Recensioni – N. 21 Aprile 2004

Recensioni – N. 21 Aprile 2004

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M. VENEZIANI,

Il segreto del viandante. Nostalgie di un contemporaneo, Milano, Mondadori, 2003, pp. 249.

A volte avviene, specialmente a chi è abituato a leggere molto, di comprare un libro che, poi, ci accorgiamo con rabbia di avere già letto; con questo ultimo libro di Veneziani ciò non potrà mai accadere, poiché ci entra prepotentemente nell’anima, dandoci la sensazione di dire tutto ciò che da sempre noi stessi avremmo voluto esprimere senza saperlo fare. Dà voce alla nostra interiorità, soprattutto a quella di chi, come me, ha varcato la soglia dei cinquant’anni ed è nato nel Sud di questo nostro variegato Paese. Chi ha tali requisiti può comprendere in tutta la sua essenza i pensieri, le riflessioni, la filosofia colta e nello stesso tempo spicciola, annotata in questo libro che, assieme all’autore, trasporta chi fu giovane negli anni settanta, nelle assolate piazze del nostro Meridione, deserte nella “controra”, brulicanti di vita dopo il tramonto; ci trasporta in quelle case di antichi affetti, dove tavoli imbanditi riuniscono, almeno nel ricordo, quelle famiglie patriarcali che ormai non esistono più, dove almeno un posto era riservato alla zia zitella, al cugino vedovo, alla prozia invalida e dove tutto gravitava attorno alla saggezza dei nonni, eredi degli antichi pater familias di ciceroniana memoria.

Il titolo, Il segreto del viandante, racchiude tutta la filosofia del libro, poiché viandante è ciascuno di noi che percorre gli svariati itinerari che la vita ci impone, sempre punto da una nostalgia che ci porta continuamente a sperare nel ritorno. Ritorno alle origini, eterno ritorno alla maniera di Nietzsche, senza il quale la vita non avrebbe speranza, ritorno che non necessariamente è fisico, a volte è soltanto ideale, ma paradossalmente ancor più reale, poiché i ricordi ci fanno ricostruire ambienti e situazioni che il tempo inesorabilmente ha spazzato via.

Ci ritroviamo, grazie alle pagine scritte da Marcello Veneziani, bambini di una generazione scomparsa, una generazione, cosa incomprensibile per i giovani d’oggi, che viveva senza frigorifero, senza televisione, senza termosifone o telefonino, che giocava con la trottola o a saltare in recinti disegnati col gesso all’interno dei cortili. Una generazione che, alla fine dei compiti, non si sdraiava sul divano davanti al televisore, manovrando febbrilmente i comandi della play station, in un isolamento dal resto del mondo che ha in sé qualcosa di morboso e di preoccupante insieme: noi scendevamo per le strade, poco frequentate dalle automobili, ci riunivamo nei cortili o negli spiazzi, in una simbiosi continua fra uomini ed animali. Quale ragazzo del Sud che abbia superato la boa dei quarantacinque anni non ricorda il lento ancheggiare dell’asino tra le vie del nostro paese, o i greggi di capre che dalla campagna tornavano agli ovili cittadini e nel passare si fermavano nelle varie case, dove il pastore mungeva l’animale direttamente sotto gli occhi di noi bambini, costantemente affascinati da quel rito, anche se si ripeteva giornalmente?

Così, soprattutto noi meridionali ci ritroviamo in quei ricordi relativi alle assolate e sitibonde estati, durante le quali le fontanelle pubbliche erano l’unico refrigerio a tanta arsura e solo noi possiamo comprendere il più recondito significato che l’acqua assume nelle nostre terre: “Offrire acqua agli assetati era la clemenza del Sud, il galateo primordiale verso l’ospite, il garbo antico dei bar che te la danno anche se non richiesta, in memoria dell’antica arsura, assieme al caffè” (p. 23)

Quando nelle nostre famiglie arrivarono i primi televisori, dei veri e propri armadioni, protetti con devozione, tanto che in alcune famiglie si confezionavano delle vere e proprie fodere di stoffa che li coprivano quando erano spenti per tutelarli dalla polvere, anche la visione dei programmi televisivi era un vero e proprio rito da seguire con una particolare liturgia. All’ora in cui iniziava Carosello, si invitavano vicini e parenti, che non avevano ancora la fortuna di possedere il fatidico aggeggio, si di-sponevano le sedie in due o tre file, a seconda dei partecipanti, si spegneva rigorosamente la luce, provvedendo ad accendere solo una lucina sul televisore e ci si apprestava alla visione. Visione che non era mai silenziosa, ma che veniva continuamente intercalata da commenti di vario genere indirizzati in dialetto ai vari personaggi del film, dello sceneggiato o del telequiz condotto dal solito Mike Buongiorno, costituenti una sorta di dialogo intermediatico tra attori e telespettatori. Per molti anni la televisione, lungi dall’isolare, accomunò varie famiglie; oggi divide i membri di una stessa famiglia che preferiscono seguire programmi diversi sui vari apparecchi presenti nella casa.

Noi siamo i rappresentanti dell’ultima generazione che riempiva le dispense di conserve di pomodoro, di marmellate, di salsicce secche, di pomodori essiccati e di fichi cotti al sole, che si mangiavano poi nelle feste, con le noci e le mandorle; erano segni di ricchezza che cancellavano l’ancestrale paura della fame; ma fummo anche l’ultima generazione che credeva talmente nei rimedi naturali, da curare gli ascessi con gli impacchi di fiori di lino e i vermi intestinali con l’aglio e le litanie magiche, patrimonio di poche donne del popolo che, appunto per tale loro segreta facoltà, si sentivano delle elette e volentieri e gratuitamente giravano di casa in casa prestando i loro servizi. Dice l’autore: “L’abisso che separa la generazione che nacque negli anni Cinquanta dai loro figli è superiore a quello che separava noi dai bambini di duemila anni prima” (p. 25).

Noi siamo la generazione le cui mamme si dividevano in due fazioni diverse, quelle che, per le pulizie, usavano l’Olà, vera icona della modernità, polverina magica che sostituiva il vecchio sapone giallo, e quelle invece che erano state conquistate dal più nuovo Spic e span. Ma fummo anche l’ultima generazione, come argutamente sottolinea l’autore, che vide nel bagno un rito settimanale esteso a tutta la famiglia, spesso riciclando l’acqua dove si erano già immersi i meno sporchi, non tanto per mancanza di cognizioni igieniche, bensì per la solita atavica paura della mancanza dell’acqua.

Ma siamo stati anche gli ultimi a dare tanta importanza al pane, che i giovani d’oggi buttano via spensieratamente con un gesto che per noi si equiparava al sacrilegio. Il culto del pane è appunto lo spartiacque tra la nostra generazione e quelle successive. Eppure eravamo molto più vivi dei giovani d’oggi, ricchi di tutto, ma poveri di spirito e di gioia di vivere: “Ma i giovani da che parte stanno? Né di qua, né di là e nemmeno un po’ di qua e un po’ di là; semplicemente non stanno da nessuna parte. Noi non ce ne siamo accorti, ma alla fine del secolo scorso fu abolita la gioventù. Esistono solo degli adulti in via di sviluppo o dei bambini in età avanzata. Ma esistono soprattutto come singoli, al più come accoppiati, o al massimo come membri di una minitribù. Non esistono invece come generazione, come bioclasse, come soggetto pubblico o sociale” (p. 128). Inebetiti dalla televisione e dal computer, trascurati dai genitori, vittime innocenti della crisi della famiglia, vivono di scimmiottamenti e di automatismi, non sognano più, privandosi, perciò, dell’unico vero rifugio contro la realtà alienante (p. 123). Portano, peraltro, sulle loro fragili spalle un peso che noi non avevamo da sopportare: tutta la società ruota attorno a loro rifiutando drasticamente chi giovane non è più: “Una volta i giovani si travestivano da vecchi per farsi autorevoli; oggi accade il contrario perché il giovanilismo è l’unico passaporto falso per varcare la dogana dell’accettabilità sociale” (p. 199). L’emarginazione del vecchio, che un tempo era “il saggio” della famiglia, il patriarca, il vero custode del focolare domestico della numerosa e rumorosa famiglia allargata, oggi è diventato un peso sociale. Ecco perché, paradossalmente, nel clima di buonismo generalizzato ci scandalizziamo per il cane abbandonato dalla famiglia in vacanza, ma non prestiamo la minima attenzione al nonnino lasciato da solo in casa, nell’estate afosa, in balia delle sue malattie e della depressione causata dall’eterna solitudine in cui i vecchi sono ormai confinati.

In questo libro, che non è un romanzo, non è un saggio, non è un diario, bensì il giornale di bordo di un viandante che, in viaggio nell’oceano della vita è dilaniato dall’eterno dilemma sulla sistemazione, se a prua per scrutare il futuro o a poppa per contemplare il passato, l’autore esprime anche i suoi sentimenti più intimi, come sono quelli che ciascuno di noi prova di fronte alla morte dei propri cari, fondendo in un crogiuolo, che rappresenta, poi, la storia dell’umanità, schegge di esperienze personali con considerazioni di contenuto generale, conscio di una innegabile verità: “il mondo possiamo vederlo solo dalla nostra feritoia”.

Gabriella Portalone

F. LO PICCOLO,

Il patrimonio fondiario nel palermitano dei Benedettini di San Martino delle Scale (secoli XIV-XV). Consistenza ed Amministrazione, presentazione di Dino Grammatico, Palermo, ISSPE, 2003, pp. 246.

