I. L’ambiente familiare
La grande novità del primo dopoguerra è il sorgere del Partito Popolare Italiano(1), aconfessionale e interclassista, caratterizzato per l’impegno civile sui problemi della società e per la sua autonomia dall’Azione Cattolica.
Il movimento cattolico nisseno, tra l’impegno nella costituzione del partito di ispirazione cristiana ma “aconfessionale” di Luigi Sturzo e il “clerico-moderatismo”(2) di mons. Antonio Augusto Intreccialagli, aveva optato per il primo poiché la prassi clerico moderata “appariva […] troppo angusta […] inadeguata a incanalare la struttura organizzativa e la forza elettorale dei cattolici”(3). Per Intreccialagli l’intervento della Chiesa doveva essere solo quello della preghiera e dell’assistenza caritativa e il movimento politico cattolico doveva limitarsi a “costituire una sorta di efficace deterrente” contro l’affermazione elettorale di candidati ostili alla Chiesa. Dopo la fondazione del Partito Popolare egli, comunque, si era mostrato favorevole all’iniziativa sturziana tanto da fare stampare un bollettino e chiedendo al clero di “sostenere elettoralmente” i candidati popolari(4).
E’ in questi anni che Arcangelo Cammarata (1901-1977)(5) comincia a muovere i primi passi nel campo dell’organizzazione politica di San Cataldo dimostrando di essere più uomo di azione – che di pensiero e di studio – come ha osservato acutamente Cataldo Naro; anni in cui egli si trova a sperimentare le sue azioni politiche in una società – come quella nissena – nella quale i democratico-cristiani avevano cercato di vivere la drammatica esperienza della guerra come “un prossimo rinnovamento sociale”(6). Il loro attivismo era stato rivolto ora al paese reale dei ceti popolari, ora al paese legale della classe dirigente liberale(7). La costituzione del partito popolare permetteva di uscire dalla classificazione di cittadini di secondo ordine e di acquisire, finalmente, lo status di cives pleni juris(8).
L’attivismo del giovane Cammarata fu certamente stimolato dall’ambiente familiare e dagli amici; dalla vicinanza, cioè, di importanti figure della storia del movimento cattolico nisseno dei primi anni del XX sec. e, primo fra tutti, lo zio, monsignor Calogero Cammarata (1862-1930)(9), fondatore nel 1895, insieme a mons. Alberto Vassallo(10) e a don Calogero Carletta, della prima cassa rurale della diocesi nissena.
Per San Cataldo, la fondazione e attività della cassa rurale, rappresentò “una “moderna” mobilitazione di fragili ceti contadini e artigiani, […] una reale emancipazione civile”(11) divenendo vera “palestra” di democrazia(12).
La famiglia Cammarata rappresentava l’élite del mondo contadino sancataldese; essi erano i burgisi, gabelloti, mediatori tra i proprietari delle terre e i contadini che vi lavoravano(13) e per tale collocazione essi erano in continuo antagonismo con la borghesia benestante, con i cosiddetti borghesi-galantuomini.
Il messaggio leoniano richiedeva un’azione religiosa, sociale e politica della Chiesa nella società; un buon prete doveva “contrastare l’irreligione liberale e socialista per salvaguardare la fede del popolo”(14). Ed è probabile che il canonico Cammarata, conoscendo bene quelle “doti” di arroganza che spesso qualificavano i gabelloti – verso i quali lo stesso Luigi Sturzo non fu mai docile nei giudizi(15)- avesse risposto al pontefice prendendo le distanze da quel mondo di soprusi e ponendosi a capo di iniziative sociali e politiche a favore di una redenzione delle classi inferiori. Tali azioni non venivano viste come “una secolarizzazione del […] ministero sacerdotale” ma come “espressione di zelo sacerdotale, un’estensione al campo politico e sociale dell’apostolato propriamente sacerdotale”(16). Un impegno che, oltre ad essere espressione della situazione contingente, ebbe le sue radici dottrinali nella filosofia tomistica ripresa da Leone XIII, in particolare, nell’enciclica Aeterni Patris (1879).
L’intento dei “preti sociali” fu quello di essere vicini “al loro gregge, di liberarlo dall’avvilente dipendenza dagli usurai, di avviarlo alla partecipazione sociale e alla redenzione economica con l’istituzione di casse rurali a responsabilità illimitata”(17).
