Introduzione
Le confraternite possono essere definite associazioni religiose di fedeli laici, riconosciute dalla Chiesa ufficiale, organizzate secondo una rigorosa struttura gerarchica interna a capo della quale c’è un superiore, spesso detto Governatore. Inizialmente furono erette per soddisfare due principali bisogni dei loro aderenti: quello spirituale di suffragi religiosi per la salvezza delle anime e quello temporale di aiuto nel trasporto e nel seppellimento dei cadaveri(1). Nel tempo si aggiunsero compiti di solidarietà sociale e civile che sopperivano alle carenze delle strutture sociali del periodo. Oggi esse dipendono dall’autorità ecclesiastica e sono regolate dal Codice di Diritto canonico. A seconda delle varie regioni prendono nomi diversi: Fraterie, Confraternite, Gilde, Gildonie, Collecta, Sodalità(2). Forme di associazionismo simile possono essere considerate nel mondo antico le “Fratrie” e le “Eterie” in Grecia, caratterizzate da scopi più marcatamente politico – giuridici, ed i “Collegi” e le “Sodales” a Roma. Con il Cristianesimo, che attinse molto dai culti pagani, già nel IV secolo a Roma sono presenti i “Fossores” e “Lecticarii”, preposti alla sepoltura dei cadaveri e all’esercizio di attività caritative e di culto, ed i “Parabolari” con il compito di assistere gli ammalati(3). Nel XIII secolo, date le specialissime condizioni politico – sociali, più forte si manifestò lo spirito di associazione, espressione di quel bisogno di pace e di profondo rinnovamento della Chiesa avvertito in un’epoca così perturbata. L’origine delle Confraternite attuali può essere ricondotta a quel vasto movimento penitenziale dei Battuti, Flagellanti e Disciplinati (Frates de Poenitentia) che si diffuse nell’Europa del XIII secolo, età attraversata da forti correnti di spiritualità religiosa e da radicali esigenze di rinnovamento a carattere popolare. In quel periodo le Confraternite si diffusero rapidamente, differenziandosi per carattere e scopi, e svolsero una vera e propria funzione di “tessuto connettivo del corpo sociale”(4). Le associazioni confraternali compaiono in Sicilia agli inizi del XIV secolo, durante la dominazione Aragonese, ad imitazione di quelle della città di Roma, con il motto “Pro Dei Timore et Christi amore”(5). Nacquero come libere associazioni di laici, riconosciute dalla chiesa ufficiale, rivolte ad attività di preghiera e di culto. Solitamente ogni istituzione era severamente retta da un consiglio composto dal Governatore, da un maestro dei novizi, da un visitatore degli infermi, a cui si aggiungevano i cosiddetti ufficiali minori quali il tesoriere, il consigliere, sagrestani e nunzi che insieme coadiuvavano l’attività del sodalizio. Coerentemente con lo spirito di mortificazione e di riparazione che animò le prime forme di associazionismo confraternale, per manifestare pubblicamente il loro impegno di espiazione “poiché i loro esercizi furono sin dalla fondazione drizzati alla penitenza”(6) vestirono con rozze tuniche di sacco trattenute alla vita da cingoli di corda (richiamo alle vesti di penitenza di biblica memoria).
Tali sodalizi erano soliti aggregare appartenenti allo stesso ceto sociale così da trasformarsi spesso in vere corporazioni d’Arti e Mestieri(7), a Licata ad esempio la confraternita di S. Salvatore era costituita da agricoltori e pastori(8), quella di S. Giacomo da nobili.
La confraternita se “…recuperò e amplificò sul terreno della cerimonialità popolare la tradizione tre – quattrocentesca dei Disciplinanti” e “…offrì modelli flessibili per l’organizzazione e il controllo di espressioni collettive di devozionalità”(9), svolse anche un importante ruolo sociale portando assistenza ai meno abbienti e bisognosi, aiuti nelle carceri, sussidi nei pellegrinaggi, soccorso in istituti e ospedali. Caso specifico, a Licata, fu la cura e gestione dell’ospedale da parte della Confraternita di S. Giacomo, l’assistenza spirituale ai condannati a morte e la nascita di un ospedale per gli incurabili ad opera della Confraternita della Carità(10) oppure l’aiuto alle orfane e ai pellegrini affidato alla Confraternita della SS. Trinità. L’appartenenza ad una confraternita offriva ai sodali vari benefici quali il soccorso dei fratelli nel bisogno, un dignitoso funerale e accompagnamento alla sepoltura nel cimitero del sodalizio, pratiche spirituali per la salvezza dell’anima o celebrazioni di SS. messe(11).
L’importanza delle confraternite non sfuggì per molto tempo alla Chiesa ufficiale che nel 1562, durante il concilio di Trento, ne esaltò la funzione come centro di aggregazione culturale e religiosa, così se da un lato si riaffermò il controllo della Chiesa sulle confraternite, dall’altro, tale tipo di sodalizio, venne chiamato a svolgere un primario ruolo controriformistico(12).
Nel corso del XVI secolo le Confraternite si moltiplicarono soprattutto sulla scia delle disposizioni di Pio V e Gregorio XIII, quelle legate al culto della Madonna del Rosario e del SS. Sacramento. La rilevanza del fenomeno fu tale che indusse papa Clemente VIII nel 1604 con la Bolla “Quaecumque a Sede Apostolica”, a tentare di limitare gli abusi e la compresenza di più Confraternite dello stesso tipo nello stesso luogo(13). Alle Confraternite si affiancarono le Congregazioni, per lo più fondate nelle case di religiosi, sodalizi religioso – laicali che, a differenza delle Confraternite, non indossavano l’abito e non partecipavano a processioni o attività pubbliche ma in privato, attraverso pratiche religiose, si arricchivano e purificavano spiritualmente. Tale fenomeno fu presente anche a Licata agli inizi del XVII secolo ma raggiunse la massima diffusione nel XVIII secolo con l’istituzione di Congregazioni prevalentemente mariane, quasi tutte poste sotto il titolo dell’Addolorata(14). Le Compagnie si differenziavano dalle confraternite per la maggiore attenzione che dedicavano alla cristiana pietà, regole più precise e maggiori obblighi per gli appartenenti. Le Compagnie si proponevano come veri e propri centri di potere e di prestigio spesso rivolte allo sviluppo e valorizzazione della propria autorità.
Nel corso del tempo tutte queste associazioni subirono varie trasformazioni e restrizioni dovute a decreti, leggi, trattati, per lo più da attribuirsi alla preoccupazione dei sovrani che vedevano in esse quasi un “segreto esercito” della Chiesa pronto a creare insurrezioni o agitazioni politiche contro l’autorità civile se la Chiesa ne avesse avuto bisogno. Si collocano tra il 1589 e il 1655 le Costituzioni dei quattro Sinodi agrigentini che sottoponevano ad un sempre più serrato controllo le attività delle Confraternite(15). Nel corso del secolo XVIII il ruolo della Chiesa venne sostanzialmente ridimensionato per effetto di una serie di riforme intese a restaurare il potere regio. Tappe fondamentali di questo processo furono: il 1741 quando, governando Carlo III di Borbone, ci fu la sottoscrizione del Concordato con la Santa Sede che limitava le immunità ecclesiastiche in Sicilia e sganciava l’isola dal vassallaggio pontificio; il 1767, in linea con la politica di limitazione delle prerogative ecclesiastiche, vi fu l’espulsione dall’isola della Compagnia di Gesù; il 1781 quando Ferdinando III di Sicilia ordinò l’istituzione di un magistrato laico preposto ad esaminare regole e capitoli delle confraternite; il 1782 anno dell’abolizione del Santo Uffizio e chiusura di alcuni conventi(16); il 1783 quando, in coerenza ai provvedimenti anticlericali già adottati, vennero soppresse alcune Confraternite che gli ecclesiastici avevano creato e governato nelle loro Chiese(17); il 1792 anno in cui si ebbe l’alienazione dei beni ecclesiastici. Nella legislazione del XIX secolo tutte le opere pie furono assoggettate alla tutela e vigilanza civile, quindi esse furono regolate da commissioni amministrative. Questi istituti rimasero in vigore nelle province napoletane e siciliane fin quando, unificate all’Italia, non si pubblicò una legge del 3 agosto 1862, mentre regnava Vittorio Emanuele III, che istituiva in ogni Comune la Congregazione della Carità, che amministrava tutti i beni destinati a favore dei poveri. Alla Congregazione vennero assegnate tutte le opere pie comunali, e fra queste le Confraternite(18). Nel 1929 col Concordato le Confraternite passarono nuovamente sotto la competenza ecclesiastica.
Se l’origine della crisi di dette associazioni è da ricercare nella scomparsa di congreghe esclusivamente rette da ecclesiastici, nelle idee anticlericali del periodo, nell’impoverimento delle risorse finanziarie dei sodalizi a causa della censurazione dei beni ecclesiastici, dovuta soprattutto alle leggi del 1816 in favore della libera circolazione dei beni e abolizione del latifondo(19), la causa principale è da ascrivere allo stesso mondo ecclesiale per lo sviluppo di un maggiore rapporto gerarchico che privilegiava la centralità giuridica del Vescovo e l’importanza della parrocchia dalla quale spesso il mondo delle confraternite era lontano.
La nascita poi di un nuovo modello di laicato cattolico, che si esprimeva nell’associazionismo di Azione Cattolica più rispettoso delle indicazioni del clero(20) ridusse l’interesse e l’assistenza del clero alle confraternite.
Le confraternite svolsero un ruolo importante anche in campo artistico reclutando artisti, a volte conosciuti, affinché con le loro opere accrescessero l’importanza di un sodalizio rispetto ad un altro e nello stesso tempo ne abbellissero la sede, spesso autonoma, o addirittura, un altare come nel caso della confraternita dell’Immacolata Concezione a Licata.
Così tramite opere di beneficenza, doni di benefattori, lasciti di coloro che speravano di ottenere la vita eterna attraverso un atto di devozione terreno(21), le confraternite diventarono committenti di varie opere d’arte quali Crocifissi, statue lignee, suppellettili d’argento, fercoli professionali, gonfaloni e quant’altro.
A ciò non vennero meno le confraternite di Licata e oggi si ritrovano tele di Filippo Paladini e di G. Portaluni del ‘600, opere della famiglia Spina, manufatti di argentieri palermitani.
Le confraternite siciliane quindi non sono state un fenomeno esclusivamente religioso ma anche storico, sociale e culturale diventando un tutt’uno con la storia del popolo siciliano. Durante i secoli i confrati furono sensibili alle esigenze spirituali e al senso della vita comunitaria, la loro convivenza con la Chiesa mosse le redini della storia, la committenza di opere d’arte oggi rende queste associazioni laicali depositarie non solo di tradizioni religiose, umane e culturali, ma anche di un passato artistico ancora fruibile.
I. La Confraternita del SS. Salvatore
Sede: Chiesa del SS. Salvatore
Fondazione: anteriore al 1242
La confraternita del SS. Salvatore può essere considerata come il più antico sodalizio della città di Licata nato sicuramente prima dell’anno 1242(22). Anticamente aveva sede nell’omonima chiesa di S. Salvatore, in seguito abbandonata per l’attuale antica chiesa di S. Salvatore costruita, come raccontano i confrati, nel 1214.
