Pubblichiamo di seguito la lettera di Sergio Marano, uno dei protagonisti del Movimento clandestino fascista di Trapani e autore del volume Il bosco di Rinaldo, in riferimento agli articoli apparsi sul “Giornale di Sicilia” (martedì 27/01/04; sabato 07/02/04 e martedì 20/02/04) del giornalista Mario Genco nella pagina della rubrica “La macchina del tempo” di Cultura e Società.
La lettera risulta indirizzata al Direttore del Giornale di Sicilia e, sembra, mai resa di pubblica conoscenza. Eccone il testo.
Egregio Direttore,
chiamato in causa da una serie di articoli pubblicati sul Suo autorevole giornale (martedì 27/01/04, sabato 7/02/04 e martedì 20/02/04) dal giornalista Mario Genco nelle pagine della rubrica “La macchina del tempo” di “CULTURA E SOCIETA’”, mi corre l’obbligo di intervenire a tutela della verità dei fatti che ivi sono descritti con approssimazione e parziale o inesatta informazione.
Prescindo dal giudizio critico sui predetti articoli che si rivelano viziati da pregiudizio ideologico e privi di dignità storica. Mi preme correggerne alcune distorsioni. Pertanto, egregio direttore, La prego di voler cortesemente concedermi un diritto di replica sui seguenti punti:
1 – Il mio libro Il bosco di Rinaldo (editrice SANTI QUARANTA Treviso) è tutto fuor che “reticente e ambiguamente autoassolutorio” come scrive il giornalista (che non dice però dove è reticente e dove autoassolutorio).
Basta una lettura condotta sine ira et studio, con un’ottica neutra per sincerarsene. Se un pregio ha questo libro è quello della sincerità. E l’acclusa presentazione dello scrittore siciliano Antonio Russello è lì a testimoniarlo con argomentazioni non peregrine.
2 – Il giudizio espresso dall’autore su Maria D’Alì (pag. 70), come di donna anticonformista e antiborghese (considerata la sua appartenenza a una ricca e altolocata famiglia) voleva semplicemente esprimere un sentimento di ammirazione per una donna che amava “mescolarsi alla gente comune e respirare aria semplice e schietta, popolana (come popolani eravamo tutti noi)”. Giudizio, dunque, affatto espressione di “un codice linguistico fascista” e quindi di donna “dura e pura”, come scrive superficialmente il giornalista.
3 – Il quale, inoltre, a proposito di Antonio De Sanctis (uno dei giovani finiti in carcere), fa testimoniare un certo dott. Giuseppe (L)?, dirigente INPS in pensione. Il predetto Giuseppe L. dichiara, infatti, che “fra una partita e l’altra di bigliardo, nel 1942, sentì (lui appena undicenne) affermare il De Sanctis, con tono perentorio e sprezzante, “ma perché l’Italia non taglia la testa ai traditori?”. Che autorevolezza e che peso di testimonianza! E perché? Perché, a detta di questo dottor Giuseppe L. (sempre anonimo), Antonio De Sanctis “era un intransigente, un intellettuale pericoloso”. Ergo, un pericoloso fascista! Il lato grottesco della testimonianza consiste nel fatto che codesto dottor Giuseppe L. si vanta, proseguendo nella sua testimonianza, che, appena tredicenne, nel 1944, “Con una bomba ricavata da una mina anticarro americana, io e un mio coetaneo facemmo saltare la baracca di legno dov’era sistemata la sede della CGIL in pieno, centro…”.
Ora, per quanto riguarda la personalità di Antonio De Sanctis basterà, presumo, leggere il libro e in particolare la testimonianza del professor Virgilio Titone, liberale e illustre storico e titolare allora della cattedra di storia moderna all’Università di Palermo, il quale non si peritò di farci visita in carcere e di offrirci il suo sostegno morale, in particolare al suo allievo Antonio De Sanctis che aveva in grande considerazione. Infatti, all’uscita nostra dal carcere, gli aveva proposto di diventare suo assistente alla cattedra di storia. L’anticamera di una carriera universitaria. Ma l’incalzare del male che affliggeva il nostro amico Antonio gli impedì di accettare e di assumere l’incarico. Si leggano le pagine 121-142 del libro.
4 – Il giornalista Genco calca con evidenza la penna nel definirci “figli del regime” (come se non lo fossero stati tutti gli studenti italiani di ogni ordine e grado!) e “dei suoi programmi scolastici e culturali… con professori che commentavano la dottrina fascista, che li radunavano nel cortile della scuola per celebrare le vittorie sui barbari abissini, ecc.”. Sfonda una porta aperta! È il mio libro che gli fornisce la materia. Ma, e questo è singolare, si dimentica il giornalista di raccontare che proprio quegli stessi professori (pagine 43 – 74 – 120 – 121), all’indomani dello sbarco degli Alleati in Sicilia, si erano affrettati a cambiare casacca e a vestire le nuove divise (comunista, socialista, eccetera.)
Istruttive le pagine al riguardo di Ruggero Zangrandi, ancora oggi.
5 – Cita poi la testimonianza dell’avv. Vito Nola di Trapani, nostro compagno di avventura, che è la più penosa. La verità è quella descritta a pag. 32 del libro, che il giornalista Genco (che per altri versi ha saccheggiato, le mie pagine ad usum delphini) non cita (ma perché?) e lascia campo alla balbettata e confusa autodifesa di Vito Nola. Ecco la verità: Vito Nola ed Enzo Scuderi (gli scarcerati senza condanna) fecero parte, a pieno titolo, del Comitato dei Nove, di cui si parla negli articoli, con le stesse determinazioni e quindi con le stesse assunzioni di responsabilità. Un caso fortuito volle che non si trovassero (o mancassero) le tessere firmate di adesione al movimento sia di Scuderi che di Nola. Per cui veniva meno l’accusa principale. Noi rimanenti sette del Comitato, per avvalorare la mancanza dell’adesione firmata, testimoniammo a loro favore scagionandoli del tutto e fummo lieti che li liberassero. Si leggano le pagine 32 e 33 del libro. L’avvocato Vito Nola non ci fa una bella figura! Non c’era nulla di disdicevole nell’ammettere quella verità. E sarebbe stato molto più dignitoso. Mi dispiace ritornare su questo aspetto della vicenda, ma vi sono stato costretto.
Altre parti andrebbero raddrizzate e corrette, ma ritengo che quanto esposto sia sufficiente a mettere in evidenza la parzialità della ricostruzione del giornalista Genco, che mi spiace di non potere annoverare fra i lettori attenti e spassionati. Questo non significa non accettare a priori le critiche. Ben vengano, purché obiettive e non tendenziose.
La ringrazio dell’attenzione che vorrà riservarmi e mi scuso se sono stato costretto a intervenire. Ma non potevo tacere in fatti che hanno profondamente inciso, ancora oggi, nel mio animo e in quello dei miei amici.
Con cordialità.
Sergio Marano