IL FATTORE GENERAZIONALE NEI MOVIMENTI POLITICI DEL PRIMO DOPOGUERRA di Gabriella Portalone – N. 22 Agosto 2004

IL FATTORE GENERAZIONALE NEI MOVIMENTI POLITICI DEL PRIMO DOPOGUERRA di Gabriella Portalone – N. 22 Agosto 2004

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Questo lavoro di Maurizio Degl’Innocenti, L’epoca giovane. Generazioni, fascismo e antifascismo. (Collana “Società e Cultura”, Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma, 2002) eccezionale per la vastità del tema, per la documentazione storica, per la puntuale ed equilibrata analisi critica, costituisce soprattutto una carrellata sui movimenti politici e culturali europei del primo dopoguerra, tutti caratterizzati dal fattore generazionale, dal cosiddetto giovanilismo, analizzato anche sotto l’aspetto della retorica e della dicotomia, vecchio – giovane, nuovo-vecchio.

In effetti, l’attenzione all’universo giovanile, soprattutto nel campo dell’arte, comincia già prima della guerra; il cosiddetto novecentismo, caratterizzato dall’esaltazione della tecnologia, delle scoperte scientifiche e del progresso scatena nelle nuove generazioni una tendenza al ribellismo e una volontà di affermazione e di protagonismo in un mondo che è visto in piena trasformazione e in netta rottura col passato. Se precedentemente il razionalismo positivista scoraggiava ogni forma di contestazione nei confronti di ciò che veniva considerato come scientificamente acquisito, alla fine del secolo, il diffondersi del decadentismo in letteratura e dell’irrazionalismo nel campo artistico, assecondarono la naturale tendenza giovanile alla ribellione e alla rottura col passato, nello sforzo di rinnovamento che comprendesse ogni campo di esperienza umana, dall’economia alla politica, dalle scienze alle arti, dalla filosofia alla medicina.

Nuove scoperte scientifiche misero in dubbio certezze che si consideravano quasi a livello di dogmi: il quantismo in matematica e la teoria della relatività in fisica costituirono un incredibile scossone capace di intaccare la sicurezza da decenni acquisita dai vecchi notabilati scientifici; l’espressionismo e poi l’astrattismo e il dadaismo nella pittura, scardinarono principi estetici che costituivano da secoli i pilastri dell’arte, facendo comprendere a chi accettava tali rivoluzionari cambiamenti, e quindi ai più giovani, che esistevano altre forme di espressione artistica al di là dei canoni accademici, basati soprattutto sulla libertà di esternazione. Anche la musica subiva una vera e propria rivoluzione con l’introduzione dei ritmi meccanizzati e con la diffusione degli stessi tramite la riproduzione discografica. La musica non è più quella classica o sinfonica privilegio delle élites, bensì quella moderna discendente dalle tradizioni afro-americane e disponibile per ogni ceto. Ma soprattutto nel campo della medicina, la psicanalisi di Freud introduceva nella storia dell’uomo il ruolo esplicato dall’inconscio, dunque dall’irrazionalità, che diventava anch’essa un fattore rilevante della vita e quindi della politica, della storia e dell’economia. In campo filosofico-sociologico le teorie di Bergson e di Le Bon finivano per negare la razionalità delle masse che consideravano, d’accordo con il sindacalista Sorel, strumenti nelle mani delle élites, facilmente plasmabili ed influenzabili, pronti a seguire il capo- guida ( non per niente i dittatori del dopoguerra assumeranno l’appellativo di Duce, Furher, Conductator, Caudillo, ecc. tutti sinonimi, appunto, di guida) e bisognose di credere in un mito, come i bambini, per poter acquisire la necessaria motivazione ad agire.

Nel teatro nascono le Avanguardie con il compito, innanzitutto, di dimostrare di possedere “la forza di distruggere, di fare il vuoto” ( p. 5) e l’aspirazione al rinnovamento diventa inevitabilmente conflitto generazionale.

L’autore dimostra che lo scontro tra padre e figlio diviene il punto di riferimento di ogni espressione artistica e, sulla scia della famosa opera di Freud Totem eTabù, fondata soprattutto sui riflessi sociologici e psicologici del cosiddetto complesso di Edipo e quindi sul conflitto latente tra genitore despota e figlio vittima, si moltiplicano le opere letterarie e teatrali che si rifanno a tale scontro generazionale, portato agli estremi, fino al parricidio (per es. “Der Sohn” del 1914 di Walter Hasenclever o “Parricidio” di Arnolt Bronnen, o “Il mendicante” di Johannes Sorge del 1912). Se il vecchio o il padre era visto fino a qualche tempo prima come il protagonista della vita familiare, sociale e politica, la quintessenza della saggezza a cui ricorrere per non sbagliare, adesso è visto come il cinico che ostacola la rivoluzione e la liberazione dalle incrostazioni di un passato interpretato come negazione del progresso.

I giovani intellettuali italiani trovano il loro campo di azione per rinnovarsi e fabbricare “l’uomo nuovo” nel vocianesimo, nel crepuscolarismo e, soprattutto, nel futurismo. Questa corrente artistica, che costituisce una vera e propria rivoluzione in campo artistico e letterario, suscettibile di determinanti influenze anche sui più moderni movimenti politici, nasce in Italia, ma trova corrispondenze e analogie con l’avanguardismo russo di Malevic e con il cubismo francese. Con il culto del movimento e della velocità il futurismo, chiaramente sulla scia di Nietzsche, finisce per esaltare la forza fisica, lo sport, il primato della ginnastica sui libri, fino all’apologia dell’eroismo, della temerarietà, dell’audacia e quindi anche della violenza. Il futuro dunque, finirebbe per appartenere “alle minoranze audaci, vere e proprie avanguardie trascinatrici e preconizzatrici delle generazioni di appartenenza, più che alle nuove classi d’età” (p. 26). Da qui l’aspirazione del giovane a primeggiare, sulla scia del Super uomo di Nietzsche, ma anche dell’Unicum di Stirner, chiudendosi in se stesso, ma nello stesso tempo come scriveva Papini nel suo manifesto personale “Un uomo finito” il “[…] Bisogno antico e continuo di esser capo, guida, centro: ma specialmente inquietabile, in quel tempo, di salite e di voglie animose. Confesso non mi importava molto il perché ma che gli occhi di tutti fossero rivolti – almeno un momento! – su di me […] non volevo restare a parte, in seconda o terza fila, tra le persone semplicemente interessanti, semplicemente curiose e colte e intelligenti” (p. 40) Egli come tutti i giovani dell’epoca, si scaglia contro il socialismo, l’ideologia dei padri, di quelli che erano stati giovani nella generazione precedente, considerandolo un fenomeno proprio del passatismo positivista e si dice un socialista al contrario, perché pronto a difendere la classe che i socialisti vogliono far fuori, la borghesia, nazionalista colonialista, imperialista e militarista, contro l’internazionalismo e l’antimilitarismo marxista.