Francesco Lo Piccolo, con un lavoro veramente certosino, svolto con passione, pazienza ed estrema puntualità, ricostruisce in questo suo libro la storia patrimoniale del convento benedettino di San Martino delle Scale tra il 1400 e il 1500, inserendo tale ricerca nel contesto della più vasta storia dell’urbanizzazione del territorio della città di Palermo.

Per ottenere i risultati a cui è felicemente pervenuto, l’autore si avvale principalmente di due fonti medievali, il caternu, cioè il libro contabile dell’abate fondatore della comunità, Angelo Sinisio, redatto tra il 1371 e il 1381 e il Liber reddituum et censualium, compilato nel 1400 dal secondo abate Giovanni Percopio. A tali fonti principali si aggiungono: il Libro ordinario, sull’amministrazione dei censi, che inizia ad essere compilato nel 1472, il Rollus bonorum, inventario successivo redatto nel 1535, le giuliane, una sorta di repertorio in ordine alfabetico di tutti i negozi giuridici, elencati per materia, aventi come uno dei soggetti contraenti il monastero e, infine, la collezione dei Testamenti, donazioni ed acquisti, conservata presso l’archivio-biblioteca dell’attuale abbazia di San Martino. A tali fonti si aggiungono gli innumerevoli documenti inediti conservati all’Archivio di Stato di Palermo e nel Tabulario di San Martino. Attraverso lo studio incrociato dei dati così raccolti e attraverso l’esame critico e comparato delle fonti, l’autore è pervenuto ad una minuziosa ricostruzione, non solo del patrimonio del monastero, ma anche della sua evoluzione nei due secoli e passa esaminati e della gestione e amministrazione patrimoniale portata avanti dagli abati che si susseguirono nel tempo.

L’abbazia di San Martino delle Scale nasce in seguito all’invito fatto, nel 1347, dall’arcivescovo di Monreale Emanuele Spinola ad un gruppo di sei monaci benedettini del Monastero di San Nicola l’Arena, vicino Catania e dalla conseguente donazione agli stessi del feudo di San Martino, appartenente all’arcivescovado monrealense. In effetti, la donazione era stata fatta a condizione che il feudo tornasse al patrimonio dell’arcivescovado dopo la morte dell’arcivescovo Spinola, ma in effetti, malgrado una lunghissima serie di controversie, il monastero rimase proprietario del feudo, finendo per costituire una specie di territorio cuscinetto tra i domini immensi dell’arcivescovado di Monreale e quelli della Chiesa di Palermo. Alla fine del ‘400 il monastero di San Martino, aderisce alla riforma dell’ordine relativa all’abolizione dell’incarico abbaziale perpetuo e si unisce alla Congregazione sicula fra i conventi benedettini sul modello della Congregazione di Santa Giustina di Padova, voluta dall’abate Ludovico Barbo, che riuniva i conventi benedettini della penisola allo scopo di liberarli dai danni loro cagionati dall’ordinamento feudale.

La volontà dell’arcivescovo di Monreale Spinola di restaurare nel territorio di Monreale un nuovo monastero benedettino al posto di quello fondato da Gregorio Magno e distrutto dagli arabi, s’inquadra, in effetti, nel contesto più vasto del movimento di riforma benedettina, proponente un ritorno all’antico ideale eremitico originario, riforma di cui si fa promotore l’abate di Catania Giacomo de Soris, zio del fondatore del monastero di San Martino, Angelo Sinisio. La riforma risentiva della crisi che all’epoca attraversavano gli ordini monastici, dovuta anche alle continue eresie che sorgevano in seno alla Chiesa e alla necessità di porre in essere strumenti quanto più validi per porvi freno. La crisi del monachesimo era dovuta, soprattutto, alla ricerca di un ritorno alla povertà e al rigore della regola originaria, per respingere le accuse che cominciavano a piovere sulla Chiesa in generale, e sugli ordini monastici, in particolare, di essersi allontanati dall’insegnamento evangelico e dai veri scopi della loro missione. Ciò aveva determinato, per esempio, il dividersi dell’ordine francescano in più rami, a seconda una minore o maggiore osservanza della regola originaria imposta dal fondatore S. Francesco. In tale clima appunto, si ebbe in tutta la cristianità un rifiorire dell’ordine benedettino che, tuttavia, resta ai margini della riforma; infatti i suoi monasteri, lungi dall’attenersi alla regola della povertà singola e collettiva, diventano dei poderosi gestori di ingenti patrimoni immobiliari, finendo per incidere fortemente nella vita politica ed economica del contesto territoriale in cui operano. Angelo Sinisio, per esempio, eletto abate del nuovo monastero di San Martino delle Scale nel 1352, in poco meno di quarant’anni, riesce a trasformare un territorio incolto in uno dei più fiorenti, ricchi e potenti monasteri della Sicilia occidentale, con un patrimonio che, nei secoli successivi, sarebbe diventato uno dei più estesi dell’Isola.

La ricchezza del convento nasce da una serie di donazioni che, col passare degli anni, diventeranno sempre più frequenti e numerose, visto il successo che la nuova struttura ecclesiastica riesce a suscitare fra i devoti palermitani, diffidenti nei confronti dei conventi francescani e degli ordini mendicanti, in generale, (domenicani, carmelitani scalzi), i quali ordini soltanto dopo il 1450 avrebbero ritrovato un posto di rilievo nelle preferenze devozionali della popolazione palermitana.

Le donazioni venivano generalmente fatte dall’aristocrazia cittadina, sia di sangue che di toga, per circa il 33% del totale, ma anche dalla borghesia mercantile emergente che contribuiva con il 25% dei beni donati e che vedeva aumentare, così, il suo prestigio sociale, ottenendo, in cambio della cessione, una sepoltura gentilizia presso il convento, o l’obbligo da parte dei monaci alla celebrazione di messe perpetue per i familiari del donante. L’aristocrazia era, a sua volta, portata a cedere beni immobili al monastero, non soltanto per devozione, per penitenza dei peccati commessi, per riscattare i piaceri dovuti al lusso e allo sperpero, ma anche per sistemare i figli cadetti, i quali erano tenuti, al momento dell’ordinazione, a conferire al convento una cospicua dote. Spessissimo, poi, i beni donati, venivano dati in enfiteusi perpetua a discendenti dei donanti, rimanendo, quindi, all’interno del patrimonio familiare.

C’erano anche degli interessi, per così dire, politici che incoraggiavano le donazioni; visto il potere della Chiesa nell’Italia e soprattutto nella Sicilia rinascimentale, risultava un’accorta e opportuna manovra allacciare alleanze con i suoi membri, soprattutto con i ricchi e potenti benedettini di San Martino, notoriamente influenti sia sull’arcivescovo di Monreale che su quello di Palermo, per ottenere vantaggi economici, sociali e politici immediati o futuri.

Col passare del tempo, divenne tale la potenza del monastero, che i suoi membri finivano addirittura per pilotare le donazioni con un’opera di convincimento esercitata “su un potenziale donatore che possiede immobili nell’area di ubicazione di proprietà del monastero, allo scopo di indurlo a lasciare alla comunità i suoi immobili spesso confinanti col monastero.[…] Si comprende allora meglio perché le acquisizioni immobiliari che effettua il monastero tra il Tre e il Quattrocento siano quasi esclusivamente orientate verso immobili situati nei dintorni immediati della “grangia” dello Spirito Santo, allo scopo di creare un complesso immobiliare più compatto, ma anche perché in quell’area, nel cuore della “platea magna Seralcadi” gli affitti e i canoni enfiteutici si stabiliscono su un livello mediamente alto” (p. 70-72) Si comprende, dunque, come tale politica immobiliare finisse per influenzare l’assetto urbanistico della città tenuto conto che alla fine del Trecento il monastero possedeva 71 beni urbani di cui 36 case, 13 complessi edilizi, 13 edifici a carattere commerciale e 10 unità elementari. (p. 77). Non solo, ma molte famiglie della nobiltà emergente reputavano economicamente conveniente ottenere in enfiteusi dagli enti ecclesiastici immobili nel cuore della città, che procedevano a demolire per edificare sullo spazio ottenuto superbe dimore. E’ questo il caso del palazzo Abatellis, costruito su tre case, alla Kalsa, che il maestro portulano Francesco Abatelli ottenne in enfiteusi dal monastero o del palazzo Aiutamicristo.

Quanto ai fondi rustici, – nel 1368 il monastero possedeva, fra l’altro, già 28 vigneti -, essi erano coltivati prevalentemente a vigna, seguivano poi le coltivazioni di cannamele, di cereali, le colture arboree e gli orti.

In relazione alla gestione di un patrimonio immobiliare che nei decenni diveniva sempre più vasto, il monastero sceglieva la locazione per quei beni della cui conduzione poteva direttamente occuparsi; si affidava invece all’enfiteusi perpetua e irredimibile per quei beni che presentavano, magari per la loro complessità, o per la distanza dal convento, una maggiore difficoltà nella conduzione. Perciò si preferiva locare gli immobili siti nella zona del Cassaro, di Seralcadi (territorio compreso tra la parte destra della Cala e l’odierno mercato del Capo), della Conceria (alle spalle della Cala, ai confini con la Kalsa), zone in cui gli immobili davano redditi elevati e, per quanto riguarda i fondi rustici, quelli vicini a Sant’Elia e alla Zisa.

