LE MATRICI MONADOLOGICHE DELL’IDEALISMO FICHTIANO* di Sandro Ciurlia – N. 20 Dicembre 2003

LE MATRICI MONADOLOGICHE DELL’IDEALISMO FICHTIANO* di Sandro Ciurlia – N. 20 Dicembre 2003

Home / Numeri / Rassegna Siciliana di Storia e Cultura – N. 20 Dicembre 2003 / LE MATRICI MONADOLOGICHE DELL’IDEALISMO FICHTIANO* di Sandro Ciurlia – N. 20 Dicembre 2003
icon ball 01 (6)
icona ball alto sinistra 2
segnaposto rassegna siciliana 1

Ai tempi delle prime meditazioni fichtiane, l’immagine piú diffusa del pensiero di Leibniz era quella offerta da Kant e mediata da Wolff. Nella Critica della ragion pura, il filosofo di Lipsia compare a varie riprese: viene considerato, in prima istanza, come l’alfiere della tradizione metafisica sanzionata dal razionalismo moderno, spesso caratterizzata da “punti di vista affatto erronei”; in secondo luogo, è giudicato come “un filosofo intellettualista”(1), “ingannato […] dall’anfibolia dei concetti di riflessione”, pertanto incapace di giungere ad un’autentica conoscenza dell'”interna natura delle cose”(2). In sintesi, si tratta di un pensatore dalle idee illuminanti, di indubbio rilievo, ma assai distante dall’approdo trascendentale della filosofia. La stessa monade, in quanto sostanza semplice, getta luce sul principio dell’identità degli indiscernibili; tuttavia, a giudizio di Kant, rende alquanto problematica la comprensione del mondo come sistema di relazioni tra enti individuali(3).
Com’è noto, Fichte prende le mosse dalle posizioni kantiane, per cui gli giunge un’immagine di Leibniz condizionata dalle valutazioni criticiste. Ben presto, però, la riflessione fichtiana assume una fisionomia originale ed autonoma, la cui prima sistematica espressione è la Wissenschaftslehre del 1794. Pur essendo legata al punto di vista kantiano, la Dottrina della scienza si costituisce come un percorso di pensiero teso ad offrire alla Filosofia quel solido fondamento che lo stesso Kant aveva solo baluginosamente adocchiato. In quest’itinerario speculativo, molti autori svolgono un ruolo critico. Tra questi c’è proprio Leibniz. Il percorso è, in qualche misura, ricorsivo: la meditazione fichtiana sulle condizioni trascendentali dell’esperienza consente di rimontare a ciò di cui si compone l’esperienza stessa per coglierne l’autentico fondamento trascendentale. Se è cosí, allora vale anche il percorso a ritroso. Ad ogni modo, i punti cardine della traiettoria si richiamano in circolo. Ha scritto Kurt Huber (uno dei martiri della “Rosa Bianca”) nel 1943: “Era riservato a Fichte iniziare il ritorno dal soggetto trascendentale di Kant all’infinita molteplicità dell’individuale di Leibniz e conseguentemente all’unità originaria metafisica di un assoluto”(4). Dunque, lo studio delle relazioni tra questi due pensatori è molto piú che il frutto di una semplice curiosità storiografica, è quasi dettato da un’intrinseca necessità.
Con tale valutazione dice di concordare Marco Ivaldo, autore di questa preziosa monografia sulla ricezione fichtiana del pensiero di Leibniz(5). Come sottolinea Ivaldo, il termine huberiano “ritorno” va inteso, alla maniera di Fichte, come un procedere “‘a passo di gambero'” nel processo di “avanzamento creativo nella riflessione” filosofica, cosí da ritrovare “all’indietro, o meglio in profondità, il pensiero decisivo a partire da un movimento in avanti” (p. 14). Una Dottrina della scienza in tanto dà una soluzione ai problemi del pensare in quanto trova nei sistemi del passato solidi riferimenti ed autorevoli anticipazioni di strumenti idonei a consentire la messa a punto di costrutti critici nuovi. Vige, qui, l’impianto della logica dei precorrimenti tipico dei grandi esponenti dell’idealismo classico tedesco: “conta” il raggiunto punto di vista speculativo; il resto “vale” se prefigura l’approdo, altrimenti contrassegna solo un “attardamento” o una traiettoria diversiva del Pensiero. Ciò spiega appieno, sin dalle prime battute, il senso del sottotitolo del libro di Ivaldo: la comprensione trascendentale della monadologia.
Nelle prime due parti di questo saggio cercherò di esporre i contenuti dello studio di Ivaldo, sottolineandone i punti di maggiore originalità interpretativa. Nella terza parte, invece, elaborerò una serie di osservazioni e di rilievi intorno ad alcuni dei passaggi critici proposti nel libro, allo scopo di valutare se, e fino a che punto, il Leibniz di Fichte, oltre ad essere un importante capitolo della storia della fortuna di Leibniz nel tardo Settecento tedesco, possa contribuire ad alimentare gli attuali sentieri della Leibniz-Forschung, come suggerisce l’Autore.


I. La filosofia di Leibniz come introduzione all’idealismo speculativo

Lo schema dell’anticipazione guida Fichte alla rielaborazione critica di alcuni dei passaggi propri dell’opera di Leibniz, nel segno di “un’assunzione selettiva della monadologia” (p. 11) in chiave di rielaborazione, sul superiore piano della filosofia trascendentale, di molti dei suoi nuclei problematici. Nel respingere il “dogmatismo” monadologico, Fichte legge il sistema leibniziano e le lucide intuizioni – già “idealistiche” – collocate al suo fondo come pendant razionalistico rispetto allo spinozismo. Dunque, la presenza di Leibniz alle spalle del pensiero di Fichte può essere letta all’insegna delle categorie del “precorrimento” e dell’interpretazione, sul piano speculativo, dei fondamenti della teoria delle monadi. Non è tutto. Fichte rinnova l’immagine di Leibniz consegnataci da Kant e, nel contempo, si orienta a riflettere, proprio sulla spinta di riconoscibili suggestioni leibniziane, sui cardini della critica kantiana della ragione. In altri termini, Leibniz induce Fichte ad integrare Kant. Infatti, se la monadologia assume chiari caratteri pre-trascendentali, allora può rifluire in quel serrato dialogo con Kant da cui discende la Dottrina della scienza. Con una significativa aggiunta: pensare in termini di precorrimenti ed anticipazioni offre a Fichte l’occasione di stabilire un ordine di successione storico-critica di passaggi lungo un articolato processo che finisce con lo sfociare proprio nell’idealismo.
Ivaldo articola la sua monografia seguendo un triplice asse problematico. In primo luogo, si occupa dello studio delle fonti attraverso cui Fichte giunge a Leibniz; in seconda battuta, ricostruisce la complessiva lettura fichtiana di Leibniz, valutando passaggi tratti da opere diverse in cui compare o il nome di Leibniz o vengono trattati temi caratteristici del sistema leibniziano; infine, tenta “una lettura del sistema di Leibniz dal profilo della filosofia trascendentale fichtiana” (p. 13). Come l’Autore si appresta a chiarire, ciò non significa fare di Leibniz un filosofo pre-speculativo e valutarne la statura in funzione di quanto riesca a presagire gli assunti fichtiani. Si tratta, piuttosto, di osservare il modo in cui ‘reagisce’ la lettera del pensiero leibniziano a seguito delle sollecitazioni provenienti dall’analisi delle pagine fichtiane. In tal modo, si può comprendere sia l’itinerario che conduce Fichte a determinare una “vera e propria teoria dell’universo monadico” (Ib.) negli scritti composti tra il 1801 ed il 1802, sia le condizioni di persistenza, nel sistema leibniziano, di un’adeguata teoria delle relazioni tra le monadi. Dall’intento di chiarire i percorsi critici della filosofia fichtiana a partire da Kant discende, cosí, un’operazione indiretta di chiarificazione del pensiero di Leibniz.
