaccato le tesi contenute nel suo volume Lo Stato fascista(13), dove il vecchio sindacalista aveva a sua volta polemizzato con Alfredo Rocco e Oreste Ranelletti (sostenitori invece del primato dello Stato sui sindacati)(14).
Per inciso, va sottolineato che non a caso questo dibattito, a partire appunto dalla suddetta recensione di Costamagna, poteva avvenire sulla ‘RIFD’, che in quegli anni si stava imponendo come il vero ed unico luogo di una seria critica all’involuzione del movimento fascista in Regime(15). In questo dibattito Curcio intese inserirsi con il secondo dei due suddetti saggi del 1926 (Le funzioni extraeconomiche delle associazioni sindacali), sostenendo la necessità di raffrontare il significato dei sindacati alla vigente statuizione in materia (la legge del 3 aprile 1926), per la quale il conferimento della personalità giuridica alle associazioni professionali riguardava lo Stato. A questa interpretazione, a sua volta, Panunzio allora oppose che solo attraverso i sindacati si creava il nuovo diritto, come espressione della forza rivoluzionaria creatrice di un nuovo ordinamento(16).
Con il tempo la distanza fra Panunzio e Curcio si sarebbe attenuata, e precisamente verso il 1930-31, anche qui sulle pagine della ‘RIFD’, come a suo tempo vedremo. Sul momento, però, Curcio procede nel senso suddetto, cioè considerando ancora da definire il quesito dell’autonomia dei sindacati e del necessario riconoscimento della loro personalità giuridica da parte dello Stato. Temi da lui sempre meglio precisati sin dall’anno seguente, nel 1927 : sia sulla ‘RIFD’ – con un saggio (Lineamenti filosofico-giuridici dell’ordinamento corporativo)(17) e tre recensioni(18) -; sia con L’extraeconomicità dei sindacati ( pubblicato, come si è accennato, su ‘Lo Stato corporativo’).
Nei saggi successivi, a cominciare dal 1928 – con la monografia intitolata Il problema metodologico nel diritto corporativo(19), e con l’ articolo su ‘Critica fascista’, intitolato La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia(20) – si scorgono chiaramente i segni di una crescente consapevolezza dell’occasione perduta dal Regime, quella di risolvere con la ‘rivoluzione fascista’, l’antico antagonismo della lotta di classe. Un antagonismo che proprio nel secolo precedente aveva animato i due avversi campi di un capitalismo senza remore, né scrupoli, e di una non immotivata rivendicazione socialistica purtroppo scaduta nel riformismo compromissorio con la pratica di governo clientelare o nell’eccesso del massimalismo.
Con questa elusione di maggiori questioni, tuttavia Curcio non manca di operare attenti affronti con quanto in positivo avviene invece nel mondo del lavoro di altre nazioni. Anzitutto, qui Curcio si riferisce alle teorie di Sombart e Weber, ma anche alle esperienze socialistiche di Walther Rathenau (nel corso della Repubblica di Weimar) e non ultimo al nuovo atteggiamento imprenditoriale statunitense.
In effetti, ancora con La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia, Curcio si riferisce alla ‘rivoluzione fascista’ interpretandola in questo momento come tanti altri ‘della prima ora’. E particolarmente secondo quanto veniva da tempo scrivendo Sergio Panunzio (sempre più suo interlocutore, non solo su questo tema del corporativismo), identificandola con una ‘rivoluzione sindacalista’, cioè come la creazione rivoluzionaria di una ‘economia mista’. E tale sarà, non a caso, il titolo di un saggio panunziano ancora nel 1936. Dunque, un’ economia ‘nuova’, come composizione e mediazione degli interessi legittimi dell’imprenditore e del capitalista. Ma anche, e soprattutto, dei diritti del mondo del lavoro, rispetto all’esclusivismo implicito al diritto di proprietà borghese, inteso fra Otto-Novecento come formale eguaglianza senza sostanziali possibilità di concreto eguagliamento.
Diritti imprescindibili – secondo Curcio – per ogni ‘rivoluzione’, e particolarmente quella fascista, se non si voleva che scadesse in mero strumento di salvaguardia del conservatorismo proprietario di fronte alla ‘rivoluzione bolscevica’. In questa malaugurata evenienza, ci si sarebbe trovati di fronte alla degenerazione delle ‘rivoluzione fascista’, ridotta ad una pur sterile surrogazione (con la forza statuale) alla carenza di motivazioni sociali da parte di ceti per un verso troppo avidi e per l’altro irresoluti, disposti a cedere senza lottare, senza confrontarsi, senza ridimensionare razionalmente le proprie pretese e le altrui prepotenze(21).
Diritti, del resto, proprio su queste stesse pagine di ‘Critica fascista’ tenuti da Curcio ben distinti dagli intenti apparentemente corporativi del Regime, ed invece riconnessi ad una voluta e palese rivalutazione dell’alternativa costituita ab antiquo dal ‘solidarismo’ cattolico.
Il corporativismo, la ‘nuova economia’, – chiede retoricamente Curcio – è forse “una salvezza temporanea o definitiva? Una panacea gravida di pericoli o un sistema sicuro?”(22). Inutile rispondere. La storia è un colossale Saturno, che divora non solo gli uomini, ma le idee e le forme della civiltà, di tutte le civiltà. E pertanto, “al lume della filosofia della storia tutto è caduco; e la sola teoria agostiniana è vera”(23).
Da un lato, qui, dunque (ed ancora a lungo, altrove) l’ossequio a Mussolini, Capo del Governo e Duce del Regime. Dall’altro, invece, una riproposizione di quella ‘rivoluzione etica’ verso i ‘primi princìpi’ che secondo Curcio era nelle originarie intenzioni del ‘fascismo-movimento’, inteso come una rifondazione rivoluzionaria dell’ordinamento su basi nuove. Nuovi fondamenti da cui sviluppare l’antico principio solidale, senza negare distinzioni, diversità di capacità e di ruolo. Mai tali, comunque, da negare un diritto ed una tutela ai meno capaci o più bisognosi di incentivi e sostegni(24).
Non è qui, comunque, va ripetuto, su queste pagine di ‘Critica Fascista’ che Curcio mostra di volere sviluppare a fondo il suo incipiente convincimento del fallimento della ‘rivoluzione corporativa’. In definitiva, è del tutto innegabile che qui Curcio affronta sempre unicamente temi e questioni di immediata attualità. Questo è quanto risulta da quanto di lui possiamo leggere su ‘Critica Fascista’, sia in precedenza – al di là cioè di queste pur dense pagine di La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia – sia anche quando, più avanti, su questa stessa rivista i suoi scritti si riveleranno non semplicemente apologetici delle ‘imperiture sorti’ del Regime. Tale è la netta impressione che si trae dai suoi scritti, sia nel 1929(25), sia nel 1930(26), sia dopo il lungo silenzio su ‘Critica Fascista’. Un silenzio significativo della collaborazione, altrove, di maggior momento(27), interrotto solo nel 1942(28) e nel 1943(29).
D’altro canto ora ci dobbiamo interrogare sulle ben diverse posizioni che, in confronto a queste del 1926-28, Curcio assume nei confronti del Regime nei successivi scritti su tale tema del corporativismo. Resta che, come constateremo nei prossimi paragrafi, ci si troverà di fronte al significato complessivo da attribuire alla sorta di ‘dispersione’ pubblicistica della collaborazione di Curcio sui diversi periodici, secondo la sequenza con cui apparvero questi suoi ulteriori contributi alla vexata quaestio del corporativismo, intanto ancora sulla ‘RIFD’, fra 1928-29.
III. La riscoperta della tradizione politica italiana (gli anni 1926-29).
Riguardo allo spazio che gli scritti sul tema corporativo di maggior momento trovano sulle pagine della ‘RIFD’ è necessaria un’ulteriore precisazione. A questa rivista, Curcio inizia a collaborare nel 1926, continuando ininterrottamente fino al 1937-38(30). Da quella data Curcio interrompe la collaborazione. Un fatto che si ricollega all’allontanamento di Del Vecchio, per le leggi razziali, dalla direzione della rivista (sostituito, nel 1939, con cui comincia la Serie II, da un ‘triumvirato’ formato da Amedeo Giannini, Felice Battaglia e Giuseppe Capograssi). Sintomatico è che su questa rivista Curcio riprenderà l’attività di pubblicista, in tono minore, solo dopo la guerra, fra il 1947 ed il 1968.
Invece, fra 1926-38, fra i numerosi scritti apparsi su quelle pagine va qui anzitutto ricordato il primo di questi contributi, il saggio intitolato Il concetto di legge nel pensiero italiano del secolo XVI, che segna il momento d’inizio della riflessione filosofico-giuridica di Curcio. Qui infatti egli localizza il risveglio di nuove correnti e di nuove idee che – nella ripresa di suggestioni presenti in “tutta la tradizione politica e giuridica italiana, dal secolo XIII in poi” – segnano la cesura con “il punto di vista strettamente teologico”, soprattutto con le componenti “teistico-razionalistiche presenti in Tommaso d’Aquino”(31).
Da allora, – continua Curcio – e fino alla scoperta machiavelliana che la politica ha sue proprie leggi (irriducibili alla religione ed alla morale) si è venuta affermando una concezione non più idealistica del diritto, bensì strettamente connessa con l’attualità dei singoli periodi storici. Senza però che da allora il diritto sia mai stato confuso del tutto con il potere, ed anzi ritenendone invece necessaria la correlazione con l’unanime consenso di tutti i governati.
Come si può notare, siamo al cospetto di una concezione giuridica riconnessa a quella che qui è definita come la ‘tradizione italiana’. La tradizione di pensiero che da Marsilio da Padova a Egidio Romano, da Bartolo da Sassoferrato a Baldo connette in un contesto coerente la speculazione di “molti altri giuristi” fra medioevo ed età moderna(32). Più avanti Curcio ricorda, infatti, le concezioni ‘giusnaturalistiche’ di Giordano Bruno, di Paolo Paruta e principalmente di Alberico Gentili, il quale – teorizzando una ‘legge di natura’ superiore e contrapposta alla statuale ‘legge positiva’ – escludeva che questo diritto naturale fosse qualcosa di immediatamente riferibile alla religione, alla fede, alla trascendenza(33).