Nel contratto d’enfiteusi il canone era talmente lieve da costituire più che una remunerazione per il bene ceduto, un titolo di ricognizione di dominio sullo stesso. Dato che la concessione enfiteutica passava dal concessionario all’erede, che l’oggetto della concessione poteva anche essere alienato, o che il concessionario poteva trasferire il censo su un altro bene, il contratto d’enfiteusi era talmente poco remunerabile, visto che finiva per lasciare al proprietario solo la titolarità formale del bene, da spingere papa Gregorio XI, nel 1371, a vietare tale forma negoziale. Tuttavia i benedettini di San Martino, malgrado il divieto continuarono a concludere contratti di enfiteusi, sostituendone alcuni con il livello, contratto agrario d’affitto rinnovabile ogni ventinove anni e contenente il divieto di subaffitto.

Quando il patrimonio concesso in enfiteusi divenne talmente esteso da non poter essere facilmente controllato, anche per la possibilità che avevano gli enfiteuti di vendere i beni o di subaffittarli o di commutarli, fu introdotto un nuovo modello di amministrazione indiretta, l’arrendamento. Con esso si affidava ad una sola persona la conduzione dei proventi che si percepivano dal patrimonio immobiliare.

Il libro costituisce fonte di continua curiosità e ci fornisce la chiave adatta per meglio comprendere l’evoluzione del ruolo economico e politico degli ordini ecclesiastici e la loro influenza sullo sviluppo della Palermo medievale e moderna.

Gabriella Portalone

G. ALLOTTA,

60 anni fa… lo sbarco alleato in Sicilia. Agrigento, Edizioni “Centro Studi Giulio Pastore”, 2003, pp.79.

Nel sessantesimo anniversario di un evento che cambiò i destini dell’Italia e del mondo intero, appunto lo sbarco alleato in Sicilia, Gaetano Allotta, ormai più che noto per la sua genuina passione per le ricerche storiche, ripercorre, attraverso documenti, fotografie, ma soprattutto attraverso i suoi ricordi di ragazzo di appena tredici anni, quei giorni che sconvolsero la vita e il modo di pensare del popolo siciliano.

Le sue reminiscenze iniziano dal giorno della dichiarazione di guerra dell’Italia a Francia e Inghilterra, dal famoso discorso di piazza Venezia del Duce, trasmesso in tutte le piazze d’Italia e che anche il giovane Allotta ascoltò incantato dalla piazza principale di San Cataldo.

Anche se la dichiarazione di guerra costituiva motivo di ansie e timori, per i primi mesi prevalse l’ottimismo e la fiducia nel Duce, sentimenti, questi, che si percepivano ovunque, anche ascoltando le chiacchiere dei “grandi” nei vari caffè della cittadina nissena. L’ottimismo generale si fondava soprattutto sui clamorosi successi che la Germania aveva riportato fino a quel momento, conquistando quasi tutta l’Europa e facendo del continente una fortezza che a tutti appariva imprendibile, soprattutto dopo il crollo della Francia e la fuga da Dunkerque di quello che rimaneva dell’esercito inglese.

Tali sicurezze, tuttavia, cominciarono a vacillare dopo la perdita dell’Africa Orientale, mentre la disfatta in Libia e l’abbandono dell’Africa da parte degli italo-tedeschi, trasformò, nel giro di pochi giorni, la fiducia in aperto scoramento che divenne vera paura quando cominciarono i bombardamenti anglo-americani sull’Isola. La serie ininterrotta dei bombardamenti che falcidiò la Sicilia, causando nella sola Palermo ben tremila morti e trentamila feriti, venne condotta con metodi terroristici, atti a spaventare la popolazione e a renderla sempre più impaziente di liberarsi dei tedeschi per porre fine, così, alla guerra, alla fame, alle privazioni varie, insomma al vero inferno in cui era costretta a vivere. Infatti, i bombardamenti non erano mirati solo su obiettivi militari, ma colpivano cinicamente la popolazione civile che, perciò, accolse gli invasori anglo-americani, dopo lo sbarco nella costa sud orientale della Sicilia, come dei veri e propri liberatori, salvo poi a pentirsene, soprattutto per le imprese esercitate a danno della popolazione dalle truppe marocchine (stupri e rapine).

Il successo alleato, che non poteva essere messo in discussione vista la preponderanza dei mezzi (3000 navi, 1600 mezzi anfibi, 4000 aerei), trovò un ostacolo solo nella resistenza delle divisioni tedesche e di parte di quelle italiane, soprattutto della Livorno e della Napoli (il gen. Patton volle congratularsi personalmente con i comandanti di brigata fatti prigionieri, Leonardi, de Gregorio e Alessi). Infatti, essendo i due terzi dei combattenti nell’Isola , siciliani, dopo il primo tentativo di arresto contro gli invasori, portato avanti dai reparti costieri coadiuvati dalla divisione Livorno, la maggior parte di essi, comprendendo che la guerra era finita e che resistere sarebbe stato inutile, pensò bene di ritornarsene a casa. D’altronde l’esempio di un’arrendevolezza ai limiti del sospetto, veniva dai vertici dell’esercito, ma soprattutto della marina. Pantelleria si era arresa con la scusa della mancanza di acqua che, invece, si rivelò in seguito, più che sufficiente per i bisogni della popolazione civile e dei militari; il comandante della base navale di Augusta, una delle più fortificate basi della marina italiana, ordinò la distruzione degli impianti e delle apparecchiature già il giorno nove, prima ancora che gli inglesi dell’ottava armata apparissero all’orizzonte; nonostante la quasi matematica certezza dello sbarco in Sicilia da parte del nemico, le navi della marina si trastullavano nel nord del Tirreno evitando accuratamente alcun controllo sulle coste siciliane; nessun ricognitore si alzò in volo nelle ore immediatamente antecedenti lo sbarco per verificare le condizioni del Canale di Sicilia. Come non pensare di fronte a tutti questi elementi che non ci fosse stato anche un gioco sporco manovrato dai vertici delle nostre Forze Armate? In ogni modo anche se la conquista di Palermo fu una vera passeggiata, avendo incontrato l’armata comandata da Patton, un’eroica resistenza soltanto a Portella della Paglia, nei pressi del capoluogo, per opera di un manipolo d’eroi guidati dal sottotenente Barbadoro, l’occupazione dell’intera Isola non fu cosa da poco, visto che costò alle formidabili armate alleate ben 38 giorni d’aspri combattimenti sulla linea Santo Stefano di Camastra – Catania, la perdita di 290.000 tonnellate di naviglio e gravi danneggiamenti per 59 navi.

L’autore si sofferma sui bombardamenti e sull’occupazione delle principali città dell’agrigentino e del nisseno, come lo stesso capoluogo, Agrigento, Licata, Porto Empedocle, San Cataldo e sull’antiquata arma di difesa, che peraltro non funzionò, dei treni armati. Questi treni, blindati e muniti d’artiglieria, erano affidati al comando della Regia Marina ed in Sicilia erano stati sistemati a Mazara del Vallo, a Siracusa, a Porto Empedocle, a Catania ed a Termini Imprese; furono tuttavia annientati, al momento dello sbarco, dall’artiglieria navale nemica.

L’autore non tace nemmeno sull’opera attuata nei mesi precedenti lo sbarco, dai servizi segreti americani che si avvalsero per la bisogna d’italo-americani, i quali facilmente si confondevano fra la popolazione, seminando disfattismo, ma anche attuando sabotaggi in vista dello sbarco, appoggiandosi a quei notabili locali rimasti lontani dal fascismo. Purtroppo tali notabili non erano altro che i capi mafia, – vedi don Calò Vizzini o Genco Russo – scampati all’ergastolo e alla fuga e che grazie agli americani, poterono rifarsi una verginità e riappropriarsi di quel potere politico ed economico che durante la dittatura fascista avevano dovuto cedere, accontentandosi di vivere ai margini della società.

Si tratta di un libro che con attenzione racconta i fatti e suscita la curiosità del lettore che a sessanta anni di distanza è portato a leggere in modo più distaccato e certo meno passionale, la sequenza degli eventi. Non bisogna, peraltro, dimenticare, che in questo periodo in cui la pace nel mondo è giornalmente minacciata dalle centinaia di conflitti che insanguinano il globo e dalla terribile piaga del terrorismo, Gaetano Allotta sente la necessità di sottolineare all’inizio del libro il suo impegno per la pace con la seguente frase: “Questo libro racconta la guerra per esaltare la pace”.

Gabriella Portalone

G. PORTALONE GENTILE,

Dalla classe alla Nazione. Il travaglio spirituale del giovane Mussolini nell’estate del 1914, Palermo, Poligraf, 2003, pp. 125.

Il recente lavoro di Gabriella Portalone è un omaggio al suo Maestro Giuseppe Tricoli. L’autrice – impegnata con Maurizio Scaglione nella trascrizione degli appunti lasciati dallo storico palermitano e pubblicati nel 1996 con il titolo Benito Mussolini, l‘uomo, il rivoluzionario, lo statista e la sua formazione ideologica – cominciò ad interessarsi della formazione intellettuale e politica del giovane Mussolini leggendo le innumerevoli opere consultate dallo storico palermitano al fine di decifrare le centinaia di citazioni storiografiche presenti nei suoi appunti.