Una descrizione della chiesa viene data da C. Carità(23) il quale informa che l’architettura esterna fu realizzata nel 1697. Oggi all’interno dell’unica navata si possono ammirare dipinti a olio su tela di un ignoto pittore siciliano del XVIII secolo, un crocifisso ligneo, due belle statue raffiguranti S. Barbara e S. Gaetano da Thiene santi tipicamente onorati in confraternite di contadini e massari come la suddetta, infatti S. Gaetano è solito essere chiamato con l’appellativo di “Padre della provvidenza”, S. Barbara è invocata contro gli elementi della natura avversi ai contadini.
Nel corso di restauri è stata anche portata alla luce l’antica cripta sotterranea per tutta la lunghezza della chiesa, con scolatoi, ossari e un altare. Essendo andate disperse nel 1553, nel corso del sacco di Licata, le scritture relative alla fondazione e alle regole della confraternita, don Geronimo Bazzio, vicario del Vescovo di Agrigento, trovandosi a Licata un decennio più tardi rinnovò sia le Bolle di fondazione sia lo statuto, confermando al sodalizio l’attuale chiesa e la sepoltura ecclesiastica nel cimitero della confraternita annesso alla chiesa.
La Confraternita raggiunse il massimo splendore nel corso del XVI secolo annoverando circa 400 confratelli(24). Stemma della congrega è un globo terrestre, cinto dai segni zodiacali, sormontato da una croce, simbolo di Gesù Cristo Salvatore del mondo. I confrati durante le cerimonie indossavano un vestitino di sacco bianco con cappelli e mantelli rosati(25), portavano in processione lo stendardo, un drappo rosso damascato triangolare a coda di rondine sorretto da un asta con globo terrestre finale sormontato da una croce, simbolo del sodalizio.
Durante la Via Crucis del Venerdì Santo la congrega occupava il secondo posto mentre, durante le altre processioni, occupava l’undicesimo posto secondo un cerimoniale prestabilito che organizzava l’ordine di ciascuna confraternita nelle processioni, come avveniva anche a Palermo per le solenni festività tributate a S. Rosalia(26).
In occasione della festa di S. Angelo, patrono della città, i confratelli partecipavano portando lungo le strade e i borghi di Licata lo stendardo damascato che, legato ad un’asta molto alta, sfilava con i gonfaloni degli altri sodalizi. Ma ieri come oggi il ruolo più importante del sodalizio è quello svolto durante la solennità della Pasqua di Resurrezione con l’esposizione dell’Eucarestia. Un tempo in tale ricorrenza, a ricordo della passione di Cristo, era obbligo di tutti i confratelli essere vicini all’altare indossando corone di spine in testa e corda al collo(27).
Con la soppressione della “giunta di Pasqua”, incontro tra il simulacro della Madonna e quello del Cristo, si instituì la processione, completamente organizzata dalla Confraternita, del Cristo Redentore detto “u signori ccu’ munnu nmanu”, simulacro in legno policromo della fine del XVIIII secolo, tradizione che si è mantenuta sino al 1968(28). Il sodalizio col tempo si concentrò talmente sull’organizzazione di detta processione da mettere da parte le altre attività.
I membri della confraternita si dedicavano anche all’esercizio di pie attività verso i poveri e gli ammalati: durante la festività di Pasqua, secondo antica tradizione, ogni confrate portava del cibo che, benedetto presso il cimitero della congrega annesso alla chiesa, veniva poi suddiviso tra i carcerati, i ricoverati nell’Ospedaletto degli incurabili, retto dalla Compagnia di Maria SS. Della Carità, e i poveri recatisi al cimitero(29).
Nel 1968 la soppressione da parte di Mons. Giuseppe Petraia di molte feste religiose tra le quali quella a cui si era completamente dedicata la congrega, portò la stessa alla quasi inattività durata quasi sino ai giorni nostri. Oggi la confraternita ha ripreso un suo ruolo promovendo l’educazione dei giovani sia in campo religioso che sociale.La maggior parte degli arredi sacri è andata perduta nel corso del tempo e nulla si conosce sulla loro attuale collocazione.
II. Confraternita di S. Andrea
Sede: Chiesa di S. Andrea
Fondazione: XIII secolo
La Confraternita di S. Andrea, annoverata tra le Confraternite più antiche della città di Licata, aveva sede in una chiesetta dedicata al Santo. La sua origine si ricollega alla presenza in città di una comunità di amalfitani che, dedita ai commerci marittimi, fondò tale congrega in onore dell’Apostolo protettore degli stessi. Infatti, anche in altre città marinare, come a Palermo, erano presenti congreghe in onore dello stesso Santo sorte grazie a tali comunità(30).
In seguito, per motivi sconosciuti, la congrega trasferì la propria sede nei locali dell’ex Monastero del Soccorso dove rimase sino a quando le monache di clausura, per esigenza di spazio, decisero di ingrandire l’edificio inglobando anche la chiesa e il terreno di proprietà della Confraternita con un atto che, stipulato nel 1585, ne cedeva la proprietà alle monache in cambio di un’altra chiesa annessa e di un censo annuo.
Il trasferimento nella nuova sede avvenne soltanto nel 1636 ma senza il censo annuo stabilito sino al 1642 quando, il Vescovo di Agrigento, Mons. Francesco Traina, spinto dai confrati ingiunse le monache a sopperire al debito contratto negli anni(31).
La Confraternita occupava il XII posto nelle processioni, secondo il cerimoniale prestabilito dal Capitolo dell’insigne Collegiata, i confrati appartenevano al ceto civile e vestivano sacco con mantello bianco, visiera e pallio color verde(32). Stemma della congrega era una croce di S. Andrea alla quale era appeso un pesce in riferimento alla professione dello stesso(33).
A scopo prettamente cultuale la congrega si dedicava alla formazione religiosa dei membri, all’organizzazione dei riti sacri in onore di S. Nicola di Bari e di S. Biagio, santi venerati nella chiesa con due simulacri in legno oggi andati perduti, ma la più importante festa era quella dedicata al Santo patrono festeggiato con un triduo. La congrega partecipava durante l’anno anche ad altre processioni come quella nel maggio del 1647 quando la Madonna che si venerava nella chiesa di Sabuci fu condotta sino alla chiesa Madre ed esposta alle preghiere dei fedeli per invocare la pioggia in un periodo di gran siccità(34).
Nel 1938 la congrega, a causa del ridotto numero dei suoi adepti e del venir meno dei valori e dei ruoli cultuali che aveva svolto nel passato, decise la propria estinzione vendendo l’antico oratorio e cedendo gli arredi sacri. Di detti arredi si è persa la conoscenza fatta eccezione per il simulacro in legno raffigurante S. Andrea oggi nella moderna chiesa omonima nel quartiere Oltremonte. I capitoli rinnovati nel 1838 e il rimanente archivio entrarono a far parte del patrimonio della confraternita di M. SS. della Carità.
III. Confraternita di S. Angelo
Sede: Chiesa di S. Angelo
Fondazione: anteriore al 1486
La Confraternita di S. Angelo, inizialmente legata al culto dei santi Filippo e Giacomo, antichi protettori della città, aveva sede nell’omonima Chiesa, oggi chiesa di S. Angelo(35).
Negli anni del governo di Federico II di Svevia nella chiesa dei Santi Filippo e Giacomo fu seppellito in gran fretta S. Angelo, martire carmelitano, trucidato nei pressi della porta di Piazza Linares(36) per aver condannato nelle sue prediche il sistema di governo. In seguito a tale avvenimento i Licatesi devotissimi del Santo lo scelsero come patrono della città, gli dedicarono la Chiesa nella quale era stato seppellito che cambiò nome e con essa la Confraternita.
Una descrizione particolareggiata della nuova chiesa, completata alla fine del XVII secolo, si ha nel manoscritto di A. M. Serrovira, della metà del 1600, dal quale si evince che, data la grande affluenza di fedeli che giungevano da tutto il circondario a venerare le spoglie del santo raccolte in un’urna, si decise di edificare una costruzione più vasta che inglobasse quella preesistente(37).
Il documento più antico della Confraternita è considerato il “Rollo Vecchio” custodito nell’archivio della stessa, nel quale si possono attingere numerose e particolareggiate informazioni riguardo alla sua storia. L’attività del sodalizio è già documentata nel 1486 anno in cui le reliquie di S. Angelo, alla presenza degli ufficiali della congrega, furono traslate da una cassa di legno ricoperta di velluto rosso ad una nuova in argento(38).
La congrega, in ricordo della tonaca dei padri carmelitani, vestiva sacco di tela e visiera di colore marrone, con la figura di S. Angelo ricamata, che in seguito, come ricorda L. Vitali(39), cambiò in sacco e mozzette giallo pallido e abitino marrone con l’immagine di S. Angelo ricamata.
Nata come Confraternita di corporazione, raccogliendo più individui esercenti la stessa attività, in questo caso muratori ed in seguito artigiani, nel corso del tempo per incrementare il proprio prestigio accolse al rango di ufficiali anche persone altolocate.
Don Cesare Marullo, Vescovo di Agrigento, nel 1575 concedette ai confrati lo ius patronato sulla chiesa(40), sepoltura ecclesiastica in suddetta chiesa, l’uso dell’oratorio e la custodia delle reliquie del Santo. Da quel momento sorsero continue incomprensioni tra i membri del sodalizio e i PP. Carmelitani i quali, in virtù del fatto che il Santo aveva professato nell’ordine Carmelitano, pretendevano l’assegnazione della Chiesa e, cosa più importante, delle reliquie.
I confrati per accrescere il proprio prestigio e quello della Confraternita presentarono domanda alla Curia Vescovile di Agrigento affinché il pio sodalizio venisse trasformato in Società. Nel 1622 la domanda venne accolta a condizione che i confrati rendessero conto di tutti i loro introiti nel corso delle ricognizioni canoniche.
La Confraternita così trasformata in Società poté portare insegne, eseguire pratiche di disciplina nella chiesa ed esercizi spirituali(41). Ma nel 1784 ritornò ad essere una Confraternita con la costituzione dei dieci capitoli redatti dalla giunta dei presidenti e consultori, ad assolvere quanto spettava alla chiesa di S. Angelo e provvedere all’organizzazione della festa in onore del patrono della città(42). Compito specifico della Confraternita era quello di solennizzare la festa in onore di S. Angelo a ricordo della morte avvenuta il 5 Maggio del 1220. Lo storico licatese L. Vitali ricorda che, sul fare della sera, le reliquie del Santo, raccolte in un’urna d’argento, venivano portate in processione da tutte le Confraternite contraddistinte dai loro stendardi damascati, dal clero e dalle varie comunità religiose(43). L’urna usciva dalla chiesa in mezzo a quattro ceri, in gergo “intorci”, artistiche costruzioni in legno denominate: Comuni, Piana, Massari, Pecorari, che portati a spalla venivano condotti sino alla chiesa Madre. La totale spesa di questa processione, e di altre minori nel corso dell’anno, era sostenuta dalla Confraternita grazie all’esercizio del “plateatico”, concessione temporanea di terreno a coloro che portavano le loro merci per venderle durante la fiera di agosto.
Tali introiti furono spesso motivo di contestazione da parte dei Deputati delle fabbriche della Chiesa i quali pretendevano che i confrati contribuissero alla realizzazione del nuovo edificio. La lunga disputa si protrasse negli anni ed ebbe termine soltanto nel 1822 quando la Confraternita vide finalmente riconosciuto l’antico diritto di possesso delle gabelle della fiera i cui proventi dovevano essere utilizzati soltanto per i festeggiamenti in onore del Santo. L’esercizio di tale diritto cessò nel 1848 quando detta fiera non ebbe più luogo a causa dei moti rivoluzionari che compromettevano la sicurezza delle strade e delle campagne(44). La congrega godeva anche di un’altra gabella, donata da Don Giuseppe di Caro nel 1557, grazie alla quale riceveva un grano a quintale su tutti i generi che venivano pesati nel porto di Licata a condizione che ogni sabato si celebrasse una messa nella Chiesa di S. Angelo(45).
Agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo la confraternita cessò di esistere con l’ultimo governatore sig. Giuseppe Lodi, in seguito la sede della stessa venne smantellata e gli arredi sacri usati dai PP. Carmelitani nelle solenni liturgie.
IV. Confraternita di Maria SS. della Carità
Sede: Chiesa di Maria ss. della Carità
Fondazione: 1503
La Confraternita di Maria SS. Della Carità data la sua fondazione nel 1503, come tramandano alcune cronache coeve(46), e in seguito accolta nell’oratorio dell’omonima chiesa, sorta nel 1622 grazie ad elemosine degli stessi confrati, e benedetta dal confratello e vicario foraneo, Don Michele Taormina.. La costituzione canonica risale al 1619, quando Mons. Frà Vincenzo Bonincontro, vescovo di Agrigento, ne dichiarò la presenza nell’oratorio della medesima chiesa.
I membri della congrega facevano parte della classe civile e nelle processioni, secondo l’ordine prestabilito, avevano il settimo posto; vestivano abitino bianco raccolto in vita da un cinturino nero e una piccola mozzetta nera recante sulla sinistra un cuore fiammeggiante con su scritto “Charitas”, motto della compagnia(47). Nel 1625 venne approvato lo statuto di 27 capitoli dove si elencavano gli scopi sociali e cultuali a cui si sarebbe dedicata la congrega.
Attività principali in quel periodo erano: l’inumazione dei morti in povertà nel cimitero annesso alla chiesa e la divulgazione della fede cristiana con incontri settimanali nell’oratorio. La congrega si dedicava anche ad altre opere pie nei confronti dei confratelli che si trovavano in malattia e in stato di indigenza: infatti lo statuto prevedeva che l’ammalato dovesse essere sostenuto moralmente e religiosamente dai confrati ed, in caso di prolungamento della malattia, aiutato anche dalle elemosine degli stessi.
I confrati caritatevoli non solo con i confratelli in difficoltà ma anche con i poveri e gli ammalati incurabili, che per tal motivo non erano ammessi nell’ospedale, nel corso del XVII secolo edificarono, grazie a donazioni ed elemosine, l’ospedale per i poveri incurabili, chiamato anche “l’Ospedaletto”, in cui gli ammalati erano sorretti nel dolore sino alla morte(48).
All’inumazione dei ricoverati si dedicava la pia Confraternita di S. Caterina(49) che, data la collaborazione e vicinanza d’intenti, nel 1655 si aggregò alla Confraternita della Carità la quale, alla chiusura del sodalizio di S. Caterina, in virtù dell’antica aggregazione ne accolse i beni, gli archivi e gli stessi confrati.
Il 1731 segnò la nascita, nello stesso oratorio, dell’”Opera dell’agonia”, istituzione finalizzata alla salvezza dell’anima, altro compito a cui si dedicava la congrega, grazie a particolari pratiche spirituali compiute durante l’agonia dell’iscritto, come l’esposizione del SS. Sacramento in un apposito ostensorio dalla raggiera in argento e piede in rame, perché esposizione di tono minore.
Un quadro del XIX secolo, oggi posto nell’oratorio della confraternita descrive in maniera particolareggiata l’uffizio a cui si dedicavano i confrati. Se l’esposizione si protraeva anche nelle ore notturne, dodici confrati, a turno, vegliavano in preghiera il SS. Sacramento e aiutavano spiritualmente il moribondo. Tale pio uffizio riscosse molta fortuna tra gli abitanti di Licata che in molti aderirono all’iniziativa versando all’inizio una quota, e poi la somma di un grano alla settimana, al procuratore dell’opera che trascriveva diligentemente tutte le entrate in libretti, oggi ancora esistenti, in cui, accanto al nome del fedele erano segnati i grani (un cerchietto corrispondeva ad un grano versato).
Attività cultuali erano, ieri come oggi, la chiusura del ciclo delle Quarantore e l’esposizione del simulacro ligneo di Gesù flagellato durante il Giovedì Santo.
Come altre confraternite in Sicilia anche questa congrega chiese ed ottenne, con Bolla del 18 gennaio del 1734 di Papa Clemente XII e conferma del Vescovo di Agrigento, Mons. Lorenzo Giorni, l’aggregazione alla Arciconfraternita della Natività di Gesù Cristo e degli Agonizzanti della città di Roma. La Bolla ancora oggi esistente, presenta miniature, riccamente ornate da oro zecchino, raffiguranti elementi floreali ai lati e in alto al centro la Natività di Gesù Cristo, emblema dell’omonima confraternita.
Nel corso del XVIII secolo la congrega si dedicò all’abbellimento del proprio oratorio facendo realizzare da Pietro Patalano, grazie alle elemosine raccolte dalla Badessa Suor Maria Serrovira, la statua raffigurante la patrona della congrega, Maria SS. della Carità, che fu inserita in un altare di marmo rosso di Francia realizzato nel 1739.
Durante il XIX secolo, l’Ospedaletto venne trasformato in ospizio per povere donne che, per età o per malattia, non potevano lavorare. In seguito la scarsità delle rendite, dovuta anche alla divisione tra le rendite per il sodalizio e quelle per l’opera pia, costrinse le abitanti a chiedere l’elemosina per sopravvivere o ad essere sostenute da famiglie caritatevoli. A poco valse anche la rendita del Comune, insufficiente per il mantenimento delle stesse.
Il XX secolo vide la congrega perdere molto di quel fervore che l’aveva contraddistinta in passato sia per la mancanza di attività pubbliche, quali feste religiose che potevano mantenere viva l’attività e la presenza dei giovani, sia perché dedicandosi ad attività religiose private all’interno dell’oratorio determinò l’allontanamento dei giovani e molti di fedeli. Oggi la congrega si sta dedicando al restauro della chiesa e dei propri beni.
V. Confraternita di S. Sebastiano
Sede: Chiesa di S. Sebastiano
Fondazione: XVI secolo
Antica Confraternita di cui non si conosce la data di fondazione ma, secondo storici locali, già attiva nella prima metà del XVI secolo(50). Sorta come Confraternita di corporazione dei pescatori, con il nome di “Confraternita dei Marinai”, raccogliendo più individui rappresentanti la stessa categoria lavorativa, e aveva sede nell’antica Chiesa di S. Sebastiano un tempo vicina alla porta Marina della città di Licata e quindi, per eccellenza, chiesa di marinai.
Tra il XVI – XVII secolo, tutta la Sicilia, compresa Licata, fu flagellata dalla peste e per liberare la città dal contagio, si decise di dar vita a tale sodalizio in onore di S. Sebastiano, protettore contro la peste accanto a S. Rocco, anch’esso venerato nella medesima chiesa. Infatti della vita di S. Sebastiano si racconta che subì il martirio, legato ad un albero venne trafitto da più dardi ma, miracolosamente, si salvò e proprio per questa guarigione, dato che la peste è spesso raffigurata come un dardo, venne invocato come protettore contro questo terribile morbo. Così sorsero più sodalizi e chiese in onore del Santo, in tutta la Sicilia.
La congrega occupava il decimo posto nelle processioni, secondo il cerimoniale prestabilito del capitolo dell’insigne collegiata, vestiva sacco bianco e mantello color turchino scuro(51).
Da una sacra visita nel 1587, effettuata da Mons. Diego Haedo nella città di Licata, si evince che i confrati avevano il diritto di nominare il proprio cappellano beneficiale, godevano dello ius patronato della chiesa, di un oratorio, di una cripta ed un sagrato adibito a cimitero, dove venivano seppelliti i confrati ed i loro congiunti(52).
Attività cultuali erano la solennizzazione delle Quarantore e la festa del Santo patrono, ambedue organizzate con i proventi delle elemosine dei fedeli al Santo, dei due censi urbani e del censo che i marinai pagavano per ogni cento salme di merci imbarcate.
Col passar del tempo la Confraternita perse tutte le rendite e così, anche per l’affievolirsi dei valori associativi tra i confrati, si giunse alla totale chiusura del sodalizio agli inizi del XX secolo. L’oratorio venne abbandonato e nel 1937, per motivi urbanistici dato che ostruiva il passaggio alla Piazza del Duomo(53), abbattuto insieme alla chiesetta.
Il simulacro ligneo raffigurante il Santo patrono, S. Sebastiano, fu trasferito nella chiesa Madre, dove attualmente è custodito nella nicchia del lato sinistro del vestibolo, mentre il simulacro di S. Rocco, anch’esso venerato nella stessa chiesa, col tempo è andato perduto e ad oggi non se ne ha più notizia.
VI. Confraternita del Monte di Pietà dei Bianchi del SS. Crocifisso, detta di S. Caterina
Sede: Chiesa di S. Caterina
Fondazione: 1548
Istituita nel 1548, prima di trovare finalmente sede nell’oratorio dedicato a S. Caterina, la congrega dovette subire molti spostamenti e superare difficoltà. Inizialmente si stabilì nella chiesa di S. Nicola vicino al Castel S. Giacomo ma, dopo il saccheggio operato da una flotta turca nel 1553 e la conseguente decisione di costruire nuovi bastioni attorno al castello, la chiesetta fu demolita e il terreno annesso al castello. La congrega fu costretta a trasferirsi nella chiesetta dedicata a S. Caterina(54), in poco tempo ristrutturata dagli stessi confrati, Chiesa di proprietà dei Bellomo, una famiglia Siracusana, che ne accettò la presenza a patto di avere la facoltà di eleggere il cappellano. Nel tempo i confrati avendo perso ogni potere decisionale si videro costretti ad un nuovo cambiamento di sede, e così, nel 1600, si trasferirono nel Convento di S. Francesco dove ebbero come oratorio la cappella di S. Nicolò che si sarebbe poi trasformata nella cappella dell’Immacolata Concezione, sede dell’omonima Confraternita.
La congrega raggiunse la sede definitiva solo qualche anno dopo quando, ristrutturati dei vecchi locali che aveva ricevuto in dono il 18 novembre del 1600 da Don Baldassarre Naselli conte di Comiso, li adibì a Chiesa, dedicata a Santa Caterina d’Alessandria, con annesso oratorio.
La Confraternita, composta da rappresentanti del ceto civile, nelle processioni occupava il secondo posto, vestiva sacco e visiera bianca con l’effigie del Crocefisso sotto il titolo di Monte di Pietà(55).
Il sodalizio era, a suo tempo, nato sull’esempio di una Compagnia sorta a Palermo sotto lo stesso nome e che aveva come scopo quello di confortare i condannati a morte, a questo “uffizio” la congrega della città di Licata aggiunse l’istituto delle esequie dei morti in stato di miseria e la questua in aiuto dei poveri.
Molti furono i dissidi tra la detta congrega e quella dei Bianchi Azzoli, la confraternita dei nobili, riguardo “all’uffizio” del conforto dei condannati a morte, diritto da tempo proprio dei Bianchi Azzoli, e riguardo la questua per i poveri che, dopo lettera Viceregia del 1549, fu suddivisa con dei turni settimanali tra le due congreghe(56). I confrati con grande fervore si dedicarono alle esequie degli indigenti, soprattutto durante una tremenda epidemia che colpì la città nel 1600,compito che si aggiunse alla cura degli infermi. Il sodalizio proprio per questo interesse verso i più poveri nel 1650 si aggregò alla Confraternita di Maria SS. Della Carità.