In sintesi, da questa analisi di alcuni capisaldi del pensiero politico italiano del Cinquecento, Curcio trae quelli che a suo avviso sono i caratteri salienti della moderna concezione del diritto. E cioè pone in rilievo il ruolo della volontà istitutiva della compagine istituzionale. Un ruolo caratterizzato nella distinzione di consimile volontà fondatrice da ogni suggestione ateistica, come da ogni astrattezza razionalistica. Un ruolo incentrato appunto sull’unanime consenso, sulla partecipazione di tutti all’ordinamento che si sta costituendo(34). C’è da parte di Curcio in questa sua concezione del diritto esplicitamente il richiamo ad “un fattore tutto spontaneo, tutto intimo, che è coscienza, volere, libertà”(35). Una libertà d’altronde da conciliare con l’autorità, “che è nella legge stessa”, senza però che la norma giuridica giunga ad annullare questa volontà responsabilmente libera, racchiudendola nel rigido schema formale delle leggi(36).
A questo primo rilevante contributo fecero seguito, nel 1927, non soltanto, come si è accennato, la ripresa della riflessione sui temi del corporativismo, ma soprattutto – nel saggio La modernità di Machiavelli – un significativo approfondimento del tema della ‘tradizione politica italiana’. Qui tale tradizione è interpretata come l’espressione, appunto a partire dal XVI secolo, in termini più propriamente costituzionali, del carattere stesso della politica, intesa come secolare ricerca e costruzione di un appropriato sistema rappresentativo-parlamentare(37).
In consimili referenti, si capisce perché negli scritti del periodo successivo si accresca in Curcio l’atteggiamento critico verso il Regime, con un approfondimento dell’indagine in senso filosofico-giuridico sui fondamenti etico-politici dell’ ‘ordine nuovo’ fascista. In tre saggi pubblicati sulla ‘RIFD’, nel 1928 – vero ‘annus mirabilis’ nella riflessione di Curcio – viene affrontato analiticamente il tema della trasformazione dello Stato (tale è appunto il titolo del primo saggio)(38).
Argomento poi sviluppato nel secondo saggio (L’eredità romana nel pensiero politico italiano del Medio Evo), nel riferimento della ‘tradizione italiana’ all’antefatto di una ‘tradizione giuridica romana’, della quale Curcio passa in rassegna le ‘reinterpretazioni’ avvenute nel medioevo italiano, da parte di glossatori e scrittori politici(39).
Nel terzo saggio (Il rinnovamento dell’idea di diritto nel pensiero italiano del Rinascimento)(40) Curcio infine evidenzia la conclusiva diversificazione che dello stesso referente ‘all’eredità romana’ si ebbe nella successiva svolta della ‘tradizione italiana’. Una svolta che ora Curcio interpreta diversamente da quanto aveva asserito l’anno precedente (con la Modernità di Machiavelli), riconoscendo l’evoluzione di tale tradizione dalle forme medievali dei glossatori ai nuovi contenuti più propriamente politico-istituzionali. Ora, nel terzo di questi saggi del 1928, Curcio indica, invece, la cesura che si è venuta operando in questo sviluppo della ‘tradizione’ rappresentativa, a partire dal XV-XVI secolo, coi primordi dei regimi signorili, assolutistici, che hanno posto termine ad un tale referente alla tradizione e democratica e repubblicana.
Si spacca allora la contestualità tanto pazientemente elaborata nel medioevo (dalla scolastica ai ‘glossatori’) fra – da un lato – la libertà dei singoli, la volontà dei popoli (aspetti entrambi della sovranità popolare come fondamento dello Stato), e – dall’altro lato – l’affermazione perentoria di forti individualità. Queste ultime, nella crisi delle città-stato, fra XV-XVI secolo, inserirono la propria azione risolutiva, nei termini di primato assoluto, motivato dalla loro personale capacità coesiva-impositiva, tale da farne comunque i demiurgi del nuovo Stato nazionale.
Tutti gli autori dell’umanesimo, sino al Machiavelli, sono concordi in questa interpretazione pervasa di “vigore attivistico”(41). Nel Rinascimento, alla fine il diritto si configura come l’atto di individualità concrete, di principi e capitani di ventura, e persino di personalità anarchiche. Se la conseguenza di un simile modo di intendere il diritto sono gli “Stati nuovi”, questo significa anche che il problema raggiunge una nuova “fase drammatica”(42). Se il diritto è nell’uomo, come si realizza nella società? “Se il diritto è un’entità imponderabile, dinamica, continuamente mutevole, come regolerà i rapporti fra gli uomini? Come conciliare Stato e diritto? Come fissare una organizzazione giuridica valevole?”(43).
E qui Curcio sembra volersi riferire proprio a quella che gli appare come la sin lì insoluta problematicità dello stesso fascismo. Qui la sua argomentazione risulta coerente, quanto meno nel raffronto fra un elemento volontaristico, attivistico, rivoluzionario, come fattore originario del diritto, e d’altro canto l’ineludibile necessità di una composizione di tale primato della volontà in un misura etica irriducibile alla volontarietà assoluta.
Si tratta, è pur vero, di un passaggio soverchiamente dialettizzato da Curcio, nell’indubbio, palese eccesso di rapidità argomentativa. In definitiva, qui la pur postulata esigenza di eticità rimane, malgrado tutto, troppo concettualmente interiorizzata nella volontà dell’individuo, peraltro tanto impegnato nel processo attivistico di creazione di nuova realtà da non configurarsi affatto come intenzionato ad auto-limitarsi, o comunque capace di un minimo controllo morale delle sue pulsioni(44).
Nondimeno, il criterio del limite etico – sin qui chiamato in causa ma non risolto in una trattazione del tutto coerente – trova nell’ulteriore sviluppo del discorso di Curcio la sua logica conclusione. Una conclusione che certo non implicava un immediato riferimento agli approdi autoritari del Regime. Ma, come si è detto, quello che qui ci interessa è evidenziare quanto di valido resta ancor oggi della sua teorizzazione filosofico-giuridica, cioè del suo concetto della tradizione politico-istituzionale, quanto meno da lui rapportata alla sua connessione in positivo con l’accezione di rivoluzione (e questa, beninteso, una ‘rivoluzione per la continuità dello sviluppo istituzionale’).
Non ci interessano affatto, invece, quei tentativi di revisionismo storico del significato del fascismo che sono stati esperiti, sia pure con motivazioni apprezzabili, o che potranno essere tentati ancora utilmente nel futuro. Peraltro, ritengo impossibile la dimostrazione di una piena e perfetta consapevolezza della complessità di implicazioni di questa identità fra tradizione, rivoluzione e fascismo. Una dimostrazione forse intuibile più in personalità come Curcio, piuttosto che in qualsiasi altro protagonista, teorico o pratico, del fascismo. Nondimeno, una relativa consapevolezza emerge in lui, e forse meglio che in altri, dell’inconsistenza del Regime, fino al punto cioè di scorgervi consapevolmente solo una delle possibili forme politiche ed una sola delle possibili soluzioni istituzionali al problema della continuità dello sviluppo della società civile in rapporto allo Stato ed alla molteplicità di aggregati, ruoli e funzioni rispetto all’omologazione dittatoriale.
Si considerino, infatti, le conclusioni di Curcio in merito alla suddetta problematicità fra il concetto rinascimentale, attivistico-volontarista del diritto e la tradizione ‘romano-italica’ – come la chiama Curcio – dell’ineludibilità di un raffronto etico di questa libertà demiurgica. A tal riguardo, si vedano le parole con cui chiama in causa Marsilio da Padova, riferendosi esplicitamente al suo criterio democratico-repubblicano. Sulla base del Defensor pacis, la legalità, la giuridicità stessa dello Stato sono configurati appunto come espressione della volontà del popolo, dei cittadini, come una translatio di autorità da questi al governo, implicando da quest’ultimo il più compiuto rispetto di quella sovranità che si configura come volontà costitutiva degli antenati e del consenso di tutte le successive generazioni, sino all’attuale.
“[…] Da Marsilio, che ha posto saldamente questo concetto (Defensor pacis, l. I, c. x), lo Stato è in quanto v’è la legge; eppertanto lo Stato è imperio, potere, autorità; attributi che gli vengono conferiti dalla volontà dei cittadini […], dalla sapienza dei maggiori […], dalla coscienza degli individui […], dalla forza stessa e dalla volontà di colui che ha fondato lo Stato e lo regge […]; e cioè, in ultima analisi, in tutti i casi, da quella forza etica che ha generato l’organizzazione statuale, che non può essere giuridica, fondata, insomma, sul diritto”(45).
Una simile valutazione in negativo dello Stato moderno, scaturito dal periglioso primato della volontà singolare, dell’individuo egemone, è da Curcio intenzionalmente delineata con significative implicazioni rispetto all’attuale situazione politica totalitaria. Al riguardo, si potrebbe anche avanzare l’ipotesi di una precisa intenzionalità di evidenziare l’abisso venutosi a produrre sin dall’inizio dell’epoca moderna fra il riferimento formale alla ‘tradizione romana’ da parte di queste volontà egemoni (facenti capo ad una struttura autoritaria, assolutistica dello Stato moderno) e la vera sostanza di questa tradizione ‘romano-italica’.
Sostanza tradizionale, dunque, che sarebbe da intendere non solo in una sua essenza dinamica (incompatibile sia con il formalismo giuridico della passata ‘società borghese’, sia con la monoliticità del nuovo ordine totalitario), ma anche in una sua funzione ‘veicolare’ di una concezione pluralistica della società civile. E questa, cioè, vista come un complesso organismo di elementi dotati di una certa loro autonomia, del resto espressa storicamente (soprattutto nell’epoca comunale, ma anche nel processo storico che conduce ai sistemi rappresentativi) nel riconoscimento di una pluralità di esperienze e livelli normativi, gerarchicamente ordinati nel riferimento ad uno ius naturale, inteso come legge morale, come riferimento cioè a valori etici diversi e superiori rispetto alla norma positiva, ad uno ius publicum, comunque impersonato, espresso e formulato.