Riguardo al primo punto, Ivaldo espone la tesi secondo cui “Leibniz […] è un autore fondamentale per l’autore della Dottrina della scienza” (p. 17), anche se non molto citato nelle opere di Fichte. Com’è noto, viene a determinarsi, sin dall’edizione del 1794 della Wissenschaftslehre, l’idea della contrapposizione tra dogmatismo ed idealismo. Del primo atteggiamento di pensiero è eloquente espressione lo spinozismo. Anche Leibniz è, a suo modo, dogmatico, tuttavia al sistema leibniziano viene riconosciuta una maggiore complessità. Sorge una prima domanda: cosa conosceva Fichte del pensiero di Leibniz ed attraverso quali vie? Non compaiono mai citazioni dirette. Fa bene, al riguardo, Ivaldo a ricordare come la circostanza non debba oltremodo impensierire, visto che era costume delle grandi filosofie sistematiche dell’epoca riferire in sintesi – con tutte le forzature interpretative che ne discendevano – le tesi dei grandi classici della tradizione filosofica. Ma il quesito rimane inalterato, poiché, a questo punto, è legittimo chiedersi come a Fichte sia giunto il pensiero di Leibniz, se attraverso una o una serie di fonti indirette. Centra qualcosa la tradizione tardo settecentesca? In caso di risposta affermativa, quale sua area dev’essere individuata, visto che, in fondo, se per Fichte Leibniz è un interlocutore privilegiato ed una fonte critica utilissima, non si può dire altrettanto in relazione a Kant, spesso assai duro nei riguardi delle meditazioni del filosofo di Lipsia?
Fichte aveva una buona conoscenza del dibattito tra i leibniziani e delle dispute sulla Critica della ragion pura innescate da premesse leibniziane, ma è assai dubbio che possedesse una conoscenza diretta dei testi. Seguendo una traccia di Reinhard Lauth, si può avanzare l’ipotesi che due riferimenti possibili potessero essere l’edizione antologica dei classici del pensiero moderno curata da Pierre Des Maizenaux(6) e l’edizione Dutens degli scritti leibniziani(7), a cui anche Jacobi rinviava nella sua esposizione delle idee di Leibniz. È un fatto, inoltre, che Fichte citi riflessioni leibniziane contenute nei Nuovi Saggi: doveva, pertanto, possedere l’edizione Raspe(8), che ebbe il merito di risvegliare l’interesse della cultura tedesca per Leibniz. Dunque, oltre alla Monadologia, Fichte deve aver avuto presenti un certo numero di opere leibniziane. Ciò è significativo non solo per intendere con quale Leibniz Fichte ritiene di aver intrecciato un’Auseinandersetzung critica, ma anche per cogliere da quale area della variegata cultura illuministica tedesca pre-kantiana e da quale direzione della successiva Aetas kantiana egli abbia potuto trarre la propria immagine del sistema metafisico leibniziano.
Svolgono l’importante funzione di “mediatori” del pensiero di Leibniz Maimon(9), Jacobi(10) e Schelling(11). Per il primo, le tre teorie principali della filosofia leibniziana sono la “dottrina delle idee innate”, il “sistema delle monadi” e la “harmonia praestabilita”. Secondo la ricostruzione di Maimon, invece, le monadi sarebbero “Vorstellungskräfte”, organizzate secondo un ordine gerarchico in uno spazio armonico, governato da Dio, che lascia emergere la naturale tendenza delle monadi ad aggregarsi. A giudizio di Maimon, alla filosofia di Leibniz non poteva non esser riconosciuto un importante ruolo in quel processo di sistematizzazione degli “atti” del pensiero a quel tempo ancora in corso. Secondo questa prospettiva, il passo decisivo in direzione di un adeguato “sistema filosofico” è effettuato dall’opera kantiana: ciò convince ulteriormente Fichte che si possono utilizzare appieno le intuizioni di Leibniz solo attraverso le categorie del criticismo.
Altro passaggio importante è quello che contempla la mediazione fichtiana di Jacobi. Com’è noto, Leibniz viene citato da quest’ultimo per un confronto con Spinoza ed allo scopo di sostenere la stretta identità di “vita e coscienza”. Leibniz ne avrebbe “presentito” la necessità, ma rimane ancora ancorato all’idea di una “sostanza immateriale” fondamento e causa delle sue stesse rappresentazioni. Nonostante le proprie prese di posizione, Jacobi manifesta chiaramente l’intenzione di disporsi a rintracciare l’unità della monade nella medesima monade. Con Schelling la questione è assai piú complessa. L’unità del fondamento monadico viene qui ricercata senza trascurare il concetto di Natura. Inoltre, egli legge, negli anni delle Philosophische Briefe (1795), Leibniz e Spinoza all’insegna della polemica contrapposizione tra dogmatici e critici. Tutto ciò all’insegna di una convinzione: pur affidando le speranze di riscatto della filosofia alla tradizione del criticismo, è possibile rintracciare nella consuetudine dogmatica considerevoli elementi speculativi, degni d’essere segnalati come autorevoli “anticipazioni” del punto di vista ultimo, quello critico, con tanta fatica conseguito.
Leibniz, cosí, diviene, a suo modo, un “idealista”, per cui è inconcepibile il carattere di “cosa in sé” della monade, ma va valorizzata la sua caratteristica d’essere un “centro di rappresentazioni”. Inoltre, se Spinoza aveva posto un netto iato tra finito ed infinito, Leibniz partecipa di tale distinzione, per quanto si dimostri incline ad intrinsecare – in modo indiretto – l’infinito nella monade. Provvede, viceversa, un’errata interpretazione dell'”armonia prestabilita” – a giudizio di Schelling – a ricondurne il pensiero nell’alveo del dogmatismo. “Questa brillante rappresentazione di Leibniz – scrive Ivaldo – è insieme un’autorappresentazione di Schelling stesso, o meglio del suo proprio programma sistematico” (p. 47): come al solito, Leibniz “precorre”, ma va “superato”.
Dalla ricezione delle prese di posizione filosofiche del suo tempo su Leibniz, Fichte impara ad intendere la natura dei nuclei problematici del pensiero leibniziano. Egli è impensierito dalle analogie e dai contrasti con Spinoza ravvisati da Jacobi, è sedotto dall’impianto della lettura leibniziana di Schelling, ma non concorda con gli scopi dimostrativi del primo, né con il disegno speculativo del secondo ormai alle soglie del Sistema dell’idealismo trascendentale del 1800. Il vero carattere dell’approccio di Fichte a Leibniz è “il radicamento dell’eredità trascendentale kantiana” (p. 48). Il resto è, per cosí dire, una questione di contorno.