Il clero, negli anni immediatamente successivi alla fondazione del Partito Popolare, occupa la posizione di guida ma, in seguito, si limiterà a una funzione di semplice sostegno: ben presto “venne formandosi – scrive Naro – […] un personale dirigente laico, spesso giovanissimo di età […] che rappresentò una delle più preziose eredità del popolarismo”(18). A questa cultura e a questo ambiente, appartiene il giovane Cammarata che dal popolarismo sturziano aveva appreso il modello di cattolicesimo militante che aveva trovato la spinta ad agire con l’enciclica Rerum Novarum(19) che in Sicilia contribuì a dare l’avvio al movimento cattolico. E al medesimo ambiente nisseno appartengono i più noti Salvatore Aldisio – “bandiera del popolarismo nisseno” eletto nel 1921 deputato al Parlamento – Giuseppe Alessi, primo Presidente della Regione Siciliana e Francesco Pignatone, protagonista di rilievo della Democrazia cristiana.
L’ambiente sancataldese fu caratterizzato dal profondo intreccio tra azione rivendicativa sindacale e cooperative di lavoro o affittanze collettive(20) spesso classificate con lo stesso termine di “casse rurali”(21). Esse avevano sostenuto la “formazione della piccola proprietà contadina sia direttamente, acquistando le terre da suddividere in piccole quote ai propri soci sia, indirettamente, erogando il credito alle cooperative contadine che acquistavano, in nome proprio e con propria responsabilità, le terre da distribuire ai propri soci”(22). L’abbandono, per disposizioni della Santa Sede, delle opere economico-sociali cattoliche da parte del clero, avvenne con ritardo nella diocesi di Caltanissetta; l’importanza della loro presenza era stato un punto fermo nel pensiero di Arcangelo Cammarata poiché, a suo avviso, la loro mancanza avrebbe privato le casse “della fiducia dei depositanti e del personale direttivo che, in assenza di laici preparati, era fornito dal solo clero”(23).
Il 3 dicembre del 1935, Cammarata, presidente diocesano dell’Azione Cattolica(24) e, soprattutto, in qualità presidente dell’Ente fascista di zona delle casse rurali, inviò un esposto alla Santa Sede per chiedere che ci fosse almeno un sacerdote in dieci casse rurali della diocesi(25). Il ritiro dei sacerdoti dalla casse rurali(26), oltre a scuotere la fiducia dei cittadini che sarebbero corsi agli sportelli a ritirare i loro depositi, avrebbe portato alla perdita dei locali acquistati con sacrifici e che, in molti luoghi, servivano anche all’Azione Cattolica. Il Testo Unico del 1936 sanzionò la perdita del carattere confessionale delle opere economico-sociali; l’aggettivo “cattolico” doveva scomparire ma a San Cataldo le casse non rinunziarono ad adottare, oltre alla denominazione obbligatoria, nomi che richiamassero esplicitamente l’ispirazione cattolica: la cassa Agraria Cattolica diventò “Cassa Giuseppe Toniolo” e la Cassa Operaia Cattolica assunse il nome di “Cassa Don Bosco”.
La consapevolezza degli effetti che avrebbe prodotto la laicizzazione delle casse rurali, fece sì che nella provincia di Caltanissetta la loro guida fosse assunta da laici affidabili per l’appartenenza a funzioni direttive dell’Azione Cattolica, al legame familiare o di amicizia con il clero che lasciava la guida, a una passata militanza nel movimento cattolico(27). Tutti questi requisiti erano presenti in Arcangelo Cammarata, promotore più del modello leoniano che non del sentimento di ricristianizzazione, ideale tipico dell’Azione Cattolica. Spesso l’allontanamento del clero dalle casse rurali coincise con una serie di indiscriminate gestioni commissariali poiché esse erano considerate vere e proprie roccaforti del partito popolare. Ben presto, però, si escogitò un modo per rinsaldare il rapporti tra casse rurali e Pnf ed evitare i pericoli di epurazioni: assegnare contributi al Pnf, finanziando attività ricreative e formative. Arcangelo Cammarata, che aveva sostituito lo zio Luigi alla presidenza della Cassa rurale, nel 1937 stabilì che fossero assegnati £ 7.500 per la Federazione Fasci di Caltanissetta; £ 4.000 all’Unione Provinciale Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura; £. 5.000 per l’istituzione di sette premi di incoraggiamento al matrimonio(28).