Gabriella Portalone, con questa attenta ricerca supportata da numerose fonti e documenti, sfata il luogo comune del “finto intellettuale … dalla cultura raffazzonata e superficiale” (p. 7), quel giudizio che Anna Kuliscioff aveva contribuito a far nascere dopo l’espulsione di Mussolini dal Partito giudicandolo “solo un poetino” che aveva letto Nietzsche. L’autrice mostra come, piuttosto, egli fu l’esempio dell’intellettuale del primo Novecento, colui che collaborò a “La Voce” di Prezzolini e che ricevette l’ammirazione di Pascoli, D’Annunzio, Marinetti, Papini e Salvemini. Mussolini studiò privatamente il latino, conobbe Lenin, frequentò i corsi di Pareto, tradusse per conto di case editrici, i grandi autori stranieri. Forgiatosi sugli scritti di Mazzini e De Amicis, lesse Proudhon, Blanqui, Pisacane, Babeuf, Costa, Bakunin, Labriola e Sorel.

Il 10 marzo 1914 era caduto il governo Giolitti cui, dopo il rifiuto di Sonnino, era seguito il governo Salandra. Il 1° maggio si assistette ad alcune manifestazioni a Trieste, in Serbia e in Slovenia contro gli austriaci. Ma i governi minimizzarono anche se i rapporti diplomatici erano ormai tesi. L’Italia viveva una pesante situazione economica causata anche dal problematico passaggio alla civiltà industriale. Il 7 giugno 1914, festa dello Statuto, ad Ancona anarchici e repubblicani si scontrano con le forze dell’ordine. Muoiono tre dimostranti provocando un’ondata di protesta e disordini. La Camera del lavoro di Ancona proclama lo sciopero generale che, per decisione della Confederazione del Lavoro di Milano, si estese in tutta Italia provocando saccheggi e violenze. Il moto di piazza che, come afferma Giuliano Procacci, con i caratteri dell’improvvisazione e della spontaneità, sconvolse la penisola per una settimana, fu capeggiato da Mussolini, Nenni e Malatesta. Il 14 giugno le insurrezioni terminarono e gli stati d’assedio furono revocati.

Il fallimento della Settimana Rossa fu determinante per i giovani socialisti rivoluzionari poiché essa – come disse Pastore – rappresentò una delle cause principali che li spinse “a riesaminare tutto: teoria e pratica” (p. 89). Il giovane Mussolini, osserva Portalone, era alla ricerca di una nuova verità e in questo stato d’animo il fallimento della Settimana Rossa diede un contributo essenziale.

Un punto fondamentale sul quale l’autrice cerca di fare luce è il famoso “voltafaccia” di Mussolini nell’ottobre del 1914 che lo portò all’espulsione dal Partito Socialista e al licenziamento dalla direzione del giornale “L’Avanti!”. A scatenare tali conseguenze era stato l’articolo del 18 ottobre 1914, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, sul quale, osserva l’autrice, è stato detto di tutto e soprattutto in termini di condanna. Fonderà “Il Popolo d’Italia”, per il quale, indubbiamente, dovette accettare i soldi degli interventisti, proprio lui che aveva sempre condotto un’esistenza di povero e che lasciando il Partito e il giornale rinunciava a un promettente avvenire. Dietro quel voltafaccia c’era altro che un interesse economico. Anzi, Portalone, rifacendosi all’interpretazione di Renzo De Felice, ritiene che il “passaggio dal neutralismo all’interventismo non fu certo dovuto a ragioni economiche” (p. 108) ma alle “sofferenze, incertezze, delusioni, autoflagellazioni” che avrebbero condotto il giovane Mussolini alla sponda opposta. Dietro quel “voltafaccia” c’era il suo animo tormentato dall’essere un “eretico” del marxismo dal momento che egli cominciava a prenderne le distanze convinto che quella ideologia fosse troppo materialista; opinione, questa, che d’altra parte lo aveva portato a condividere l’interpretazione labrioliana, certamente più idealista. L’avvenimento della Settimana Rossa gli aveva aperto gli occhi e ora egli aveva compreso che la classe non poteva che determinare divisioni nell’appartenenza di ciascun individuo a un diverso tipo di lavoro. Era, piuttosto, la Nazione ad abbattere le differenze tra le classi. In tale passaggio egli abbandonava il mito della classe, ma restava nell’animo sempre un socialista sino alla fine, sino alla costituzione della Repubblica di Salò “dove ritroviamo i princìpi sbandierati a Piazza San Sepolcro nel 1919 e ormai liberamente ribaditi”. Il socialismo appariva ai suoi occhi come lo strumento capace di creare una società più giusta; esso era il filo conduttore di un “movimento reale della storia, secondo l’insegnamento vichiano” (p. 24). Approdando al socialismo nazionale egli si allontanerà dall’internazionalismo marxista al fine di fare del proletariato italiano il “protagonista del completamento dell’azione risorgimentale mazziniana, nonché del futuro rinnovamento dello stato e della società” (p. 125). Ed egli stesso ribadendo la sua appartenenza al socialismo, rivolgendosi all’assemblea della sezione socialista milanese, così si esprimeva: “Voi credete di perdermi. Voi vi illudete. Voi mi odiate perché mi amate ancora. Sono rimasto e rimarrò un socialista”. L’ideologia marxista fu superata proprio alla vigilia della guerra quando i socialisti europei avevano abiurato all’antimilitarismo facendo prevalere l’interesse nazionale; egli comprese che “è la nazione, non la classe, l’elemento che cementa il popolo, che non è solo il proletariato” (p. 106). L’autrice afferma che, molto probabilmente, Mussolini alla vigilia dell’intervento italiano comprese che “se il partito socialista avesse tenuto lontane le masse dagli eventi, delegando ogni onere, ma anche ogni onore alla borghesia, si sarebbe ripetuto il fallimento del Risorgimento” (p. 120). E così nell’ottobre 1914 egli esterna la propria posizione riconoscendo che “i problemi nazionali esistono anche per i socialisti”. Sulla strada dell’intervento molti lo seguirono. E lo stesso Antonio Gramsci, in un articolo su “Il grido del popolo” sembrò approvare l’iniziativa di Mussolini.

Il libro di Gabriella Portalone, lungi dal dare un giudizio morale o politico sull’operato di Mussolini, vuole sottolineare “la profonda cultura” di un uomo che, nel bene e nel male, cambiò i destini dell’Italia.

Claudia Giurintano

G. CONTI ODORISIO,

Harriet Martineau e Tocqueville. Due diverse letture della democrazia americana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 365.

Il volume di Ginevra Conti Odorisio, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche, è il risultato di una attenta ricerca condotta presso le Biblioteche londinesi, la Biblioteca di Harvard e la Library of Congress di Washington. Con questo pregevole lavoro, l’autrice, vincitrice del Prix Femmes d’Europe per l’Italia nel 2002, fa conoscere un personaggio quasi del tutto sconosciuto in Italia: Harriet Martineau (1802-1876), una studiosa inglese di origine francese.

Martineau, affetta da sordità, apparteneva alla religione unitariana cioè a quei protestanti che credevano “nell’unicità assoluta della divinità, negando il mistero della Trinità e il dogma dell’incarnazione” (p. 15). L’unitarismo le permise di curare l’istruzione frequentando la scuola di Norwick e, in particolare, quella di Bristol diretta dal pastore Carpenter seguace di Locke e di Hartley. Da questi studi essa trasse la teoria deterministica o della necessità storica che negava il libero arbitrio della volontà umana considerato “una superstizione” (p. 17). Essa iniziò la sua attività di scrittrice dalle pagine del “Monthly Repository”, periodico unitariano fedele alle idee del Beccaria e di Bentham sulla riforma del codice penale e a quelle di Robert Owen sulla cooperazione. Fu allieva di Bentham e radicale, come di lei disse Giuseppe Mazzini del quale, insieme a Malthus, Carlyle e Owen, Martineau ha lasciato efficaci ritratti che, anche se brevi, “restituiscono la loro personalità molto di più di lunghe biografie convenzionali” (p. 252).

Il suo lavoro, come essa amava definire, divenne “l’ago e la penna” poiché una “”vera” donna, sposata o single, non poteva essere felice senza una vita domestica” (p. 172). Nel 1831 progettò le Illustrations of Political Economy una serie di racconti che trattavano i princìpi di economia politica rendendoli accessibili a tutti. Le tematiche analizzate spaziavano dalla produzione alla distribuzione, dallo scambio al consumo. Si preparavano interessanti riforme nella vita politica e sociale inglese: nel 1832 si ebbe il Reform Bill, nel 1833 la Legge sulle fabbriche e nel 1834 la Legge sui poveri. E, proprio nell’estate del 1834, Martineau progettò il suo viaggio in America. Lesse a fondo i classici dell’economia politica, saggi politici – come The Federalist – l’opera di Gibbon Wakefield, la letteratura popolare di Francis Trollope, le novelle di Catherine Sedgwick. Giunse a New York il 15 settembre 1834 per ripartire solo il 1 agosto 1836.

Nei due anni di viaggio essa visitò “le istituzioni politiche, scientifiche e letterarie, le fabbriche del nord, le piantagioni del sud, le fattorie dell’ovest, le prigioni di Auburn, di Philadelphia, di Nashville e gli ospizi degli alienati delle principali località” (p. 32). Martineau, definita da Alice Rossi, la prima donna sociologa, esaminò “le diverse relazioni tra le istituzioni sociali e le classi sociali, le diverse religioni, i tipi di suicidio, il carattere nazionale, le relazioni domestiche e lo status della donna” (p. 36).

