Economia e politica in Carlo Rosselli di Massimo Furiozzi – N. 23 Dicembre 2004

Economia e politica in Carlo Rosselli di Massimo Furiozzi – N. 23 Dicembre 2004

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Studiosi come Aldo Garosci(1) Giuseppe Galasso(2), Paolo Bagnoli(3), Antonio Cardini(4), Zeffiro Ciuffoletti(5) e Nicola Tranfaglia(6) hanno sollecitato a tener conto della formazione economica di Carlo Rosselli e del contributo per molti versi originale, anche a motivo di questa formazione, da lui fornito al pensiero politico italiano ed europeo. Da parte sua Ariane Landuyt ha efficacemente dimostrato come gli aspetti economici, insieme a quelli politici e giuridici, ebbero un influsso non secondario anche nella sua concezione europeistica(7).

Per comprendere il pensiero di Carlo Rosselli, inoltre, è indispensabile considerare l’influenza che ebbero su di lui il mondo laburista d’oltre Manica e il modello politico inglese anziché quello tedesco, allora dominante nell’ambito dei movimenti operai europei. Salvo Mastellone ha, infatti, autorevolmente documentato come il modello politico inglese fosse ben chiaro nella mente di Rosselli fin dall’inizio del 1924, data di un suo articolo sul Partito del lavoro in Inghilterra, e come per parecchio tempo egli avesse continuato a sperare che questo modello potesse essere adottabile in Italia(8).

Nel 1923-24, subito dopo la laurea in Giurisprudenza a Siena, Carlo Rosselli intraprese la carriera universitaria, che lo portò ad ottenere diversi incarichi di insegnamento nell’ambito delle scienze economiche e a stabilire proficui contatti con Luigi Einaudi e Attilio Cabiati. Si occupò di Keynes e di Marshall. Ben presto, però, la necessità della lotta concreta contro il fascismo, oltre ad un gusto congenito e preminente per l’azione, lo distolsero dalla ricerca scientifica. Sulla rivista “Quarto Stato”, da lui fondata insieme a Pietro Nenni, proseguì il suo originale disegno mirante a congiungere emancipazione operaia e lotta liberistica(9). La maggior parte dei suoi scritti economici furono, però, pubblicati sulla “Riforma sociale” tra il 1924 e il 1926. L’analisi di Rosselli prese in esame soprattutto il punto di vista del movimento sindacale, ed era diretta ad affermare il distacco di una certa forma di liberismo nei confronti del liberalismo, poiché molti liberisti negavano la fecondità sociale ed economica del contrasto tra capitalisti e operai, e in nome della libera concorrenza affermavano l’illegittimità di organizzazioni sindacali unitarie.

Successivamente, i temi che attrassero la sua attenzione furono i più diversi, ma l’insieme più organico della sua collaborazione alla “Riforma sociale” rimane costituito da tre grossi saggi sull’economia del sindacato. Nonostante le difficoltà che gli derivavano dal suo impegno antifascista, Rosselli affrontò dunque temi impegnativi e originali sia rispetto alla cultura economica italiana, sia rispetto alla cultura socialista e comunista del tempo; come ha osservato il Galasso, egli non puntava tanto ad una teoria economica generale o ad una teoria generale della costituzione economica della società, tipica del marxismo, ma ad una verifica empirica di politiche economiche e alla definizione di scelte economiche che potevano meglio presiedere ad un’azione di governo, oppure semplicemente rivendicativa, qualificabile come socialista(10). Anche Emilio Papa ha del resto scritto che Rosselli, auspicando in campo economico un nuovo ordinamento sociale fondato sul principio di una più ampia ed equa distribuzione della ricchezza, pur accettando alcune regole di fondo della scienza economica liberale, cercava sbocchi che gli consentissero di proporre strumenti e soluzioni socialiste(11).