L’ortodossia marxista, dunque, diventa il bersaglio preferito dai giovani intellettuali del primo Novecento, non soltanto perché esso rappresenta l’espressione fondamentale della filosofia positivista, ormai non più considerata attuale e appagante, ma anche perché, il determinismo proprio di quella dottrina finiva per tarpare ogni slancio di vitalità intellettuale. Il giovane rifiutava ciò che appariva predeterminato a prescindere dalla sua volontà e si volgeva verso nuove ideologie che soddisfacessero il suo bisogno di azione e protagonismo. In verità, già alla fine del secolo precedente, Antonio Labriola aveva intuito che l’eccessivo determinismo marxista poteva annoiare e demotivare i giovani, per tale motivo la sua traduzione italiana de “Il Capitale”, era stata caratterizzata da una personale interpretazione più volontaristica, quasi più idealista della dottrina del filosofo di Treviri. Ma nemmeno tale interpretazione più “romantica” del marxismo era bastata ad arginare il moltiplicarsi delle eresie socialiste e di quelle tipicamente antisocialiste. Nel primo Novecento, tutti, da Croce a Pareto, a Corradini a Marinetti, si dichiarano antidemocratici, identificando nel sistema democratico l’appiattimento delle masse e la tirannia delle élites. Tale atteggiamento antidemocratico e antiparlamentare coinvolge la stessa sinistra, se già Lagardelle aveva parlato di “cretinismo parlamentare” e se Sorel aveva enunciato il mito dello sciopero generale per scuotere le masse dall’intorpidimento determinato dal socialismo riformista e dai sistemi democratici e condurle verso la rivoluzione, intesa come momento di catarsi generale, come fine del mondo vecchio e dell’uomo vecchio e nascita del mondo nuovo e dell’uomo nuovo.

Degl’Innocenti fa una minuziosa ed erudita carrellata su scrittori, poeti, pensatori che intuirono il ruolo determinante che nella storia del secolo avrebbe avuto l’impeto giovanile e dopo Papini, Corradini e Marinetti ci illustra il pensiero di Giuseppe Rensi. Questi interpreta magistralmente la ripugnanza che i giovani provavano nei confronti del socialismo che era ormai considerata l’ideologia dei più e che quindi doveva essere combattuta dalle minoranze rivoluzionarie: “[…] L’attrattiva che aveva allora per i giovani il socialismo la possiede ora il fascismo; mentre il socialismo ormai in panciolle, gonfio di tutti gli aderenti che si valgono del successo, che deve sbottonare la cinta perché il ventre possa contenere ciò che ingoia, sostanzialmente “arrivato”, si presenta ai giovani d’oggi sotto il medesimo aspetto repugnante che suscitavano una volta le parole “grasso borghese.” (p. 93)

A questo trionfo di giovanilismo, a questa ossessione di svecchiamento e di ammodernamento della società, dell’arte e della politica, non si contrappone, ma anzi si coniuga naturalmente il culto della morte, che non è la buona morte dei cristiani, ma la ” bella morte” degli eroi e degli audaci, giovani dunque, ma anche meno giovani che, tuttavia, per la traccia lasciata fra i sopravvissuti, mantengono la loro presenza immanente nella società attraverso l’esempio e quindi il ricordo. Testimonianza del valore che si dà alla bella morte come esempio alle giovani generazioni, è l’usanza di rispondere presente, negli appelli, al posto dell’assente morto, cosa che acquisisce un significato ancora più mistico e simbolico, quando la parola presente viene scolpita sulle tombe degli eroi, come avviene nel sacrario di Redipuglia dove sono sepolti quasi tutti i soldati della Terza Armata, al comando, nel I conflitto mondiale, del Duca d’Aosta .

Il nazionalismo accosta al termine nazione quello di giovane, predicando il mito del diritto delle nazioni giovani ( Italia, Germania e Giappone) a conquistare il loro posto nella politica mondiale e ridimensionando il ruolo delle nazioni vecchie e bacate, quasi una nuova lotta di classe in campo internazionale tra i giovani e poveri, da una parte, i vecchi e i ricchi dall’altra.

I cattolici, invece, come Ardengo Soffici, vedono nel giovanilismo e nella religiosità insita nelle cerimonie fasciste non solo la trasfigurazione delle folle in un vero e proprio “Istrumento in mano del Dio ignoto che è sopra di loro”, ma anche il rinnovarsi del “miracolo della solidarietà umana intorno a simboli austeri e magnifici” (97). Ed è proprio questo, secondo Soffici che distingue il fascismo dalle altre ideologie, poiché esso è una religione vera con la sua divinità che è L’Italia, con i suoi martiri, i combattenti e gli eroi, e i suoi ministri, i giovani che, interpreti del sentimento del divino, pur se mossi da spirito rivoluzionario, rispettano la tradizione riconoscendo l’immortalità dello spirito e dell’esempio di chi ha condiviso con essi la sacralità dell’Idea.

Interprete assoluto dell’avvento dei giovani nel teatro della rivoluzione, è proprio Mussolini che ai giovani appunto dedica l’inno del suo partito, che dei giovani fa i protagonisti del suo folklore, che ai giovani si rivolge fin dal novembre 1914 come alla generazione “cui il destino ha commesso di fare la storia”. D’altra parte Mussolini poteva considerarsi per antonomasia il giovane ribelle degli anni ruggenti, l’eretico che a meno di 30 dirigeva l’organo di stampa del Partito socialista italiano e che a soli 30 anni ne aveva condizionato il Congresso a Reggio Emilia, entrando nella Direzione nazionale e che a 39 anni sarebbe diventato il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia. Imbevuto di Nietzsche e di Sorel cercava appassionatamente un’alternativa a quel marxismo che considerava troppo fatalista, troppo avulso dalle volontà individuali : “[…] ognuno è l’artefice del proprio destino – scriveva il futuro duce nel 1913 – Ora non basta che il socialismo sia, come afferma Labriola ‘storicamente condizionato’, ma bisogna dimostrare che il suo trionfo rappresenta il trionfo delle idee di Bene e di Giustizia. Entra in scena la Morale: la valutazione etica del fenomeno. […] Il fattore economico da subordinante diventa subordinato. Passa in seconda linea. Il socialismo non è più una necessità economica, ma una necessità trascendente, metafisica: è la necessaria realizzazione dell’Idea. Il socialismo non è più solo il prodotto del gioco e del travaglio delle forze economiche, ma anche e prevalentemente il risultato di un atto di volontà” (cfr. G. Portalone Gentile “Dalla classe alla Nazione”, Palermo 2003 p. 23).