Per un verso, – in altre parole – poteva qui delinearsi in Curcio la denuncia che lo Stato totalitario ignorasse del tutto l’evoluzione che invece, fra medioevo ed epoca moderna, si era prodotta nel riconoscimento della piena legittimità di uno ius statuendi alla ‘pluralità di ordinamenti giuridici’ (ieri le ‘città-stato’, oggi la molteplicità di ceti sociali e gruppi professionali)(46). Per altro verso, – in parole più esplicite – si poteva scorgere in queste asserzioni il convincimento di Curcio che in generale nello Stato moderno, ed in maniera specifica nel regime totalitario, venisse ad essere disconosciuta la sostanza etico-giuridica di questa evoluzione, di questo passaggio dallo ius naturale (relativo al tipo di diritto vigente nella fase gentilizia delle origini di Roma) allo ius civile (quello della successiva fase di una ‘società civile’ articolata in molteplici classi di cittadini, le cui funzioni erano sia economico-privatistiche che politico-pubblicistiche) per giungere infine ad uno ius publicum, più evoluto, ma più coerente con questi antefatti.
Se in questi tratti, il discorso di Curcio non poteva che configurarsi come una critica rivolta (nemmeno poi in modo troppo indiretto) alla monolitica struttura dello Stato totalitario ed all’incondizionato potere del Capo del governo, d’altro canto non si può qui fare a meno di confrontare queste posizioni espresse sulla ‘RIFD’ con quelle manifestate in quello stesso intorno di anni in altre direzioni della sua produzione politico-filosofica.
E proprio l’esperienza nella ‘fascista’ Facoltà di Scienze Politiche di Parugia, che inizia in questo stesso 1928, andrebbe in effetti studiata attentamente, cioè ricostruita su basi comunque diverse dalla stessa rievocazione di Curcio, nel secondo dopoguerra(47). Basterebbe infatti pensare allo sviluppo della sua attenzione, proprio allora crescente, per il pensiero illuminista italiano, quale risulta proprio da uno degli ultimi suoi contributi di questo periodo perugino(48). Peraltro, sin dall’inizio di questo ‘momento’ vanno infatti riconsiderate ben altre e rilevanti formulazioni che, fra l’altro, segnano il punto di svolta di Curcio sul tema del corporativismo.
Una svolta che in questo 1928 si produce sia con il saggio intitolato Il problema metodologico nel diritto corporativo(49), sia con due recensioni apparse sulla ‘RIFD’, in riferimento a quanto Costamagna stava pubblicando in quel periodo(50), sia – e soprattutto – con la sua prolusione tenuta il 26 marzo di quell’anno al corso di Storia delle Dottrine politiche in quell’Ateneo. Testo altamente significativo, che infatti venne poi ristampato, con il titolo Il carattere storico del pensiero politico italiano, in un volume collettaneo(51). Qui si palesa significativamente la divaricazione fra una persistente adesione formale all’ideologia fascista e d’altra parte il sostanziale approfondimento critico della del Regime. Siamo al cospetto indubbiamente di una tormentata vicenda personale che conferma il ripensamento da parte di Curcio dei fondamenti stessi del ‘nuovo ordine’, visto ormai come sostanzialmente estraniato dalle premesse (e promesse) della ‘rivoluzione fascista’. In quest’ultima, come in tutte le altre vere rivoluzioni, – precisa adesso Curcio – si era inizialmente inteso dar corpo alle istanze di libertà espresse dai ‘moti popolari’, ossia da quella ‘volontà’ o ‘sovranità’ del ‘popolo’ che sin dagli inizi era stata alla base della ‘tradizione italiana’(52).
Nel 1929 – sempre nel contesto dell’insegnamento perugino – appare poi il saggio intitolato Per una metodologia della storia delle dottrine politiche(53), in cui Curcio mostra di saper cogliere pienamente la specificità di questo campo di indagine, il metodo da seguire in questa materia ancora agli albori. Immediatamente dopo, Curcio affronta conclusivamente, su diversi organi di stampa, la questione del ‘corporativismo’, adesso nel riferimento non solo alle conclusioni di Costamagna, bensì qui soprattutto di Sergio Panunzio.
In particolare, L’ordine corporativo(54) segna un ulteriore momento del complessivo percorso di Curcio verso il superamento sostanziale di uno dei cardini dell’ideologia del fascismo. Un superamento sostanziale che, come abbiamo più volte precisato, non esclude affatto una persistente adesione formale al Regime. A tali ambiguità fanno comunque seguito nuove prospettive, come si vede in un altro saggio della fine dello stesso anno 1929, L’ideale del lavoro (testo della conferenza tenuta all’ Istituto fascista di cultura di Perugia, il 16 maggio 1929)(55), dove viene esaurientemente definito il quesito che aveva a lungo impegnato la sua riflessione su come rendere appunto armoniche le esigenze della pluralità di ordinamenti giuridici e quelle dell’unitarietà dello Stato(56).
È di nuovo una prospettiva di solidarismo che, così come è posta, rappresenta un’alternativa di fondo al fallimento dell’idea corporativa realizzata solo formalmente dal Regime. Tesi, ovviamente, non argomentata in maniera così diretta ed inequivoca, bensì negando ora qualsiasi fondamento a quelli che nella retorica ideologica erano posti come gli antefatti, i punti di riferimento del corporativismo fascista, ossia le ‘corporazioni medievali’, e persino quelle ‘romano-imperiali’ (non a caso qui definite da Curcio prodotto del ‘tardo impero’).
Infranto è dunque la sfondo ideologico del Regime come rivoluzione. Da qui, poi, l’inizio di una piena ed univoca rivalutazione del ‘solidarismo cristiano’, indagandone le origini, ritrovandole ancor prima dei contrasti fra Chiesa e Stato nel XII-XIII secolo (fra Comuni, Papato e Impero), ossia in quella rinascita al tempo stesso spirituale, religiosa, politica ed economica che coincise con l’Ordine fondato da ‘Colui’ – come lo definisce Curcio – che fu il primo tipo di uomo davvero ‘romano-cristiano’, Benedetto da Norcia, animato da nuovi intendimenti etico-politici rispetto all’ ‘agostiniana’ fuga verso la ‘Città celeste’, ossia determinato a ristabilire il nesso sostanziale fra valori morali e partecipazione alla ‘res publica’(57).
IV. Il superamento dell’ ideologia statalista nella rivalutazione del pluralismo sociale ed il significato metapolitico della ‘rivoluzione’ (1930).
Nell’ulteriore sviluppo della sua produzione, nel 1930 Curcio elabora proprio sulle pagine della ‘RIFD’ – oltre alle solite recensioni(58) – diverse altre analisi filosofico-politiche. C’è qui, indubbiamente, anche un ‘dovuto’ ossequio al Regime, nell’articolo intitolato Per la teoria generale dello Stato fascista(59), scritto che, dunque, segna una battuta d’arresto nella già incipiente critica integrale del Regime. Nell’articolo in questione, infatti, Curcio professa adesione a quello che ora definisce il “concetto mussoliniano dello Stato”(60), titolo del primo paragrafo del saggio, completamente formato da perentorie asserzioni del Capo del Governo, riportate fra virgolette. Sono citazioni senza quasi commento, se non per definire queste posizioni una sorta di ‘realtà fattuale’ su cui gli studiosi di politica avrebbero avuto materia per riflettere.
Affermazione di per sé senza alcuna incidenza né ideologica, né tanto meno dottrinale, ma appunto di formale allineamento ai ‘desiderata’ del Duce, come si evince dall’asserzione di Curcio che quanto adesso ci vorrebbe per rivitalizzare il Regime sarebbe semplicemente il costante confronto fra il dato oggettivo delle nuove leggi in materia corporativa e la teoria politica. In altre parole, gli scrittori fascisti non avrebbero dovuto far altro che interpretare senza discussioni questa nuova produzione normativa, per recepirne l’intima logica, onde adeguarvi una mera spiegazione sistematica(61).
E qui Curcio non poteva ignorare che rivitalizzare un Regime facendo riferimento alle sue leggi, voleva semplicemente scadere in un nuovo genere di formalismo, in una nuova forma di solo apparente giuridicità, nella dimenticanza e nel traviamento degli iniziali progetti rivoluzionari del fascismo, cioè della rivendicazione di una sostanziale eticità dell’ordinamento sociale, precedentemente smarrita e corrotta dal formalismo del diritto borghese del XIX secolo. Rivitalizzare il Regime facendo appello alle sue leggi voleva dire semplicemente farsi concettualmente irretire, farsi ingannare sul piano della valutazione teoretica, dall’illusione che dall’antitesi fra due opposti formalismi (quello totalitario e quello capitalistico-borghese) potesse davvero scaturire una sintesi fra eticità e giuridicità sostanziale.
Su questa ambigua equazione totalitaria di lì a poco Curcio ritornerà, cercando di superare questa ossequiosa confusione fra la volontà del capo del Governo e la coerenza logico-giuridica, la definizione filosofico-giuridica dei valori fondativi del nuovo ordine, lo spirito della rivoluzione. Sarà allora il suo un ripensamento profondo, che peraltro non ci spiega più di tanto la sorta di ‘fiammata ideologica’ prodotta in questo Per la teoria generale dello Stato fascista, se non appunto come un atto ‘dovuto-richiesto’, al quale per il momento non ritenne o non seppe opporre quelle obiezioni e critiche che più tardi lo animeranno di ben altra carica etica e teoretica.
Indubbiamente di maggior momento sono comunque altri due saggi apparsi sulla ‘RIFD’, ossia I problemi del diritto corporativo(62) e L’ostetrica del diritto. Note per la storia del concetto di rivoluzione(63). Sin dal primo di questi due, relativamente all’irrisolta problematicità del diritto corporativo, si avverte un qualche ripensamento sostanziale. Viene qui anzitutto ripreso quanto già era stato argomentato nel 1929, con Il diritto sindacale-corporativo e l’unità del mondo giuridico, in un’analisi che adesso si precisa sui due diversi livelli: sia della considerazione della pluralità di ordinamenti giuridici all’interno dello Stato fascista, sia della valutazione anche del tipo di correlazione da instaurare fra lo Stato totalitario ed i sistemi statuali delle altre nazioni.