L’aspetto economico è alla base anche della formulazione del nucleo centrale del pensiero politico rosselliano, ovvero il socialismo liberale. Per lui, infatti, l’assenza di dipendenza materiale, storicamente rivendicata dal movimento socialista, è la condizione preliminare per accedere all’uso generalizzato delle libertà, e in particolare per usufruire attivamente dei diritti civili e politici. “La libertà – scrive – non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione; e la vita non può avere per lui che un aspetto e una lusinga: il materiale. Libero di diritto, è servo di fatto”(12). Accogliendo l’impostazione del Sombart, pone in luce l’errore di coloro che prevedono nel futuro “l’esclusivo dominio di un unico sistema economico”, in quanto è da prevedersi che in futuro coesisteranno, “accanto a economie di tipo capitalistico, economie cooperative, collettiviste, individuali, artigiane, e la piccola proprietà rurale”(13). Questa concezione così variegata della vita economica del prossimo avvenire, riconosce, era forse meno brillante di quella di Marx, ma era assai più rispondente alle linee su cui si sviluppava effettivamente la realtà dell’Europa. Rosselli pensava dunque chiaramente ad una economia a due settori.

Giuseppe Bedeschi ha scritto che Rosselli pensava, però, ad una netta prevalenza del settore pubblico (sia pure in forme autogestionarie e cooperative e non statalistiche) su quello privato; e che, anche per quest’ultimo, egli, ponendo il problema della “democratizzazione del regime di fabbrica”, auspicava il “controllo operaio sulle industrie, che ne avrebbe paralizzato l’autonomia gestionale e l’efficacia operativa sul mercato”. Posizione che si inscriveva pienamente, per Bedeschi, nella tradizione socialista, condividendone “l’ostilità verso il sistema capitalistico, verso le imprese che operano sul mercato con il fine precipuo di conseguire profitto, senza il quale non c’è crescita e sviluppo economico”(14).

Tra il gennaio 1930 e il marzo 1931 Rosselli pubblicò su “Giustizia e Libertà” tre articoli dedicati alle condizioni degli operai italiani dopo circa un decennio di governo fascista, dimostrando, con dati inoppugnabili, il peggioramento della loro situazione sia salariale che di lavoro in fabbrica rispetto agli anni del primo dopoguerra e documentando i costi e gli sperperi del regime, situazione resa più grave dall’aumento delle tasse e della disoccupazione(15). All’inizio del 1932 “Giustizia e Libertà” pubblicò lo Schema di programma, redatto alla fine dell’anno precedente, la cui premessa qualificante era il concetto che l’abbattimento del fascismo avrebbe dovuto coincidere con la realizzazione immediata delle riforme politiche e sociali atte a fondare il nuovo regime democratico. Il Cole ne attribuisce l’elaborazione principale allo stesso Rosselli e lo ascrive ad un socialismo liberale “che dava importanza più all’aspetto etico che a quello economico”(16). Un rapido sguardo al suo contenuto dimostra che questo non è propriamente esatto, perché esso era incentrato proprio sul riassetto dell’economia, sulla base dei seguenti paragrafi: riforma agraria, riforma industriale e bancaria, politica sindacale e cooperativa, politica finanziaria e doganale(17).

Nel programma venivano anche denunciate le gravi responsabilità del grande capitalismo industriale e finanziario, assai lontano dal sistema economico dei più evoluti Paesi occidentali, oltre alle degenerazioni parassitarie del fascismo(18). È stato osservato, giustamente, che il programma disegnava “un regime fondato su una stretta integrazione e continuità tra le istituzioni più prettamente politiche e gli organismi di autogoverno economico e sociale. Tale principio, caratteristico della concezione giellista della democrazia, era giustificato, peraltro, anche con la necessità di estirpare prontamente le radici sociali del fascismo”(19). In esso veniva, dunque, confermato il principio dell’economia a due settori: pubblico e privato. Nell’articolo Discussioni sul programma agrario, Carlo Rosselli espresse cautela in merito alla socializzazione integrale della terra, in quanto “l’esistenza di milioni di piccoli coltivatori relativamente indipendenti, che progrediranno rapidamente in istruzione e benessere, è una garanzia fondamentale contro il dispotismo statale”(20). Tre anni dopo egli avrebbe ribadito il programma di socializzazione immediata di “alcuni rami essenziali della grande industria, del credito e della grande agricoltura”, ma avrebbe confermato di ritenere per l’Italia “assolutamente impossibile, e anche se possibile assolutamente non desiderabile” una socializzazione generalizzata, in quanto, “da che una civiltà esiste, non si è mai data una società fondata su un unico principio economico con un unico tipo di azienda produttiva”(21).