Nella Seconda introduzione alla Dottrina della Scienza, Fichte osserva che Leibniz, “se inteso bene […], ha ragione”(12). Kant aveva definito la “convinzione” un “tener per vero”, un atteggiamento di pensiero, “valido per chiunque possieda ragione”, teso a rintracciare un solido fondamento a giustificazione della realtà delle cose(13). A Fichte, Leibniz appare “convinto”. Lo stesso potrebbe dirsi di Spinoza e di Kant, se non fosse che al primo manca la capacità di “riflettere nel pensiero sul suo proprio pensiero” ed al secondo un’adeguata deduzione trascendentale in grado di abbattere il ‘muro’ del noumeno. Secondo Fichte, Leibniz supera l'”illusione” kantiana della presenza di una “cosa in sé” o, meglio, non ne rimane vittima. In questo senso “ha ragione”: tutto può essere spiegato risalendo al Principio unico dell’essere. Tutto sta nel saperlo trovare. Ciononostante, Leibniz dev’essere bene inteso, poiché le sue intenzioni convivono con una spessa crosta dogmatica.
La monade è un principio attivo, che, tuttavia, non riesce a riflettersi su di sé. Lo schema della monadologia, dunque, è valido, è combinabile con il punto di vista trascendentale e da quest’ultimo bisogna partire per restituire Leibniz alla pienezza del suo pensiero. Ciò è possibile – secondo il metodo teorizzato da Fichte – distinguendo la lettera dei testi dallo spirito che vi circola, cosí, in nome di una sorta di comune afflato trascendentale, si può trascegliere l’essenza speculativa dagli epifenomeni, una volta considerato il punto di vista idealistico-trascendentale come il punto d’approdo della Filosofia(14). Nella fattispecie, nella monade circola lo spirito dell'”appercezione trascendentale” kantiana e nell'”armonia prestabilita” la categoria della relazione. Ci sono tutte le premesse, dunque, per passare dall”idealismo ontologico’ di Leibniz a quello trascendentale da lui stesso elaborato.
Il testo nel quale compare l’esposizione fichtiana del sistema di Leibniz ha per titolo Lezioni di logica e metafisica (1797). Qui Fichte commenta gli Aforismi filosofici (1793) di Ernst Platner. Quest’ultimo aveva ricostruito il percorso leibniziano che conduce alla costituzione del mondo come aggregato di sostanze semplici, dedicando particolare attenzione all’analisi dei problemi dello spazio e della materia. Il tratto significativo è l’accostamento di Leibniz a Kant. Fichte, commentando Platner, considera del tutto analoga la loro concezione dello spazio fisico, sottolineando come in Kant tale questione rintracci una propria giustificazione trascendentale e come in Leibniz si radichi nella “nostra facoltà rappresentativa”(15). Inoltre, nelle relazioni tra le monadi non vi sono vincoli tali da escludere l’importanza della categoria della libertà. Questi due aspetti colpiscono Fichte in modo decisivo. L’intero idealismo trascendentale vuole essere, a sua volta, un sistema della libertà, pertanto non può venir trascurata la vocazione relazionale che è parte dello statuto ontologico della sostanza individuale leibniziana. In piú, poiché dall’analisi delle funzioni gnoseologiche della monade emerge una notevole prossimità rispetto al nuovo sistema della Ragione, allora l’impostazione leibniziana merita di essere conservata come una lucida preconfigurazione dello stesso punto di vista trascendentale.
Nelle citate Lezioni, Fichte indugia a lungo su questi punti. Ma è soprattutto il confronto con Kant ad impensierirlo. A giudizio di Fichte, tra l’a priori ed il disincantato innatismo critico di Leibniz non può porsi una netta distinzione. Quando Kant critica l’innatismo leibniziano ne fraintende il senso. Fichte ha ben chiaro il rifiuto kantiano dei concetti innati esposto nell’opera contro Eberhard e le sottili critiche rivolte all’esito anfibolico del razionalismo di Leibniz contenute nella prima Critica. Come le “forme pure” di Kant, cosí i “concetti innati” di Leibniz fanno parte di quel corredo di forme attraverso cui si organizza l’esperienza e si giudica il mondo. L’analogia tra le due posizioni speculative non è sinonimo, però, della stretta uguaglianza tra le stesse. Manca, a Leibniz, l’idea dell'”unità dell’appercezione” ed un adeguato procedimento deduzionale. A tutto ciò ha provveduto in parte notevole Kant ed in funzione di ciò Leibniz può essere considerato un filosofo pre-trascendentale. Quel che rimane da compiere in filosofia lo realizzerà la Dottrina della scienza. Ciò conferma ulteriormente l’intenzione fichtiana di presentare il proprio sistema come il completamento della filosofia critica.
Sottolinea, nello specifico, Ivaldo che l’idea leibniziana dell’autoinnatismo delle monadi costituisce, per Fichte, un utile ausilio per la ricerca del fondamento primo della conoscenza umana in generale. Tra le cose, inoltre, che la monade può intuire di sé v’è la libertà di relazionarsi con l’altra. Per Fichte, tutto questo è di enorme rilievo, a patto, però, di non ipostatizzare alcuna idea astratta, dotandola di una dimensione di assolutezza tale da condurla a cadere in un’ulteriore forma di dogmatismo. Nelle Lezioni, quello di Leibniz viene considerato un “sistema metafisico sublime”, persino superiore a quello di Spinoza, perché “non nega la libertà”(16). Su questo tema, il piano della trattazione rispetto al Platner è affatto diverso. Non piú Leibniz messo a confronto con Spinoza e con Berkeley sul problema della rappresentazione dei fenomeni, ma un Leibniz saggiato nella sua caratura filosofica dalla comparazione con il sistema critico kantiano e con l’idealismo dello stesso Fichte. Alla negazione della materia, verso cui indulge l’idealista dogmatico, Fichte replica pensando al processo conoscitivo in termini di “sintesi”, senza piú “ipostasi” di cose in sé.
L’idealismo speculativo consente di raggiungere l’unico fondamento della coscienza, per cui la “filosofia trascendentale è in definitiva spiegazione genetica del fatto-di-coscienza della materialità” (p. 94). In tale ottica, il pensiero di Leibniz rimane ancora legato alla dimensione “fattuale”, nonostante, per esempio, la teoria delle “percezioni confuse” manifesti l’esigenza di stabilire un fondamento certo ed unico delle nostre rappresentazioni. In questo, del resto, si era dimostrato insufficiente persino Kant. La conoscenza è “sintesi”, secondo Fichte, a patto di offrire il giusto spazio ad una nuova concezione dell'”immaginazione” tale da rendere ragione della dialettica Io-Non-Io(17). Ma l’Io caratterizza la propria attività per una continua tensione verso l’infinito(18), pertanto ritorna alla mente l’attributo dell'”appetizione” predicabile della monade.
Il confronto, anche qui, è strumentale alla costituzione della fisionomia teoretica dell’idealismo speculativo. Precisa, infatti, Ivaldo come la teoria della relazione contenuta nella monadologia presupponga la presenza (in senso realistico) delle determinazioni poste assieme nel sistema: è fuori dall’orizzonte mentale di Leibniz, infatti, l’idea d’intersecare l’Io e la categoria di relazione. Ciononostante, la monade che “viene all’essere” lascia intendere una significativa differenza rispetto al rigido determinismo di Spinoza. Ci si muove in entrambi i casi, giudica Fichte, nel solco di un sostanziale “intellettualismo” ancora lontano dall’intravedere soluzioni autenticamente speculative. Se l’Io è sforzo e se si descrive mediante un costitutivo contrasto dialettico con il Non-Io, allora ne viene a conoscenza nel processo d’intuizione intellettuale di sé, il quale, a sua volta, viene proiettato a ricercare, nella descrizione dei fenomeni, la loro dimensione genetica. Alla luce di una simile impostazione, il pensiero di Leibniz offre non pochi ausili: le “relazioni intermonadiche”, l'”appetizione”, l'”armonia prestabilita”, le “piccole percezioni”.