Volontà e azione erano le parole d’ordine della rivoluzione fascista e non potevano essere rivolte se non ai giovani; in tal modo, secondo Bottai: “[…] L’Italia riprendeva coscienza di sé nel nome sacro della giovinezza e riannodava il filo storico ad un’altra sacra primavera. La primavera della Giovane Italia” (p. 109). Ma Degl’Innocenti sostiene che nonostante Bottai riproponga sempre il concetto del fascismo come rivoluzione dei giovani sotto la guida di Mussolini, questi si guarda bene dall’accreditare la conquista del potere da parte del fascismo come mera rivoluzione giovanile. Pur servendosi sempre della tematica giovanile come arma propagandistica, per sottolineare il carattere puro e ardente del movimento fascista, non vi si identifica mai e ben presto, per non dispiacere ai poteri forti che avevano determinato la stabilità del regime, avrebbe sostituito la dicotomia giovane – vecchio, con quella politicamente più accettabile di nuovo – vecchio.

E’ innegabile che il giovanilismo mussoliniano comportò una netta adesione della gioventù al fascismo per cui non si può parlare – secondo De Felice -, almeno per il primo decennio del regime, di opposizione giovanile. D’altra parte, proprio sulle nuove generazioni Mussolini gioca la sua carta totalitaria, egli pensa di poterle educare fascisticamente per far sorgere una nuova classe dirigente forgiata secondo i suoi criteri. Coerentemente a tali progetti viene fondata l’organizzazione dei Balilla, degli Avanguardisti, dei GUF, accanto alla Milizia del partito. In tali organizzazioni i giovani sarebbero stati plasmati secondo i criteri fascisti, abituati ad obbedire, per poi poter comandare, ad osare, a disprezzare le comodità e la vita borghese, a essere pronti a far durare la rivoluzione fascista nel futuro. Nel discorso tenuto in occasione del decennale, Mussolini punta ancora sui giovani enunciando la prospettiva fascista del ricambio generazionale “come mobilitazione generale per fascistizzare ‘gli angoli morti della vita nazionale’ e, al tempo stesso, minaccia permanente di nuove cooptazioni a danno dei gerarchi più forti. E’ la prospettiva della civiltà fascista con l’inquadramento della gioventù italiana, in cui inculcare il ‘ senso collettivo della vita’ anche a costo della soppressione della dimensione individuale, perché gli uomini sono da considerarsi in funzione dello Stato: dei giovani occorre fare dei ‘credenti’, in un’atmosfera sacrale, con ‘un’altissima tensione ideale’ per il consenso di massa irrazionale e ‘religioso’ al regime e al duce” (p. 141).

Mario Missiroli con il saggio Il fascismo e la crisi italiana del 1921 è il primo a sottolineare che elemento fondamentale del fascismo fu il giovanilismo e ritiene la rivoluzione fascista, non tanto come una semplice reazione al bolscevismo, ma soprattutto come esigenza di rinnovamento insita nei ceti medi, in procinto di sostituire, nell’immediato dopoguerra, la vecchia classe dirigente, e insoddisfatti del socialismo. Dunque, fascismo come fenomeno autonomo, tesi questa che sarà ribadita da De Felice, e come scontro non tanto fra proletariato e borghesia, ma all’interno della stessa borghesia, e qui si manifesta effettivamente lo scontro generazionale. I giovani borghesi, infatti, per lo più reduci della guerra, delusi dal socialismo che ha già conquistato la generazione dei loro padri, socialismo che dopo aver preso le distanze dalla guerra, rifiuta anche la vittoria, disconoscendo i meriti e le pretese dei combattenti, cercano altre ideologie, altri programmi e si avvicinano prima al nazionalismo e successivamente al fascismo che al patriottismo unisce la valenza rivoluzionaria e la pretesa di spazzar via un mondo ormai considerato logoro e inadatto alle esigenze delle nuove generazioni.

Compito dell’educazione fascista, nella scuola, nelle organizzazioni sociali e sportive, sarebbe stato quello di formare spiritualmente e atleticamente i giovani, sulla base del principio futurista dell’esaltazione dello sport, inteso soprattutto come competizione, per raggiungere lo scopo finale di preparare la gioventù italiana ad un destino di potenza. Tuttavia, proprio in questo sta il maggiore fallimento della politica fascista, nel non aver saputo applicare il suo presunto totalitarismo e di non aver saputo formare, quindi, una sua classe dirigente. Il regime subiva la concorrenza delle organizzazioni giovanili cattoliche a cui, sulla base dei Patti Lateranensi, doveva rispetto, e dell’aristocrazia militare e di corte che continuava ad educare i propri figli secondo la vecchia tradizione fondata sulla fedeltà, innanzi tutto, alla Monarchia. Nella seconda metà degli anni trenta, si nota , quindi, se non proprio un di-stacco, una certa indifferenza dei giovani nei confronti del fascismo, che appare sempre più ai loro occhi un qualcosa di statico, nettamente lontano dalle promesse di rivoluzione e di cambiamento. La gioventù, quindi, si divide tra gli”intransigenti”, cioè coloro che davano la colpa del fallimento del fascismo ai ” vecchi di spirito”, e i revisionisti, il cui portavoce era Bottai. Per questi ultimi la crisi giovanile si sarebbe risolta con la ribellione ad uno Stato onnipresente e con la ricerca di nuove opportunità di rinnovamento. Ciò fa ritenere a De Felice che , malgrado le intenzioni di Mussolini di puntare sulla gioventù e sulla classe borghese in genere, il fascismo riuscì a conquistare molto più facilmente soprattutto le classi proletarie, abbagliate, per la loro semplicità, dalle fastose scenografie, dalle cerimonie e dai riti, e certo in parte appagate dalla nuova legislazione sociale e dalla Carta del Lavoro. Ciò non vuol dire, però, sottolinea Degl’Innocenti, che il fascismo non abbia inciso profondamente, comunque, sulle giovani generazioni.

E’ logico chiedersi a questo punto se anche gli antifascisti puntarono sull’elemento generazionale. Renato Treves (Sociologia e socialismo. Ricordi ed incontri, Milano 1990) risponde negativamente affermando che l’uso di tale concetto è proprio di chi si sente maggioranza e non di chi sa di appartenere ad una minoranza. Egli però non tiene conto che quelli che considera come eccezioni a tale regola, Gramsci, Gobetti e lo stesso Rosselli, sarebbero stati i pilastri dell’antifascismo militante.