Nel 1806 poiché la Confraternita di S. Gerolamo, per problemi interni, non poté partecipare alle solenni liturgie del Venerdì Santo cui da tempo era preposta, ne affidò il compito alla Confraternita dei Bianchi che sfilò, durante la processione, portando lo stendardo del sodalizio di S. Girolamo(57).
L’istituzione pubblica della sepoltura degli indigenti, ed in seguito la diminuzione dei sacerdoti, portarono la congrega ad una lenta involuzione e i confrati, non potendo più mantenere gli oneri del proprio oratorio furono costretti a cederlo alla Curia di Agrigento, a trasferirsi all’interno della confraternita di M. SS della Carità e a cedere gli arredi sacri, compresa l’antica statua della martire patrona della congrega oggi custodita nella Chiesa della Madonna delle Sette Spade.
VII. Arciconfraternita della SS. Trinità
Sede: Chiesa di S. Antonio Abate
Fondazione: 1573
Arciconfraternita fondata nel 1573 da un gruppo di confrati della Compagnia dei Bianchi i quali, ad imitazione delle congreghe romane, decisero di dedicarsi all’accoglienza e al sostentamento dei pellegrini di passaggio a Licata.
Inizialmente i confrati erano soliti riunirsi nella chiesa di S. Agata La Nuova, oggi non più esistente, che abbandonarono tre anni dopo per trasferirsi nella Chiesa di S. Antonio Abate abbastanza grande e fuori città, quindi luogo più accessibile ai pellegrini. Il trasferimento ufficiale della congrega avvenne nel 1576, anno in cui i confrati ottennero la concessione della chiesa e del terreno circostante al fine di istituire l’Ospizio dei Pellegrini(58).
Il 1578 segnò il cambiamento della denominazione della congrega da Confraternita di S. Agata e S. Antonio Abate in Confraternita della SS. Trinità grazie alla concessione, da parte di Fra’ Rodrigo Gamboa dell’ordine della SS. Trinità, dell’uso delle insegne di detto ordine, dell’altare privilegiato e dell’abito(59). Poco tempo dopo la congrega chiese e ottenne, come avevano fatto molte Compagnie a Licata, l’aggregazione all’omonima Arciconfraternita di Roma.
Oltre al nome mutarono anche l’abito in sacco e visiera bianchi con mozzette rosse, l’uso del colore rosso indica l’effusione dello Spirito Santo ed il fuoco della Carità che deve infiammare il cuore degli iscritti, da qui il soprannome dei confrati chiamati i “Rossi”.
Nelle processioni, secondo un ordine prestabilito, occupavano il terzo posto portando con sé lo stendardo di damasco rosso(60).
I confrati si dedicavano ad opere di carità verso i poveri, i carcerati e le orfane alle quali nel 1633 offrirono i locali, un tempo adibiti per i pellegrini, nei quali le orfane rimasero sino al 1869 quando, soppresse le congreghe religiose e i conventi, si trasferirono nei locali del convento del Carmine, ex convento dei PP. Carmelitani(61), aiutate dalla Confraternita della Carità.
Per quanto attiene alle pratiche del culto spettavano al sodalizio le Sante Messe ed i festeggiamenti in onore della SS. Trinità. Nel XVII secolo i confrati desiderosi di abbellire la loro sede commissionarono a Filippo Paladini due tele, una raffigurante la SS. Trinità insieme a S. Agata, Eligio e Paolo l’eremita da un lato, dall’altro S. Cristina, Ludovico e S. Giovanni Evangelista; l’altra raffigurante S. Antonio Abate e storie della sua vita. A queste due tele se ne aggiunse un’altra attribuita a Giovanni Portaluni, sempre raffigurante la SS. Trinità, oggi patrimonio del Palazzo di città.
Nel XVII gli annosi dissidi tra i confrati e i domenicani, riguardo al possesso della chiesa, trovarono una soluzione nel 1622 in un accordo, stipulato tra le due parti, che attribuiva la chiesa ai domenicani che dovettero in cambio concedere ai confrati un appezzamento di terreno da utilizzare solo ed esclusivamente per la costruzione di un rifugio per i pellegrini. La rottura del patto da parte della confraternita fece loro perdere sia la Chiesa che i locali. I confrati furono costretti a rifugiarsi in una chiesetta che venne restaurata e ingrandita grazie alla generosità di un fedele, A. Coniglio(62).
La congrega continuò ad esistere sino alla fine del XIX secolo quando, per il crollo della Chiesa e il pagamento di imposte troppo onerose, i confrati decisero di porre fine al sodalizio e cedere il proprio patrimonio alla congregazione di Maria SS. Della Carità. Di tale patrimonio non è stato possibile individuare alcun manufatto, riconducibile alla presente ricerca, tra le opere esaminate nella Confraternita di Maria SS. della Carità.
VIII. Confraternita dell’Immacolata Concezione
Sede: Chiesa e convento di S. Francesco
Fondazione: anteriore al 1581
Come in altre città dell’entroterra agrigentino anche a Licata sorse una Confraternita in onore dell’Immacolata Concezione. Non si conosce la data esatta della fondazione che sicuramente risale a prima del 1581. Presumibilmente tale congrega fu fondata nel 1551 con Bolla pontificia di Gregorio XIII e la sede collocata nella cappella dell’Immacolata, sul lato sinistro della navata della chiesa dei P.P. Francescani(63).
Il 1581 vide lo stesso pontefice aggregare, con una Bolla, tale Confraternita all’Arciconfraternita di S. Lorenzo di Damaso a Roma(64).
I confrati nel 1604 ebbero la concessione, da parte di Mons. Giovanni Orozco vescovo di Agrigento, di portare sul sacco bianco oltre l’immagine di S. Giovanni Battista anche quella dell’Immacolata(65). Vestivano abitino bianco con mantellino e mozzette di color azzurro intenso. Stemma della Confraternita era una croce di Malta bianca con sopra l’immagine dell’Immacolata Concezione, un esempio dello stesso si può oggi osservare nei locali dell’ex oratorio della stessa congrega.
La devozione all’Immacolata Concezione, già molto viva in Sicilia, si accentuò negli anni della dominazione Aragonese e Borbonica grazie anche alla presenza dei padri Francescani che, al fine di incrementarne il culto, fecero nascere vari sodalizi a Licata, Palermo e in tutta la Sicilia(66).
Nel 1583 Gregorio XIII autorizzò la celebrazione della Santa Messa nell’altare della cappella, sede della Confraternita, dove è degno di nota, oltre al bellissimo altare in legno intagliato e dorato, un olio su tela di Domenico Provenzani raffigurante l’Immacolata che chiude la nicchia nella quale è custodita la statua lignea dell’Immacolata, databile nel XVII secolo, che viene scoperta solo il giorno della festa in suo onore.
Padre Fra’ Luigi Serrovira, guardiano del Convento dei Francescani, annesso all’omonima chiesa, concedette ai confrati un locale da adibire a proprio oratorio(67) a condizione che non si celebrassero funzioni sacre o vi esponessero l’immagine dell’Immacolata.
Durante l’anno Liturgico il ruolo più importante per i confrati era, come ricorda lo storico locale Luigi Vitali, la celebrazione della famosa “giunta pasquale” ossia l’incontro, nel giorno di Pasqua, tra Gesù Cristo e l’Immacolata, entrambi rappresentati da due simulacri lignei, uno portato a spalla dalla Confraternita dei Bianchi Azzuola, oggi non più esistente, l’altro dalla Confraternita dell’Immacolata che “composta da scelta maestranza” fece perdurare tale usanza sino al 1848(68). Essendo stata aggregata al Convento dei PP: Minori Conventuali di Licata la Confraternita dipendeva direttamente dall’autorità del ministro Generale dell’Ordine Conventuale, e non dalla autorità del luogo, in virtù delle ” costituzioni Urbaniane dell’ordine ” emanata da Papa Urbano VIII nel 1628.
Nel 1866 con l’entrata in vigore di leggi eversive che colpirono gli ordini monastici, che furono privati dei loro beni, la confraternita dell’Immacolata Concezione, legata all’Ordine Francescano, si disgregò di lì a poco, nel 1920, con la morte di Fra’ Luigi Marino Sapio, sacerdote regolare del Convento rimasto come guida spirituale del sodalizio(69).
Gli arredi sacri furono trasferiti in altre chiese e annessi al loro patrimonio, oggi diviene improponibile tentare di ricostruire il patrimonio originale della confraternita.
IX. Arciconfraternita del SS. Crocifisso
Sede: Cappella del SS. Crocifisso, Chiesa madre
Fondazione: 1602
La congrega nata in onore del SS. Crocifisso Nero molto venerato in città, da dove deriva il nome di Arciconfraternita dei Nigri, aveva sede nella cappella del SS. Crocifisso, nella navata destra della Chiesa Madre di Licata.
Fondata con Bolla Papale del 1602 da Mons. Giovanni Orozco de Cavarruvias, vescovo di Agrigento, godendo dello stato giuridico – canonico di Arciconfraternita aveva un proprio abito, insegne, una disciplina spirituale e compiti misericordiosi come l’aiuto spirituale ai carcerati(70).
La storia vuole che durante l’assedio della flotta turco – francese, che nel 1553 distrusse quasi del tutto la città, dei marinai giunti nella Chiesa Madre videro il Cristo Crocifisso che pendeva dall’arco maggiore della navata, secondo l’uso liturgico del tempo(71), e non essendo riusciti a bruciarlo, infatti lo avevano soltanto annerito, decisero di colpirlo con dei dardi, tre dei quali rimasero conficcati, uno sulla fronte, uno sul fianco e l’altro sulla coscia. In seguito dette frecce furono cedute dai licatesi ai maltesi in cambio di tre frecce d’argento(72). Non appena i licatesi poterono rientrare in città, di fronte a tale sacrilegio e conseguente miracolo, decisero di trasferire il Crocifisso dall’arco trionfale alla Cappella del braccio destro del transetto dove ancora oggi è possibile ammirarlo. Nel 1705 per volontà popolare la Cappella in onore del Cristo, che in ricordo di tali eventi fu dipinto di nero, fu ulteriormente decorata con pannelli di legno e oro zecchino(73) e tale oggi si presenta allo spettatore che si reca a visitarla.
Nel 1647 Don Luigi La Nuza introdusse la tradizione, che durò sino alla fine del XIX secolo, della celebrazione nella cappella della messa cantata del venerdì.
Per il mantenimento del culto del SS. Crocifisso i confrati si dedicarono alla questua di elemosine a cui si aggiungevano rendite concesse da ricche famiglie licatesi, devotissime al Cristo, in cambio di messe in loro memoria. Tali rendite vennero usate soprattutto per il completamento e l’ulteriore abbellimento della Cappella e della Chiesa.
Oltre al culto del SS. Crocifisso la congrega si dedicava, durante la Settimana Santa che vedeva impegnate attivamente molte Confraternite, all’organizzazione di una processione penitenziale che la sera del Giovedì Santo terminava nella Cappella del Cristo Nero dove veniva allestito il Santo Sepolcro.
Non conoscendo la data esatta della fine di tale sodalizio, si ritiene comunque, non più esistente nella seconda metà del XVIII secolo.