È la teoria dell'”armonia prestabilita”, però, a colpire Fichte in modo piú intenso. In particolare, un aspetto: Leibniz aveva definito la monade un “centro” di rappresentazioni, lo “specchio vivente dell’universo”(19). Come si dà – si domanda Fichte – un simile circuito di rappresentazioni? L'”armonia prestabilita” risolve il problema, essendo un universo nel quale si corrispondono singole determinazioni individuali. In questo senso essa costituisce una “buona ipotesi”, per quanto l’ordine delle relazioni intermonadiche non preveda come proprio elemento costitutivo il fondamento speculativo della libertà. Solo un’idea di ragione come quella proposta da Kant nella Critica della ragion pura avrebbe trasformato questa “buona ipotesi” in un autentico sistema speculativo, l’armonia prestabilita in un'”armonia trascendentale” (p. 132). Leibniz continua, invece, ad ipostatizzare la monade, ricadendo “in un’ontologia dogmatica” (p. 136), quella che riconosce un essere originario rispetto a cui subordinare ogni manifestazione di pensiero.

II. La monade e l’Io

Estremamente significativa è la Parte terza del libro di Ivaldo. Qui lo studioso propone una “‘lettura prospettica’” (p. 164) del pensiero di Leibniz; una lettura, in altri termini, di Leibniz dal punto di vista di Fichte, volta a chiarire il senso della ricezione fichtiana del sistema monadologico. Con un ulteriore obiettivo: cercare di far chiarezza su alcuni punti oscuri di quest’ultimo proprio a muovere dalle interpretazioni fichtiane. Detto altrimenti, l’intento è di instaurare un circuito ermeneutico di reciproco rinvio, allo scopo di consentire a ciascuno dei due autori di chiarirsi attraverso il contributo dell’altro. Tale interazione interpretativa non si realizza certo trascurando le differenze, i contesti, gli obiettivi critici di questi due colossi del pensiero moderno e contemporaneo, ma, nel delineare i contenuti delle prospettive filosofiche, intende evidenziare quanto un pensiero “ha saputo dischiudere di conoscenza vera e perciò autenticamente ricevibile e sviluppabile” (Ib.). Il tutto ispirato dalla “convinzione che la veduta fenomenologica offra un accesso produttivo per una comprensione filosofica rilevante delle posizioni filosofiche” (p. 165), nella fattispecie del sistema filosofico di Leibniz.
Assumiamo, per ora, quest’assunto in forma problematica. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che, in una simile impostazione, emerge la convinzione secondo cui è l’assetto speculativo della filosofia trascendentale a costituire il metro di valutazione dei singoli percorsi di pensiero precedenti e storicamente determinati. Può essere, certo, legittimo pensare di chiarire certi percorsi partendo dal modo in cui un dato autore li ha intesi. Ma questo può significare allontanarsi dalla lettera dei testi. Studiare, infatti, il ‘Leibniz’ di Fichte non equivale sempre a studiare Leibniz. Raggiungeremo questa convinzione, confermando la problematicità delle “letture prospettiche”(20) (non a caso proposte da autorevoli studiosi dell’idealismo), quando avremo modo di riflettere, piú avanti, sull’assetto della monadologia, letta secondo la posizione che essa assume nell’evolversi del pensiero di Leibniz e secondo il senso che le attribuiscono i maggiori protagonisti della Leibniz-Forschung contemporanea.
Secondo quanto abbiamo sinora stabilito, l’ontologia di Leibniz, a giudizio di Fichte, dev’essere letta nella prospettiva aperta dalla Critica della ragion pura. Il suo carattere dogmatico discende dalla partecipazione alla tradizione del cartesianesimo, a cui pure va attribuito il merito di aver focalizzato l’attenzione sul tema del cogito. L’impianto interpretativo di Fichte è sottile: Leibniz, come già Cartesio e Spinoza, possono essere letti come filosofi pre-idealisti in funzione della loro capacità di anticipare il punto di vista trascendentale. Non solo: se quest’ultimo è l’unico orizzonte vero della filosofia, allora le loro intuizioni speculative possono essere considerate come germi realizzati – magari in forma ancora fosca o embrionale – della verità dell’idealismo. Dunque, nel mentre essi anticipano il sistema dell’Io già ne propongono le prime innervazioni, confermando che non si può non pensare in modo filosoficamente significativo se non alla maniera della filosofia trascendentale. Cosí, secondo Fichte, sia Cartesio, sia Leibniz colgono il momento della “riflessione”: in tal modo anticipano e realizzano un pensiero già trascendentale, ne costituiscono una traccia, costituendo, nel contempo, una spinta euristica tesa a realizzarlo nella sua pienezza.
La monadologia è, a sua volta, una metafisica della sostanza retta dal principio di azione(21). Azione è energia, dunque movimento. In questo senso, la sostanza per Leibniz è enteléchia, è identità dell’atto con sé in quanto determinante la cosa. Il termine fichtiano che esprime in modo piú ravvicinato questa concezione della sostanza è Tathandlung, concetto posto a designare l’attività incessante dell’Io che si è già colto, mediante intuizione intellettuale, come libertà. Anche la sostanza di Leibniz agisce, tende, ma è priva del momento dell’autocoscienza. Ciò non significa – sottolinea Ivaldo – che Leibniz non abbia bene a mente la distinzione tra coscienza ed autocoscienza. Ciononostante, i due momenti in Leibniz appaiono come distaccati ed al cosiddetto momento dell’autocoscienza egli continua a guardare con un certo distacco a causa del complesso processo di revisione del cartesianesimo in cui si era impegnato, meditando Locke.
Non si può dimenticare, però, la larga attenzione dallo stesso Leibniz rivolta alla “conoscenza dell’anima” ed alla distinzione tra cogito e cogitata. Del resto, si trae conferma di ciò dal celebre adagio dei Nuovi Saggi in cui Leibniz prende posizione intorno al problema dell’innatismo, tradendo la convinzione dell’indeducibilità della ragione(22). Queste idee di una sostanza-azione a fondamento di un sistema dinamico dell’essere (l'”armonia prestabilita”) e della superiore dignità della facoltà razionale costituiscono gli elementi che piú seducono Fichte in quanto ritenuti autenticamente trascendentali. Naturalmente, a giudizio di Fichte, la monade di Leibniz, pur essendo sostanza liberatasi dal giogo del meccanicismo ontologico classico, non raggiunge l’autocoscienza, non si coglie per intuizione intellettuale(23). In definitiva, “per Fichte la monade (l’io finito) è attività capace di riflessione su di sé perché è costituita da un agire ritornante in se stesso” (p. 188). In questo modo, la determinazione individuale coglie se stessa e fonda la Tathandlung dell’Ich. I principî dell’Io, poi, ne sanciranno l’impianto speculativo in quel gioco di identità e relazione (III Principio) che Fichte vedrà desunto proprio dal principio leibniziano di ragion sufficiente(24).