II. L’impegno nell’Azione Cattolica
A San Cataldo, il presidente del Circolo di Gioventù Cattolica, Luigi Di Forti, non condivideva gli interessi politici del giovane Cammarata e, ancora di più, criticava che questi trovasse l’appoggio e la “protezione” dello zio monsignore Calogero Cammarata.
E’ ciò che emerge, ad esempio, da una lettera rinvenuta nella corrispondenza(29) di Giuseppe Pipitone (1890-1930), presidente della Federazione Diocesana della Gioventù Cattolica di Palermo, sulla situazione dei circoli siciliani di Gioventù Cattolica.
Nella cittadina natia non era ben visto il duplice impegno di Arcangelo Cammarata nell’Azione Cattolica e nel Partito Popolare; ma la convivenza tra politica e azionariato cattolico ci conferma come il partito sturziano- all’inizio della sua costituzione – avesse reclutato i suoi militanti soprattutto tra i soci delle organizzazioni cattoliche.
Nel febbraio del 1923 Arcangelo Cammarata si insediò alla presidenza del Circolo Universitario Cattolico “Emerico Amari” di Palermo(30). E grazie alla FUCI conobbe mons. Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI, con il quale, nel 1927, fu tra i primi sottoscrittori della Editrice Studium(31).
Dal 1° al 4 settembre 1924, per la prima volta da quando gli universitari cattolici si erano riuniti in organizzazione nazionale autonoma, fu tenuto a Palermo un congresso. L’organizzazione della “grande adunata fucina” fu affidata proprio al Circolo “Emerico Amari” presieduto da Cammarata. Il congresso nazionale dei giovani universitari, per Palermo e la Sicilia, rappresentava uno stimolo che doveva “muovere tutti […] i cattolici a dare il contributo della […] Fede, l’effusione dei sentimenti di ospitalità, […] per far sì che la Fuci [segnasse] ancora un trionfo ascensionale”(32). Per questo egli auspicava che in ogni parrocchia siciliana e in ogni angolo “ove la fiamma dell’ideale cattolico arde viva di entusiasmo”(33) si dovevano raccogliere tutti gli sforzi per agevolare l’opera del Comitato organizzativo del congresso. Ma egli amaramente constatava che “l’indifferentismo ambientale”(34) aveva tenuti lontani molti giovani dai circoli universitari e ad essi egli chiedeva di iniziare a partecipare e, prima ancora, chiedeva un’opera di propaganda da parte di Vescovi, parroci e dirigenti delle varie associazioni. Solo dall’azione solidale dei vecchi fucini e delle nuove reclute si sarebbe potuto auspicare un nuovo sviluppo del movimento cattolico universitario in Sicilia.
Con alcuni articoli pubblicati su “Primavera Siciliana”(35), Cammarata ricordava come la scienza non poteva disinteressarsi della fede e che la FUCI doveva documentare il contributo del pensiero cattolico “nelle branche diverse del sapere”(36).
Il presidente del circolo “E. Amari” non mancò di apprezzare pubblicamente l’attività dell’Università Cattolica del Sacro Cuore la quale, in quanto “libera”, poteva assicurare un’educazione autenticamente cattolica che “aborra, nello svolgimento della sua attività” quell’inceppamento burocratico che, al contrario, aveva pervaso l’Università italiana(37). Egli a tale proposito, precisava che l’idea cattolica non ostacolava per nulla lo sviluppo della scienza “che non può nella sua divulgazione restringersi nel monopolio di nessuna credenza, valersi di alcun particolaristico ordinamento scolastico”(38), ma anzi doveva ricercare la sua base nel principio di libertà. Per accrescere sempre di più l’attività dell’Università del Sacro Cuore egli propose la raccolta annuale, in ogni Circolo, di dieci lire, da indirizzare alla Presidenza Generale e questa, poi, a Milano.