In altri termini, qui i princìpi solidaristici del corporativismo vengono intesi da Curcio come un correttivo ‘pluralista’ non solo alla stessa monoliticità dello Stato totalitario, ma anche dei rapporti di potenza che questo avrebbe dovuto stabilire nei confronti degli altri Stati e nazioni. Qui, cioè, nella visione di Curcio il diritto corporativo viene proiettato al di fuori della concezione totalitaria e della conseguente politica imperialista, per riallacciarlo invece alla ‘tradizione universalistica romana’, allo ius gentium. Su questa base, di un reiterato significato solidaristico attribuito al ‘corporativismo’, Curcio delinea perciò il nuovo ruolo che l’Italia può avere nel mondo, appunto superando il sistema totalitario, l’imposizione di uniformità. E quindi si trattava per lui di riproporre su questi princìpi originari, al di là della politica di potenza del Regime, una migliore correlazione fra i diversi ordinamenti istituzionali, nel contesto, quindi, di una riconsiderazione delle stesse relazioni fra le nazioni(64).
D’altra parte, qui Curcio tenta di ricostruire più profondamente il significato di questa problematica coordinazione fra corporazione ed ordinamento giuridico, ed ancora sulla base della vicenda storica che ha caratterizzato in Italia ed in Europa la nascita, fra XII-XIII secolo, di una pluralità di ordinamenti, tendenzialmente antagonistici rispetto all’unità statuale. Oggi – sostiene infatti Curcio – sarebbe possibile una composizione di queste antinomie, in un sistema di distinzioni e complementarietà di funzioni e di ruoli. Un sistema peraltro da non confondere con le recenti interpretazioni organicistiche, per le quali – ad esempio – Gierke ha inteso spiegare l’insieme dei rapporti fra queste diverse entità corporative, senza cogliervi coerentemente l’elemento individuale, volontaristico, e quindi la difficoltà di un coordinamento con le esigenze di unità statuale. In tali concezioni organicistiche si viene in effetti riducendo il problema ad un’inammissibile interpretazione naturalistica del diritto(65), in un’immaginaria convergenza spontanea, istintuale, delle diversità di ruoli e di funzioni nel monolitico edificio dello Stato.
E questo anche se- specifica Curcio – la pur giusta intenzione di ricondurre questi elementi al loro carattere volontaristico (ed in certo modo individualista), oggi significa affatto riproporre una loro assoluta autonomia, che ricondurrebbe a quello stato di conflittualità, di disordine e di anarchia che già nel medioevo caratterizzò il sorgere e lo sviluppo delle corporazioni(66). Una simile volontà di assoluta indipendenza innescò a suo tempo quel processo di disintegrazione che poi diede quanto meno un’apparenza di legittimità all’imporsi dello Stato assoluto. Questo è quanto avvenne al sorgere dell’epoca moderna, con l’apparizione di teorie che “deificarono lo Stato”, cancellando “con un frego di penna ogni specie di organizzazione nel suo seno”(67).
Che significa – si chiede Curcio – riproporre oggi questo antagonismo fra lo Stato e la pluralità di ordinamenti giuridici? Un antagonismo che fra medioevo e Rinascimento rappresentò “il dramma di tutto il mondo politico e giuridico”, già in fermento sulla “soglia” dell’età moderna?(68). Indubbiamente, questa “colossale esperienza”, su cui si basa l’inizio stesso del mondo moderno, ci deve ammonire sulla necessità che nel sistema giuridico siano ben definite, in un insieme di coordinamenti, le relazioni che intercorrono tra le diverse parti, tra individui, gruppi, funzioni, ruoli(69).
Nondimeno, in Curcio e soprattutto con il saggio L’ostetrica del diritto. Note per una storia del concetto di rivoluzione, del novembre-dicembre 1930, che – come preciso in un’altra mia ipotesi interpretativa su questa fase saliente del pensiero di Curcio(70) – siamo di fronte ad una compiuta elaborazione di una significativa teoria del fenomeno rivoluzionario. Teoria nella quale si indica il momento fondante della politica e dello stesso ordinamento giuridico-istituzionale appunto nella rivoluzione. Con rapidi ma incisivi riferimenti alle principali formulazioni di una teorica delle rivoluzioni nel corso di tutto il pensiero politico occidentale, qui Curcio focalizza attorno alla genesi del diritto nuovo, appunto tramite la cesura rivoluzionaria, il momento di connessione fra pensiero classico e pensiero moderno.
“Il diritto nuovo, che solo giustifica e legittima la rivoluzione, non sorge all’improvviso; ma ha bisogno di un processo che non si diversifica in un momento; onde la necessità, spesso, di una dittatura rivoluzionaria, la quale serve appunto, all’atto della frattura, a preparare il diritto nuovo, la quale si appalesa essa stessa come uno jus speciale, onde scaturirà la sovranità nuova, il nuovo dominio”(71).
Su questa base, nel 1930, Curcio cerca di esprimere – come ho inteso dimostrare in altro luogo(72) – la complessità del processo rivoluzionario, con la quale adesso sarebbe illusorio credere che si dovesse riconfrontare il Regime, per emendarsi delle molteplici reductiones ad unum con cui in effetti ha coartata la pluralità sociale e le molteplici esperienze, entità ed istanze storiche in un edificio monolitico, totalitario, quale occasione mancata di una rivoluzione improntata alla pluralità degli elementi, come momento fondante della politica e del diritto.
D’altro canto, tutto questo va raffrontato all’altro versante della produzione di Curcio in questo 1930, e precisamente alla collaborazione alla rivista di Costamagna, ‘Lo Stato’, iniziata da gennaio, con un’ampia produzione di scritti, in gran parte anche questi di minor momento (sia brevi riflessioni su molteplici argomenti di immediata rilevanza politica, sia nelle varie rubriche, Rassegna delle riviste e Note e discussioni)(73). Scritti di minor rilievo almeno nel senso del troppo breve spazio concesso alla riflessione(74), quantunque talvolta l’interesse di Curcio si ampli a considerare i problemi del mondo del lavoro, come pure la divulgazione all’estero, particolarmente in Germania, del significato corporativo del nuovo costituzionalismo fascista(75). Infatti, numerose altre segnalazioni vanno considerate di valore non meramente occasionale per l’attualità politica, come può vedersi da contributi come : Crisi dello Stato e forze economiche(76); Recenti dottrine italiane di diritto internazionale(77); I movimenti delle classi sociali(78); Sindacalismo antico(79); Il Consiglio legislativo rumeno(80); Il contratto di lavoro in Russia(81).
Tuttavia, sono soprattutto altri scritti che rivelano una sostanziale importanza nel complesso della riflessione filosofico-politica curciana. E fra questi certamente Politica corporativa(82) ed il saggio intitolato le Tendenze nuove della dottrina tedesca: C. Schmitt(83), che costituisce se non la prima, certo una delle prime testimonianze della presentazione del pensiero del giurista tedesco in Italia, anteriormente alla fase nazional-socialista.
Riguardo al primo di questi due scritti, con Politica corporativa Curcio riprende esplicitamente quanto aveva concluso sulla ‘RIFD’, in quello stesso anno, con il saggio I problemi del diritto corporativo(84), qui, peraltro, adesso ponendo l’accento sull’identità fra idea corporativa ed un perenne, naturale, sentimento di associazione che indurrebbe l’uomo sin dalle origini a stabilire una stretta correlazione con la comunità. Interpretato così, un po’ surrettiziamente(85), il corporativismo come espressione di una ‘naturale tendenza spirituale’ ad unirsi ed a collaborare (nel contestuale mantenimento della propria individualità e nello sviluppo delle istituzioni societarie), quindi Curcio lo identifica, tout-court, con il genuino ‘sentire politico’. In questi tratti, qui, il corporativismo è la facies attuale di una progettualità politica che la rivoluzione sarebbe perfettamente in grado di ‘restaurare’, come una riaffermazione della vera natura dell’uomo, cioè come espressione attuale di una sostanziale vitalità dell’ordine politico, snaturatosi nell’epoca contemporanea con il formalismo giuridico, per opera dell’egoismo di classe ‘borghese’, infine del liberismo economico ottocentesco(86).
Riguardo al secondo dei due scritti in questione, se tali erano le risultanze teoretiche argomentate, con qualche sconfinamento ‘giusnaturalistico’, nel saggio Politica corporativa, invece, con le Tendenze nuove della dottrina tedesca: C. Schmitt si compie in Curcio un altro decisivo passo (dopo quello sulla ‘RIFD’ con il saggio L’ostetrica del diritto) nella svolta verso la ‘fuoruscita’ dall’ideologia fascista. Un passo che qui su ‘Lo Stato’ – paradossalmente sulle pagine di questo organo di punta della filosofia politica fascista – si compie non solo attraverso la ricerca dell’originario significato ‘filosofico-giuridico’ della rivoluzione ‘fascista’ e del corporativismo, quali occasioni mancate dal Regime, ma soprattutto in relazione alla ‘scoperta’ del pensiero ‘pre-nazionalsocialista’ di Carl Schmitt.
Qui, infatti, attraverso i testi dello studioso tedesco, avviene in Curcio il primo contatto di quello che lui stesso definisce il lato positivo, al di là di quello nebuloso e negativo, delle teorie di Rousseau. Si tratta, come è noto, di uno Schmitt ancora non attratto e sedotto dalla spirale ideologica del Dodicennio nero. Alla quale, peraltro, il giurista tedesco giungerà attraverso una contestuale riflessione su Hobbes-Rousseau-Sieyès. È dunque lo Schmitt ancora affascinato se non proprio dalle teorie illuministiche, certo dalla Rivoluzione francese e – non ultimo – dalla stessa rivoluzione bolscevica, da Lenin, e dalla Repubblica di Weimar.