Arturo Colombo ha osservato che “è arduo e addirittura impossibile separare nettamente quanto c’è di ‘economico’ e quanto di ‘politico’ in un’esperienza come quella di Giustizia e Libertà che rifiuta di istituzionalizzarsi in partito e vuole, fino all’ultimo, caratterizzarsi come un movimento”(22), mentre Paolo Bagnoli ha fatto presente che “la riduzione del processo storico alla pura dialettica economica rappresenta per Carlo Rosselli una visione falsante la realtà delle cose”(23). Da parte sua Franco Invernici ha rimproverato a Giustizia e Libertà la mancanza di un programma economico organico e coerente, rigorosamente autonomo(24). Tuttavia, un’analisi attenta degli articoli di carattere economico pubblicati da Rosselli sul periodico della Concentrazione antifascista “Libertà” tra il 1932 e il 1934 può offrire alcuni spunti interessanti circa la sua visione della politica economica fascista e dei suoi possibili esiti. In essi egli approfondì le cause della crisi economica italiana dei primi anni Trenta, invitando peraltro gli ambienti dell’antifascismo a non confidare troppo in una “catastrofe imminente”, in quanto l’Italia, essendo basata su un’economia prevalentemente agrario-artigiana, dotata di notevoli capacità di adattamento e di resistenza, avrebbe potuto sopportare per molto tempo una congiuntura sfavorevole del settore industriale e commerciale, tenuta sotto controllo attraverso l’enorme accentramento di potere a disposizione del governo(25).

Mggiore ottimismo Rosselli mostrò nell’aprile di due anni dopo, allorché sottolineò alcuni indicatori come la forte riduzione di stipendi e salari, la politica deflazionistica, che stava conducendo il popolo italiano ad un tenore di vita inferiore a quello degli anni precedenti la prima guerra mondiale, e la riduzione del commercio estero. Forse questo non sarebbe bastato, scrisse, a far precipitare il fascismo, ma era certo che il regime attraversava “il suo più difficile periodo nel campo della finanza”(26). Maurizio Degl’Innocenti ha approfondito accuratamente i rapporti tra Rosselli e il neosocialismo francese, rappresentato soprattutto da Marcel Déat, di cui egli mostrò di condividere le tesi sul ruolo delle classi medie, sulla disintegrazione dell’economia internazionale e il connesso ripiegamento del capitalismo sul piano nazionale, che veniva ipotizzato ora perfino dal “più celebre teorico dell’economia liberale, il Keynes”(27). Tuttavia Rosselli era convinto che in economia non ci si trovasse di fronte ad una “fase organica di sviluppo o di trasformazione decisiva del capitalismo”, quanto piuttosto ad una manovra di difesa contro la crisi e preconizzava che questa reazione vi sarebbe stata anche in Italia, forse anticipata dallo stesso fascismo, che già nel dopoguerra, con De Stefani e Rocca, aveva fatto “professione di integrale liberismo”(28). Una visione economica dinamica e progressista gli suggerì poi alcuni interventi sul problema meridionale(29).

Nel corso del 1934 Rosselli dedicò la sua attenzione anche alla tematica del corporativismo allora imperante in Italia, ma non certo perché, come gli è stato affrettatamente rimproverato, si trovasse “sul piano ideologico a simpatizzare pienamente” con esso(30). Egli, come ha precisato correttamente Giancarlo Pellegrini(31), non prese parte al dibattito sviluppatosi a partire dal 1926, che vide impegnati molti tra gli economisti, giuristi, filosofi, politici e dirigenti sindacali, con risultati di analisi il più delle volte scadenti(32). Tale dibattito, che fu essenzialmente di pertinenza di elementi filofascisti, riguardò l’assetto dello Stato corporativo, il passaggio dalla fase sindacale a quella corporativa, le funzioni e le finalità dei sindacati e delle corporazioni. Ma vi fu anche una discussione che coinvolse numerosi personaggi stranieri. Lo stesso Gaetano Salvemini ha ricordato infatti come tanti dall’estero fossero interessati al processo di realizzazione dello Stato corporativo in Italia, e che questa era diventata “la Mecca” degli scienziati politici(33). Era stato sempre Salvemini a far presente l’aspetto propagandistico e mistificatorio dello Stato corporativo mussoliniano, sottolineandone il carattere di vera e propria “truffa”(34), mentre Vittorio Foa aveva rincarato la dose demolendo complessivamente la politica economica del fascismo, affermando che le “grosse parole sul corporativismo come superamento dell’economia capitalista” non modificavano il fatto che “le radici individualiste e classiste del fascismo” in dieci anni si erano rafforzate(35).