L’opera della Martineau Society in America fu pubblicata nel 1837, tradotta in francese nel 1838. La prima parte di Démocratie en Amérique di Tocqueville uscì nel 1835 quando già la popolarità della Martineau era forte, mentre il giovane magistrato era ancora sconosciuto. E, proprio quando il pensatore francese evidenziava della democrazia i mali e i pericoli espressi nella tirannide della maggioranza, l’opera della Martineau coglieva le incompiutezze della democrazia soprattutto in materia di schiavitù e condizione femminile. Tocqueville, come ha ben colto Nicola Matteucci, raggiunse gli Stati Uniti poiché in Francia si sentiva un isolato: contrariamente ad amici e parenti, non si era rifiutato di giurare fedeltà agli Orleans per restare fedele ai Borbone, ma, quando il governo pretese un secondo giuramento, preferì partire. Martineau, di estrazione borghese, rispetto alle origini aristocratiche del pensatore francese, si trovava in una ben diversa situazione: era già nota e popolare nel suo paese ed economicamente indipendente. Essa attribuiva la propria conquista dell’indipendenza ad un avvenimento triste: il fallimento della piccola impresa familiare che, a suo avviso, costrinse lei e le sue sorelle ad un’esistenza diversa da quella ordinaria di provincia. È probabile, secondo Conti Odorisio, che la Martineau, tornata in Inghilterra avesse letto la Démocratie di Tocqueville, uscita nel 1835, anche perché essa dichiarò di avere letto tutto ciò che era disponile sull’America. La fama di Tocqueville si affermò soprattutto dopo il 1840 e cioè con la seconda parte della Démocratie e, anche, grazie all’articolo che sull’argomento aveva pubblicato John Stuart Mill. È certo che Tocqueville conoscesse la famosa Martineau poiché Beaumont esortò l’amico a concludere presto il lavoro (la seconda parte) poiché “recentemente è stato pubblicato un libro di cui mi sembra difficile che non prendiate visione, è quello di Miss Martineau” (p. 53). Dalla corrispondenza Tocqueville-Beaumont, pubblicata da Matteucci e Dall’Aglio, emerge che Tocqueville preferiva non leggere sull’argomento prima di “comporre”. Ma è anche vero che, osserva l’autrice, alcuni argomenti ampiamente trattati dalla Martineau, come quello sulle donne americane, furono affrontati nella seconda parte della Démocratie da Tocqueville. Certamente, specifica Conti Odorisio, anche nell’ipotesi che il pensatore francese avesse letto l’opera della Martineau è bene precisare che non ne rimase influenzato poiché l’impostazione e le conclusioni della Démocratie sono assolutamente diverse dall’opera Society in America. Rispetto a Tocqueville, la studiosa inglese non volle procedere alla comparazione Europa/America e, quindi, al confronto tra la società aristocratica delle monarchie europee e la società democratica americana. Essa preferì studiare la società del nuovo mondo attraverso i princìpi scritti nella Costituzione per verificarne la loro applicazione: “il vero pericolo per la democrazia non erano le temute, ipotetiche, degenerazioni quanto i suoi reali inadempimenti” (p. 67). La tirannide della maggioranza poteva essere di due tipi: economica e culturale. Su questo ultimo tipo il giudizio della Martineau concordava con quello di Tocqueville poiché esso indica quel controllo delle opinioni che annulla la libertà. Sul dispotismo economico o fiscale, invece, la studiosa inglese osservava che esso era una paura delle classi aristocratiche e ricche dinanzi a una politica livellatrice, di “forte pressione fiscale progressiva” (p. 68). Martineau capovolge il concetto di dispotismo della maggioranza sostenuto, ad esempio, da Calhoun, dai Sudisti (minoritari) per difendersi dalle posizioni abolizioniste del Nord (maggioritarie). La scrittrice inglese ritiene che gli abolizionisti costituiscano una minoranza coraggiosa di uomini “pronti a subire la persecuzione e la scomunica” pur di non rinunciare alle proprie idee. E, pertanto, essa difende e invoca la tutela delle minoranze dinanzi a un sistema contrario ai diritti dell’uomo e ai princìpi costituzionali (p. 72). Se per Tocqueville il ruolo dell’aristocrazia era idealizzato tanto da definirlo “virile”, Martineau, rifacendosi al radicalismo di Bentham e Mill affermava che gli aristocratici erano gli uomini “delle paure e del passato” (p. 58). Anzi, essa riteneva che capacità e intelligenza non avessero nulla a che fare con la nascita e la ricchezza poiché il “genio” era soprattutto democratico. Dei tre princìpi della Rivoluzione francese, la scrittrice inglese affermava che la fraternità fosse il più difficile da definire, ma anche quello della vera anima repubblicana. La fraternità – che non interessò mai Tocqueville – riguardava un obbligo morale e non la sfera dei diritti come i princìpi di eguaglianza e di libertà. L’autrice osserva come proprio la fraternità repubblicana fosse capace, secondo la pensatrice inglese, di contenere e attuare gli stessi diritti di libertà e uguaglianza. Solo in un punto Tocqueville e Martineau concordano: nel ritenere la democrazia una “tendenza ineluttabile” (p. 73).

Nel pensiero della Martineau, l’autrice coglie le due tendenze del radicalismo: la libertà individuale che non poteva essere limitata dal potere centrale e la giustizia che doveva provenire dal potere centralizzato. E se, infatti, accettava la teoria dei diritti inalienabili, la scrittrice citava quelli della vita, libertà e felicità ma non quello della proprietà. La “discepola” di Adam Smith, pertanto, sembra sconfinare nell’utopia auspicando, da owenita, la comunione dei beni. E, addirittura, quella critica che già Aristotele aveva mosso al sistema collettivistico accusato di condurre inesorabilmente al parassitismo, viene visto dalla scrittrice inglese in positivo, come possibilità di incrementare l’antico ozio romano, di potersi, cioè, dedicare al tempo libero. L’evoluzione dei princìpi democratici avrebbe condotto, a suo avviso, a un livellamento della proprietà. Essa era “ben disposta ad accettare le teorie di Owen sulla cooperazione e l’associazione, ma non quelle più utopiste sulle modalità della loro realizzazione immediata” (p. 85). E se agli occhi di Tocqueville l’America costituiva il “nuovo” mondo tutto da scoprire, Martineau coglieva i legami di quel mondo con la storia inglese: “il federalismo aveva la sua origine storica, poiché ricalcava la realtà storica delle colonie” (p. 65). Diversa era anche la loro idea sui partiti politici. Per il pensatore francese il partito era un “male” insito nei governi liberali. Per Martineau vi era una differenza tra partiti americani ed europei. Nel vecchio continente essi erano divisi dalle ideologie, da un diverso interesse sui problemi dell’istruzione, suffragio, forma di governo, libertà. Problemi, questi, che non venivano dibattuti in America. Nel 1835 Martineau aderisce al movimento abolizionista: la schiavitù appariva ai suoi occhi la negazione dei diritti naturali dell’uomo e dei princìpi religiosi. Ma il grado di civiltà di un popolo poteva essere dato, anche, dalla condizione femminile, argomento al quale essa dedicò numerosi articoli che le valsero le critiche dei conservatori e i consensi degli abolizionisti. La condizione della donna, infatti, esclusa dalla rappresentanza, si avvicinava a quella degli schiavi. Ed essa coglieva anche alcune palesi contraddizioni: “Io non ho – scriverà nella sua Autobiography quando con l’acutizzarsi della malattia al cuore, riterrà di essere vicina alla morte – diritto alle elezioni sebbene paghi le tasse e sia una cittadina responsabile” (p. 144). Negli anni 1839-1844 si ammala; dopo l’insuccesso delle cure tradizionali decide di affidarsi al mesmerismo, ai metodi alternativi alla medicina tradizionale sperimentati dall’austriaco Franz Anton Mesmer. Il metodo, tra scienza e occultismo, comportava stadi di trance e sonno profondo e affascinò non pochi intellettuali tra i quali Balzac, Owen, Fourier, mentre l’amica Charlotte Brönte non esitò a giudicarlo “aceto, mischiato con impudenza” (p. 162). Nel gennaio 1845 Martineau pensa di essere guarita. Nel 1851 pubblica con Henry G. Atkinson Letters on Man’s Nature and Development, opera che segna l’allontanamento dai princìpi religiosi fondamentali. Ed è il periodo in cui comincia a interessarsi ad Auguste Comte del quale tradusse in inglese il Cours de philosophie positive, un’impresa non facile – che essa condusse attraverso sintesi -, ma che le valse il successo e i consensi dello stesso Comte. L’autrice osserva che Martineau non può essere considerata una comtiana integrale ma aderendovi essa rigettò i suoi lavori precedenti affermando che solo il positivismo fu “la gioia della sua vita” (p. 249). Nel 1865 John Stuart Mill pose il suffragio femminile tra i suoi obiettivi politici e, nonostante il rapporto con la pensatrice inglese fosse stato caratterizzato da una certa ostilità personale, trovò Martineau tra le firmatarie della petizione.

Il 31 dicembre 1869 essa sottoscrisse il Manifesto dell’Associazione Nazionale Femminile – pubblicato sul giornale fondato da Dickens “Daily News” – che contestava la legislazione in vigore “partendo da valutazioni di carattere politico, costituzionale, giuridico e morale” (p. 317).