In un’attenta lettura di quei primi testi schmittiani(87), – qui Curcio indica nello scrittore tedesco il protagonista di una nuova concezione integrale dello Stato, concepito al di là di ogni formalismo, di ogni staticizzazione giuridica, in norme immobili e fisse, mera astrazione fuori dalla storia. Per Schmitt, invece – sottolinea, con partecipazione, Curcio – si deve andare al di là di ogni “teoria giuridica della sovranità in astratto, fuori dalla vita dei singoli Stati”(88).
Nell’effettuale realtà storica, secondo Schmitt, ogni singolo Stato rappresenta “l’unità politica di un popolo”, che è data “dalla coscienza e dalla volontà nazionale del popolo stesso” e si realizza attraverso la costante rivitalizzazione rivoluzionaria delle forme istituzionali(89). Una volontà comune ed una consapevolezza di appartenenza nazionale che dunque, – sottolinea con forza Curcio – necessitano di una rappresentazione politica, ossia di una “rappresentanza spirituale”, ancor prima di una ‘rappresentanza parlamentare’(90). E proprio in ragione di questa originaria unità spirituale che si concreterà poi nello Stato, sin dall’inizio individui e gruppi si costituirono storicamente in un ‘popolo’, in un’entità differente da una qualsiasi comunità, sia quella intesa in maniera naturalistica, che quella identificata semplicemente nella normatività-coercività che del resto si può riconoscere anche in una comunità di briganti(91).
Sottolineandone il valore e la novità, Curcio indica significativamente in queste concezioni di Schmitt una matrice complessa, da riferirsi cioè, nell’immediato alle teorie di un Treitschke, ma tali da recare appunto l’impronta più lontana delle idee di Rousseau(92). Scritto dunque importante, malgrado le ridotte dimensioni e l’apparente occasionalità della segnalazione – queste Tendenze nuove della dottrina tedesca… – nel marcare profondamente le tappe dell’evoluzione teoretica di Curcio, il quale del resto ritorna di lì a poco alle schmittiane suggestioni illuministiche e pre-rivoluzionarie.
Nell’immediato, a questi rilevanti contributi alla riflessione filosofico-politica seguono poi altre produzioni minori, cioè recensioni sulle stesse tematiche già viste, come pure un accenno troppo rapido sul ‘fuoruscitismo’ antifascista(93), o anche il fuggevole confronto con le istituzioni parlamentari britanniche(94). Per il resto, in questo 1930, i temi, comunque, restarono prevalentemente del genere suddetto(95). Nel frattempo, sempre in questo anno, esce in Germania un saggio di Curcio divulgativo della concezione corporativa fascista, intitolato Die geistigen Grundlagen der korporativen Ordnung in Italien(96).
NOTE
* La versione ridotta del presente saggio apparirà nel volume: Sindacalisti e nazionalisti a Perugia (1928-1944). Materiali per una storia della cultura umbra tra le due Guerre. A cura di Alessandro Campi. Perugia, Volumnia, 2005.
(1) P. Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di Carlo Curcio (1898-1971). Fra liberalismo, fascismo e democrazia, ‘Annali di Storia moderna e contemporanea. Istituto di Storia moderna e contemporanea. Università cattolica del Sacro Cuore’, VIII, 2002, n. 8, pp. 345-466.
(2) Carlo CURCIO, Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul socialismo e sul liberalismo, con una introduzione intorno ai miti ed una conclusione sull’utopia, Roma, Cremonesi, 1940.
(3) Nelle antologie degli scritti di: C. H. de SAINT-SIMON, Sogno d’una felice Europa, Roma, Colombo, 1945; e di: C.I.C. de SAINT-PIERRE – J.J. Rousseau – I. Kant, Progetti per la pace perpetua, Roma, Colobo, 1946).
(4) La rivista venne creata nel 1921 da Giorgio Del Vecchio, che la dirige fino alle al 1938, cioè alle leggi razziali, che fra gli altri effetti aberranti ebbero quello di discriminare anche tanti ebrei ex-combattenti e fascisti della prima ora, come appunto Del Vecchio, pluridecorato, ‘sansepolcrista’, fra i fondatori dei Fasci di combattimento, e figura di spicco fra gli intellettuali del Regime (tanto che lo stesso Mussolini lo volle rettore dell’ Università di Roma, nel 1925).
(5) E precisamente: nel 1927, n. 5 (1 marzo), pp.95-96; n. 6 (15 marzo), pp. 118-119; n. 7 (1 aprile), pp. 136-137; n. 8 (15 aprile), pp. 157-158; n. 9 (1 maggio), pp. 177-178; n. 10 (15 maggio), pp. 196-197; n. 11 (1 giugno), pp. 215-216; n. 12 (15 giugno), pp. 235-236; n. 13 (1 luglio), pp. 255-256; n. 14 (15 luglio), pp.276-277; n.15 (1 agosto), pp. 297-298; n.16 (15 agosto), pp. 317-318; n. 17 (1 settembre), p. 336; n. 18 (15 settembre), pp. 356-357; n.19 (1 ottobre), p. 376; n.20 (15 ottobre), pp.397-398; n.21 (1 novembre), pp. 417-418; n. 22 (15 novembre), pp. 435-436; n. 23 (1 dicembre), pp.456-457; n. 24 (15 dicembre), pp. 475-476. Analoga valutazione è da farsi per il 1928: Rassegna estera e coloniale, (nella rubrica: Rassegne di Politica e Cultura), n. 1 (1 gennaio): La relazione di Mussolini al consiglio dei ministri. – Problemi e sviluppi libici. – La rivolta rossa di Canton, p.16; n. 2 (15 gennaio): La guerra fuori legge e l’ultima utopia americana. – I sovrani dell’Afganistan a Roma. – Italia e Turchia, pp.36-37; n. 3 (1 febbraio), La conferenza panamericana e la politica degli Stati Uniti. – La missione uruguaiana e il ministri degli esteri romeno a Roma. – L’arrivo del nuovo ambasciatore di Francia, pp.57-58; n. 4 (15 febbraio): Italia, Romania e Piccola Intesa. – Dalla conferenza dell’Avana alle discussioni franco tedesche per il Reno, p.77-78; n. 5 (1 marzo): Italia, Austria e Alto Adige. – Il problema della sicurezza e dell’arbitrato a Ginevra. – Il nuovo Gabinetto Iugoslavo. – L’occupazione della Giofra in Tripolitania e l’inaugurazione della II Fiera di Tripoli,pp. 97-98; n. 6 (15 marzo): La risposta del Duce a Seipel e la campagna pangermanista contro l’Italia.- Ginevra, la Piccola Intesa e l’incidente di S. Gottardo. – La conferenza per Tangeri e l’Italia. – L’occupazione di Zella e Gialo in Tripolitania , pp.117-118; n. 7 (1 aprile): La conferenza per Tangeri. – Il torneo ginevrino per il disarmo. – L’occupazione di Merada in Libia, p.136; n. 8 (15 aprile): La politica dell’Italia e la sua portata internazionale. – Parker Gilbert e la revisione del piano Dawes. – La tensione anglo-egiziana, p. 157; n. 9 (1 maggio): L’amicizia italo-polacca.- Italia e Ungheria. – Un patto d’arbitrato tra Italia e Stati Uniti. – Le elezioni politiche in Francia. – Il viaggio dei Sovrani in Tripolitania. – La tutela del lavoro italiano all’estero, pp. 177-178; n. 10 (15 maggio): La nuova rete consolare italiana e la tutela degli italiani all’estero. – Il Giappone e la Cina. – Nei Balcani. – La chiusura dell’incidente anglo-egiziano.- La Francia dopo le elezioni, pp. 197-198; n. 11 (1 giugno): Il bilancio delle nostre colonie. -Le elezioni tedesche, pp. 215-216; n. 12 (15 giugno): Il discorso del Duce al Senato. – L’Italia e l’Europa. – Piccola Intesa e Balcani. – La politica dei trattati. -L’Italia e il mondo, pp.236-237; n. 13 (1 luglio): La Piccola Intesa. – Gli avvenimenti iugoslavi, pp. 256-257; n. 14 (15 luglio): I rapporti italo-austriaci.- Il nuovo ministero tedesco. – Il ritorno di Venizelos. – Nuovi trattati commerciali, p. 277; n. 15 (1 agosto): L’Italia a Tangeri. – Il patto contro la guerra e l’adesione dell’Italia. – Operazioni in Tripolitania, pp. 296-297; n. 16 (15 agosto): La nuova intesa franco-inglese. – Il nuovo Gabinetto iugoslavo e la morte di Radicembre – Il trattato italo-abissino, p. 316; n. 17 (1 settembre): La ratifica delle convenzioni di Nettuno e i rapporti italo-iugoslavi.- Il trattato italo-finlandese, p.336; n. 18 (15 settembre): La proclamazione di Ahmed Zogu a Re d’Albania. – La firma del patto Kellog e la IX Assemblea della Società della Nazioni, p.356-357; n. 19 (1 ottobre): Il trattato Italo-greco, pp.376-377; n. 20 (15 ottobre):Il compromesso navale anglo-francese e l’atteggiamento dell’Italia. – I lavori di Ginevra e le trattative per lo sgombero della Renania. – L’incoronazione di Ras Tafari a Re, pp.396-397; n. 21 (1 novembre): La pubblicazione dei documenti sul compromesso navale. – Il problema delle riparazioni e la revisione del patto Dawes, pp.416-417; n. 22 (15 novembre): Le elezioni presidenziali americane. – La crisi francese. – Provvedimenti per le colonie, pp.436-437; n. 23 (1 dicembre): Il problema delle riparazioni. – La nuova situazione in Romania, pp.456-457; n. 24 (15 dicembre):Italia e Francia. – L’Italia e la pace, pp.476-477.
(6) Sui numeri: 14 (15 luglio), pp. 261-265; 15 (1 agosto), pp. 281-285; 16 (15 agosto), pp. 310-314.