Secondo Fichte, dunque, Leibniz ha il merito d’aver intuito che la monade va descritta come sostanza attiva. C’è dell’altro. Essa è, s’è detto, “specchio vivente dell’universo”, perché centro di rappresentazioni; è, inoltre, autonoma, pur rimanendo determinabile(25). Ciascuna, poi, tende a combinarsi con l’altra nel quadro dell'”armonia prestabilita”. È, qui, evidente l’analogia con le posizioni della Dottrina della scienza: anche l’Io si autopone (I Principio), si crea un mondo e con esso si con-fronta per determinare la propria identità.
Tra le facoltà della monade, Leibniz annovera la “percezione” e l'”appetizione”. La prima si riferisce all’attività rappresentativa della stessa monade, la seconda al tendere da una percezione all’altra(26). Di questo processo la monade piú elevata, l’anima umana, ha consapevolezza, nel senso che appercepisce se stessa(27). Il flusso di percezioni è continuo, anche quando esse sono “piccole” o pressoché “insensibili”(28), a differenza della piena identificazione di pensiero e coscienza in Cartesio e Locke. Ora, il momento dell’appercezione costituisce, per Fichte, l’aspetto “empirico-dogmatico” di questa fondamentale funzione trascendentale che Leibniz avrebbe previsto. Invece, “secondo la filosofia trascendentale ci si può accorgere […] del proprio percepire, perché si è costituiti in atto dalla capacità originaria dell’appercezione” (p. 226). La filosofia trascendentale, in definitiva, rende autocosciente la capacità rappresentativa della monade e porta a coglierne la genesi. La riflessione leibniziana sull’anima è un utile punto di partenza(29).
Il tema della percezione in Fichte è legato a quello del “ricordo” in relazione al quale l’Io si costituisce come determinazione continua(30), proprio come per la monade legata alla determinazione della sua identità. Ciò senza dimenticare il principio dell’azione che, per Fichte, è sempre pervaso dalla libertà. L’Io, inoltre, è Ragione, Spirito, condizione di possibilità degli oggetti. Anche se manca a Leibniz il momento della ri-flessione dell’Io, al pensatore di Lipsia spetta un posto privilegiato nella genealogia della filosofia trascendentale.
L’Io è azione, s’è detto. Per tale ragione, la vis speculativa di Fichte è ancora attratta dalla tematica dell’appetizione tra le monadi, legate da vincoli di condizionamento reciproco in funzione del loro grado di percezione. La monade, essendo materia e spirito, vive di questa sua ambivalenza, accrescendo o decrescendo il proprio grado di spiritualità. Anche l’Io fichtiano è in perenne contrasto con il Non-Io, pertanto la dialettica della monade ricorda assai da vicino la dialettica dell’Io. Ancora: la convivenza tra le monadi costituisce quella che Leibniz definisce agostinianamente la “città di Dio”(31); per Fichte, dare una giustificazione trascendentale al sistema dell’essere nell’intreccio tra le sue componenti rappresenta lo scopo ultimo e piú alto della Filosofia.
L’ultima parte dello studio di Ivaldo è dedicata all’illustrazione dell’idea di Lauth secondo cui, nella Dottrina della scienza del 1801/1802, “ci troviamo davanti a una trattazione che assume come punti di partenza le posizioni decisive della monadologia”(32). In quest’opera, il nome di Leibniz non viene mai citato, eppure termini quali “monade”, “armonia”, “mondo migliore” compaiono con grande frequenza. La filosofia di Leibniz viene ancora contrapposta a quella di Spinoza. In piú: “Fichte prende posizione contro il sistema di Spinoza […] per salvare […] una posizione e una verità specifica di Leibniz” (p. 272). Militare a favore di Leibniz significa salvare le ragioni dell’individuo dinanzi al panteismo dell’Uno-tutto. Riferirsi a Leibniz equivale a fare proprie le posizioni della vigorosa critica leibniziana all’autore dell’Ethica. Parlare dell’individuo non corrispone a liberarsi dell’Assoluto, ma a valutare in termini di irraggiamento dall’Uno le singole determinazioni individuali. Da qui Fichte muove il passo verso la considerazione dell’Assoluto come Uno-tutto che si autocomprende nell’individuo. A questo proposito, la Dottrina della scienza realizza il sapere assoluto, che è sapere dell’assoluto.
“Il sapere assoluto – commenta Ivaldo – […] è il sapere inteso come l’apertura dello sguardo e, insieme, come l’atto concreto che fanno sí che l’intenzionalità (il sapere-di) si ponga e si compia” (p. 280). Questa forma di saper è ed è completamente libera. Si giunge a comprendere l’essenza del sapere assoluto attraverso la funzione dell’intuizione intellettuale. Esiste, dunque, una tensione originaria dell’individuo verso il sapere, il quale “si attua” come libertà(33). Tutto ciò può essere interpretato come “una rifusione (e una trasformazione) trascendentale della dottrina della monade” (p. 292): la teoria delle “piccole percezioni”, il sistema dei rapporti tra le monadi, la discussione su libertà e determinismo costituiscono gli elementi del sistema leibniziano che rifluiscono nel sistema fichtiano dell’Assoluto. Per traslazione: “Il sostrato dell’universo monadico è la libertà come quantificare; l’universo delle monadi è l’insieme dei punti di concentrazione del sapere assoluto nel suo effettualizzarsi come libertà quantificante, determinata dall’essere assoluto” (p. 296).
Un altro significativo parallelo ravvisato da Ivaldo è quello relativo al problema dello spazio e del mondo. Secondo Fichte, se la libertà governa l’essere, bisogna pur darsi ragione del mondo. È necessario, pertanto, inserire un parametro quantitativo per spiegare l’ordine dell’essere, fatto di aspetti e di eventi distinguibili e misurabili. In questo senso, il mondo costituisce il regno della libertà che si individua, proprio come per Leibniz, intento a meditare sullo spazio continuo su cui si fondano le articolazioni del mondo stesso. L’universo, a sua volta, viene considerato come l’universo degli individui, “sintesi di tempo e di materia” (pp. 307-8), tutti inseriti nel sistema dell’essere. Anche qui, l’eco della nota pagina leibniziana della Monadologia è evidente: la monade è sempre espressione della totalità delle altre monadi(34). Da qui prende le mosse Fichte per riflettere sulle categorie dell’identità e della differenza: l’io si trova immerso nel sistema delle relazioni interindividuali, ma deve saper dare dell”io’ a se stesso e del ‘lui’ agli altri(35), dev’essere in grado di intuire se stesso e di sapere l’altro da sé.
L’individuo, inoltre, a giudizio di Fichte, si colloca come punto d’intersezione tra il mondo sensibile dei fenomeni ed il mondo intelligibile(36). A cogliere quest’ultimo giunge il sapere assoluto. Nel sistema del mondo, l’individuo è alimentato da una “forza primitiva”(37), che ancora una volta ricorda molto da vicino l’idea leibniziana di “forza” in quanto componente costitutiva della monade. L’individuo percepisce il mondo, lo spazializza e lo lega alla propria materialità; ma è con il tempo che egli instaura un rapporto fondativo: cosí può “dire che ogni essere individuale è via via il suo ‘tempo riempito'” (p. 329) dalle proprie percezioni, indice della costruzione simbolico-interpretativa del mondo stesso da parte dell’Io.