Condividendo nella sostanza le tesi di Salvemini e di Foa, anche Carlo Rosselli espresse la sua “sfiducia totale” sull’edificio corporativo, ironizzando sull’ipotesi di corporazione integrale e sul mito corporativo che doveva pervadere tutto, su Mussolini che voleva abbattere il capitalismo e socializzare la produzione(36). La verità era che, anche con le tanto vantate corporazioni, “i padroni resteranno padroni e i servi, servi”(37). Alcuni mesi dopo prese spunto dal discorso di Alberto Pirelli agli industriali per far notare come anche questi ultimi si rendessero ben conto di come il sistema corporativo non fosse destinato a mutare, nella sostanza, i rapporti economici e sociali del paese, mantenendo pressoché intatti i postulati dell’economia capitalistica(38). Ma anche a distanza di due anni ribadì questo concetto recensendo un libro di Salvemini(39). In sostanza, come ha osservato Santi Fedele, sotto il profilo politico l’organizzazione corporativa venne letta da Rosselli come una delle forme tipiche assunte dalla moderna reazione, in quanto necessitata di offrire alle masse “un surrogato del libero movimento operaio e sindacale”(40).

A partire dal febbraio 1935 Rosselli dedicò gran parte della sua produzione giornalistica alla guerra di Etiopia che Mussolini, come egli previde con largo anticipo, avrebbe presto intrapreso. Ne sottolineò gli aspetti politici, militari, storici e diplomatici, come è stato sottolineato(41), ma anche, e direi soprattutto, quelli economici. Fin dal marzo 1935 scrisse: “Tutta l’attività economica è stata organizzata in Italia in vista della guerra. Chi avesse conservato qualche dubbio in proposito è stato illuminato dal comunicato della Commissione Suprema di Difesa, da cui dipende ormai l’economia nazionale. Il capitalismo fascista si avvia alla guerra per una necessità inesorabile”(42).

Quattro mesi dopo previde anche che la guerra d’Africa sarebbe stata la rovina economica dell’Italia, dal momento che essa sarebbe venuta a costare tra i 25 e i 30 miliardi di lire, somma che non poteva certo reperirsi attraverso un aumento delle imposte, dal momento che la pressione fiscale superava già il 30%; restavano, quindi, solo “l’indebitamento e l’inflazione” cosicché, concludeva, “anche nella ipotesi più favorevole, e cioè di vittoria rapida, la guerra d’Africa significa per l’Italia la corsa alla rovina. I miliardi che spendiamo e ancora di più spenderemo in strade, cannoni, viveri, soprassoldi ecc. non li ritroveremo certo a guerra finita in Abissinia, come non ritrovammo gli assai meno miliardi spesi per l’Eritrea e per la Libia. Se con la guerra i soldati entrano nel raggio della morte, l’economia italiana entra nel raggio dell’inflazione e del disfacimento”(43).

Nel novembre successivo Rosselli ribadì che le enormi spese affrontate per questa guerra avrebbero condotto il paese verso la rovina economica, anche se era da escludere che la situazione potesse precipitare a brevissima scadenza per sole cause economiche e finanziarie. Infatti, osservò, “la situazione economica è grave, quella finanziaria è gravissima. Ma il fascismo potrà resistere ancora molti mesi, anche se le sanzioni saranno applicate seriamente. Il paese è dunque minacciato da un’agonia lenta e terribile, anche dal punto di vista economico, s’impone perciò un movimento di opposizione interna, che risparmi al popolo le sofferenze inaudite e impedisca che si consumi la rovina totale dell’economia”(44). Quando in un discorso a Pontinia Benito Mussolini definì la guerra d’Abissinia “una guerra dei proletari e dei poveri”, Rosselli commentò sarcastico: “Esatto. A far la guerra, laggiù, sono soprattutto operai senza lavoro, contadini senza terra, diplomati senza posto, tutti gli spostati e i disperati del fascismo, della crisi e perfino dell’emigrazione”(45).