Secondo Alberto Cappa, seguace di Gobetti e collaboratore de “La rivoluzione liberale”, paradossalmente fu lo stesso socialismo ad educare quelle che sarebbero state le riserve politiche del regime fascista, costituendone il vivaio. Nel periodo giolittiano, infatti, i giovani per lo più erano socialisti, interpretando questa adesione come ribellione al paternalismo giolittiano ; ma nell’immediato dopoguerra il socialismo ortodosso apparve come un qualcosa di statico che non bastava più ai fermenti rinnovatori delle nuove generazioni che si sentivano, quindi, obbligati a scegliere tra bolscevismo e fascismo. Ma accanto alla generazione che visse la guerra Cappa sofferma la sua attenzione sui giovanissimi, su coloro, cioè, che pur non partecipando al conflitto ne vissero il clima, ne sopportarono le conseguenze, la fame, le privazioni, l’assenza del padre, e incanalarono, quindi, le loro insoddisfazioni nei movimenti dei reduci, nazionalisti e fascisti, diventando di tali movimenti le frange più estremiste e turbolente, cercando così di vivere politicamente e continuare quella guerra a cui non avevano partecipato.

Il giovanilismo trova la sua esaltazione in Gobetti, giovane di diciassette anni che nell’immediato dopoguerra fonda un quindicinale marcatamente giovanile “Energie nove” a cui seguirà “La Rivoluzione liberale”. La sua rivista si propone a quei giovani che abbiano voglia di far qualcosa con “spirito e fede” che condividano “l’amore per le posizioni nette” e che cerchino l’alleanza con i loro coetanei per rinnovare la vita politica e civile italiana. Formatosi alla scuola di Salvemini, da cui ottiene lusinghieri elogi e incoraggiamenti, nel momento in cui cessano le pubblicazioni de “L’Unità”, sembra volerne ereditare e perpetuare i valori nella sua rivista. Simpatizza anche per il nuovo movimento di Gramsci e di Bordiga che giudica positivamente, ma con un distacco che potremmo definire “aristocratico”, vedendo in esso nonostante le differenze con la sua posizione, quel carattere rivoluzionario tanto atteso dalle nuove generazioni deluse dal socialismo. Sul socialismo riformista e, soprattutto su Turati, dà giudizi impietosi e perentori: “Sorto con le pretese di un partito rivoluzionario, il socialismo si esaurì nella tattica dei miglioramenti economici e del cooperativismo e finì con l’aggregare alle sue file tutti i malcontenti della media borghesia, preoccupati di formarsi, con la pratica riformista, le proprie clientele parassitarie. […] L’antitesi con i sindacalisti e con gli anarchici significò, appunto, una pratica conservatrice. Il gradualismo attenuò ogni opposizione al potere costituito. L’idea internazionalista fu mantenuta per pregiudizi di umanitarismo e di positivismo o, nel caso Treves, per una cruda necessità messianica di razza” (p. 193-194 n.). Il giudizio di Gobetti sul socialismo riformista non è dissimile dalla condanna ad esso inflitta da tutta una generazione che in esso vedeva l’altra faccia del giolittismo e finiva così per accomunare antiliberalismo e antisocialismo, rifugiandosi o nel bolscevismo o nel fascismo. Gobetti ritiene che solo le avanguardie operaie in nome di Marx e le élites culturalmente intransigenti avrebbero potuto seppellire il fascismo e sintetizza il suo pensiero in un testo La rivoluzione liberale in cui, tuttavia, al di là di forti intuizioni e di profonde riflessioni politologiche, si evidenzia l’incredibile confusione che regnava nella mente del giovane pensatore torinese. Pur lanciandosi d’istinto contro il fascismo, infatti, si fa influenzare in maniera determinante, così come d’altra parte era anche avvenuto in Gramsci, dal filosofo fascista per antonomasia, Giovanni Gentile. La sua interpretazione del marxismo in cui l’ideologia viene in gran parte purgata dal suo originario determinismo assumendo un carattere volontarista e una spiritualità quasi religiosa, affascinano sia il politico sardo che il giovane studioso piemontese e portano quest’ultimo addirittura a valorizzare il fascismo vedendo in esso un’occasione storica per rigenerare lo spirito nazionale, assopitosi nell’età giolittiana, rafforzandolo e vivificandolo ancora di più rispetto a ciò che in tal senso aveva ottenuto l’epopea Risorgimentale. Dunque finisce per avvalorare l’interpretazione che lo stesso Mussolini aveva dato del fascismo come di un secondo Risorgimento. Negli scontri tra fascisti e comunisti egli vede il provvidenziale intervento della violenza educatrice, da cui scaturiscono “fermenti vitali, energie decise, pensieri maturi ” Appunto da tali fermenti si sarebbe avviato quel processo di maturazione interna che avrebbe portato le élites, le aristocrazie, sia operaie che intellettuali a far si che il fascismo implodesse.

Al di là della confusione, l’eredità di Gobetti sta in quel liberalismo sociale, che Carlo Rosselli riprenderà con il suo socialismo liberale, che voleva essere uno sforzo di conciliazione della filosofia attivistica e quindi rivoluzionaria, propria del liberalismo e della tesi della coscienza di classe propria del marxismo.

La speranza dei vecchi socialisti era che non tutta la gioventù si facesse trasportare dalla irrazionalità e dall’istinto che l’avevano portata fra le braccia del fascismo; sicuramente esistevano anche giovani che ancora conservavano il senso della realtà e della ragione e che avrebbero, dunque, potuto dare nuovo impulso al socialismo; presto sarebbe venuto il loro turno. Alcuni intellettuali socialisti, come Mondolfo e Jannaccone intuiscono che ciò che aveva allontanato la gioventù dall’ideologia socialista avrebbe potuto essere stato l’eccessivo determinismo e razionalismo marxista, la sua netta derivazione dal positivismo che, negli anni ruggenti del nuovo secolo, appariva qualcosa di statico e sorpassato, inidoneo a saziare la sete di azione e di avventura delle giovani generazioni. Suggeriscono, perciò, una rilettura del marxismo in senso più idealistico, quasi kantiano, anche se tale proposta trova naturalmente l’opposizione dei vecchi socialisti, come per esempio Zibordi, che obietta l’incongruenza della distinzione tra un socialismo per i giovani e uno per gli adulti ! Anche il cattolico Greppi, nella comune condivisione di valori ideali con il socialismo in senso antifascista, indica i giovani come depositari della missione salvifica per l’Italia; si rivolge ai giovani che hanno sentito la guerra come “dramma dell’umanità” che li ha portati a cercare rifugio in Dio. Questi giovani potranno essere i naturali alleati dei socialisti, solo se questi ultimi abbandoneranno i loro pregiudizi anticlericali, visto che cattolicesimo e marxismo sono accomunati dalla fede.