La storia della studiosa inglese affascina non solo per l’interesse che suscita il suo pensiero ma, anche, per il suo prendere le distanze dagli stereotipi del tempo, in un’epoca in cui le donne “evitavano di esprimere i loro pensieri più autentici, limitandosi a banali luoghi comuni e convenevoli” (p. 71). E nella società vittoriana del XIX sec. in cui i condizionamenti sociali potevano essere più forti, essa riuscì a combattere la propria sordità considerandola solo un ostacolo in più da abbattere e divenendo una prolifica scrittrice. Anzi, fu proprio la sordità e poi la malattia, ad essere stimolo per la sua laboriosità, per il suo impegno, fino alla fine, a favore della libertà delle donne.

Claudia Giurintano

C. MESSINA,

Le Comte de Cagliostro était-il Joseph Balsamo de Palerme? La réponse de l’avocat Antonio Bivona, Paris, Librairie-Galerie Racine, 2004, pp. 87 e sezione documenti.

Il ritrovamento della réponse dell’avvocato Antonio Bivona del 12 marzo 1787 sull’identità di Cagliostro era stato annunciato già nel 2001 con il libro di Calogero Messina I viceconsoli di Francia in Sicilia e con una serie di articoli pubblicati su quotidiani (“La Sicilia”, “L’Ora”, “La Repubblica”, “Giornale di Sicilia”) nonché, tra le altre, da riviste come la nostra “Rassegna siciliana” (Note e discussioni, agosto 2002). Con i tipi della Galerie Racine, vede ora la luce quella relazione di Bivona cercata da tanti studiosi che si sono occupati del Conte di Cagliostro, al secolo Giuseppe Balsamo, il settario della Massoneria che faceva paura in Europa per le possibili cospirazioni contro le monarchie del tempo e, soprattutto, contro quella francese che egli odiò più di altre. Il libro è stato, anche, oggetto di un interessante cenacolo organizzato nell’ambito dell’attività culturale della Cattedra di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Palermo tenuta dal prof. Eugenio Guccione, il quale, alla presenza dei giovani ricercatori e dottorandi, ha sottolineato nel suo intervento come il pregevole lavoro di Calogero Messina abbia il merito di completare le fonti storiografiche sul personaggio siciliano divenendo documento fondamentale di consultazione per quanti vogliano affrontare lo studio della vita e dell’opera di Giuseppe Balsamo.

Nel 1995 Calogero Messina ebbe il privilegio di accedere all’Archivio del Ministère des Affaires Etrangères del Quai d’Orsay di Parigi per i suoi studi sulle relazioni tra la Sicilia e la Francia nel XVIII secolo. E nei volumi dell’Archives Politiques, sottoserie Naples, casualmente, si ritrovò tra la mani il documento dell’avvocato Bivona con l’albero genealogico e gli allegati attestanti che Cagliostro e Giuseppe Balsamo erano la stessa persona. Messina confessa di non avere mai pensato di occuparsi di Cagliostro. E così era accaduto al suo maestro Virgilio Titone sino a quando un editore non gli chiese l’introduzione al lavoro di Luigi Natoli, Cagliostro, introduzione che oggi costituisce uno degli studi più importanti sul personaggio palermitano definito una “espressione, un aspetto e non secondario” del suo tempo; un uomo vissuto in età dei lumi ma in una società che “consentiva a quel personaggio le sue truffe” perché assetata di credere in qualcosa di nuovo, nella possibilità di compiere atti miracolosi come quelle guarigioni che, per caso, avvenivano tra la gente che si rivolgeva a lui (p. 61).

Messina dedica l’intero volume a J. W. Goethe che, come egli scrive, seppe guardare alla Sicilia oltre il suo essere terra di briganti e avventurieri, amandola come terra dove, prima di tutto, si poteva sognare. Ma, soprattutto, è dedicato all’autorevole scrittore tedesco che, durante il suo soggiorno palermitano, si era lasciato affascinare da quel personaggio tanto da chiedere all’avvocato Bivona di conoscere i familiari. Goethe lesse la relazione di Bivona, ma, pensando che in Francia il documento sarebbe stato immediatamente pubblicato, preferì non copiarlo. La memoria invece non fu mai resa pubblica.

Bivona assecondò le richieste di Goethe, tanto da mettergli a disposizione il suo segretario e, per incontrare la famiglia Balsamo, lo scrittore tedesco dovette spacciarsi per un inglese che portava notizie di Cagliostro uscito dalla Bastiglia e giunto a Londra. Da qui Cagliostro, in una lettera del 20 giugno 1786, rivolgendosi al popolo francese, lo metteva in guardia dai sistemi giudiziari auspicando l’avvento di un re saggio che “avrebbe abolito le lettere di sigillo, convocato gli Stati Generali e ristabilito la vera religione” (p. 22). La relazione di Bivona era indirizzata al Perier, negoziante francese, nominato viceconsole onorario a Napoli e negli anni 1787-88 console generale. Il documento serviva a verificare il contenuto di una lettera anonima inviata il 2 novembre 1786 al commissario Philippe Fontaine di Parigi sul sedicente Conte di Cagliostro. L’informatore della lettera era uno zio di Cagliostro, Antonio Bracconieri. Veniva riportata la notizia che Balsamo e Cagliostro erano la stessa persona, e si coglieva l’occasione per contrapporre la scaltrezza dei palermitani all’ingenuità dei francesi, creduloni facili da raggirare. Messina ricorda che il documento, attribuito a un certo Bernard, è stato già citato, tra gli altri, da Giuseppe Quatriglio nel 1973 nell’introduzione al Compendio della vita e delle gesta di Giuseppe Balsamo denominato il Conte di Cagliostro. Scritto da mons. Giovanni Barberi, fiscale del governo pontificio e consigliere di Pio VI, e pubblicato a Roma nel 1791, il documento non riportava, rispetto alla relazione di Bivona, i dettagli delle notizie, la ricostruzione dell’albero genealogico, le prove sull’identità Balsamo/Cagliostro. Operando un confronto tra il Compendio e la relazione dell’avvocato, Messina fa notare le molte imprecisioni del Barberi pur attestando la reale identità del Cagliostro. Bivona, invece, fu talmente preciso da aggiungere anche alcuni particolari a lui noti e sconosciuti alla stessa famiglia Balsamo. Particolari anche privati che non rinunciò a indicare come la relazione tra suo fratello, il marchese Bivona, e la moglie di Cagliostro che, in verità, come emerge dal documento, lo stesso Cagliostro non esitava a far prostituire per il proprio tornaconto.

La scienza ci ha dato, in molti dei suoi campi, testimonianza di come, a volte, importanti scoperte siano del tutto casuali. È questo ciò che sottolinea l’autore: solo il caso sarebbe stato determinante nel ritrovamento del documento; ma, forse, sarebbe meglio dire che questa scoperta è una delle meritate ricompense agli studi e alle attente ricerche di Calogero Messina.

Claudia Giurintano

C. GUZZO,

Templari in Sicilia. La storia e le sue fonti tra Federico II e Roberto D’Angiò, introduzione di Malcolm Barber, Genova, Name, 2003, pp. 122.

Le vicende storiche dell’ordine templare nel Mezzogiorno d’Italia, al tempo degli Svevi e degli Angioini, sono ricostruite in questa attenta pubblicazione edita dal Centro Editoriale telematico Name. L’editrice, frutto di un geniale progetto elaborato da un gruppo di docenti universitari, va incontro a quanti hanno l’esigenza di pubblicare o di acquistare testi specialistici e, “grazie a supporti informatici per le varie fasi di editing e a software appositamente elaborati”, assicura una rapida ed elevata qualità di stampa per il numero di copie (anche minimo) richieste, eliminando così il “magazzino” e adeguandosi al mercato del momento.

Il volume di Guzzo è inserito nella collana “Insigna et Arma” diretta da Franco Cardini e colma la lacuna negli studi sull’ordine templare nel Sud d’Italia i cui insediamenti sorsero tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo.

Le origini dell’ordine – il cui simbolo per i cavalieri era la croce rossa in campo bianco – si collocano nel 1118 quando Ugo di Payns costituì l’ordine dei poveri cavalieri del Cristo conciliando monachesimo e armi e dando vita ad una milizia che intervenne in Terra santa e nella penisola iberica occupata dai mori trovando la propria legittimità e il proprio riconoscimento con il Concilio di Troyes e grazie a Bernardo di Chiaravalle. Con la regola latina e gli statuti gerarchici, che riproducono la struttura della società feudale, l’ordine conobbe un rapido sviluppo in tutta l’Europa.

Guzzo – come scrive nella prefazione Malcom Barber dell’Università di Reading – è stato capace di creare “a convincing picture of the relations between the rulers of the Kingdom of Sicily and the Templars, which is essential for our understanding of the operation of the Order in the Mediterranean in the thirteenth century” (p. 10).

L’autore sottolinea che uno dei documenti più antichi e interessanti del periodo di Federico II, sull’Istituto gerosolimitano, risale al 1201. I Templari riuscirono a trarre vantaggio da una situazione di instabilità che si venne a creare nel XII secolo quando la corona di Federico II, ancora bambino, fu messa in pericolo. Proprio l’Istituto gerosolimitano rifornì quegli uomini al seguito dell’imperatore Enrico VI “per insidiare la corona” fornendo loro “armi, cavalli, vettovaglie” (p. 21). I “frati-cavalieri” furono ricompensati con donazioni di beni feudali. I Templari poterono fruire degli scali portuali della Puglia, grazie alla mancanza di un “potere centrale forte in grado di sanzionare gli abusi con pene severe”, e grazie allo “stato di incuria e di abbandono delle coste del “Regnum”” (p. 23).