Nel febbraio 1936 osservò che il fascismo conduceva non una, ma due guerre: una guerra militare in Africa e una guerra economica in Italia, e il successo della prima era condizionato dal successo della seconda. Il guaio per il fascismo era che, mentre vedeva allungarsi il tempo della guerra militare, vedeva ridursi il tempo della guerra economica. Da qui, osservò, l’accanimento estremo che esso portava nella sua azione economica, diretta ad aumentare al massimo le possibilità di autarchia e di resistenza. Le previsioni di coloro che davano il fascismo come economicamente spacciato nel corso di poche settimane erano, dunque, smentite dai fatti; tuttavia, il costo economico e quello monetario della guerra, uniti alla riduzione del commercio estero e delle riserve monetarie, potevano far presumere che la sua resistenza non potesse “prolungarsi (sul puro terreno economico) più di dodici – diciotto mesi”(46).

Si occupò subito dopo della legge bancaria varata dal governo il 3 marzo 1936, con la quale si dichiaravano enti di diritto pubblico la Banca d’Italia, la Banca Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma. Con questa misura, commentò, lo Stato fascista apparentemente perfezionava il suo sistema di controllo sul credito e sul risparmio per “pompare ai fini della guerra le ultime risorse disponibili del paese”; in realtà, esso doveva assumere direttamente, o quasi, “sotto mistici veli corporativi”, la gestione del sistema bancario italiano crollato per effetto della sua disastrosa politica economica e finanziaria(47).

Alcuni giorni dopo commentò un discorso di Mussolini del 23 marzo 1936, che definì “essenziale per la storia e la comprensione del fascismo”. In esso il duce, facendo riferimento alle sanzioni contro l’Italia decretate dalla Società delle Nazioni, aveva prefigurato un nuovo periodo nella storia italiana diretto a realizzare, nel più breve tempo possibile, il massimo di autonomia economica. Un livello di autonomia per il tempo di pace e soprattutto per il tempo di guerra, e questo confermava la previsione rosselliana circa la “ineluttabilità di un nuovo grande cimento bellico”. Ribadì che non vi era niente di realmente socialista nei provvedimenti con i quali lo Stato assorbiva, un settore dopo l’altro, l’economia italiana, in quanto l’elemento caratteristico del socialismo, osservò, non è lo statalismo, né tanto meno la guerra, ma “l’organizzazione sociale della produzione e della distribuzione dei beni per rendere massimo il benessere della immensa maggioranza degli uomini”. D’altra parte, nulla dimostrava meglio, aggiunse, il carattere reazionario delle riforme sociali del fascismo che la fissità del suo stato maggiore economico. Infatti, fece presente, “Agnelli, Pirelli, Benni, Olivetti, Motta, erano i capi dell’industria italiana prima della marcia su Roma. Agnelli, Pirelli, Benni, Olivetti, Motta sono i capi dell’industria italiana oggi. Che si sappia, non muoiono di fame. Si sa anzi il contrario: che non furono mai così potenti nella loro sfera come oggi. Quel che hanno perduto in autonomia e iniziativa, hanno guadagnato in sicurezza”(48).

Continuò a mettere in guardia gli italiani contro l’”infatuazione miracolistica” circa un’ampia e rapida colonizzazione dell’Abissinia(49). Invitò gli osservatori, compresi gli economisti, a non giudicare la politica economica di uno Stato totalitario come quello fascista alla stregua dei paesi liberal-democratici, in quanto nello Stato fascista il rapporto tra la società e lo Stato capitalista risultava invertito, talché la miseria dei singoli poteva perfino tradursi in nuova forza economica e politica per lo Stato, diventato il dispensatore del denaro e l’arbitro della vita delle imprese. Esso non doveva temere né concorrenza, né pubblicità, né opposizione; padrone assoluto, poteva “sfidare perfino le leggi economiche”(50).