X. Confraternita dell’Itria e di S. Francesco di Paola
Sede: Chiesa di S. Maria dell’Itria
Fondazione: 1643
La chiesa di S. Maria dell’Itria, nel cuore del quartiere Marina, era di ius patronato e ospitò, a partire dalla prima metà del XVII secolo, la Confraternita di S. Francesco di Paola sorta grazie alla devozione al Santo di molti sacerdoti e fedeli della città di Licata che chiesero nel 1643 a Mons. Francesco Traina, vescovo di Agrigento, la costituzione di detta congrega(74).
In seguito ottennero l’uso di un abito penitenziale, la partecipazione alle processioni seguendo l’ordine prestabilito dal capitolo dell’Insigne Collegiata di Licata, le insegne e i calzari usati dai monaci e dallo stesso Santo, patrono della congrega. Molto poco si conosce di detta Confraternita se non che continuò le proprie attività sicuramente sino alla fine del XVII secolo, seguendo il culto del Santo che si era sviluppato in tutta l’Italia meridionale. Nei secoli successivi se ne perdono completamente le tracce né si conosce la data o il motivo della scomparsa.
Del patrimonio artistico di tale congrega si salvano soltanto la statua lignea del Santo patrono, oggi nella chiesa di S. Angelo, e un mezzo busto raffigurante l’Ecce Homo custodito nella vecchia chiesa della Madonna delle Sette Spade.
XI. Il patrimonio artistico delle confraternite di Licata
Il ruolo delle confraternite in campo artistico si espresse nella committenza di numerosi manufatti e soprattutto di notevoli dipinti e gonfaloni processionali(75). Nel corso dei secoli XVI e, in parte, XVII in Sicilia in conseguenza della cosiddetta “Rifeudazione” si ebbe un rilancio dalle proporzioni eccezionali delle committenze d’arte da parte di quelle classi sociali, nobiltà e clero, e in qualche caso dell’emergente borghesia, non soltanto culturalmente ma finanziariamente forti(76). Tale fenomeno è presente anche a Licata dove, grazie soprattutto alla munificenza di privati, le confraternite commissionarono statue lignee, macchine processionali, altari, Crocifissi e varie suppellettili in argento ed altro materiale.
Le congreghe si dedicarono a commissionare simulacri, in gran parte lignei, raffiguranti il titolo del sodalizio che nel loro semplice, e quasi popolare, aspetto compositivo e iconografico sono abbastanza uniformi dal punto di vista tipologico, oltre che cronologico. Simulacri che per scelte formali e tematiche appaiono vicini ad altri momenti della cultura figurativa siciliana (stampe devote, pitture su vetro, tavolette votive)(77).
Un esempio è dato dal simulacro ligneo del martire S. Sebastiano patrono dell’omonima congrega. Il Santo rappresentato secondo i canoni dell’iconografia tradizionale che lo vuole solitamente legato ad un albero, con un braccio piegato dietro la schiena e l’altro ad arco sul capo, è una figura di giovane dai tratti efebici che si contorce nello spasimo delle fragili membra lacerate.
La resa puristica del corpo sottile e affusolato avvolto da un perizoma scandito da pieghe orizzontali, le gocce di sangue che sottolineano vivamente il pathos della sofferenza, sono tutti elementi che permettono di ricondurre l’opera al XVII secolo, periodo in cui l’arte doveva sapere conquistare visivamente l’animo semplice dei fedeli al fine di suscitare emozioni e sentimenti nel tentativo di ricondurre eretici e dubbiosi alla dottrina cattolica in conformità con i dettami della Chiesa.
L’opera, anche se fortemente ridipinta, presenta nello schema compositivo e modellato plastico tratti comuni con altri manufatti di medesimo soggetto e dello stesso periodo, come la statua omonima conservata nel Museo Diocesano di Palermo(78) ed un’altra conservata nella Chiesa di S. Sebastiano della città di Caltanissetta, attribuita allo scultore Stefano Li Volsi(79).
Del XVIII secolo è il simulacro in legno intagliato della Madonna della Carità di appartenenza della omonima congrega.
La figura della Vergine, da poco tempo restaurata, si erge su di un alto basamento dove, nel lato anteriore, è raffigurato lo stemma della famiglia Serrovira e Figueroa, cui apparteneva la committente dell’opera: Maria Anna Serrovira e Figueroa. Il nome della stessa è riportato nel cartiglio, posto nella parte posteriore del basamento, da cui apprendiamo inoltre che la nobildonna era Badessa del vicino Monastero Circestense e che l’opera fu eseguita da P. Patalano nel 1735.
Il modellato della statua nel panneggio mosso da sinuose ondulazioni e intrecci di pieghe morbide presenta caratteristiche riconducibili al gusto ridondante e ancora persistente nella prima metà del XVIII secolo. Il volto, pienotto e tondeggiante, incorniciato da capelli bruni, richiama alla memoria il viso di tante donne siciliane, certamente molto familiare all’artista esecutore dell’opera.
Lo schema iconografico della statua riprende quello della Madonna del Lume, indice dei rapporti della confraternita di Maria SS. della Carità con i Gesuiti, divulgatori della devozione alla Madonna del Lume.
La devozione al culto della “Madonna libera inferni”, che a partire dalla metà del Settecento prese la moderna denominazione di Madonna del Lume, ebbe rapida diffusione in Sicilia(80). Numerosissime furono le tele che riproducevano il tema della Vergine che libera i peccatori dalle fiamme dell’inferno e accoglie benevola le anime purganti ardenti di ricevere il perdono divino.
Presenta similare iconografia anche lo sportello della “Madonna della Carità”, opera del pittore licatese Giuseppe Spina(81), usato per nascondere alla vista dei fedeli la statua inserita nell’altare.
Analoga funzione nella cappella dell’Immacolata della Chiesa di S. Francesco assolveva lo sportello che chiudeva la nicchia nella quale era custodita l’immagine lignea della Vergine, detta anche Madonna della Candelora, dipinto da Domenico Provenzani nel XVIII secolo su incarico della importante famiglia dei Serrovira a cui si attribuisce l’istituzione delle scuole Serroviriane affidate alla direzione dei PP. Conventuali di S. Francesco(82).
L’attività del pittore del Gattopardo, presente in molti centri della Sicilia, è documentata anche a Licata(83). Educato artisticamente per volontà di F. Tomasi di Lampedusa, il Provenzani fu portatore di una raffinata cultura di stampo Barocco legata alla sua educazione palermitana(84).
Il simulacro ligneo della Madonna della Candelora riprende lo schema iconografico abituale, diffusosi in Sicilia dopo la promozione del culto dell’Immacolata imposto a tutta la Chiesa dal Pontefice Clemente XI nel 1708(85). Caratteristiche analoghe sono riscontrabili nella produzione della scultura lignea coeva con qualche raro esempio anche nell’oreficeria, come nel caso della statua dell’Immacolata in argento sbalzato e cesellato, attribuita alla maestranza degli argentieri palermitani del 1709, conservata nella Cattedrale di Palermo(86).
Nell’opera licatese il panneggio del mantello fortemente rigonfio e la torsione delle mani giunte rispetto alla posizione del capo fanno ricondurre l’opera all’esecuzione di una bottega palermitana della fine del XVIII secolo.
Il Sant’Andrea Apostolo, attribuito ad un ignoto scultore del XVIII secolo, mantiene i segni dell’iconografia tipica del Santo pescatore, protettore dei marinai, che lo vuole rappresentato vestito di rozza tunica con a fianco due assi di legno incrociate, simbolo della croce dove il Santo aveva subito il suo martirio.
L’opera si caratterizza per il panneggio parallelo e verticale della veste che si contrappone al movimento plastico del manto annodato sul fianco sinistro.
La croce che si presenta sbilanciata in avanti e non allineata alla figura del Santo fa supporre che trattasi di un’aggiunta posteriore.
Riconducibile allo stesso periodo è la scultura lignea di S. Caterina D’Alessandria rappresentata in piedi e avvolta da un mantello dall’ampio panneggio che, scendendo dalla spalla sinistra, avvolge la figura e si annoda sullo stesso fianco.
L’esuberante plasticità del mantello si attenua nella parte inferiore con un andamento quasi parallelo delle pieghe. Ad arricchire la statua contribuisce l’utilizzo armonioso delle cromie.
La preziosità barocca delle vesti della Santa, che richiamano la decorazione propria dei tessuti, è riscontrabile in altre statue coeve, come nel caso della statua della Madonna della Carità dell’omonima confraternita, o della statua della Madonna del Rosario, patrimonio del vicino Monastero delle Benedettine a Palma di Montechiaro(87), preziosità che trova peraltro esempi anche nella statuaria lignea spagnola, confermando un legame culturale con la Spagna protrattosi per secoli.
Infatti fin dai primi anni del XV secolo, che segnano l’inizio della dominazione spagnola nell’isola, tutta la produzione artistica siciliana appare fortemente influenzata dai repertori stilistici valenziani e catalani.
Fenomeno riscontrabile in un primo momento, durante il XV secolo, nell’argenteria(88) e nella oreficeria(89) e in un secondo momento, nel XVII secolo, nella scultura lignea(90).
L’influsso degli artisti catalani sopravvisse all’uscita della dinastia spagnola dalla scena politica siciliana, “…tale tendenza non rimarrà bloccata dal subentrare della sovranità piemontese nel 1713, con la sussistenza dell’horror vacui della corrente spagnola”(91).
Il simulacro ligneo di S. Francesco di Paola appartenente all’omonimo sodalizio, oggi nella chiesa di S. Angelo, rispetta l’iconografia abituale, si presenta infatti con la barba lunga, il saio francescano raccolto in vita da un cordone e la testa coperta dal cappuccio. Il volume serrato e la plasticità quasi bloccata, ormai lontani dall’esuberanza barocca e tardobarocca, consentono di datare il manufatto nel XIX secolo.
Dalle confraternite furono anche commissionati altri simulacri lignei espressione di devozioni diverse e disparate. È il caso dei simulacri di S. Barbara e di S. Gaetano da Thiene, ambedue riconducibili alla seconda metà del XIX secolo, conservati dalla confraternita del SS. Salvatore. Tale sodalizio costituito prevalentemente da contadini e massari era legato al culto dei due Santi, la prima invocata contro gli elementi della natura avversi alla coltivazione dei campi, il secondo chiamato anche “Padre della Provvidenza”.
S. Barbara è raffigurata in piedi con una torre sul libro che tiene nella mano sinistra. La torre presenta tre finestre in ricordo di quando la Santa rinchiusa dal padre in una torre riuscì a far entrare di nascosto il sacerdote che la battezzò(92). Nella mano destra tiene una palma simbolo del martirio subito dalla vergine. L’opera sembra legata ad una committenza di matrice popolare e pertanto riconducibile ad un autore poco maturo e qualificato che si potrebbe collocare nella seconda metà del XIX secolo.
Il simulacro di S. Gaetano invece si caratterizza per l’ampio e morbido panneggio delle vesti, riconducibili al gusto neo classico emergente, e per la resa naturalistica delle mani. Il Santo, poiché nell’iconografia rituale era rappresentato con in braccio il Bambin Gesù ed una spiga di grano in mano, simbolo di abbondanza dei raccolti, veniva considerato protettore degli agricoltori(93).