Nel 1208 l’Istituto ottenne un’importante donazione nel territorio di Paternò e della odierna Agira. Il maestro dei Templari di Sicilia, Guglielmo di Orleans, chiese al sovrano svevo di regolarizzare giuridicamente i lasciti, cosa che avvenne con due diplomi: il primo redatto a Palermo nel marzo 1209 e il secondo nell’agosto dello stesso anno. Nel 1208, dopo l’uccisione di Filippo di Svevia, Ottone di Brunswick, con il sostegno del papa, diventò il candidato al trono imperiale. Innocenzo III tentò di ottenere da lui la conferma delle terre italiane donate alla Chiesa dopo il 1201 e “l’impegno a non accampare diritto alcuno sul Mezzogiorno d’Italia”. Una volta ottenuta l’investitura Ottone non mantenne le promesse; si inimicò la Chiesa e, in quanto genero di Filippo di Svevia, pretese “diritti regali sul “Regnum Sicilie”. Ottone fu scomunicato da Innocenzo III il quale gli oppose Federico. I Templari, con il sostegno del papa, continuarono indisturbati a incrementare il proprio patrimonio fondiario e immobiliare” (p. 26). Morta la consorte, Ottone non ebbe alcun titolo per rivendicare la corona di Sicilia. Federico, divenuto re dei Romani il 25 luglio 1215, intervenne a favore dei possedimenti Templari in Sicilia con due diplomi: “con il primo riconobbe le case e di i beni che i frati-cavalieri possedevano nel “Regnum Sicilie” ponendo l’ordine sotto la propria protezione; fissando un’ammenda di 40 once d’oro per coloro che avessero, all’Ordine medesimo, arrecato molestia” (p. 27). Con il secondo confermò un privilegio di cui godeva l’Istituto gerosolimitano “in civitate Massilie” (p. 27).

Federico, in occasione dell’incoronazione ad Aquisgrana, aveva assicurato la propria partecipazione a una crociata che egli stesso avrebbe finanziato. Dopo la morte di Costanza di Aragona egli concordò che avrebbe sposato la figlia di Giovanni di Brienne. Ma dopo il matrimonio non mantenne la sua promessa di partecipare alla crociata poiché a suo avviso, era prioritario “ricomporre ed aggregare le strutture politico-sociali dello Stato normanno-svevo” per porre fine alle “tendenze centrifughe della nobiltà feudale e velleità autonomistiche delle città”. Come conseguenza di tutto ciò, va colta, secondo l’autore, la confisca dei possedimenti templari a partire dal 1226. E nel 1228, con la disposizione “Predecessorum Nostrorum” non fu più possibile alienare o donare beni immobili a favore degli Ospitalieri e Templari. Già l’anno prima, Federico aveva mandato come proprio luogotenente Tommaso d’Aquino conte d’Acerra per limitare il potere dei Templari in quelle terre. Nel 1227, a Brindisi, migliaia di pellegrini si riunirono nella città pugliese per una crociata in Oriente. Ma per le precarie condizioni igieniche, aggravate dall’afa estiva, migliaia di essi furono decimati da una epidemia e l’imperatore ritenne opportuno rinviare la propria partenza in Siria. Gregorio IX, convinto che questa fosse l’ennesima scusa per sottrarsi ai propri doveri, decise di scomunicare l’imperatore che, nonostante la disposizione pontificia, proseguì la sua spedizione in Terra santa. La situazione, osserva Guzzo, mutò quando l’imperatore intavolò i negoziati di pace con il sultano al Khamil escludendo dai benefici del trattato gli Istituti bianco e rosso crociati. Tale azione portò i Templari a osteggiare Federico. Il papa mandò in Siria due francescani per vietare a tutti i cristiani “di prestare sostegno allo scomunicato” (p. 35). Il 18 marzo 1229 Federico si auto-incoronò re di Gerusalemme nella basilica del Santo Sepolcro. Nel 1235, rimasto da tempo vedovo, sposò la sorella di Enrico III d’Inghilterra. Il 20 marzo 1239 fu nuovamente scomunicato per “la mancata restituzione ai Templari dei beni loro sequestrati”. Nell’ottobre 1244 i latini furono sconfitti presso Gaza dall’esercito turco-egiziano. L’imperatore accusò i Templari di aver causato il disastro poiché l’ordine aveva concesso ospitalità ai musulmani. L’autore osserva come l’atteggiamento antitemplare esercitato dalla Curia imperiale tra il 1229 e il 1240 fosse “alla base di significativi episodi di intolleranza nei confronti dell’Ordine” (p. 44). Il 7 dicembre 1250 l’imperatore lasciò tra le sue disposizioni testamentarie la restituzioni dei beni confiscati dalla Curia imperiale all’Istituto gerosolimitano. Con il regno di Manfredi le relazioni tra Staufen e la “Militia” sembrarono migliorare. Ma Manfredi venne sconfitto da Carlo d’Angiò – fratello di Luigi IX di Francia – a Benevento, il 26 febbraio 1266, e Carlo ottenne la corona di Sicilia.

Le fondazioni dell’Istituto gerosolimitano nel “Regnum Sicilie” dipendevano da Barletta che costituiva il centro di raccolta e smistamento dei generi di prima necessità destinati ai confratelli in Oriente. Durante il regno di Carlo I – spiega l’autore, facendo riferimento agli innumerevoli documenti della Cancelleria napoletana, – alcuni membri della Militia furono incaricati di amministrare e gestire le finanze dello Stato. Carlo estese le sue mire politiche sull’Ungheria finendo col favorire i matrimoni tra i suoi figli Carlo e Isabella con i magiari Maria e Ladislao. La politica di Carlo fu però sconvolta dalla rivolta dei Vespri di Palermo del 31 marzo 1282. Carlo chiese aiuto al re di Francia e si rivolse anche “ai locali Templari i quali furono […] fortemente riluttanti a concedere il loro sostegno armato contro gli insorti” (p. 79) a causa della regola templare che proibiva all’ordine di “versare il sangue dei propri corregionali”. Dopo Carlo I il trono passò al figlio Carlo II ma i rapporti con l’Ordine e il successore di Carlo I non sono ben documentati a causa delle scarse e frammentarie testimonianze pervenute. Le ricchezze dei frati attirarono l’attenzione dei sovrani d’Europa e, in particolare, di Filippo IV, il Bello, che il 14 settembre 1307 emanò l’ordine di arresto contro i Templari accusati di eresia. Clemente V appoggiò l’azione con la bolla “Pastoralis Praeminentiae” e nel 1312 con la bolla “Vox in excelso” ne decretò lo scioglimento.

E fu così, scrive Guzzo, che, con il rogo degli alti dignitari dell’Ordine, il regno di Sicilia finì per essere privato “del romantico suggello” che aveva idealmente unito l’Oriente al Sud Italia.

Claudia Giurintano

G. PORTALONE – M. SCAGLIONE

(a cura di), L’Attività Parlamentare di Giuseppe Tricoli, prefazione di Gianfranco Fini, voll. I – II, Palermo, Servizio Studi Legislativi dell’Assemblea Regionale Siciliana, 1999, pp. 1555.

Gabriella Portalone e Maurizio Scaglione, con la passione e la stima tipica dei discepoli verso il maestro, in questa opera immensa hanno ricostruito l’attività parlamentare di Giuseppe Tricoli rievocando così la figura dell’uomo di partito e delle istituzioni. Rivive dunque l’immagine del Tricoli politico che si affianca a quella del Tricoli storico dell’età moderna e contemporanea.

In tutta sincerità, chi scrive non può tenersi ancora dentro di essersi più volte chiesto – mentre accompagnava il prof. Tricoli all’Università o mentre aveva l’onore di affiancarLo in qualche conferenza o di conversare con Lui su temi storiografici e di ricerca o su uomini e problemi di quella che Marcello Veneziani ha definito la cultura della destra – se in fondo un uomo di cultura come Tricoli non potesse apparire decisamente “fuori posto” in un mondo, come quello della politica italiana, costantemente turbato da lotte intestine che si traducono, ad ogni livello e su tutte le istituzioni, in una instabilità ancora oggi lontana dall’essere stata definitivamente domata e di cui i peraltro brevi momenti di tranquillità appaiono come tregue d’armi e non già segni di una concreta volontà di cambiamento. Una riflessione, la mia, che ripropone l’immagine dello storico Tricoli forse maggiormente a proprio agio tra i suoi libri ed i suoi appunti (rigorosamente a penna) ed alle prese con una ricerca storica piuttosto che nei meandri della politica.

I due volumi curati da Gabriella Portalone e da Maurizio Scaglione rispondono per certi versi a quella mia domanda, presentando un Tricoli che anche come politico conferma la propria ascendenza di storico esaminando il presente attraverso il filtro del passato. Del resto, proprio l’azione politica svolta da Tricoli sta a dimostrare la puntuale denuncia da parte sua dei mali più evidenti che tendevano (e tendono) a creare un fossato tra paese legale e paese reale: le usurpazioni della partitocrazia (oggi delle coalizionicrazie), la parzialità del potere, i consociativismi nascosti, i compromessi più o meno storici, l’arco costituzionale (oggi crollato nelle istituzioni politiche ma sopravvissuto in quelle culturali).