(7) Si vedano, in tal senso: L’emigrazione italiana nel Mediterraneo, I, 1927, n. 1 (15 gennaio), pp. 32-36; La funzione del Mezzogiorno nel Mediterraneo, n. 2 (20 marzo), pp. 82-91; La coscienza mediterranea negli scrittori del Risorgimento (I-IV), nn. 3-4 (marzo-aprile), pp. 121-131. Tale articolo continua, ma cambia titolo nei seguenti nn. 5-6 (maggio-giugno): La coscienza mediterranea dell’Italia negli scrittori del Risorgimento (V-IX). Sotto quest’ultimo titolo sono pubblicati il precedente articolo e questo che ne è la continuazione: Roma, Edizioni di Sud, 1927.
(8) ‘Lo Stato Corporativo. Rivista di dottrina e di prassi sindacale’, I, 1926, n. 1(novembre), pp. 10-16.
(9) Ibidem, n. 2 (dicembre), pp. 1-20.
(10) ‘Lo Stato corporativo’, 1927.
(11) ‘Vita Nova’, settembre 1927.
(12) Carlo Costamagna, [Recensione] a: S. PANUNZIO, Lo Stato fascista, in ‘RIFD’, 1926, fasc. I, pp. 166-168.
(13) Panunzio, Lo Stato fascista, Bologna, 1925.
(14) Da parte sua, Panunzio si riferiva ai sindacati come ad una pluralità di entità giuridico-politiche, autonome rispetto allo Stato, che pure ne doveva coordinare l’attività attraverso le corporazioni, e queste, dunque, viste come strumento di mediazione fra una molteplicità di organismi costituitivi la società e la necessaria unitarietà dello Stato. Su questo si veda l’accurata, ma inevitabilmente parziale, ricostruzione di: Francesco Perfetti, Un teorico dello Stato sindacale-corporativo (introduzione alla raccolta di scritti: Sergio Panunzio, Il fondamento giuridico del fascismo. Roma, Bonacci, 1987, p. 94). Inserendosi in questa polemica, Costamagna affermò che la posizione di Panunzio in sostanza riproduceva la visione contrattualistica, cioè individualistica, dello Stato liberale, pre-fascista, attribuendo ai sindacati u ruolo fondante, laddove si sarebbe dovuto riaffermare l’urgenza della sovranità dello Stato (Ibid., l.c).
(15) Dalle stesse pagine di questa rivista, intanto, Panunzio rispose a Costamagna, confermando la sua convinzione della priorità della società sullo Stato, secondo un rapporto fra ‘sostanza’ e ‘forma’, ossia fra impulso vitale, la ‘sostanza sindacale’, e l’adattamento normativo di questa sostanza, appunto nel ‘formalismo giuridico’ assicurato dallo Stato. S. Panunzio, Ancora sulle relazioni fra Stato e Sindacati (Il neosindacalismo di Stato), ‘RIFD’, 1926, fascicolo II, aprile-giugno, nella rubrica Note e discussioni, pp. 272-283). La replica di Costamagna non si fece attendere – sempre sulla ‘RIFD’ (C. Costamagna, Stato corporativo. A proposito del neo sindacalismo di Stato, Ibidem, III, luglio-settembre, pp. 414-423) – ribadendo le precedenti impostazioni, e suscitando un’ulteriore risposta di Panunzio, che – in una Postilla di seguito al suddetto scritto di Costamagna – lo accusò di teorizzare un ‘sindacalismo di Stato’ e di ispirarsi alle concezioni politiche di Giovanni Gentile (S. Panunzio, Postilla, Ibidem, pp. 423-426). Una nota della Direzione, sotto il testo della Postilla di Panunzio, pose fine a questa disputa (Ibid., p. 426). In realtà, sia Panunzio come del resto altri dissidenti sull’abbrivio autoritario del Regime anche in materia sindacale, non si rendevano conto, operando una lettura soggettiva della legislazione sindacale, che in effetti l’inquadramento autoritario dei sindacati era perfettamente coerente alle impostazioni di Alfredo Rocco (F. Perfetti, Op.cit., p. 96n), secondo appunto la deriva determinata dalla volontà di assoluto primato del capo del Governo.
(16) Si veda: S. Panunzio, Il riconoscimento rivoluzionario dei Sindacati, ‘Il Diritto del Lavoro’, aprile-maggio 1927 (cfr.: F. Perfetti, Op.cit., p. 98).
(17) ‘RIFD’, VII (1927), fasc. III (maggio-giugno), [nella rubrica: Note e discussioni] , pp. 335-339.
(18) Si tratta delle recensioni a: C. Costamagna, Diritto corporativo italiano. Torino, Unione topografica editoriale, 1927], ibidem, pp. 574-576; ed a: G. BOTTAI, L’ordinamento corporativo italiano. Discorso pronunziato alla Camera dei deputati nella tornata del 1° giugno 1927. Roma, Tip. Della Camera, 1927; ID., La Carta del Lavoro. Roma, Ediz. Del ‘Diritto del Lavoro’, 1927], ibidem, fasc. 6 (novembre-dicembre), pp. 706-707.
(19) Il problema metodologico nel diritto corporativo. Roma, Edizioni del ‘Diritto del Lavoro’, 1928.
(20) ‘Critica Fascista’, VI, 1928, n. 9 (maggio), pp. 163-165.
(21) “[…] La collaborazione tra i vari fattori della produzione predicata ed attuata da Mussolini, poggia […] su due pilastri fortissimi: il principio etico della nazione; l’organizzazione dello Stato supremo ente regolatore, entro il quale si risolvono tutti gli attriti; un massimo di libertà produttiva alle singole classi. V’è l’accordo, ma non la fusione; una ‘concordia oppositorum’ per dirla col linguaggio bruniano, non un già un livellamento. […] Marx predicava nel Manifesto che bisognava annullare le classi per far sorgere al loro posto uno Stato nuovo […]. Il segreto, invece, è un altro. Il segreto consiste nel non annullare gl’interessi di classe, ma soltanto nell’armonizzarli secondo una realtà che è implicita nelle stesse classi, la nazione (l’internazionalismo è un mito!); non smorzare le energie, ma dare ad esse una molla più forte” (La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia, pp. 9-10 dell’estratto [Roma, Arte della Stampa, 1928]).
(22) Ibidem, p. 15.
(23) Ibidem, l.c
(24) “[…] Le classi produttrici devono trovare, se non in loro stesse, almeno nel loro limite esterno un minimo di tolleranza: esiste un’etica anche per gl’individui economici. […]. Il capitalismo si salva, dando, però, la mano alle classi lavoratrici. Il vecchio capitalismo […] è tramontato; ma al suo posto sorge una economia nuova, che non annulla la funzione del capitale, ma la nobilita nel senso che allarga il concetto di capitale a tutte le forse della produzione […]” (Ibidem, p. 14).
(25) La politica internazionale e l’Italia, 1929, n. 1 (gennaio), pp.6 – 8; Gli avvenimenti dell’Afganistan, n.3 (1 febbraio), pp. 60-61; Il problema universitario, n. 8 (15 aprile), pp. 148-150; Mussolini e la stabilizzazione della pace europea, n.12 (15 giugno), pp. 230-231; Aspetti dell’imperialismo inglese, n.19 (1 ottobre), pp. 375-377; Aspetti dell’imperialismo inglese. Il mandato sul Tanganika, n. 21 (1 novembre), pp. 415-417; Il disarmo navale e l’Italia, ibid., n. 24 (15 dicembre), pp. 482-483.
(26) I giovani di fronte alla Rivoluzione, n. 3 (1 febbraio 1930), p. 45.
(27) Con questo, con la cessazione della collaborazione di Curcio, non si vuol certo dire che ‘Critica Fascista’ non si occupasse più del tema del ‘corporativismo’, che anzi, molto più tardi di questo 1929-30, apparvero sulle sue pagine forti critiche al mancato appuntamento con la realizzazione del sistema sindacale-corporativo. Nel maggio 1940, ‘Critica Fascista’ pubblicò in proposito un editoriale che, come rileva Aquarone, altro non era che un elogio funebre del ‘corporativismo’, del quale si sperava comunque una rinascita a guerra finita (Alberto Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario. Tomo I. Torino, Einaudi, 1978, p. 221n).
(28) Guerra e dopoguerra, n. 15 (1 giugno 1942, pp.202-203).
(29) Le origini del sindacalismo rivoluzionario in Italia, “Civiltà fascista”, 1943, fasc. di maggio, pp. 446-457.
(30) In pratica, poco prima che Del Vecchio venisse allontanato.
(31) ID., Il concetto di legge nel pensiero italiano del secolo XVI, ‘Rivista internazionale di Filosofia del diritto’ [d’ora in poi: RIFD], VI (1926), fasc. III (luglio-settembre), pp. 387-388.
(32) Ibidem, pp. 390-391.
(33) Ibidem, pp. 394-395.
(34) Ibidem, p. 397.
(35) Ibidem, p. 398.
(36) Ibidem, l.c..
(37) La modernità di Machiavelli, ib., VII (1927), fasc. 4-5 (luglio-ottobre), pp. 431-442. “L’ideale di forma politica di uno Stato giunto a maturità è quello che sappia tener conto degli interessi di tutte le categorie, di tutte le classi […]. In uno Stato bene ordinato […] le classi devono formare tra loro un equilibrio […]. Machiavelli, da ciò, arriva non solo a concepire un modello di forma mista di governo – quasi uguale a quello moderno costituzionale, con un potere esecutivo e due Camere legislative, formate dall’elemento nobile (il Senato) e dall’elemento popolare (il Parlamento) in equilibrio; ma accenna a qualche cosa d’altro ancora: all’esigenza di coordinare tutte le classi di uno stato in un ordinamento fondato sui reciproci interessi e mirante al bene della collettività” (Ibid., pp. 438-439).
(38) ID., La trasformazione dello Stato, ‘RIFD’, VIII, 1928, fasc. 1 (gen.-feb.), pp. 68-73.
(39) Ibidem, fasc. 2 (marzo-aprile), pp. 179-224.
(40) ID., Il rinnovamento dell’idea di diritto nel pensiero italiano del Rinascimento, ib., fasc. 3 (mag.-giu.), pp. 285-304. Qui noi ci riferiamo però alla paginazione dell’estratto.
(41) Ibidem, pp. 17-18.