Tra le sculture lignee, il Bambinello della confraternita di Maria SS. Della Carità è riconducibile alla tradizione presepiale, assai diffusa nei secoli XVIII e XIX(94), dei Bambinelli in legno, in cera, i cui centri di maggior produzione furono Palermo e Siracusa dove l’apicultura molto diffusa ne favorì la produzione, e più di rado in argento, come nel caso del Bambino Gesù opera di maestranze messinesi del 1699 conservato presso la Chiesa di S. Maria La Nuova di Scicli(95). In questa arte si distinsero i cosiddetti “Bambinai”(96) che operavano a Palermo nella zone della Chiesa di S. Domenico tra il XVII e XVIII secolo. Caposcuola è considerato Gaetano Zumbo. I bambinelli dall’espressione gioiosa o dormienti, spesso di fattura raffinata, impreziositi da accessori d’oro e d’argento erano immersi in un tripudio di fiori di carta e lustrini colorati dentro teche di vetro (scarabattole) o collocati su tronetti intagliati per essere esposti durante le festività natalizie. Il Bambinello della Confraternita di Maria SS. della Carità, di autore sconosciuto, ma sicuramente attivo nel XVIII secolo, presenta un’espressione gioiosa, un atteggiamento tenero e affettivo che richiama evidenti analogie con le movenze del Bambinello della Confraternita di Maria della Mercede di Palermo(97).
Spesso i sodalizi erano legati al culto di un simulacro già presente e molto venerato nella città. Questo è il caso del SS Crocifisso Nero di Licata, sotto la cui protezione nacque la confraternita che in suo onore si chiamò Arciconfraternita del SS. Crocifisso.
Il SS. Crocifisso in mistura, oggi nell’eponima cappella della Chiesa Madre, fu eseguito a Messina nel 1469 da Jacopo e Paolo “…bravi maestri messinesi di un’oscura famiglia Dè Matinati i quali sopra ogni altro ebbero a venir molto in rinomanza in Sicilia per i lavori di crocifissi…”(98) la cui attività è documentata sino agli anni 1548 – 49(99). Manufatti di tal genere prodotti in serie, su scala semindustriale(100) si diffusero in tutta la Sicilia sostituendosi in molti casi alla coeva produzione lignea. In quest’arte si distinsero soprattutto alcune famiglie di scultori messinesi come i Pitti, i Comunella e principalmente la celeberrima famiglia dei Matinati(101).
Sono attribuiti a questa famiglia di “Crocifissai”(102) il Crocifisso realizzato per la Chiesa di S. Domenico di Palermo che si caratterizza “….per bellissima espressione del volto…”(103) e quello custodito ad Alcamo nella sagrestia della Chiesa di S. Francesco di Paola del 1549 modellato da Giovannello De Li Matinati(104). Anche A. Gagini s’inserì nella produzione di Crocifissi in mistura, esempio pregevole può essere ritenuto il Crocifisso della Chiesa Madre di Alcamo del 1523(105).
Il manufatto licatese presenta nella composizione grandi analogie con il Crocifisso conservato nella chiesa di S. Martino nella città di Randazzo, realizzato nel 1540 da Giovanni Matinati(106), anche se l’opera risulta appesantita da più ridipinture, in ricordo degli avvenimenti accaduti nel 1553. Durante il secolo XVI, poiché secondo le disposizioni di Papa Leone X(107) ogni altare doveva presentare l’immagine del Crocifisso, s’intensificò da parte delle confraternite la committenza di Cristi crocifissi, soprattutto lignei.
Ma l’epoca in cui il tema della crocifissione ebbe un particolare culto fu quella relativa alla controriforma soprattutto per merito di alcuni ordini religiosi, e particolarmente Francescani; un periodo in cui la Chiesa con Urbano VIII (Maffei Barberini)(108) diede le direttive alle quali si dovevano ispirare gli artisti nella realizzazione di opere d’arte sacra finalizzate ad illustrare la fede e i dogmi cattolici. Si affermò così in campo artistico un modello di Cristo Crocifisso che sprigionava una fortissima drammaticità e passionalità raggiunti soprattutto attraverso l’uso delle diverse cromie. Una figura afflitta e vilipesa, con la pelle lacerata in cui il colore del sangue, sgorgando dalle ferite, contrastava con l’accentuato livore corporeo, la corona di spine sulla testa e il costato trafitto ne esaltavano il pathos.
La figura del Cristo non apparve più ai fedeli come quella di un uomo che sopportava con umiltà e passivamente il dolore, ma di un Uomo – Dio che compiva un gesto eroico per la salvezza del genere umano(109). Rappresentazioni di siffatto tipo rispondevano all’esigenza di suscitare emozioni forti nell’animo del credente e richiamarlo al culto del divino in un’età che appariva disorientata spiritualmente e percorsa da spinte riformistiche a cui la Chiesa contrappose nuove certezze spirituali nel tentativo di contrastare efficacemente il dilagante protestantesimo.
Drammaticità e realismo, che richiamano tanta statuaria spagnola di età barocca in un continuum artistico – culturale protrattosi nel tempo, sono elementi facilmente riscontrabili nelle opere della produzione licatese, accentuati da una tendenza locale ad esasperare il senso del tragico nei simulacri legati ai riti della Settimana Santa. Rientra in questa tipologia il Busto dell’Addolorata appartenente al patrimonio della confraternita del SS. Salvatore. La drammatica espressività dei gesti e delle masse plastiche del viso, che comunicano il senso tragico del dolore di una madre per la morte del proprio figlio, presentano una certa comunanza espressiva con il volto dell’Addolorata della Madonna de “Virgen de las angustias”, dello scultore spagnolo G. Fernàndez(110).
Le celebrazioni del triduo pasquale si presentano in Sicilia come una sequenza narrativa della commemorazione della Passione, Morte e Resurrezione del Cristo, ma anche come richiamo ad una ritualità simbolica precristiana dove il transito da una fase di morte della natura ossia l’inverno, ad una fase di vita e risveglio, la primavera, si esplicitava con la Morte e Resurrezione di Gesù(111). In tal senso è spiegabile la molteplicità e diversità delle commemorazioni del triduo pasquale, mescolanti tradizione e religiosità popolare, nelle varie città della Sicilia che diventano per l’occasione un grande palcoscenico della sentita e commovente rievocazione(112).
Anche a Licata la Santa ricorrenza del Triduo Pasquale è scandita da meste e lunghe processioni che culminano nella celebrazione del Venerdì Santo, alla cui organizzazione è preposta la confraternita di S. Girolamo della Misericordia, giorno in cui si rievoca la Crocifissione e morte del Cristo, rappresentazione comune di molte città dell’isola, vissuto con particolare devozione da tutti i credenti.
Dei vari Cristi Crocifissi un esempio tra i più espressivi è quello del Cristo Crocifisso della Confraternita di S. Girolamo della Misericordia di un ignoto scultore del XVIII. Realizzato in cartapesta policroma riprende dalla coeva produzione lignea barocca i forti toni tragici accentuati dal contrasto delle cromie della superficie. Il manufatto, consono ai modi della spiritualità francescana(113) ricalca la tipologia del Cristo in croce ancora vivo, dal viso sofferente con la bocca e gli occhi semiaperti, i piedi posti uno sull’altro e bloccati da un solo chiodo, “Caposcuola e diffusore di tale iconografia nei conventi francescani…” fu Frate Umile Da Petralia i cui modi “…furono per lungo tempo ripresi da diversi intagliatori del legno a causa delle numerose commissioni soprattutto di Confraternite ed Ordini religiosi…”(114). Viene infatti attribuita al Frate un’ampia produzione di manufatti lignei tutti drammaticamente idealizzati, caratterizzati da un acceso patetismo e da “sovrumana dolcezza” perché l’arte di Frate Umile non è mai fine a se stessa ma mirante alla conversione attraverso la compartecipazione del fedele(115).
Tra le tante opere che gli si attribuiscono esempi pregevoli sono il Cristo Crocifisso della Cattedrale di Caltanissetta(116) e quello della Chiesa di S. Antonio martire a Castelbuono.
Alla Confraternita di S. Girolamo della Misericordia appartiene anche un altro Crocifisso anch’esso in cartapesta policroma, di più recente manifattura. L’opera si differenzia per il pacarsi dei toni drammatici, giustificabile con un’attribuzione ad una bottega non siciliana della prima metà del XX secolo.
Scultura lignea policroma è il Crocifisso della confraternita del SS. Salvatore caratterizzato da un forte patetismo accentuato dalla posizione contorta del corpo, dalla rilevanza della massa muscolare e dal volto emaciato e sofferente. Anche la rifinitura pittorica contribuisce ad amplificare la sensazione visiva col sovrabbondare delle superfici coperte di rosso sangue. Del precedente reperto riprende le caratteristiche del “Cristo patiens” di stampo francescano. L’opera è stata eseguita nella seconda metà del secolo XIX dall’ artista licatese Ignazio Spina(117) a cui vengono attribuite varie opere tra le quali il Gesù flagellato(118) facente parte del patrimonio della confraternita di Maria SS. Della Carità.
La figura del Cristo continua la linea di drammaticità, in questo caso aumentata dalle ciocche di capelli naturali del capo e dalla cromia dei lividi e delle ferite. Il manufatto fu destinato all’esposizione durante i riti del Giovedì Santo. L’autore proveniva da una grande famiglia di artisti: del padre, Giuseppe Spina, sono numerosi i dipinti nella chiesa della Madonna della Carità, mentre Giovanni, nonno di Ignazio Spina, è l’autore(119) della drammatica raffigurazione del Cristo alla Colonna patrimonio della stessa confraternita.
Quest’opera raffigura il Cristo in piedi con il capo piegato verso la propria destra e con un braccio disteso, mentre l’altro è piegato sul davanti. L’usuale tragicità è ulteriormente esaltata dall’uso del colore che rende molto realisticamente i lividi, le ferite ed il sangue.
Dello stesso autore è il Cristo alla Colonna della confraternita del SS. Salvatore in legno intagliato, della prima metà del XIX secolo. La predisposizione di articolazioni snodate e il foro nelle mani fanno pensare che molto probabilmente era stato realizzato per essere utilizzato come Cristo Crocifisso nella rappresentazione della crocifissione del Venerdì Santo.
L’opera dai toni fortemente drammatici s’innesta perfettamente in quella tradizione licatese incline, attraverso un sapiente uso delle cromie, ad accentuare e quasi esasperare il pathos della sofferenza.
Il busto dell’Ecce Homo della confraternita di S. Francesco di Paola si differenzia dalle produzioni coeve in quanto privo di finitura pittorica e affida la propria realistica drammaticità alle venature del legno che creano suggestivi contrasti chiaroscurali. L’iconografia dell’Ecce Homo, diffusa in Sicilia da Frate Umile, assieme a quella del Cristo Patiens, contribuì a divulgare quella tipologia del Cristo, voluta dalla Chiesa ufficiale, che caratterizzò gran parte della scultura lignea di età barocca(120). Oggi l’opera è inserita in una piccola nicchia dell’antica chiesa di Maria SS. delle Sette Spade.
Alla produzione artistica finalizzata alla celebrazione della Settimana Santa è riconducibile l’Urna processionale di proprietà della congrega di S. Girolamo.
Il manufatto, commissionato per trasportare il simulacro del Cristo Morto durante la processione del Venerdì Santo, è opera di uno scultore catanese della fine del XIX secolo, come si evince da una specchiatura dell’intaglio presente sul lato destro dell’urna nel quale risulta scritto: LOPEZ//CATANIA. Non si sono riuscite a trovare ulteriori informazioni riguardo alla bottega artigiana che eseguì l’opera. All’abilità tecnica dell’artista non corrisponde un’adeguata cultura figurativa, l’opera infatti risente di un gusto poco aggiornato e caratterizzato da attardate ispirazioni stilistiche, pur venendo incontro alle esigenze e alle attese della committenza devozionale.
Come ha notato Bresc Bautier(121) è spesso attribuibile proprio alle confraternite qualche aspetto arcaicizzante dell’arte siciliana e in particolare, come avvenne per buona parte del XVI secolo, il tardo mantenimento dei fondi d’oro.