La denuncia delle carenze del presente induceva lo storico Tricoli a volgersi al passato – a quello dell’ottocento risorgimentale ed a quello del novecento mussoliniano – non già con un senso di nostalgico rimpianto, bensì con quel senso della Storia, con quello spirito critico protesi ad esaltare la Storia come cammino ininterrotto di idee.

Ecco perchè chi domani scriverà la storia della destra siciliana troverà nell’attività parlamentare di Giuseppe Tricoli – nei suoi discorsi, nelle sue mozioni, interpellanze ed interrogazioni, nelle sue proposte di legge, nelle sue dichiarazioni di voto – la conferma che il vecchio Msi non fu soltanto un partito di esuli in patria, e che i cinquant’anni della destra nella prima repubblica non furono mezzo secolo di nostalgie: l’azione contro la mafia, la valorizzazione del lavoro come soggetto e non oggetto del capitale, l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia, la valorizzazione dell’autonomia siciliana, la differenza tra sicilianismo e sicilianità, la difesa delle tradizioni come antidoto agli eccessi della modernità, la valorizzazione della Sicilia nel contesto euromediterraneo. Possiamo dire, dunque, che il Tricoli politico, non allontanandosi mai dallo storico Tricoli, ha saputo far camminare quella idea di nazione e di popolo, quella linea nazionalpopolare (interpretata da Mazzini, Garibaldi, Pisacane, e poi da Carducci, Pascoli, Oriani, dal socialismo eretico di Mussolini e ancora da Pirandello e Gentile, e poi confusamente da Pacciardi, Sogno, Craxi) che dagli spalti dell’Italia risorgimentale arriva a quelli dell’Italia repubblicana: una linea incompresa, maledetta, malvista; una linea sulla quale ancora oggi pesano pregiudizi e sfiducie anche perchè da essa provengono quelle rivoluzioni mancate figlie del Risorgimento tradito e del fascismo tradito.

Quella di Gabriella Portalone e di Maurizio Scaglione, che più di me hanno frequentato Tricoli (confesso che l’aver conosciuto lo storico Tricoli troppo tardi è il rammarico più grande di questi miei giovani anni), va dunque segnalata non come opera politica, da addetti ai lavori, bensì come affresco storico di un uomo (di cultura e della politica) nella sua epoca. I discorsi parlamentari di Tricoli vanno letti da tutti, e possono essere letti da tutti, perchè essi costituiscono il racconto storico di un periodo in diretta col passato ma aperto verso il futuro. Lo storico Tricoli ha permesso al Tricoli politico di tenersi lontano dal politichese, dal linguaggio astruso e complicato della compagnia dei politicanti, dai bassifondi della politica intesa come esclusiva ed escludente gestione del potere ma anche dagli abissi della politica concepita come sterile e vacua utopia; ed anche in questo emerge quello stile nazionalpopolare che ha caratterizzato l’uomo Tricoli nella sua totalità.

L’attività parlamentare di Giuseppe Tricoli, dunque, evidenzia quella sua attenzione storica rivolta al presente, senza trascurare il filo critico del passato. Tutto questo legittima il giudizio di quanti parlano di una singolare fusione, in Tricoli, dello storico e dell’uomo politico all’interno della vita culturale e politica siciliana del suo tempo e del nostro. Ed è qui il grande merito di Gabriella Portalone e di Maurizio Scaglione: di avere liberato dalla tela chiaroscurale che ancora la copriva, quella rara e singolare fusione di storia e politica che animava Giuseppe Tricoli. In questo nostro tempo apparentemente solido ma sostanzialmente flessibile, non dimenticare che la Politica solo dalla Storia trae la propria legittimità può essere decisivo. E forse rivoluzionario.

Michelangelo Ingrassia

P. AMATIELLO,

Bianca Maria Simeoni e l’Aurea scrittura, Roma, Ateneo di poesia e di storia delle poetiche europee, pp. 96

Della poetica di Bianca Maria Simeoni si interessano, sin dall’esordio avvenuto dal 1998 con la silloge “Verso Dove”, la critica più autorevole ed i più famosi poeti italiani (da Mario Luzi a Maria Luisa Spaziani, da Gabriella Sobrino a Vincenzo Rossi, da Sandro Sticca a Renato Civello, da Aldo Onorati a Roberto Pasanisi, da Daniela Fabrizi ad Anna Manna, da Salvatore di Marco a Mario Mazzantini e numerosi altri); insomma, è un coro di giudizi positivi ed entusiasti.

Questi giudizi sono stati pubblicati dal critico Pino Amatiello nel suo saggio edito dall’Ateneo di poesia e di storia delle poetiche europee, dal titolo Bianca Maria Simeoni e l’Aurea scrittura, non solo per testimoniare l’elevato spessore raggiunto dalla poetessa, ritenuta “Stella di prima grandezza nel panorama letterario internazionale”, ma soprattutto per convalidare, attraverso l’autorevolezza dei suoi recensori, i giudizi espressi nel corso della monografia.

Il saggio di Pino Amatiello è prefato da Cinzia Emmi dottore di Ricerca in Italianistica dell’Università di Catania ed è arricchito da un indice dei nomi, da una ricca monografia e da una Antologia delle poesie della Simeoni, tratte da “Verso Dove” e da “Confiteor”, la seconda silloge, edita nel 2002 quale premio-pubblicazione del Concorso europeo di poesia e saggistica “Omaggio a Gennaro Manna”, la cui cerimonia di premiazione ha avuto luogo nella Sala della Protomoteca del Campidoglio.

La poetica dell’autrice reatina, che si appresta a pubblicare il terzo libro Mots d’amour (Canzoniere d’amore) ha meritato anche l’attenzione di Neria De Giovanni, presidente dell’Associazione Internazionale Critici Letterari, che ha pubblicato una lunsinghiera recensione sulla rivista letteraria “Salpare”.

Bianca Maria Simeoni è stata invitata dall’Università Binghamton di New York a tenere una conferenza sulla sua poesia nel corso di un Convegno che sarà dedicato a “Il giornale dei Biati” del quale la poetessa è Art director. La conferenza sarà ripetuta anche a Stoccolma presso l’Accademia delle Scienze – Fondazione Nobel.

A chi si chieda il significato della “Aurea scrittura” nel titolo dato da Pino Amatiello al suo saggio, l’autore precisa che la poesia per la Simeoni, secondo la “Teoria dei colori” del Goethe costituisce il “distacco da un mondo di noia, di incertezza, di sofferenza, di non vita” per iniziare un percorso “Verso” il quale muovere nella certezza di raggiungere un “Dove” di speranza e di salvezza.

La poesia di Bianca Maria Simeoni prende l’avvio dai Simbolisti francesi e italiani; risulta per il linguaggio “nuova” ed aristocratica, ricca di pensiero e, nonostante prenda le mosse dal vissuto reale, risulta infine immaginaria ed immaginifica, “coinvolgendo” – come afferma Mario Luzi – “il lettore, prima che questi se ne renda conto”.

“Come non esserne presi?” – conclude il grande poeta fiorentino. Domanda che si pongono critici, autori e lettori di fronte a queste poesie “decise” nelle quali avviene il miracolo dell’autoimmedesimazione, caratteristica questa della vera, grande poesia.

Il saggio di Pino Amatiello prende l’avvio dalla poetica della Simeoni per trattare della poesia del nostro Paese dal secondo dopoguerra agli ultimi scorci del secolo scorso; l’autore esamina infatti i motivi che portarono alla cosiddetta poesia del “riflusso”, alla poesia della “assenza”, all’ermetismo, ritenuto una “scuola” da Salvatore Quasimodo nel suo Discorso sulla poesia del 1954 e negato come movimento da Mario Luzi (proprio in un’intervista rilasciata alla Simeoni e pubblicata su “Il Giornale dei Poeti”).

Dall’esame strutturale del critico Vincenzo Rossi e da quello metrico compiuto da Aldo Onorati, la poesia di Bianca Maria Simeoni si rivela ricca di linguaggio e di “pensiero”, tutta compresa in un assoluto valore letterario che numerosi critici pongono in evidenza.

Il saggio di Pino Amatiello è stato presentato in prima assoluta presso la sede delle Edizioni Rosati di Civitavecchia dallo scrittore Francesco Agresti e dai professori Giancarlo Peris e Luciano Pranzetti. Alcune poesie, accompagnate dalle musiche originali del chitarrista compositore Beppe Frattaroli, sono state lette dagli attori del Teatro Popolare di Salerno Davide Curzio e Anna Nisivoccia; ospite d’Onore è stata la violinista agrigentina di fama internazionale Alessandra Cuffaro.

Alla fine dell’incontro Bianca Maria Simeoni è stata intervistata dalla giornalista del Messaggero Stefania Mangia; essa ha confermato la forte influenza subita dai Simbolisti francesi, ma ha nel contempo respinto qualsiasi rapporto con i crepuscolari, affermando che la sua poesia non è affatto intimista, ma che, al contrario, è aperta universalmente a trasmettere le sue sensazioni.

Nel mese di novembre p.v. il saggio di Pino Amatiello sarà presentato a Palermo presso la Fondazione Chiazzese.

Mauro Milesi