Carlo Rosselli espresse infine il convincimento che, dopo la guerra in Etiopia e l’intervento in Spagna, Hitler e Mussolini preparassero, a breve scadenza, dei nuovi fatti compiuti, nonostante un certo ottimismo manifestato da “alti papaveri democratici” europei sulla base di presunte difficoltà economiche della Germania e dell’Italia(51). Lo stesso recente discorso di Mussolini sull’autarchia andava a suo avviso in quella direzione. L’autarchia, infatti, non era solo “la miseria cronica, la rinunzia al benessere per le grandi masse, il sacrificio delle industrie e delle attività naturali e sane a profitto delle attività parassitarie e artificiali”, ma era “la guerra in potenza, la preparazione precisa, sistematica, ad un nuovo colossale conflitto al quale Mussolini ha già condannato l’Italia”(52). Si tratta di considerazioni che testimoniano la grande capacità di analisi e di previsione del fondatore di Giustizia e Libertà.

NOTE

(1) A. Garosci, Prefazione a C. Rosselli, Opere scelte. Socialismo liberale, a cura di J. Rosselli, Torino, 1973.

(2) G. Galasso, Politica e analisi economica nel pensiero di Carlo Rosselli, in AA. VV., “Giustizia e Libertà” nella lotta antifascista e nella storia d’Italia. Attualità dei fratelli Rosselli a quarant’anni dal loro sacrificio, Firenze, 1978, pp. 147-162, ora anche in ID., La democrazia da Cattaneo a Rosselli, Firenze, 1982, pp. 255-275.

(3) P. Bagnoli, Carlo Rosselli tra pensiero politico e azione, Prefazione di G. Spadolini, Firenze, 1985.

(4) A. Cardini, Carlo Rosselli dal sindacalismo al socialismo liberale: la tesi di Laurea a Siena, in AA.VV., Scritti per Mario Delle Piane, Napoli, 1986, pp. 347-361.

(5) Z. Ciuffoletti, Contro lo statalismo. Il “socialismo federalista liberale” di Carlo Rosselli, Manduria, 1999. Ma già in precedenza egli aveva sottolineato come Rosselli, fin dagli anni del primo dopoguerra, aveva affrontato il rapporto tra movimento operaio organizzato, economia e politica delle società industriali liberal-democratiche, essendo in possesso di una cultura “assai diversa rispetto a quella prevalentemente umanistica, filosofica e letteraria, di un Gramsci o di un Togliatti” (Z. Ciuffoletti, Introduzione a C. Rosselli, Scritti politici, a cura di Z. Ciuffoletti e P. Bagnoli, Napoli, 1988, p. 19).

(6) N. Tranfaglia, Carlo Rosselli dall’interventismo a “Giustizia e Libertà”, Bari, 1968.

(7) A. Landuyt, Carlo Rosselli e l’Europa, in ID. (a cura di), Carlo e Nello Rosselli. Socialismo liberale e cultura europea (1937-1997), “Quaderni del Circolo Rosselli”, 1998, n. 11, pp. 59-67.

(8) S. Mastellone, Carlo Rosselli e “la rivoluzione liberale del socialismo”. Con scritti e documenti inediti, Firenze, 1999, p. 38.

(9) Il 2 ottobre 1926 scrisse: “Un liberismo virile, capace di scuotere larghe correnti di interessi materiali e ideali, non potrà sorgere che dal seno delle classi sfruttate e dovrà inquadrarsi nella più vasta critica del mondo capitalistico” (cfr. D. Zucaro, Il Quarto Stato, Milano, 1977).

(10) G. Galasso, op. cit., p. 154. Il 18 settembre 1927 Rosselli scrisse a Filippo Turati: “Seguo attentamente la situazione economica. Molto grave, senza dubbio, ma non risolutiva. Sorriderai, vero?, Quando ti dirò che a questa conclusione mi ci porta, prima che il mio modesto giudizio di economista, il mio volontarismo.” (C. Rosselli, Scritti politici e autobiografici, Prefazione di G. Salvemini, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e V. Caciulli, Manduria, 1992, p. 57.