La tesi revisionista del socialismo è sposata con entusiasmo e con grande vis polemica da Lelio Basso, collaboratore della rivista “Quarto Stato” con lo pseudonimo di Prometeo Filodemo. Nel suo articolo Socialismo e idealismo, del 1926, identifica il socialismo “nella coscienza dei proletari che sentano nell’interiorità propria l’antitesi fondamentale che divide la società […] ed abbiano la volontà di superare questa antitesi per salire più in alto” (p. 277). La tesi di Basso suscitò una infiammata polemica a cui parteciparono filosofi come Santino Caramella e De Ruggiero. Il primo sottolineava l’aspirazione della classe intellettuale a conciliare il liberalismo con il socialismo e finiva per prospettare la possibilità della nascita di un socialismo liberale nel caso in cui il socialismo rinunciasse ai suoi propositi di annientare le classi sociali diverse dal proletariato. La fusione tra le due ideologie, solo apparentemente contrapposte, come dimostrava il laburismo inglese, a cui appunto Carlo Rosselli avrebbe guardato con interesse, si sarebbe potuta attuare applicando il liberalismo alla costituzione politica e il socialismo a quella economica.

Il tentativo di idealizzare il marxismo cozza naturalmente con l’ortodossia positivista e materialista portata avanti dai vecchi riformisti. Per gettare acqua sul fuoco Rosselli richiama i giovani come Basso portati a condannare tout-court la vecchia classe dirigente riformista cancellando con un colpo di spugna trent’anni di lotte e di successi, ma chiede anche agli anziani come Zibordi di farsi da parte e di rinunziare a sentirsi come gli infallibili interpreti dei dogmi marxisti e smetterla di condannare ogni proposito volontarista come un rigurgito di fascismo intellettuale.

Nell’ottobre del 1926, in seguito alle leggi ” fascistissime”, i dirigenti del Partito socialista italiano decidono di trasferire i poteri alla Direzione che già risiedeva all’estero; di fatto l’attività del partito si sposta a Parigi dove si trova il maggior numero di esuli. L’anno dopo il Partito socialista italiano in esilio invita i comunisti, i repubblicani e gli anarchici a lavorare insieme in direzione antifascista, ma i comunisti rifiutano, considerando ancora i socialisti troppo borghesi ; l’anno dopo si costituisce la cosiddetta Concentrazione tra le varie frange del socialismo, i rappresentanti della Camera del lavoro e i repubblicani. Tale organismo si propone di impegnarsi al massimo, al di là dei particolarismi di partito, nella lotta antifascista per la riconquista della libertà da parte del popolo italiano e a tale scopo costituisce anche un suo organo di stampa, diretto da Treves, “La Libertà”. Nenni, all’interno della Concentrazione, si fa promotore di una rigenerazione del socialismo attraverso il solenne suggello di un patto tra vecchi e giovani. Saranno i giovani a ridare nuova linfa ad un partito isterilito da decenni di politica gradualista e a far si che si superi sia il riformismo che il massimalismo per raggiungere la meta della costruzione di uno stato democratico e moderno, dopo la caduta del regime, che niente abbia a che fare con lo status quo ante, cioè con quel tipo di stato liberale di cui il fascismo è stato l’espressione più compiuta della irreversibile crisi. Tale proposta viene accolta anche dagli anziani del partito come Turati e Treves e troverà la sua consacrazione nel Congresso di Grenoble del 1930.

Nel 1933 vede la luce a Parigi un giornale “Politica socialista”, interamente dedicato ai giovani, in cui il Partito fa autocritica, conscio di non aver saputo attirare le giovani generazioni, con lo sport, le parate, le organizzazioni studentesche, così come, invece, aveva saputo fare il fascismo.

Ma il vero movimento che si contrappone effettivamente al fascismo, puntando sul fattore generazionale è senza dubbio Giustizia e Libertà fondato da Carlo Rosselli nel 1929. Questi si rende perfettamente conto dell’influenza del fattore generazionale sul momento politico e giustifica l’adesione di massa dei giovani al fascismo ” che urta colle più belle e secolari tradizioni della gioventù studiosa e repugna al nostro senso morale” con lo sconvolgimento immane determinato dalla guerra. “[…] Quando la pace venne – scrive nella “Inchiesta sui giovani” – anche se solo di nome, quando subentrò o minacciò di subentrare quello che ad essi sembrava il grigio, il loro spasmodico desiderio di fare, di dare, di immortalarsi in un attimo solo, li prese. Cercarono l’eroico, il sublime. E lo trovarono solo là dove lo potevano trovare. Furono fascisti in buona fede come forse sarebbero stati comunisti, se nel sovversivismo postbellico vi fosse stata una decisa volontà d’azione. E poi i socialisti erano tanti, troppi, e i fascisti pochi. Non si avvidero di essere attori e più che attori marionette, d’un secolare dramma sociale che li faceva servitori di interessi inconfessabili” (p. 244). Il giovanilismo su cui si basa il movimento fondato da Rosselli può essere analizzato sotto molteplici angolature. Come vocazione movimentista, come contrapposizione ai partiti tradizionali dell’antifascismo, bollati come “vecchi” e rinunciatari, come fattore di distinzione dagli elementi conservatori e statici. Il fondatore di Giustizia e Libertà, del resto, è la quintessenza dell’ardimento giovanile; editore e pubblicista, sempre sulla breccia, vulcano di idee e di iniziative, si avvicina molto alle figure di Gobetti e Marinetti, di cui condivide anche le notevoli possibilità economiche con cui finanzia il suo movimento. Tuttavia, a differenza di quelli, appare più politicamente preparato, più concreto e meno confuso.

Rosselli inizia l’enunciazione del suo programma politico che aveva elaborato a Lipari e che verrà poi perfezionato nell’opera Socialismo liberale, il 24 maggio del 1930 nel corso di una conferenza da lui tenuta, su invito dell’Unione socialisti italiani, alla presenza dei notabili storici del socialismo italiano, Turati, Treves, Modigliani, Buozzi e il giovane Saragat che, ormai, insieme a Nenni, era il vero portavoce del Partito. In tale conferenza Rosselli prende subito le distanze dal massimalismo socialista e pone come argomento base delle sue enunciazioni il principio di libertà: “La libertà è spirito e vita che non si soffoca mai in nessuno, senza tempesta. La libertà è idea” (p. 321). Essa è considerata un valore assoluto dell’individuo che non potrà mai essere sacrificato, per nessun motivo, nemmeno in nome dell’eguaglianza economica. Il socialismo è visto, appunto, come libertà dalla servitù economica e dallo sfruttamento capitalistico. Al marxismo è rimproverata l’assenza di spiritualismo, l’eccessiva attenzione al fattore economico che porta, comunque, ad allontanare da esso quella parte di popolo che non si identifica con il proletariato operaio.

La conferenza attira le critiche dei maggiorenti del Partito che vedono in Rosselli un eccessivo idealismo inconciliabile con i dogmi marxisti, ma ancora maggiori critiche avrebbe ricevuto, da lì a poco, il libro Socialismo liberale, stampato a Parigi nel 1930, che venne stroncato da Treves, per il suo carattere ibrido, né socialista né liberale, per l’eccessivo giovanilismo, per il “velleitarismo intellettuale delle élites”. Saragat, addirittura, avrebbe accusato Rosselli di “misticismo antimarxista” e di avere una concezione troppo formalistica della libertà (p. 325. n.).