Ivaldo nota un’altra significativa prossimità tra il concetto fichtiano di “Trieb” e quello leibniziano di “appetizione”. L'”impulso” crea un sistema di relazioni, articola i rapporti tra gli individui ed avvia verso l’autocoscienza del sapere assoluto proprio a partire dalla condizione di finitezza di chi si spinge a superare i propri limiti(38). Risalire ai fondamenti del sapere significa tracciare il senso della destinazione etica dell’uomo, perché si vive guidati da una legge morale e da un continuo stimolo a trascendersi.
In sintesi, la riflessione fichtiana degli anni 1801/1802 “contiene e realizza a suo modo una costruzione dell’universo monadico, che riprende la prospettiva fondamentale e anche specifiche posizioni concettuali della monadologia leibniziana” (p. 355). Naturalmente, l’approccio alla monadologia è, per cosí dire, trasversale e Leibniz serve a risalire agli atti originari della Ragione. In tal modo, l’idealismo dommatico di Leibniz viene superato; tutte le sue principali intuizioni vengono irrobustite di senso attraverso l’utilizzo dei costrutti speculativi della filosofia trascendentale. Cosí, il mondo come sistema di rapporti interindividuali viene letto all’insegna della categoria della libertà che le governa; la “vera” teodicea diviene il luogo della “trasfigurazione in noi della verità sotto la legge morale” (Ib.); il mondo delle monadi si trasforma nel sistema di individui, portatori della loro libertà, che convivono.
Nello studio del sistema speculativo fichtiano, dunque, accanto ai Kant, Schelling, Hegel, bisogna valutare appieno la fonte leibniziana “per leggere e comprendere Fichte nel suo stesso progetto sistematico” (p. 356). In tal modo, nel mentre si penetra nei meandri piú riposti della filosofia di Fichte si scrive un importante capitolo sulla fortuna leibniziana tra Sette-Ottocento.

III. Il Leibniz di Fichte e la Leibniz-Forschung

L’approccio di Ivaldo si dimostra assai fecondo sotto molti punti di vista. Innanzitutto, mette in luce l’acutezza con cui Fichte pensa la filosofia di Leibniz e ne illustra le traiettorie di flusso, i percorsi, le modalità attraverso cui tale ripensamento si realizza. Si ha, in questo modo, la possibilità di cogliere i primi momenti della nascita della filosofia trascendentale e di studiare la maniera in cui essa si articola, facendo leva su una solida logica dei precorrimenti. L’idealismo trascendentale viene considerato l’inequivocabile punto d’arrivo della vicenda filosofica occidentale. In quest’ottica, si possono utilizzare le tante intuizioni del passato in funzione del momento massimo di realizzazione del Pensare: quando si analizza il Leibniz di Fichte questo meccanismo trova una delle sue piú perspicue manifestazioni.
Ma a quale Leibniz pensa Fichte? Se l’intento di Ivaldo è quello di studiare il significato della presenza della monadologia nel pensiero fichtiano, la questione assume una piena legittimità e porta a significativi risultati. Se, accanto a ciò, come viene ribadito nella Premessa, scopo del lavoro è anche quello di far chiarezza su alcuni punti dell’opera di Leibniz attraverso la luce di riflesso che proviene dalla meditazione fichtiana, allora siamo autorizzati a chiederci: quale immagine di Leibniz discende da questa trascendentalizzazione del suo pensiero? Quella del semplice metafisico delle monadi o anche quella del logico acutissimo del calcolo preposizionale? Il quesito non è di poco conto se si considera con quanta decisione la critica ha insistito sul presunto bifrontismo del filosofo di Lipsia. Ci troviamo, infatti, dinanzi ad uno speculativo di primissima grandezza che costruisce il suo sistema ontologico sui prodigiosi risultati della meditazione logica giovanile. A lungo s’è insistito, però, sullo iato esistente tra i due momenti(39). Oggi, invece, si tende a rintracciarne le ragioni della continuità. Esiste, inoltre, il problema della diffusione dei testi. Com’è noto, gran parte degli scritti leibniziani di logica sono venuti alla luce per lo piú nel Novecento e, forse, le tematiche del calcolo logico non erano fatte per interessare l’idealismo classico tedesco, prodotto, come potevano essere ritenute, delle astrazioni finite dell’intelletto.
Sta di fatto, però, che l’immagine di Leibniz a cui accede Fichte è solo parziale. È quella del metafisico delle monadi, del paradossale pensatore dell'”armonia prestabilita nel migliore dei mondi possibili”, dell’individualista responsabile di aver elaborato una teoria della relazione tale da rendere possibile quel sistema di monadi detto universo ed in grado di porsi come l’alternativa rispetto alla filosofia di Spinoza. Come si è osservato, la meditazione fichtiana su Leibniz avviene attraverso una lettura indiretta dei suoi scritti, uno studio trasversale dei suoi piú tipici filosofemi. Tra i due autori ci sono Kant e, da non trascurare, Wolff, alla cui influenza si deve l’articolazione stessa di una tradizione del leibnizianesimo nel secondo Settecento tedesco. Questo è indubbio, anche se nel testo il riferimento alla mediazione wolffiana è appena accennato. Tuttavia, se si ammette che non è al Leibniz storico che Fichte attinge per le illustrate ragioni, allora è assai difficoltoso concludere che, studiando la vicenda relativa alla comprensione trascendentale della monadologia, si possa gettare nuova luce sull’opera di Leibniz.
Si tratta, infatti, di un’opera privata del suo fondamento logico e, dunque, nel complesso, di tutt’altra identità rispetto a quella che oggi noi conosciamo. Lo studioso odierno di Leibniz, in altri termini, attraverso questo studio ha motivo di riflettere sulla tradizione del leibnizianesimo, ma è difficile che possa aprirsi nuovi orizzonti interpretativi intorno a quell’intricato articolato teorico qual è la filosofia di Leibniz. Di diversa natura il giovamento che ne può trarre lo studioso di Fichte: Ivaldo affronta con rigore l’arduo problema delle fonti del pensiero fichtiano e chiarisce su quale ramo della tradizione del leibnizianesimo esso s’innesti, avanzando sensate congetture sui tempi e le modalità della lettura fichtiana degli autori che mediarono il suo approccio a Leibniz.
Il problema è affrontato con cura da Ivaldo ed il lungo Excursus su Leibniz è servito proprio ad esprimere la differenza tra il piano storico di svolgimento delle questioni e quello incentrato sull’interpretazione trascendentale della monadologia: in questo modo si colgono le coordinate del Leibniz di Fichte. Molta parte dell’articolazione del pensiero di Leibniz rimane, invece, tutta ancora da indagare. D’altra parte, si tratta di una ricerca dichiaratamente non ancora esaurita, data l’attenzione da Ivaldo concentrata sugli scritti fichtiani fino al 1802 ed in considerazione dello stato degli inediti che costringono gli studiosi di Fichte a continui ripensamenti interpretativi a causa della tellurica tumultuosità del suo pensiero. Lo stesso discorso vale per Leibniz, la cui immagine filosofica può essere in parte destinata a modificarsi con la nuova edizione degli scritti, la pubblicazione dei quali finalmente procede, oggi, dopo molte traversìe, assai piú spedita(40).