(11) E.R. Papa, op. cit., pp. 56-57. Non ci soffermiamo ulteriormente sugli articoli di teoria economica pubblicati da Rosselli sulla “Riforma Sociale” nel triennio 1924-26 in quanto sono stati ampiamente esaminati da N. Tranfaglia, op. cit., pp. 217 – 273. Per il giudizio di Einaudi su Rosselli si veda L. Einaudi, Interventi e relazioni parlamentari, a cura di S. Martinotti Dorigo, Vol. II, Torino, 1982, p. 617.

(12) C. Rosselli, Socialismo liberale, Introduzione e saggi critici di N. Bobbio, a cura di J. Rosselli, Torino, 1997, p. 91.

(13) Ivi p. 137.

(14) G. Bedeschi, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico nell’Italia del Novecento, Bari, 2002, pp. 301-302. Sulla visione rosselliana dell’economia a due settori si veda V. Spini, Un pensiero quanto mai vivo, in L. Rossi (a cura di), Politica, valori, idealità. Carlo e Nello Rosselli maestri dell’Italia civile, Roma, 2003, pp. 28-31.

(15) C. Rosselli, Come il fascismo affama gli operai, “Giustizia e Libertà”, gennaio 1930; Operai delle fabbriche, ivi, aprile 1930; Agli operai, ivi, marzo 1931.

(16) G.D.H Cole, Storia del pensiero socialista. Comunismo e socialdemocrazia 1914-1931, I, Bari, 1968, p. 437.

(17) Chiarimenti al Programma, “Quaderni di Giustizia e Libertà”, n. 1, gennaio 1932.

(18) Il programma lo si veda ampiamente riassunto in F. Invernici, L’alternativa di “Giustizia e Libertà”. Economia e politica nei progetti del gruppo di Carlo Rosselli, Milano, 1987, pp. 85-103.

(19) S. Neri Serneri, Democrazia e Stato. L’antifascismo liberaldemocratico e socialista dal 1923 al 1933, Milano, 1989, p. 263.

(20) C. Rosselli (Curzio), Discussioni sul programma agrario, “Quaderni di Giustizia e Libertà”, n. 4, settembre 1932, pp. 76-86. Cfr. F. Invernici, op. cit., pp. 114-117.

(21) C. Rosselli, Socialismo e socializzazione, “Giustizia e Libertà”, 8 febbraio 1935. Si veda anche F. Invernici, op.cit., pp. 155-156. L’impostazione rosselliana non convince Domenico Settembrini, secondo cui “se si va a vedere che cosa intendesse Rosselli per ‘parziale’, quali confini insomma egli assegnasse alla socializzazione, ecco che il muro divisorio crolla e il programma di Giustizia e Libertà si avvicina sempre più a quello comunista” (D. Settembrini, Il socialismo liberale di Rosselli e la terza via, in M. Degl’Innocenti (a cura di), Carlo Rosselli e il socialismo liberale, Milano, 1999, p. 170).

(22) A. Colombo, Introduzione a F. Invernici, op.cit., p. 13.

(23) P. Bagnoli, Carlo Rosselli tra pensiero politico e azione, Prefazione di G. Spadolini, Firenze, 1985, pp. 124-125.

(24) F. Invernici, op.cit., p. 173.

(25) C. Rosselli, La crisi economica e la battaglia antifascista, “Libertà”, n. 14, gennaio 1932.

(26) ID., La deflazione in Italia, ivi, 19 aprile 1934.

(27) M. Degl’Innocenti, Socialismo liberale e socialismo europeo, in ID. (a cura di), Carlo Rosselli e il socialismo liberale cit., pp. 89-91.

(28) C. Rosselli, Il neo-socialismo francese nel quadro internazionale, “Libertà”, 31 agosto 1933. Si vedano anche Il neo-socialismo francese, ivi, 17 agosto 1933 e Lo spirito e i fini del neo-socialismo francese, ivi, 24 agosto 1933.

(29) Si veda in particolare Non dimenticare il Mezzogiorno, “Giustizia e Libertà”, 14 settembre 1934.