Peraltro non gli sarebbe stata facilmente perdonata un’interpretazione del fascismo non proprio ortodossa secondo la letteratura marxista. Egli riteneva che il fascismo non dovesse ritenersi una parentesi, un accidente storico, “né l’avventura di un pugno di briganti”. Per Rosselli il fascismo è “un fenomeno grosso” […] “è la forma storica che tende ad assumere la civiltà borghese capitalista in questa fase di declino”. Per cui respinge l’atteggiamento socialista di fatalistica attesa, “nella certezza dell’esaurirsi prima o poi dell’incidente”, del trionfo della giustizia e della società marxista. Rosselli ribadisce che la gioventù è stufa di determinismo, vuole essere protagonista della storia con la sua volontà, vuole agire e per agire e vincere il fascismo deve intimamente conoscerlo, così come deve conoscere gli errori compiuti dal Partito socialista nel passato. Nel volontarismo e nell’idealismo del fondatore di Giustizia e libertà, c’é molto del Mussolini eretico del 1914! Stessa volontà di agire e di essere protagonisti della storia!” [ …] Noi crediamo nella volontà umana, – scrive Rosselli – almeno come in uno dei fattori essenziali della storia; essa non basta evidentemente a creare il mondo quale lo vorremmo, ma essa è la condizione per fare, è la condizione per andare controcorrente e per non impantanarci in quel determinismo puro che fa il paio con la divina provvidenza dei cattolici” (p. 285).

Nel fascismo Rosselli se non vede “l’esperienza rivelatrice” che vi avevano visto Salvemini e soprattutto Gobetti, vede, tuttavia, un’esperienza che nel bene o nel male, non è possibile trascurare. Sulla base di tale esperienza egli ritiene che i socialisti avrebbero dovuto già comprendere che il socialismo avrebbe avuto un avvenire soltanto se si fosse finalmente liberato della sua filosofia ufficiale, se si fosse aperto a tendenze, se non proprio di matrice marxista, comunque sensibili ai problemi sociali, come il mazzinianesimo, il socialismo cristiano, e, soprattutto, se avesse rinunciato al determinismo e capito di non dover agire per una sola classe ma per un intera nazione, essendo portatore di valori di carattere universale.

Dopo Mussolini, anche Rosselli, seppure dalla sponda opposta, pone, dunque, l’accento sul binomio classe – nazione e sul carattere maggiormente coinvolgente del secondo elemento rispetto al primo. Intuisce che proprio il prevalere della classe nel programma socialista, ha reso impossibile, nel dopoguerra, la vera unità fra i lavoratori, permettendo al fascismo di aprirsi un varco nel ceto medio borghese, che ne ha consentito la vittoria. Il socialismo liberale cui Rosselli guarda è indubbiamente il laburismo inglese su cui aveva espresso alla madre giudizi entusiastici al suo ritorno da Londra. E’ un tipo di socialismo il suo che paradossalmente richiama un pensatore che certamente Rosselli non conobbe; parlo di Enrico La Loggia che, nel 1895 aveva già enunciato il suo concetto di socialismo in un articolo pubblicato nella “Rivista di politica e scienze sociali” diretta da Colajanni, affermando che il socialismo avrebbe dovuto essere necessariamente liberale se avesse voluto resistere nel tempo. Egli peraltro, esponeva un programma di nazionalizzazione parziale più chiaro e preciso rispetto al francese Benoit Malon che nel 1890 con il Socialisme Intégral aveva prospettato il mantenimento della proprietà privata per i beni strettamente personali. La Loggia faceva, invece, una netta distinzione fra i beni, senza lasciar larghi margini di discrezionalità, così come aveva fatto il pensatore francese, e proponeva la socializzazione parziale relativa ai beni primari e a quelli ad essi strumentali (la terra, il mulino, il forno per la produzione del pane, le industrie che fabbricano beni primari) I beni di consumo e i beni strumentali ad essi, cioè i beni secondari (per es. i gioielli e la fabbrica che li produce, merletti, soprammobili, ecc.) sarebbero rimasti nelle mani dei privati. Tali beni avrebbero costituito la sola ricchezza nel contesto della società socialista, ricchezza intesa come frutto del lavoro e dell’iniziativa privata. La libertas possidendi e la libertas agendi, intesa come iniziativa economica, avrebbero mantenuto vivo il principio della libertà individuale che sarebbe stata, invece, completamente soppressa da un regime di socializzazione collettiva. Sembrava un’eresia, una contraddizione in termini, ma si sarebbe rivelato nell’avvenire il solo tipo di socialismo accettabile e compatibile in uno stato non autoritario (cfr. G Portalone. Il socialismo di Enrico La Loggia, Palermo 1993). E’ del resto un’idea affine a quella di Arturo Labriola, il quale, dopo essersi scagliato contro il marxismo applicato nella Russia sovietica, stato poliziesco come pochi nella storia, che aveva tolto la libertà ai cittadini senza peraltro risolvere i loro problemi economici, anzi abbandonandoli alla più terribile miseria, rigetta la tesi secondo cui il socialismo sarebbe prodotto dal capitalismo. Degl’Innocenti sottolinea che per Labriola il socialismo è conseguenza della miseria che non è prodotta dal capitalismo, ma dall’ingiusta distribuzione dei beni e delle risorse, cosa che avviene anche in uno stato marxista e anticapitalista come l’URSS. Labriola arriva alla fine a preconizzare la nascita di una sorta di capitalismo socialista che possa conciliare il problema della libertà con quella della giustizia economica e sociale: solo la socializzazione parziale, infatti, può definirsi rivoluzionaria, poiché salvaguardia la libertà cosa che non potrebbe avvenire in un regime di socializzazione universale. Ancora una volta io trovo delle analogie con l’idea socialista di Enrico La Loggia, anche se verosimilmente nemmeno Labriola conobbe gli scritti di questo geniale avvocato agrigentino.

Nel ricercare le colpe del socialismo dell’anteguerra, Rosselli arriva a criticare l’eccesso di parlamentarismo e, come bene mette in evidenza Degl’Innocenti, sembra dare una valutazione quasi negativa dei tradizionali istituti di democrazia rappresentativa, finendo così per farsi promotore di qualcosa di elitario che risente dell’influenza dei socialisti eretici francesi della fine del secolo precedente e che lo avvicina ancora una volta a molti capisaldi dello stesso fascismo. Il socialista Berth, discepolo di Sorel nel 1914 aveva dichiarato la sua posizione antidemocratica e antiparlamentare scrivendo: “[…] Se la monarchia è il martello che scaccia il popolo, la democrazia è l’ascia che lo divide. Entrambe portano ugualmente alla morte della libertà: Il suffragio universale […] è ateismo politico nel peggiore significato della parola. Come se dalla somma di una quantità qualsiasi di suffragi potesse mai risultare un pensiero generale! […] Il modo più sicuro per far mentire il popolo è istituire il suffragio universale” (riportato da G. Portalone Dalla classe alla Nazione, cit.). Degl’Innocenti, del resto, ci fa notare che molte sono le analogie tra il movimento di Rosselli e il primo fascismo: oltre al giovanilismo, l’indifferenza nei confronti del programma e la disponibilità a cambiare in relazione alle circostanze, il movimentismo e infine il richiamo a Mazzini ed al Risorgimento come termine di paragone per il rinnovamento ricercato.