La profonda devozione del popolo licatese raggiungeva una delle sue massime espressioni nei festeggiamenti in onore del Santo patrono, S. Angelo Martire carmelitano. Legati al culto e alla festa in onore del Santo sono i quattro grandi Ceri processionali appartenuti all’omonima congrega.
I manufatti, in gergo “Intorci”, realizzati nella seconda metà del XIX secolo in legno intagliato policromo e con parti dorate, venivano portati in processione durante i festeggiamenti.
Lo storico locale L. Vitali(122) racconta che i quattro artistici Ceri, in origine di competenza di diverse maestranze, splendidamente illuminati, nella fase iniziale della processione portati a spalla dai contadini, che procedevano secondo un ordine prestabilito, venivano poi ceduti ai marinai che li conducevano sino al mare, dove si officiava il rito della Santa benedizione, e di lì sino alla chiesa Madre. Oggi i Ceri sono talmente danneggiati da non poter più adempiere l’antico compito.
La struttura degli “Intorci” è comune ad altri manufatti di medesimo soggetto, quali i ceri processionali di S. Agata a Catania e di S. Antonio Abate ad Aci S. Antonio e Misterbianco.
La profonda devozione della popolazione e della confraternita verso il Santo martire nel 1486 si tradusse nella realizzazione di una cassa d’argento per contenere le reliquie del Santo in sostituzione della precedente in legno dorato. Ma nel 1621 la popolazione non contenta della fattura e del minimo valore dell’opera affidò l’esecuzione dell’attuale Urna reliquiaria all’argentiere ragusano Lucio de Arizi, come risulta dall’atto datato 6 Dicembre 1621(123). La realizzazione dell’opera fu portata a termine nel 1623.
L’Urna, che s’inserisce nell’antica tradizione delle urne reliquiarie(124), costituisce un elemento isolato nel panorama artistico della città di Licata e della diocesi di Agrigento con l’unica eccezione rappresentata dall’Urna di S. Gerlando dalla quale è stilisticamente molto lontana. Infatti l’Urna licatese si allontana dai coevi schemi barocchi, presenti nella Cassa di S. Gerlando ad Agrigento e nell’urna di Santa Rosalia a Palermo, in cui “…il modello del sarcofago classico si è trasformato in un’esaltazione trionfale in onore della Santa”(125), e appare più vicina ai moduli stilistici “dell’accademismo classicheggiante”, presente nel primo trentennio del Seicento, di cui massimo rappresentante fu Nibilio Gagini(126) al quale si deve la realizzazione della Cassa di S. Giacomo a Caltagirone, il cui modello stilistico fu ripreso dall’argentiere che realizzò la Cassa di S. Giovanni Battista a Ragusa, città di origine dell’Arizi che presumibilmente a quell’opera si ispirò nella realizzazione del manufatto licatese.
Tipica committenza da parte delle confraternite erano anche i fercoli processionali di legno finemente intagliato e dorato, atti a trasportare le statue del Santo titolare del sodalizio. Finalizzato a quest’uso è il Fercolo di Sant’Angelo, macchina lignea processionale del XVIII secolo.
La monumentalità architettonica che caratterizza l’opera è riscontrabile anche nella produzione di mobili di rappresentanza, che per tal motivo dovevano impegnare molto gli esecutori. L’Armadio ligneo posto nella sagrestia della chiesa di S. Angelo n’è un valido esempio.
Un’uguale imponenza architettonica contraddistingue un altro manufatto anch’esso in legno intagliato: l’Altare dell’Immacolata del XVII secolo, situato nella cappella del lato sinistro della chiesa di S. Francesco D’Assisi, antica sede della ormai scomparsa Confraternita dell’Immacolata Concezione. Lo schema compositivo è di chiaro gusto barocco e risente, come nell’analogo caso dell’altare marmoreo della chiesa di M. SS. della Carità, del gusto per gli apparati effimeri coevi, realizzati da Paolo Amato(127), “…rivolti ad un pubblico da manipolare e stupire attraverso una rituale spettacolarità”(128).
Il monumentale Altare marmoreo della chiesa di M. SS. della Carità, nato per accogliere la statua della Santa patrona dello omonimo sodalizio, è realizzato in gran parte in marmo rosso con incrostazioni a marmi mischi secondo una tecnica, molto diffusa in Sicilia nei secoli XVII e XVIII, che tendeva alla realizzazione di tarsie caratterizzate da intensi effetti cromatici, ottenuti attraverso l’uso di marmi di colore e sfumature differenti, e da motivi fogliacei e floreali ripresi per la gran parte dai broccati serici presenti nel messinese(129). L’opera è espressione locale di un certo gusto barocco riscontrabile nelle produzioni architettoniche del periodo.
Parlando dell’altare della Chiesa di M. SS. della Carità non si può fare a meno di menzionare le due Coppie di Candelieri elementi indispensabili della celebrazione eucaristica data la connessione con la simbologia della luce(130). La prima coppia di manufatti del XVIII secolo, in legno intagliato e dorato, presenta elementi del coevo gusto neoclassico.
La seconda coppia, dello stesso periodo della prima, mantiene le stesse caratteristiche ma presenta una fattura meno raffinata e più di stampo seriale.
La committenza confraternale a Licata si espresse anche nella realizzazione di suppellettili liturgiche spesso in argento. Infatti all’artistica Urna di Sant’Angelo si aggiungono altri manufatti in argento espressione di fede e fondamentali strumenti per le azioni liturgiche.
Importante esempio è l’Ostensorio di proprietà della confraternita di M. SS. della Carità, caratterizzato da un’imponente struttura “Raggiata”, tipica delle produzioni di oreficeria sacra del XVIII secolo.
Spesso nelle opere eseguite su commissione era inciso lo stemma della confraternita committente e il manufatto sopracitato presenta nel piede lo stemma del sodalizio: un cuore, stilizzato come uno scudo, sormontato da una corona. L’opera è ricca di elementi fitomorfi nel nodo e nella parte superiore del fusto.
Dello stesso patrimonio fanno parte la Pisside in argento sbalzato e cesellato, con l’interno della coppa e globo apicale dorati, e la Corona della Madonna della Carità anch’essa in argento sbalzato e cesellato. L’iscrizione incisa sul bordo inferiore della corona si riferisce alla stessa committente della statua della Madonna della Carità. Tutti i manufatti ricalcano moduli stilistici riscontrabili nella produzione degli argentieri palermitani del XVIII secolo. Altro esempio è la Corona di S. Caterina anch’essa in argento sbalzato e cesellato. Essa riprende la tipologia a fastigio aperto, diffusa tra le corone di statua nell’arco del Seicento e del Settecento(131), ma la presenza di bizzarrie fitomorfi e floreali proprie del gusto eclettico della prima metà del XX secolo riconducono il manufatto ad una bottega palermitana di quel periodo.
Un altro manufatto in argento è la Chiave di Tabernacolo appartenente alla Confraternita di M. SS.della Carità. Il piccolo reperto pur rifacendosi nell’impugnatura a moduli stilistici settecenteschi tradisce nella parte terminale dell’asta una dichiarata tendenza neoclassica che permette di inserirlo alla fine del XVIII secolo.
Della stessa Confraternita fanno parte due insoliti reliquiari espressione della devozione popolare. Il primo è il Reliquiario del Capello della Madonna in oro, argento smalti, perle e panno. Il reliquiario per l’assemblamento di tanti materiali diversi è riconducibile al gusto del secondo quarto del XX secolo pur presentando un pendente d’oro, ornato da tre catenelle con perle finali, che rimanda alla produzione orafa siciliana del XVIII secolo(132).
Il secondo è un Reliquiario in argento sbalzato e cesellato, rame dorato, legno intagliato dorato. Il manufatto presenta una ricchezza d’importanti reliquie raggruppate in tre categorie: reliquie riguardanti la Vergine, reliquie riguardanti Cristo, reliquie riguardanti i Santi immediatamente collegati alla figura di Cristo. Il reliquiario presenta evidenti caratteristiche stilistiche tipiche della coeva produzione architettonica neoclassica. Attualmente il reliquiario è collocato tra gli oggetti relativi alla devozione dell’Addolorata, tanto venerata nella chiesa di S. Agostino della stessa città e indossato dal simulacro durante la festa in suo onore del 14 aprile.
Fanno anche parte del patrimonio della confraternita di Maria SS. della Carità corredi liturgici di paramenti sacri, nei quali l’antica tradizione del ricamo si coniuga alla devozione delle donatrici. Infatti di frequente i manufatti venivano realizzati utilizzando ricchi tessuti donati dalle nobildonne del luogo.
I paramenti sono riconducibili a diverse tipologie a seconda che siano stati confezionati in tessuto operato o a ricamo. Al primo gruppo, per il quale diventa difficile l’attribuzione ad un preciso ambito di provenienza, sono ascrivibili la Pianeta violacea con trina in fili d’argento, il Piviale Violaceo in tessuto di seta policroma con gallone dorato e le due Tunicelle Azzurre in broccato di seta. Del secondo gruppo fanno parte le due Tunicelle Rosse in taffetas di seta e la Pianeta bianca in seta, entrambi i manufatti impreziositi da ricami in fili dorati e argentati richiamano nel disegno la manifattura benedettina del vicino Monastero del Rosario di Palma di Montechiaro, espressione di una tradizione tipica delle moniali dei monasteri siciliani(133).
La maggior parte delle confraternite in Sicilia, inizialmente nate ad imitazione di quelle della città di Roma, spesso si aggregarono ai molteplici sodalizi presenti nella capitale.
Anche la Confraternita di M. SS. della Carità chiese ed ottenne, con una Bolla pontificia del 18 gennaio del 1734 di Papa Clemente XII, l’aggregazione all’Arciconfraternita della Natività di Gesù Cristo e degli Agonizzanti della città di Roma.
Il Diploma di Aggregazione, ancora oggi ammirabile, è abilmente miniato. In alto al centro dell’opera è raffigurata, secondo la tradizionale iconografia(134), la Natività di Gesù Cristo, emblema della congrega romana, arricchita ai lati da elementi floreali.
I Manufatti artistici delle confraternite fin qui esaminati, al di là del loro intrinseco valore, in linea con altre espressioni della religiosità popolare, occupano un posto non secondario nel panorama religioso della città di Licata e, documentando la presenza e la diffusione dei singoli culti, di fatto finiscono indirettamente per testimoniare l’incidenza che i diversi ordini religiosi connessi a quei culti hanno avuto nella società siciliana.