(30) Così D. Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia. 1860-1989. Società del benessere-liberalismo-totalitarismo, Bari, 1991, p. 372.

(31) G. Pellegrini, Rosselli e il corporativismo, in V.I. Comparato-E. Pii (a cura di), Dalle “Repubbliche” elzeviriane alle ideologie del ‘900. Studi di storia delle idee in età moderna e contemporanea, Firenze, 1997, pp. 211-237.

(32) Si vedano a questo proposito: S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, 1979, pp. 255 segg.; N. Tranfaglia, Labirinto italiano. Il fascismo, l’antifascismo, gli storici, Firenze, 1989, pp. 130-142; L. Ornaghi, Stato e corporazione. Storia di una dottrina nella crisi del sistema politico contemporaneo, Milano, 1984, pp. 21-29; R. De Felice, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, 1974, pp. 9 segg.; R. Chiarini, Il corporativismo paradigma del totalitarismo, in M. Degl’Innocenti (a cura di), Carlo Rosselli e il socialismo liberale cit., pp. 109-121; S. Colarizi, L’Italia antifascista dal 1922 al 1940. La lotta dei protagonisti, Roma-Bari, 1976.

(33) G. Salvemini, Scritti sul fascismo, a cura di R. Vivarelli, III, Milano, 1974, p.4.

(34) ID., Capitale e lavoro nell’Italia fascista, “Quaderni di Giustizia e Libertà”, agosto 1933, pp. 99-127 e novembre 1933, pp. 116-128.

(35) Emiliano (V. Foa), La politica economica del fascismo, ivi, agosto 1933, p. 93. Si veda anche ID., Genesi e natura delle corporazioni fasciste, ivi, febbraio 1934.

(36) C. Rosselli, Corporazione e rivoluzione, “Quaderni di Giustizia e Libertà”, febbraio 1934, ora in ID., Scritti dell’esilio. I. 1929-1934, a cura di C. Casucci, Torino, 1988, p. 275.

(37) Ivi, p. 276.

(38) La riforma corporativa spiegata agli industriali, “Giustizia e Libertà”, 19 ottobre 1934.

(39) “Sotto la scure fascista”. Un nuovo libro di Salvemini , ivi, 3 luglio 1936.

(40) S. Fedele, E verrà un’altra Italia. Politica e cultura nei “Quaderni di Giustizia e Libertà”, Milano, 1992, pp. 53-54.

(41) Si veda in particolare C. Casucci, Introduzione a C. Rosselli, Scritti dell’esilio, cit. pp. XXVI-XXX.

(42) Perché siamo contro la guerra d’Africa, “Giustizia e Libertà”, 8 marzo 1935. Lo si veda anche in C. Rosselli, Scritti politici e autobiografici cit., p. 99.

(43) La guerra d’Africa sarà la rovina economica d’Italia. Previsioni sul costo e finanziamento della guerra, ivi, 19 luglio 1935. Gli studi più recenti hanno confermato in pieno i calcoli economici di Rosselli (cfr. G. Rochat, Il colonialismo italiano, Torino, 1973, p. 139; ID. Guerre italiane in Libia e in Etiopia, Treviso, 1991, p. 107). Si veda anche A. Del Boca, (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma – Bari, 1991.

(44) Verso la rovina economica, ivi, 8 novembre 1935.

(45) Guerra proletaria, ivi, 20 dicembre 1935.

(46) L’economia italiana e la guerra, ivi, 7 febbraio 1936.

(47) Socialismo fascista, ivi, 6 marzo 1936.

(48) Guerra, anima del fascismo, ivi, 27 marzo 1936.

(49) E ora?, ivi, 29 maggio 1936.

(50) L’economia al Gran Consiglio, ivi, 11 marzo 1937.

(51) Che cosa prepara Mussolini, ivi, 9 aprile 1937.

(52) Il discorso di Mussolini sull’autarchia preannuncio di prossima guerra, ivi, 21 maggio 1937. Alcuni di questi articoli si vedano ora in C. Rosselli, Scritti economici sul fascismo, a cura di M. Furiozzi, Manduria, 2004.