Resosi conto, così come aveva già capito molto tempo prima Salvemini, che la Concentrazione non era nient’altro che un’associazione di avversari che nulla avevano in comune se non l’antifascismo, inadatta, quindi, a ricostruire l’Italia, una volta abbattuto il regime, Rosselli se ne allontana e nel 1934 sancisce questa sua diversità con il settimanale “Giustizia e Libertà”. Attraverso le pagine del settimanale l’esule candida il suo movimento politico a riorganizzare unitariamente l’antifascismo dell’emigrazione, aggregando tutti coloro che lo combattono in modo intransigente e che non vogliano edificare un ponte tra il vecchio mondo prefacista e quello che avrebbe fatto seguito al fascismo. In tal modo non solo si sarebbe avallata la tesi del fascismo come parentesi, cose che egli escludeva, ma si sarebbero esentati i futuri ricostruttori della democrazia italiana dal fare autocritica sugli errori commessi dal socialismo, errori che avevano portata alla nascita del fascismo, come unico rifugio visto dai giovani per difendersi dalla deriva dello stato liberale. Rosselli definiva “Giustizia e Libertà” come “fronte unico di azione che raccoglie gli elementi attivi dei vecchi partiti e gruppi socialisti e repubblicani e i sempre più numerosi elementi giovani, senza tessere né precedenti politici, che in questi ultimi anni sono venuti alla lotta rivoluzionaria” (p. 345 n.). Sulla base di tali premesse Rosselli non può che rifiutare la proposta che gli proviene da Angelo Tasca di una saldatura generazionale per la rinascita del popolo italiano. “Le rivoluzioni non si determinano per via di saldature – risponderà il fondatore di “Giustizia e Libertà” – ma per via di fratture, dovesse pure la generazione rivoluzionaria riuscire ingiusta e crudele verso i predecessori, tutti i predecessori anche i più degni” (348).

Sulla scia del revisionismo socialista di Rosselli si collocherà anche una parte della giovane sinistra francese. Proprio un amico di Nello ed un seguace di Salvemini, Jean Luchaire, fonderà a Parigi nel 1927 “Notre temps”. La Revue des nouvelles générations che si rivolge a tutti i giovani la cui mentalità si sia formata durante e dopo la guerra e che considerino superati i valori del periodo prebellico e improponibile un’alleanza con gli anziani. Tuttavia, gli interlocutori privilegiati dei giellini diventano i neos, ovvero i neo socialisti francesi che, pur essendo dei socialisti, non considerano il partito un valore insuperabile e che identificano i loro caposcuola in Montagnon e Deat. Montagnon pone alla base del nuovo socialismo la nuova umanità, cioè un’umanità che si forma col superamento dell’individualismo, protesa verso un futuro di collettivismo e di spirito associativo. Per ottenere ciò il socialismo dovrà considerare meno centrale il fattore economico e distinguersi nettamente dal marxismo. Solo se veicolato in tale nuova veste a forte contenuto spiritualistico, il socialismo, secondo Montagnon avrebbe potuto far presa sulle giovani generazioni. Degl’Innocenti mette in evidenza come la dottrina economica di Montagnon, fondata sulla sindacalizzazione delle industrie e sulla forte presenza dirigista dello Stato, di fatto finisca per avvicinarsi troppo al cooperativismo fascista, al quale l’ingegnere francese riconosce il merito di aver compreso, nel momento della crisi dello stato liberale, la necessità di uno Stato forte, difensore dei deboli e potente internazionalmente e sottolinea, inoltre, come il francese risenta molto del pensiero di Saint-Simon e di Proudhon che poco avevano in comune con l’ideologia marxista.

Un altro socialista francese, Deat, che con il suo “Perspectives socialistes” dà vita al manifesto del néos, cioè del neosocialismo, prospetta la creazione di uno stato dirigista e riformista che si basi sul sostegno della classe operaia e dei ceti medi e che abbia il controllo delle organizzazioni sindacali e cooperative; anche questa è una tesi molto simile al corporativismo fascista.

Seguace di Deat è Adrien Marquet a cui si attribuisce il motto “Ordine , Autorità e Nazione” che compendierebbe il pensiero dei néos. Ma i socialisti ortodossi non possono accettare i principi di autorità e ordine coniugati a quello di nazione, e rinunziare, così, di punto in bianco all’internazionalismo che è uno dei pilastri della dottrina marxista, perciò prendono immediatamente le distanze dai néos che definiscono “fascisti di sinistra”. (Di fatto sia Deat, che Marquet che lo stesso Luchaire convergeranno alla fine nel sostegno al governo Laval e alla Francia di Vichy, dando ragione a chi sosteneva esserci poca o nulla differenza tra la loro concezione di stato e quella fascista) A difenderli si erge Rosselli che dedica ai nèos su “La Libertà” una serie di articoli nell’agosto del 1933, dichiarandosi d’accordo sulla definizione del fascismo come rivolta delle classi medie, sul ripiegamento delle nazioni in se stesse a causa della crisi economica, sul ripudio dell’Internazionalismo e sul legame imprenscindibile del socialismo con la nazione e con la democrazia.

A partire dal 1934 si può notare una svolta nel pensiero di Rosselli; l’auto celebrazione diventa ancora più intensa, poiché dopo la rottura con la Concentrazione, egli rivendica ogni giorno di più il ruolo primario del suo movimento nella lotta unitaria antifascista. A partire da quella data, inoltre, l’esule considera indispensabile mutare strategia e sostiene la necessità di propagandare il movimento all’interno dello Stato italiano, rivolgendosi ai giovani delusi dal fascismo e caduti nell’indifferenza che egli reputa il primo passo verso l’aperta sfiducia al regime. Tuttavia, egli sostiene che l’incontro con i giovani fascisti delusi non può avvenire sul terreno dei vecchi movimenti antifascisti, ormai sconfitti in tutta Europa, ma sulla base di un movimento nuovo, totalmente avulso da ogni esperienza politica passata, capace di una netta trasformazione a carattere rivoluzionario della vita italiana e rimane fermamente convinto che tutto ciò avrebbe potuto attuarsi solo attraverso l’impegno delle giovani generazioni. Del resto, già nel 1926, con la rivista “Quarto Stato”. Rivista socialista di cultura politica dedicata ai giovani socialisti, Rosselli aveva sposato la proposta di Mondolfo di diffondere il socialismo fra i giovani secondo una veste più allettante e più adatta ai fermenti dell’età, restituendo ad esso ” la natura di fede più che di scienza, di agitazione del problema economico ma anche e soprattutto di quello morale, poiché il suo fine ultimo è il perfezionamento della personalità umana, è la creazione di un ordine nuovo che assicuri al maggior numero di esseri umani la possibilità concreta, pratica, effettiva di elevarsi al più alto livello di vita materiale e spirituale” (p. 266). Rosselli intendeva procedere dalle pagine di questa Rivista alla formazione di una gioventù socialista che sostituisse la classe dirigente del partito, colpevole con il suo gradualismo, di avere intorpidito le masse e di aver allontanato i giovani da quello che a loro appariva come una specie di giolittismo. Rinnega perciò egli stesso ogni legame col passato affermando che guardandosi indietro trova affinità solo con Mazzini e con il programma di socializzazione parziale dei socialisti riformisti.