NOTE
(1) Centro diocesano Confraternite laicali, Palermo: Le Confraternite della Chiesa palermitana, Palermo 1992, p. 9
(2) G. Angelozzi, Le Confraternite laicali, un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna, Brescia 1978, p. 7
(3) F. Azzarello, Compagnie e Confraternite religiose di Palermo, Palermo 1984, p. 7
(4) G. Angelozzi, Le Confraternite laicali, un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna,cit., p. 23
(5) S. Mangano, Le Confraternite a Corleone, contributo alla stiria religiosa negli ultimi cinque secoli, Palermo 1994, p. 17
(6) A. Mongitore, Le Compagnie, ms. QqE, sec. XVIII
(7) G. Gallo, Tradizione e trasformazione: Breve storia sulle Confraternite palermitane, Palermo 1991, p. 21
(8) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, Licata 1998, p. 33
(9) G. Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno in Storia della Sicilia, Napoli 1968, Vol. VI, p. 66
(10) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 33
(11) G. Angelozzi, Le Confraternite laicali, un’esperienza cristiana tra medioevo e età moderna, cit., p. 58
(12) M. C. Di Natale, Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo ,Committenza, arte e devozione in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, Storia e Arte, Palermo 1993, p. 19
(13) G. Giarrizzo, La Sicilia dal Viceregno al Regno in Storia della Sicilia, cit., p. 66
(14) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit. , p. 10
(15) A. Marrone, Storia delle Confraternite religiose e degli edifici sacri a Bidona, S. Stefano Quisquina 1997, p. 24
(16) F. Renda, Dalle riforme del periodo Costituzionale in Storia della Sicilia, cit., p. 207; p. 229; pp. 243-244
(17) G. Gallo, Tradizione e trasformazione: Breve storia sulle Confraternite palermitane, cit., p. 32
(18) Ivi, p. 32; S. Mangano, Le Confraternite a Corleone, contributo alla stiria religiosa negli ultimi cinque secoli, cit. , p. 22
(19) F. De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Laterza 1977, p. 252
(20) F. Azzarello, Compagnie e Confraternite religiose di Palermo, cit., p. 12
(21) G. Bresc Bautier, “Artistes, Patriciens et confrèries, Production et consommation de l’oeuvre d’art à Palerme et en Sicile Occidentale”, Roma 1979, p. 38
(22) Archivio Storico del comune di Licata, atti della cessata Congregazione della Carità
(23) C. Carità, Alicata Dilecta. Storia del Comune di Licata, Palermo 1988, p. 455
(24) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 14
(25) L. Vitali, Licata città Demaniale, Licata 1909, p. 271
(26) M. Vitella, Ruolo e ordine delle Confraternite nei festini di S. Rosalia in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, pp. 337- 339
(27) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 15
(28) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 16
(29) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 243
(30) S. Terzo, Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo,passato e presente. La città in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, cit., p. 75
(31) A.M. Serrovira, ms. , b.c.l, c.302
(32) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 270
(33) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 19
(34) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 274 – 275
(35) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 260 – 261
(36) V. Bruscia, Un amico di S. Francesco morto a Licata, Milano, s. d.
(37) A.M. Serrovira ms., cit., c. 274 r
(38) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 261
(39) Ivi, p. 266
(40) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit, pp. 21-22
(41) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p. 430
(42) Statuto della compagnia di S. Angelo in atti della Congregazione di carità
(43) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 247-248
(44) C. Carità, Alicata Dilecta ,cit, p. 413
(45) Archivio Confraternita di S. Angelo, Rollo Vecchio da f. 21 a f. 29
(46) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 31
(47) Ivi, p. 43
(48) Archivio della Confraternita della Carità, rollo vol . 1, c. 7
(49) Ivi, c. 9
(50) Archivio Parrocchiale chiesa madre di Licata, fondo Confraternita di S. Caterina
(51) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 271
(52) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 46
(53) F. Giorgio, Licata storia della città, Roma 1983, p. 65
(54) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 269
(55) Ivi, p. 269
(56) A. M. Serrovira, ms, cit. c. 302
(57) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 60
(58) F. La Perna – C. Lo Greco, Le Antiche Confraternite di Licata, cit., p. 69
(59) Ivi, p. 71
(60) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p. 463
(61) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 282 – 283
(62) A. M. Serrovira, ms, cit. , c. 287
(63) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p.342
(64) A. M. Serrovira, ms, cit. , c. 277 r.
(65) Ivi, c. 277 r.
(66) P. Ferranti, La pietà Mariana nella diocesi di Agrigento, Roma 1991, pp. 99 – 100
(67) F. La Perna – C. Lo Greco, Le antiche Confraternite di Licata, cit., p. 84
(68) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., pp. 242 – 243
(69) F. La Perna – C. Lo Greco, Le antiche Confraternite di Licata, cit., p. 85
(70) A. M. Serrovira, op. cit. , c. 271
(71) F. La Perna – C. Lo Greco, Indagine sul SS. Crocifisso Nero, Licata 1996, p. 5
(72) L. Vitali, Licata città Demaniale, cit., p. 254
(73) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p. 390
(74) A. C. Vescovile di Agrigento, atti dei vescovi, reg. 1642-1643 c. 482
(75) G. Bresc Bautier, Artistes, patriciens et Confrèries, production et consommation de l’oeuvre d’art a Palerme et en Sicile Occidentale, cit., p. 38
(76) M. Ganci, Irrazionale religioso e magico nel barocco siciliano in Domenico Provenzani “Pittore dei Lampedusa” e la pittura nel secolo XVIII, Palermo 1990, p. 29
(77) A. Buttitta in G. Cocchiara, Le immagini devote del popolo siciliano, Palermo 1982, p. XVI
(78) S. La Barbera, La scultura lignea nel Museo Diocesano di Palermo, in Arti decorative nel Museo Diocesano di Palermo,Dalla città al Museo, dal Museo alla città, a cura di M. C. Di Natale, Palermo 1999, p. 88
(79) E. Falzone, Caltanissetta nell’arte, s. d, p. 78
(80) L. Bica, scheda II, 17 in Le Confraternite dell’arcidiocesi di Palermo, storia e arte, cit., p. 155
(81) C. Carità, Gli Spina, Una famigli licatese di artisti e letterati, Licata 1998, p. 27
(82) C. Carità, Alicata Dilecta, cit., p. 726
(83) C. Carità, L’attività pittorica di Domenico Provenzali a Licata in Domenico Provenzali “Pittore dei Lampedusa”e la pittura in Sicilia nel XVIII secolo, cit., pp. 119, 124
(84) L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani, vol. II pittura, Palermo 1993, pp. 424 – 427
(85) S. La Barbera, scheda III, 20 in Le confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo. Storia e arte, cit., p. 219
(86) Ori e Argenti di Sicilia, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Milano, 1989, p. 266
(87) S. La Barbera, La scultura lignea in Arte e Spiritualità nella terra dei Tomasi di Lampedusa, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Palermo 1999, p. 158
(88) M. Accascina, L’oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo, Palermo 1974
(89) M. C. Di Natale, Ori e Argenti di Siclia, cit., p. 23
(90) S. La Barbera, La Scultura Lignea, cit., p. 75
(91) M. G. Paolini, introduzione in Le arti di Sicilia nel Settecento, studi in memoria di M. Accascina, Palermo 1992, p. 13
(92) S. La Barbera, scheda III, 22 in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palemo, cit., p. 206
(93) H. Krauss – Uthemann, Quel che i quadri raccontano, Milano 1994, p. 465
(94) A. Uccello, Il presepe popolare in Sicilia, Palermo 1979
(95) M. C. Di Natale, Ori e Argenti di Sicilia, cit., p. 249
(96) R. Cedrini, Il sapere vissuto in Arte popolare in Sicilia, Palermo 1991, pp. 177 – 185
(97) N. Bertolino, scheda III, 27 in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, cit., p. 209
(98) G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI, vol. III, Palermo 1980, p. 91
(99) Ivi, p. 92
(100) S. La Barbera, La Scultura lignea nel Museo Diocesano di Palermo, cit., p. 77.
(101) R. La Mattina – F. Dell’Utri, Frate Umile da Petraia. “L’arte e il Misticismo”, Caltanissetta 1986, p. 23
(102) G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia , cit., p. 718
(103) Ivi, p. 91
(104) V. Regina, Alcamo, storia arte e tradizione. Dalle origini sino al Cinquecento, Palermo 1980, p. 80
(105) G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia , cit., p. 719
(106) F. La Perna – C. Lo Greco, Indagine sul SS. Crocifisso Nero venerato nella Chiesa Madre di Licata, Licata 1996, p. 26
(107) M. C. Di Natale, Il ruolo delle Confraternite nella produzione artistica in Sicilia in Le Radici e la memoria, un contributo per il recupero dei beni culturali di Canicatti, Canicatti 1996, p. 9
(108) R. La Mattina – F. Dell’Utri, Frate Umile da Petraia. “L’arte e il Misticismo”, cit, p. 23
(109) M. C. Di Natale, Il ruolo delle Confraternite nella produzione artistica in Sicilia in Le Radici e la memoria, un contributo per il recupero dei beni culturali di Canicatti, cit., p. 8
(110) Ars Hispaniae, Historia Universal del Arte Hispanico, Madrid 1963, p. 79
(111) A. Amitrano Bavarese, Pasqua in Sicilia: scenari di rinascita in <<La Sicilia Ricercata>>, anno II, Aprile 2000, p. 6
(112) G. Pitrè, Spettacoli e feste popolari siciliane, Bologna 1969, p. 22
(113) S. La Barbera, La Scultura lignea nel Museo Diocesano di Palermo,cit., p. 151
(114) S. La Barbera, cheda II, 16, Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, cit., p. 203
(115) R. La Mattina – F. Dell’Utri, Frate Umile da Petraia. “L’arte e il Misticismo”, cit, p. 23
(116) F. Pulci, Guida di Caltanissetta e i suoi dintorni, Caltanissetta 1901
(117) C. Carità, Gli Spina. Una famiglia di artisti e letterati, Licata 1998, p. 34
(118) Ivi, p. 99
(119) Ivi, p. 30
(120) S. La Barbera, La scultura lignea nel Museo diocesano di Palermo, cit., p. 151
(121) G. Bresc Bautier, Artistes, patriciens et Confrèries, production et consommation de l’oeuvre d’art a Palerme et en Sicile Occidentale, cit., p. 39
(122) L. Vitali, Licata città demaniale, cit.,p. 248
(123) Ivi, p. 262
(124) B. Montevecchi – S. Vasco Rocca, Dizionari terminologici. Suppellettile Ecclesiastica vol. 1, Firenze 1988, p. 157
(125) M. Accascina, L’oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo, cit. , p. 341
(126) Ivi, p. 175
(127) M. C. Rugieri Tricoli, Paolo Amato. La corona ed il serpente, Palermo 1983
(128) M. A. Spadaro, Il design dell’effimero tra scenografia, architettura e città in Le arti in Sicilia nel Settecento, Studi in memoria di M. Accascina, cit., p. 160
(129) M. Guttilla, Dalla conservazione alle scelte. Arti minori nel Museo regionale di Messina, Quaderno n. 4 dell’Archivio fotografico delle arti minori in Sicilia, Palermo 1988, p. 34
(130) B. Montevecchi – S. Vasco Rocca, Dizionari terminologici. Suppellettile Ecclesiastica vol. 1, cit., p. 47
(131) M. Vitella, Gli argenti della Maggior Chiesa di Termini Imerese,Palermo 1996, pp. 109, 111
(132) M. C. Di Natale, Ori e argenti di Sicilia, cit.; M. C. Di Natale – V. Abbate, Il tesoro nascosto, Gioie e Argenti per la Madonna di Trapani, Palermo 1995
(133) E. D’amico del Rosso, I Paramenti sacri, Palermo 1997, p. 15; M. Vitella, Tradizione Manuale e continuità iconografica, la collezione tessile del Monastero di Palma di Montechiaro in Arte e spiritualità, cit., pp. 178 – 198; R. Civiletto, La ricchezza della tradizione, Paramenti sacri nel Monastero benedettino di Palma di Montechiaro in Arte e Spiritualità nella terra dei Tomasi di Lampedusa, cit., pp. 199 – 221
(134) A. Daneu Lattanzi, La Miniatura nell’Italia meridionale e in Sicilia tra Gotico e Rinascimento, in La Miniatura italiana tra Gotico e Rinascimento, vol. II, Città di Castello 1995, p. 752