(42) Ibidem, pp. 18-19.
(43) Ibidem, p. 19.
(44) “Il concetto prevalente è questo: il diritto è una forza naturale umana, che ha carattere rivoluzionario, attivistico, cioè, in fondo, etico. Il passaggio da questa realtà allo Stato è dato dalla legge. La legge è la regola fissa, in un dato momento, in un dato Stato, della condotta; è l’espressione di quello spirito dinamico che si fissa in norma giuridica, per essere valida per tutti i cittadini” (Ibidem, l.c.).
(45) Ibidem, pp. 19-20.
(46) Una tradizione che, fra l’altro, al di là dei fraintesi e delle riduzioni, sin dal Medioevo, si era presentata sempre come espressione di una complessa ‘tradizione romana’. Complessa in quanto in essa si erano veicolate sia i criteri di aggregazione della proportio e coequatio fra le diversità dei singoli (riconosciuti come componenti dell’articolata pluralità del corpo della nazione); sia l’idea stessa di una translatio del potere dal popolo all’imperatore (translatio da intendere dunque come affidamento condizionato alla realizzazione di più alti e migliori destini della stessa nazione, del popolo).
(47) Al riguardo, appare elusivo, se non puramente sentimentale, lo scritto in questione, intitolato: Sindacalisti e nazionalisti a Perugia fra il 1928 e il 1933 (Sergio Panunzio e la facoltà perugina. I docenti di Scienze politiche a Perugia: Michels, Orano, Maraviglia, Coppola, Pianini, Pagano, Olivetti. La morte di A. O. Olivetti. I giovani e Panunzio. Le serate al ‘Brufani’: i discorsi di storia, letteratura e politica; problemi sociali e corporativismo. Morti da non dimenticare (‘Pagine libere’, 1956, fasc. di dicembre, pp. 19-26).
(48) Il pensiero sociale di un riformatore italiano del settecento [Giambattista Pini], ‘Annali della facoltà di Scienze politiche della R.Università di Perugia. Anno 1940-41’, Padova, Cedam, 1942, pp. 25-36.
(49) Roma, Edizioni del ‘Diritto del Lavoro’, 1928.
(50) E cioè: Carlo Costamagna, Diritto corporativo italiano secondo la Carta del lavoro, la legislazione e la dottrina a tutto l’anno 1927. Con presentazione di S.E. Alfredo Rocco. Torino, Utet, 1928, pp. viii, 622, ‘RIFD’, VIII (1928), fasc. 4-5 (luglio-ottobre), pp. 595-596; ID., Il principio corporativo. Roma, Il Diritto del lavoro, 1929, Ibidem, X (1929), fasc. VI, ibid., pp. 922-924.
(51) Il carattere storico del pensiero politico italiano [prolusione al corso di Storia delle dottrine politiche, tenuta nella R. Università di Perugia, il 26 marzo 1928], in: PLURES, Dottrina e politica fascista, Firenze, La nuova Italia, 1930, pp. 177-207.
(52) “I moti popolari, – dice Vico (che “nella sua visione organica delle forme storiche degli ordinamenti politici […] considerò eterno ed ineluttabile il fondamento rivoluzionario del diritto e degli Stati”) – dettati da esigenze politiche ed economiche, sono la vera origine del perfezionamento politico che s’attua, poi, nella monarchia” (Ib., p. 201n). Pertanto, nella continuità di un medesimo processo, dalle teorie romaniste sino agli scrittori del Risorgimento, lo Stato ideale si fonda tramite un’energia rivoluzionaria, si basa e si sviluppa sulla spontaneità delle “forze morali della collettività nazionale che s’organizza a comunità giuridica (Ib., p. 200). Lo Stato nasce e si sviluppa sul moto interiore di queste forze rivoluzionarie, le quali – compiuta l’opera instaurativa – “s’adagiano, poi, nell’ordine statuale, che sgorga dal loro stesso impeto volitivo” (Ib., l.c.). Dal primo Umanesimo al pieno Rinascimento, sino al giurisdizionalismo ed all’anticurialismo dei Sei-settecento, e più oltre fino ad arrivare alla filosofia politica dell’Ottocento, questi ideali di schietta eticità stanno alla base della concezione italiana dello Stato” (Ib., l.c.).
(53) Ibidem, IX (1929), fasc. VI, pp. 830-845.
(54) Il saggio apparve su ‘L’industria umbro-sabina’, nel giugno-luglio 1929, sui nn. 3-4 (giugno-luglio), poi pubblicato come volumetto, con nuova paginazione, sotto lo stesso tit.: Foligno, R. Stabilimento Feliciano Campitelli, s.d..
(55) Pubblicato dapprima su ‘L’industria umbro-sabina’, 1929, nn.7-9 (ottobre-dicembre), quindi come volumetto, con nuova paginazione, sotto lo stesso tit.: Foligno, R. Stabilimento Feliciano Campitelli, s.d..
(56) Quesito cui ora Curcio fornisce risposte che, così come sono delineate, travalicano sia la prospettiva antagonistica del fascismo, sia la stessa enfatizzazione del concetto di nazione. Non a caso anche questa ora definita nella sua correlazione di finalità e di destino con le altre nazioni. Precisamente con L’ideale del lavoro è palese che nemmeno lui guarda ormai più al valore etico che all’inizio attribuiva alla ‘rivoluziona fascista’, ma ricerca altrove il referente ad altri e più antichi valori. Anzitutto, sebbene inizialmente non sempre in maniera univoca e lineare, adesso si volge a quella parte delle concezioni etiche di matrice ‘vetero-neotestamentaria’, nelle quali ora indica il più genuino significato morale dell’idea di lavoro.
(57) Ibidem, pp. 32 e ss.
(58) E cioè, le recensioni a: Atti del I Congresso di Studi romani. Roma, Istituto di Studi romani, 1929, vol. I, RIFD, X (1930), fasc. II (gennaio-febbraio), pp.165-166; Giuseppe Kohler, Il diritto nella evoluzione creatrice della civiltà. Con introd. di R. Sammarco. Palermo, A. Trimarchi, 1928, ibid., fasc. II (marzo-aprile), pp. 295-298; Antonio PAGANO, Idealismo e nazionalismo. Milano, Treves, 1928, ibid., pp. 298-301; Adriano Tilgher, Saggi di etica e di Filosofia del diritto. Torino, Bocca, 1928, ibid., pp. 301-303.
(59) ID., bPer la teoria generale dello Stato fascista, ‘RIFD’, X, 1930, fasc. II (marzo-aprile), pp. 275-283. Nella rubrica Note e discussioni.
(60) Ibidem, fasc. II (aprile-marzo), 275.
(61) “Tanto più” – giunge a dire Curcio (con qualche difficoltà non solo di sintassi)– “che la nuova legislazione fascista, permeata da una logica impeccabile, risponde, oltreché ad esigenze pratiche, a motivi ideali, che sono già sufficienti, nella loro interpretazione dei fatti e delle idee, a dare un quadro vivo della nuova ideologia politica, statale e filosofico-giuridica che promana dalla Rivoluzione Fascista” (Ibid., p. 276).
(62) Ibidem, fasc. III (maggio-giugno), pp. 412-422.
(63) Ibidem, fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 720-754.
(64) In questa prospettiva universalistica, qui Curcio afferma – volutamente relativizzandone il senso – che “il nostro diritto corporativo non è il primo a fare il suo ingresso nella storia giuridica e sociale dei popoli, dove si sono prodotte molte esperimentazioni giuridiche similari” (Ibid., p. 418). L’argomento della pluralità degli ordinamenti giuridici è in questo breve saggio riproposto da Curcio: in rapporto alla stessa natura del diritto, di per sé relazionale, pluralistica. “Il diritto è soprattutto rapporto, coordinamento. Esso si esaurisce […], come nota acutamente Giorgio Del Vecchio, ‘nella relazione intersubiettiva o bilaterale, ossia nella coordinazione del contegno di più soggetti [Il riferimento è nuovamente a: G. Del Vecchio, Sulla statualità del diritto, ‘RIFD’, IX, 1929, fasc. I, pp. 1-21] (Curcio I problemi del diritto corporativo, cit., p. 415). Una conclusione che secondo Curcio va applicata allo stesso diritto corporativo, nel quale più che mai s’affermano i problemi di relazioni, di rapporti, di coordinazione; problemi – del resto – “non ancora chiariti”, che però occorre affrontare e risolvere prima di altri, perché è dalla loro comprensione, valutazione soluzione che dipendono tutti gli altri problemi”, che invece – ad uno sguardo superficiale – potrebbero apparire in qualche misura avulsi dal complessivo contesto delle questioni del diritto (Ibid., l.c.).
(65) “Secondo l’accezione più comune della dottrina, – riassunta appunto da Gierke – la corporazione è quel corpus unum, quella società unitaria, i cui membri sono tra loro come le membra del corpo umano: collegia, universitates, corpora moralia et politica hanno il loro carattere precisato da questa concezione organicistica, che dalla glossa ai più tardi scrittori del Rinascimento s’appalesa uniforme. Corporatus, di un corpus morale et politicum, vuol dire che questo è organizzato in modo che gli associati sono antropomorficamente collegati in un ordine che, sebbene di origine volontaria, trae dalla natura l’esempio” (Ib., pp. 416-417).
(66) Ibidem, p. 417.
(67) Ibidem, p. 418.
(68) Ibidem, p. 417.
(69) Le “[…] relazioni tra i suoi soggetti ed oggetti” (Ibidem, p. 418). D’altra parte, questo non vuol dire che sia stata necessaria la preventiva affermazione di “un criterio assolutistico, giacché nulla v’è di assoluto e di eterno nel mondo del diritto”: ci sarebbe invece voluta – e ci vorrebbe ancor oggi – l’affermazione di “un criterio di chiarezza”, che valesse a sciogliere ogni dubbio, a dirimere ogni controversia, a tagliare quei nodi che inevitabilmente si formano alla base di ogni discussione, ossia – afferma Curcio in un subitaneo passaggio dal passato al presente – ad eliminare ogni possibile motivazione di incertezza, persistendo la quale “è impossibile proseguire nell’opera di sistemazione e di precisazione delle figurazioni giuridiche del sistema” (Ibid., l.c.).