La svolta del 1934 mette in evidenza, come sottolinea Degl’Innocenti, i limiti del pensiero politico rosselliano. Pur richiamando sempre la necessità dell’azione, egli comincia a rivelarsi un utopista, privo di ogni forma di pragmatismo. Non si domanda infatti come possa penetrare la propaganda giellista in Italia, date le limitazioni imposte alla stampa, né quale valenza avrebbe potuto essa avere fra i giovani, data la fama non certo benevola di cui godevano i fuoriusciti ed, inoltre, considera dogmaticamente l’indifferenza giovanile al fascismo come preludio all’opposizione piena. Se nel 1934 aveva criticato severamente il patto tra socialisti e comunisti che anticipava la formazione dei Fronti popolari in Europa ed in Cina, dopo lo scoppio della guerra civile spagnola se ne considera entusiasta, rivalutando quel marxismo che aveva fin a quel momento vituperato e considerato la causa fondamentale dell’allontanamento dei giovani dal socialismo. Perché questo improvviso giro di boa che lo porta ad allontanarsi sempre più dai partiti socialdemocratici europei e ad avvicinarsi incredibilmente ai comunisti? Probabilmente se precedentemente aveva pensato che il patto sancito in Francia tra socialisti e comunisti avrebbe messo in ombra il suo movimento che voleva essere il vero protagonista della lotta antifascista, quando Stalin dà il via alla formazione dei fronti popolari in tutti gli stati liberi per combattere il fascismo, abbandonando la preclusione antiborghese, si rende conto che il suo movimento se isolato è destinato alla morte. Inoltre, la guerra di Spagna riaccende il suo giovanilismo, la sua voglia di azione e di ardimento, forse anche la sua voglia di eroismo se si preoccupa di celebrare con solenne retorica nel suo giornale la caduta in terra iberica dei primi martiri dell’antifascismo. Tuttavia, proprio il contatto con i comunisti, con Togliatti per la precisione, plenipotenziario di Stalin in Spagna, metterà in risalto ai loro occhi le sue diversità, il suo libertarismo che meglio si adattava ad un’alleanza con gli anarchici andalusi che con gli stalinisti. Già da allora egli verrà accusato di deviazionismo, particolarmente Togliatti non gli perdonerà di aver schierato in Spagna i suoi volontari con le divisioni anarchiche piuttosto che con quelle postesi agli ordini del Comintern. Tutto ciò farà avanzare ad uno storico come Massimo Caprara (M. Caprara Togliatti, il Comintern e il gatto selvatico) il sospetto che nel suo omicidio possa esserci stata la mano dei servizi segreti sovietici a cui la propaganda politica dei fratelli Rosselli, tutta rivolta ormai a chiedere all’URSS un maggiore coinvolgimento in senso antitedesco dava particolarmente fastidio, in un momento in cui già Stalin accarezzava l’idea di un patto di non aggressione proprio con la Germania nazista.

Al di là del particolare clima che si respirava nel dopoguerra, anche i comunisti, nel 1945, ritennero determinante contare sui giovani per il rilancio del Partito, d’altra parte Luigi Longo, già nel 1927, aveva affermato che la conquista della gioventù era da considerarsi decisiva. Togliatti, tornato in Italia, punta anch’egli sui giovani, sforzandosi di attirare nel Partito, come ha rilevato Sabbatucci, i giovani fascisti smarriti, dopo la caduta del regime, i combattenti di Salò che in quell’impresa avevano dato l’anima cercando l’onore e la “bella morte”; si rivolge a quei fascisti di sinistra anticapitalisti e sostenitori del programma sansepolcrista. In parte riesce nell’impresa, poiché il comunismo rappresenta nel secondo dopoguerra, per i giovani idealisti e delusi, quello che il fascismo aveva rappresentato nel primo: la rottura con il passato, il culto dell’azione anche violenta, l’aspirazione al rinnovamento ab imis.

Alla fine della lettura di questo libro possiamo fare una serie di considerazioni: il fenomeno che caratterizzò l’alba del novecento, il giovanilismo appunto, e che determinò la nascita di fondamentali movimenti politici e culturali, fu un movimento trasversale, comune sia alla destra alla sinistra, un movimento di protesta generalizzato, di ribellione, di aspirazione alla catarsi attraverso la rivoluzione e dunque al capovolgimento dei valori legittimati dal positivismo; il fattore generazionale fu, malgrado tutto, un ponte di collegamento tra movimenti di destra e movimenti di sinistra, basta considerare le scelte politiche che nella maturità avrebbero fatto gli esponenti dei néos, come Marquet, Deat e lo stesso Luchaire e il passaggio, nel secondo dopoguerra, dal fascismo al comunismo di molti giovani reduci della repubblica di Salò o di molti giovani fascisti smarriti alla ricerca di una nuova casa politica. Il giovanilismo fu alla base della rivoluzione culturale del ’68 e anche allora venne vissuto come una guerra contro la razionalità e la tradizione, influenzando le scelte politiche dei governanti di tutto il mondo.

Oggi non si può certo parlare di giovanilismo come celebrazione dell’azione che si spinge fino alla temerarietà e all’eroismo; tuttavia si aspira anche adesso ad uno svecchiamento della classe politica ed imprenditoriale del Paese, in cui effettivamente, nell’ultimo decennio, l’età media della classe dirigente si è abbassata di almeno dieci anni. L’era dell’informatica si affida sempre di più all’intuitività giovanile, all’adattamento delle giovani menti a tutte le forme di progresso rispetto alle quali gli anziani appaiono naturalmente più restii.

Si tratta di un giovanilismo meno passionale e più razionale, ma che porta comunque all’esaltazione delle giovani generazioni, e se non si può parlare più di conflitto generazionale è solo perché, a parer mio, sono proprio le vecchie generazioni che hanno rinunciato ad imporsi e che hanno delegato ai propri figli la gestione del futuro.