I tanti inediti leibniziani riserveranno, di certo, non poche sorprese nella chiarificazione dei termini di quel crocicchio teorico qual è il problema dei rapporti tra logica e metafisica al fondo del suo pensiero, tra il suo nominalismo giovanile ed il teosofismo maturo. Tutto ciò assieme alla piú diretta conseguenza di definire un nuovo ruolo per la monadologia. Non è un caso, infatti, che la Leibniz-Forschung dell’ultimo trentennio abbia, a piú voci, insistito sulla necessità di modificare i criteri interpretativi da utilizzare nella lettura della teoria dei “punti di forza metafisici”. C’è chi, come Massimo Mugnai, per esempio, non ha esitato ad intendere la dottrina delle monadi come la risposta, articolata in un altro linguaggio, data da Leibniz alle grandi questioni del continuo e della forza, che erano scaturite dalla rivoluzione scientifica. Le stesse questioni, in altri termini, con cui si era confrontato negli anni della produzione logica giovanile. Leibniz, infatti, rimane un logico per tutta la vita e non dimentica mai l’urgenza delle ricerche matematiche per poter cogliere le vocalità attraverso cui si esprime la natura anche quando ne studia il significato ontologico. Pertanto, continuare a pensare a Leibniz come ad un Giano bifronte costituisce un profondo limite interpretativo, che può arrivare a pregiudicare la comprensione della sua meditazione.
Per tornare al confronto fichtiano con il filosofo di Lipsia, è la monadologia, tutta intrisa del suo teosofico teleologismo, ad essere protagonista. In realtà, come dimostra Ivaldo, si tratta di autori dalle molte analogie. Entrambi risultano logorati dall’Assoluto e sedotti dall’individuo. Ma piú di qualche interrogativo impensierisce. La monadologia di Fichte è un conto, la monadologia nel suo sviluppo storico-genetico è, come s’è accennato, tutt’altra cosa. A Fichte giunge un certo Leibniz, per giunta indirettamente. Lo colpiscono alcune tematiche. Non c’è alcun interesse, però, per l’itinerario speculativo da cui sono scaturite, anche perché sono questioni che occorrono solo in funzione dell’elaborazione del sistema dell’idealismo. Questo è quanto si può arguire dal testo di Fichte e dai percorsi della sua lettura di Leibniz cosí attentamente ricostruiti da Ivaldo. Torna lo stesso problema, però: l’intenzione dichiarata di Ivaldo è quella di contribuire a gettare luce sul pensiero di Leibniz attraverso l’analisi della riflessione fichtiana. Ora, trova davvero una nuova luce il pensiero di Leibniz se letto attraverso le categorie fichtiane? Com’è possibile illuminare Leibniz mediante Fichte? Visto che non è il Leibniz storico, come può sollecitare nuove letture della sua filosofia? Come tornare a leggere Leibniz movendo da Fichte senza una robusta emendatio intellectus?
A Fichte manca il senso dello sviluppo del pensiero di Leibniz, senza la cui matrice logica la filosofia matura appare davvero monca. Del filosofo di Lipsia, dunque, si coglie solo un tratto e nemmeno il piú originale, dimenticando che la monadologia è il frutto della creatività dell’inventore del calcolo infinitesimale e del coniatore del termine “logica matematica”. Tutto questo raccolto in un’unica mente speculativa, visto che non è dato supporre, alla luce delle testimonianze, un clamoroso caso di sdoppiamento della personalità! Se, dunque, è con un Leibniz dimezzato che Fichte ci conduce, indirettamente, a confrontarci, allora la sola luce sul pensiero di Leibniz che può sopraggiungere da questo studio è quella relativa alla Wirkungsgeschichte della sua filosofia o quella discendente da una piú piena presa di coscienza degli aspetti della sua meditazione che piú ebbero a colpire ed a condizionare la riflessione filosofica successiva. In verità, non rimane molto altro. Detto altrimenti, se uno studioso di Fichte trova utilissimo lo scandaglio delle fonti dirette ed indirette del suo pensiero, il cultore del pensiero leibniziano trova il proprio autore lacerato, a tratti selvaggiamente segmentato. Anche qui, tutto ciò ha precise ragioni storiche su cui ci siamo soffermati, ma può davvero fluidificare i percorsi dell’ermeneutica leibniziana?
Alla luce di tali considerazioni, è possibile ritornare a riflettere sul senso e sui livelli possibili della “lettura prospettica” (p. 164) di Leibniz auspicata da Ivaldo. Certo, cosí facendo, si aprono solidi spiragli intorno alla descrizione della latitudine storica del pensiero di Leibniz, per quanto sempre rispetto ad un “angolo visuale”, nella fattispecie la filosofia trascendentale di Fichte. Ivaldo cita, al riguardo, Reinhardt Lauth, il quale, nel descrivere il senso e le caratteristiche della “veduta prospettica”, ribadisce come essa “lascia trasparire la perennità della filosofia”(41). Se tale philosophia perennis, dunque, è quella fichtiana, allora è assai difficile “poter comprendere Leibniz nei suoi nuclei decisivi” (p. 164), com’è nelle intenzioni di Ivaldo. La lettura prospettica in tanto ha un senso in quanto si lega ad un punto di vista stabilito a priori. La storia serve a confermarlo. Altra cosa, questa, rispetto al rigore dell’esercizio storiografico e forse anche rispetto agli itinerari della comprensione ermeneutica. In altri termini, va tutto bene finché si parla di Fichte. Sorge piú di qualche problema allorché si focalizza l’attenzione su quel che di Leibniz possiamo studiare, analizzandone i testi.
Tutto questo proprio perché la teoria delle monadi costituisce un’affascinante – in parte simbolica – risposta ai problemi della scienza del suo tempo. Senza dimenticare, poi, che il filosofo del Discorso di metafisica, come va ribadito, è lo stesso che riflette sulle ragioni di una Mathesis universalis, primo e decisivo momento anteriore alla realizzazione di un’enciclopedia del sapere affidata nelle mani di dotti in grado di porsi al servizio del genere umano. In questo percorso confluiscono temi lulliani, suggestioni neoplatoniche (Bisterfeld), ideali pansofici (Comenio), ma anche la messa a punto di tecniche di riduzione alle definizioni e di calcolo integrato di concetti semplici verso la realizzazione di una logica inveniendi finalmente messa nelle condizioni di celebrare l’unità del genere umano, specchio vivente dell’unità dell’essere e dell’armonia dell’universo. Logica, matematica e metafisica, dunque, costituiscono un tutt’uno difficilmente districabile. Ed un interprete del suo pensiero non può non tenerne conto.