(70) E cioè, in: Paolo Pastori, Una teorica delle rivoluzioni come ‘mito politico’. Osservazioni a margine del saggio di Carlo Curcio ‘L’ostetrica del diritto’ (1930), pubblicata in questo stesso volume.
(71) Curcio, L’ostetrica del diritto. Note per una storia del concetto di rivoluzione, ‘RIFD’, X, 1930, fasc. VI, p. 36 [paginazione dell’estratto]). Da Machiavelli e Guicciardini (attraverso riferimenti puntuali a Mariana, Suarez, Althusius, ma anche a Milton e Locke) – , qui viene rintracciato un percorso teoretico strutturato attraverso alcune linee di pensiero inizialmente divergenti, che in qualche modo poi convergeranno per un largo tratto della speculazione filosofico-politica occidentale. Da un lato, qui si individua la linea di pensiero che da Rousseau arriva ai costituenti americani per giungere successivamente a Tocqueville. Dall’altro, si rintraccia anche la riflessione critica della rivoluzione, in quanti – avverte Curcio – con qualche sommarietà vi videro semplicemente la cesura radicale con il passato. Tale risulta essere, la linea speculativa che da Edmund Burke, giunge a Joseph de Maistre, e fino ad Antonio Rosmini. Venendo poi a tempi più recenti, infine, Curcio localizza il tipo di interpretazione che si diparte da Hegel per scindersi a sua volta: per un verso nella riflessione di Feuerbach (e da questo a Marx, a Proudhon, a Sorel e addirittura Lenin) e per l’altro verso nelle concezioni filosofiche che conducono a Gentile ed al fascismo.
(72) Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di Carlo Curcio (1898-1971), cit., p. 454.
(73) E precisamente le recensioni a: Wilhelm HAAS, What is European Civilisation and what is its future?, London, Humphrey Milton – Oxford, University Press, 1929 (‘Lo Stato. Rivista di scienze politiche, giuridiche ed economiche’, diretta da Ettore Rosboch e Carlo Costamagna, I, 1930, pp. 242-243); Luigi Delitala, Il contratto di lavoro, Torino, Utet, 1929 (ibid., p. 243); Vincenzo Amoruso, Il sindacalismo di Enrico Corradini, Palermo, Soc. ed. O. Fiorenza, 1929 (ibid., pp. 243-244). Quindi ancora un gruppo di segnalazioni, ancora nella Rassegna delle riviste: La proprietà e il socialismo ( ibid., fasc. III, maggio-giugno, pp. 345-346); Umanismo e diritto (ibid., p. 246); Studi sociali (ibid., pp. 346-347); Teorie del lavoro (ibid., pp. 347-348); Il problema della nazionalità (ibid., p. 349). Seguirono poi, nell’ordine cronologico: un’altra recensione (Marcel de La Bigne De Villeneuve, Traité général de l’État. Essai d’une théorie realiste du droit politique. Préf. de Louis Le Fur, Paris, Libr. du Recueil Sirey, 1929, vol. I (ibid., pp. 357-363).
(74) D’altronde, sin qui, anche spigolando fra le molte altre composizioni apparse su ‘Lo Stato’ nel 1930, alcuni argomenti significativi non mancherebbero, cioè con brevi note sul momento attuale e recensioni (a libri che trattano delle funzioni sociali all’interno dell’ordinamento statuale, della storia del diritto pubblico italiano fra medioevo e primo rinascimento, ma anche del confronto fra ideale nazionale e rispetto delle minoranze etniche). Si vedano, in tal senso, sia Fascismo e università – nella rubrica: Note e discussioni (ibid., I, 1930, fasc. I, gennaio-febbraio, pp. 60-61); sia Motivi di lotta ideale (ibid., pp. 62-64). Ma soprattutto alcune recensioni, a: Adolfo Posada, Les fonctions sociales de l’État. Paris, Giard, 1929 (ibid., pp. 105-108); E. Betsa, Il diritto pubblico italiano. Dagli inizi del secolo decimoprimo alla seconda metà del secolo decimoquinto. Padova, Cedam, 1929 (ibid., pp. 111-112); Luca Dei Sabell, Nazioni e minoranze etniche. Bologna, Zanichelli, 1929, voll. 2 (ibid., pp. 112-113).
(75) Mario Casanova, Studi sul Diritto del lavoro. Pisa, Nistri-Lischi, 1929 (ibid., pp. 115-116); Walter HEINRICH, Die Staats- und Wirtschaftsverfassung des Fascismus. Berlin, Verlag für Nationalwirtschaft und Werksgemeinschaft, 1929 (ibid., pp. 116-117).
(76) Ibidem, fasc. II, marzo-aprile, pp. 209-210.
(77) Ibidem, pp. 210-215.
(78) Ibidem, p. 215.
(79) Ibidem, pp. 215-216.
(80) Ibidem, p. 217.
(81) Ibidem, pp. 217-221.
(82) Ibidem, fasc. IV, luglio-agosto, pp. 429-437.
(83) Nella rubrica: Note e discussioni, ibidem, pp. 480-484.
(84) Si veda: Politica corporativa, cit., p. 434n.
(85) Un atteggiamento, che qui risulta definito da Curcio se non proprio nel senso di una concezione istintualistica, sul tipo dell’aristotelica nozione dell’uomo ‘animale politico’, certo con qualche suggestione settecentesca, illuministica, per cui questa originaria – se così possiamo definirla – ‘istintuale spiritualità’ sociale riemergerebbe appena superato (con la ‘rivoluzione’) il formalistico edificio dell’ottocentesco ordinamento istituzionale ‘borghese’, reinnestando nel tempo presente il futuro sviluppo di un complesso sistema sia di regole, sia di reciproche obbligazioni giuridiche, sia di rapporti economici, sia di correlazioni politiche ed alla fine statuali. “[…] La politica corporativa […] rappresenta un’esigenza eterna dello spirito pratico, che si riconosce prima di tutto nel porsi come rapporto di relazioni, come società. Potrebbe quasi dirsi che nessun atteggiamento dello spirito sia tanto politico quanto questo che si attua nell’associazione. Il passaggio, anzi, dall’idea di società a quella di associazione di categoria segna, se mai, un perfezionamento dello spirito politico, che si raffina, si completa […] nel riconoscersi secondo affinità, particolarità, che si pongono come grado nel processo che va dall’individuo alla società in senso più vasto” (Ibid., p. 433).
(86) “La politica corporativa è, in definitiva, la vera politica […]. Di fronte a tutte le deviazioni, le corruzioni, i disorientamenti che la politica ha subito negli ultimi tempi, la politica corporativa rappresenta […] la reintegrazione della politicità, i cui riverberi efficaci si proiettano in tutti i rapporti della vita sociale, e cioè sul mondo giuridico, sul mondo economico, sul mondo morale dei popoli. Potrebbe dirsi, in ultima istanza, che la vera rivendicazione della politica incominci ora, con l’instaurazione del principio corporativo” (ibid., p. 435).
(87) A cominciare da Das Wert des Staates und die Bedeutigung des Einzelnen (1917) fino a Politiche Romantik (1922), Politiche Teologie (1923), per giungere a Die geistegeschichtliche Lage des heutiges Parlamentarismus (1923), a Die Diktatur (1925), e quindi alla più recente riflessione istituzionale di Verfassungslehre (del 1928).
(88) Ibidem, pp. 481-482.
(89) Ibidem, p. 483.
(90) Ibidem, l.c.
(91) Ibidem, p. 484.
(92) “Anche in Rousseau bisogna saper sceverare il grano dal loglio […]” (Ibid., l.c.).
(93) Nella rubrica: Rassegna delle riviste, cioè: I fuorusciti italiani di fronte al diritto (ibid., p. 485).
(94) Emilio Crosa, Lo Stato parlamentare in Inghilterra e Germania, Pavia, Treves, 1929 (ibid., fasc. IV, luglio-agosto, pp. 429-437, pp. 499-500).
(95) Si vedano, in tal senso: Le riforme costituzionali ed amministrative fasciste (ibid., p. 486); Un teorico dello Stato (ibid., pp. 486-489); Sorel e il fascismo (ibid., p. 489); Teorie anti-individualiste (ibid., pp. 489-490). Quindi un’altra recensione – a Giacomo Perticone, Il problema morale e politico, Torino, Paravia, 1930 (ibid., pp. 503-504) – e poi, nella rubriche Note e discussioni e Rassegna delle riviste : Un corporativista italiano di trent’anni fa [G. Velio Ballarini] (fasc. V, settembre-ottobre, pp. 587-589); Un critico della Rivoluzione francese [Edmund Burke] (, ibid., pp. 590-592); Sempre intorno alla crisi dello Stato (ibid., pp. 592-593); Per una riforma dello Stato (ibid., pp. 593-594); Il Partito e lo Stato ( ibid., fasc. VI, novembre-dicembre, pp. 675-677); Delusioni bolsceviche (ibid., pp. 682-684); Colonie e problema sociale (ibid., p. 685); Psicologia e politica (ibid., pp. 685-686); Democrazia e forze dello spirito (ibid., p. 686); La crisi della giuria popolare (ibid., pp. 686-687); Intorno al concetto di rivoluzione (ibid., pp. 687-688). L’annata 1930 si conclude infine con un gruppo di altre recensioni, a: G. BOTERO, Della Ragion di Stato. Con intr. e note di C. Morandi. Bologna, Cappelli, 1930; Politici e moralisti del Seicento. A cura di B. Croce e S. Caramella. Bari, Laterza, 1930; Tassoni, Prose politiche e morali, Bari, Laterza, 1931 (tutte e tre:ibid., pp. 701-704); Santi Nava, Il mandato francese in Siria dalle sue origini al 1929. Padova, Cedam, 1930 (bid., p. 712); Jacques VALDOUR, La doctrine corporative. Paris, Rousseau, 1929 (ibid., pp. 712-713)
(96) Sulla ‘Zeitschrift für Politik’, XX, 1930, Heft 6 (Sept.), pp. 399-411.