Chiariti questi passaggi, si deve, comunque, convenire con Ivaldo nell’intendere Leibniz una “polarità feconda” (p. 356) nell’architettonica del sistema fichtiano; cosí come si lascia appieno apprezzare l’acribica attenzione rivolta dall’Autore ai percorsi della ricezione leibniziana da parte di Fichte. Si è, in tal modo, ottenuto un nuovo capitolo della presenza del pensiero di Leibniz nel Settecento ed uno spaccato della cultura tedesca da cui presero spunto i principali protagonisti dell’idealismo ottocentesco. Come ha provveduto a fare Ivaldo rispetto a Fichte, infatti, si potrebbe operare nel segno del medesimo schema in relazione a Schelling ed a Hegel, in ordine al pensiero dei quali la filosofia di Leibniz svolge un ruolo di primissimo rilievo. I tre “eroi” dell’idealismo, infatti, meditando sulle posizioni kantiane e rintracciandone i fondamenti, trassero spunti fecondi dal simbolico contrasto Leibniz-Spinoza e, soprattutto, dall’impianto del sistema leibniziano degli elementi semplici. Leibniz costituì, perciò, un modello, per quanto aggiogato al punto di vista idealistico. Rimangono, comunque, vive le potenzialità di un pensiero, quello di Leibniz, capace di stimolare dal profondo i cultori romantici dell’assoluto, ed un altro, quello di Fichte, in grado di offrire una chiave di volta ai problemi dell’essere e del vero attraverso la messa a punto – con Kant ed oltre Kant – dei principî trascendentali dell’Io.

NOTE

(*) A proposito di M. Ivaldo, Fichte e Leibniz. La comprensione trascendentale della monadologia, Milano 2000, pp. 361. Le citazioni tratte da questo libro sono indicate, nel corpo del testo, in parentesi tonde.
(1) I. Kant, Critica della ragione pura, a c. di G. Colli, Milano 1995, p. 339.
(2) Ivi, p. 341.
(3) Cfr. ivi, pp. 342-3.
(4) K. Huber, Leibniz. Der philosoph der universalen Harmonie, hrsg. von I. Köck mit C. Huber, München-Zürich 1989, p. 333. La prima edizione di quest’opera, pubblicata a Monaco, è del 1951.
(5) Su questi stessi temi, M. Ivaldo è ritornato, di recente, nel saggio dal titolo Leibniz nella dottrina della scienza. Armonia prestabilita e intersoggettività, in “Rivista di storia della filosofia”, LVII (2002), pp. 399-411.
(6) Cfr. Recueil de diverses pièces, sur la philosophie, la religion naturelle, l’histoire, les mathematiques, etc. par Mrs. Leibniz, Clarke, Newton, et autres auteurs célèbres, par P. de Maizenau, voll. 2, Amsterdam 17402.
(7) Cfr. G.G. Leibnizii Opera omnia, nunc primum collecta, in classes distribuita, praefationibus et indicibus exhornata, studio Ludovici Dutens, voll. 6, Genevae 1768.
(8) Cfr. Œuvres philosophiques latines et françaises du feu Mr. de Leibniz tirées de ses manucrits qui se conservent dans la Biblioteque Royale à Hanovre, et publiées par Rud. Eric Raspe. Avec une Préface de [Abraham Gotthelf] Kaestner, Amsterdam-Leipzig 1765.
(9) Cfr. S. Maimon, Über die Progresse der Philosophie veranlabt durch die Preisfrage der königl. Akademie zu Berlin für das Jahr 1792. Was hat die Metaphysik seit Leibniz und Wolf für Progressen gemacht?, in Streitferein im Gebiete der Philosophie, Berlin 1793.
(10) Cfr. F.H. Jacobi, Über die Lehre des Spinoza in Briefen an Herrn Moses Mendelssohn, Breslau 1785.
(11) Cfr. F.W.J. Schelling, Einleitung zu: Ideen zu einer Philosophie der Natur, Jena und Leipzig 1799.
(12) J.G. Fichte, Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, hrsg. von R. Lauth, H. Jacob, H. Gliwitzky, E. Fuchs, Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 ss., Bd. I 4, p. 265.
(13) Cfr. I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 797.
(14) Com’è noto, tale metodo è teorizzato da J.G. Fichte in Über Geist und Buchstab in der Philosophie. In einer Reihe von Briefen, in Gesamtausgabe…., cit., Bd., I 6, pp. 313-61.
(15) J.G. Fichte, Vorlesungen über Logik und Metaphysik als populäre Einleitung in die gesammte Philosophie. Nach Plattners philosoph.[ischen] Aforismen 1 ter Theil 1793. Im Sommerh[alb]j[ahre] 1797, in Gesamtausgabe…, cit., Bd. II 4, p. 212.
(16) J.G. Fichte, Vorlesung über Logik und Metaphysik, in Gesamtausgabe…, cit., Bd. IV 1, p. 372.
(17) Cfr. J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe…, cit., Bd. I 2, pp. 129-33.
(18) Cfr. ivi, pp. 133-7.
(19) G.W. Leibniz, Principî di filosofia o Monadologia, in Scritti filosofici, voll. 3, a c. di M. Mugnai e E. Pasini, Torino 2000, v. III, p. 461.
(20) Cfr. R. Lauth, Vernünftige Durchdringung der Wirklichkeit. Fichte und sein Umkreis, München-Neuried 1994, p. 17.
(21) Cfr. G.W. Leibniz, Principî della natura e della grazia, fondati nella ragione, in Scritti filosofici, cit., v. III, p. 444.
(22) Ci si riferisce al celebre passaggio dei Nuovi Saggi sull’intelletto umano (in Scritti filosofici, cit., v. II, p. 86) in cui G.W. Leibniz scrive: “Nulla è nell’anima che non venga dai sensi. Ma bisogna fare eccezione per l’anima stessa e le sue affezioni (Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu, excipe: nisi intellectus ipse)”.
(23) Cfr. J.G. Fichte, Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe…, cit., Bd. I 4, p. 276.
(24) Cfr. J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe…, cit., Bd. I 2, p. 272.
(25) Cfr. ivi, pp. 369-70.
(26) Cfr. G.W. Leibniz, Principî della natura e della grazia, cit., pp. 344-5.
(27) Cfr. ivi, pp. 345-6.
(28) Cfr. G.W. Leibniz, Nuovi Saggi…, cit., pp. 21-43.
(29) Cfr. G.W. Leibniz, Principî della natura e della grazia, cit., pp. 345-6; Principî di filosofia o Monadologia, cit, pp. 355-6.
(30) Cfr. J.G. Fichte, Vorlesung über Logik und Metaphysik, cit., p. 237.
(31) G.W. Leibniz, Principî di filosofia o Monadologia, cit., p. 463.
(32) R. Lauth, Leibniz…, cit., p. 422.
(33) Cfr. J.G. Fichte, Darstellung der Wissenschaftslehre (1801/02), in Gesamtausgabe…, cit., Bd., II, 6, pp. 195-6.
(34) Cfr. G.W. Leibniz, Principî di filosofia o Monadologia, cit., p. 462.
(35) Cfr. J.G. Fichte, Darstellung der Wissenschaftslehre (1801/02), cit., pp. 267 ss.
(36) Cfr. ivi, pp. 273 ss.
(37) Cfr. ivi, p. 279.
(38) Cfr. ivi, pp. 291 ss.
(39) Si pensi, soprattutto, ai due corifei della Leibniz-Renaissance novecentesca: B. Russell (A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, Cambridge 1900) e L. Couturat (La logique de Leibniz d’après des documents inédits, Paris 1901).
(40) Cfr. G.W. Leibniz, Sämtliche Schriften und Briefe, Berlin 1923 ss. Tale edizione ancora in corso di tutti gli scritti di Leibniz, patrocinata dapprima dalla Deutsche Akademie der Wissenschaften e poi sostenuta da vari centri di ricerca tedeschi, annovera finora una trentina volumi nel suo catalogo.
(41) R. Lauth, Leibniz…, cit., p. 17.