I rapporti con la dirigenza dell’Azione Cattolica Siciliana non furono privi di battibecchi e polemiche. Una serie di articoli “botta e risposta” tra il Presidente del Consiglio Regionale Siculo della Società di Gioventù Cattolica, Andrea Butera, e il giovane Cammarata, dalle colonne di “Primavera Siciliana” sono quanto mai eloquenti.
Butera criticava il presidente del circolo “E. Amari” per avere lanciato appelli ai giovani cattolici incitandoli a una loro azione dalle pagine del settimanale giovanile cattolico di Pisa “Vita Giovanile”. Egli desiderava che “l’attività culturale, intellettuale, organizzativa” dei giovani isolani fosse spesa esclusivamente a favore della stessa Sicilia; collaborare per un settimanale extraregionale, era un “delitto”; significava sprecare energie fuori mentre queste avrebbero dovuto essere concentrate tutte in “Primavera Siciliana”(39).
L’invito di Cammarata ai giovani siciliani non era stato accolto e recepito. E con delusione egli scriveva che nell’Isola mancava ancora “quello spirito di sacrificio che deve animare i nostri giovani nell’adempimento dei doveri organizzativi imposti dalla disciplina morale e materiale della nostra società”(40).
In una lettera a Luigi Sturzo in esilio, Cammarata ribadiva il suo duplice impegno nel Partito Popolare e nell’azionariato cattolico: “La fedeltà mia – egli scrive – all’idealità propugnata dal P.P.I. non può smentirsi, anzi si irrobustisce, perché gli anni che passano mi fanno sempre più e meglio persuaso della necessità storica del nostro movimento politico per incanalare nel campo della vita pubblica tutte quelle aspirazioni, volute nel nostro campo dall’azione cattolica. Mantengo costante la mia attività nell’azione cattolica, perché sono convinto che sarebbe un torto disinteressarsi dello sviluppo di questa branca, la quale in verità dovrebbe essere indirizzata a criteri direttivi di maggiore serietà e di più giusta intransigenza a ogni modo occorre rimanervi per vigilare e pur rimediare, quanto potrebbe essere deviato”(41).
La mancata diffusione del movimento cattolico giovanile siciliano era dovuta, a suo avviso, alla penuria di mezzi finanziari e la colpa di tale carenza era da attribuire alla Presidenza Regionale della Società di Gioventù Cattolica che era stata incapace di trovare sufficienti mezzi.
Cammarata indicava la soluzione: in Sicilia vi era una fitta rete di Casse rurali(42) in buone condizioni economiche e, inoltre, sarebbe stato facile “invogliare qualche ricco cattolico dei […] paesi siciliani a fare un sacrificio e dare un aiuto per lo sviluppo del movimento cattolico” e, ancora, si poteva – con circolare del Presidente Butera e dietro autorizzazioni dei vescovi – organizzare una vendita di biglietti della lotteria.
A tali espliciti attacchi alla dirigenza della Gioventù Cattolica siciliana non mancò di rispondere il suo presidente che, con tono ironico, dichiarò che la “lunghetta epistola” del giovane Cammarata esigeva un “rigo” che si sintetizzava nella richiesta di porre fine alle “molte chiacchere, polemiche e colonne di roba più o meno utile”(43) dando realizzazione ai fatti concreti.
Arcangelo Cammarata era stato incaricato di dirigere l’ufficio di redazione siciliana di “Vita Giovanile”, settimanale che a suo avviso, più di altri, era capace di contribuire al “risveglio di tante energie sopite” grazie al fatto di rappresentare “più direttamente e quasi specificamente” l’indirizzo del movimento avanguardista cattolico giovanile. Con tale espressione egli definisce quell’azione cattolica “che spinge i suoi gregari ad essere primi nella professione aperta e sentita dei principi cristiani e che incoraggia i soci della gioventù cattolica a non transigere con la difesa di quei diritti ormai acquisiti dalle associazioni cattoliche per svolgere intero il loro programma di bene nel campo religioso, culturale e sociale”(44). Tale movimento di “puro” avanguardismo – che Cammarata dichiara essere “tollerato dai dirigenti di azione cattolica” – poteva incitare “all’entusiasmo tanti dormienti” siciliani.
Butera ritenne opportuno allegare alla lettera di Cammarata, pubblicata su “Primavera Siciliana”, alcune sue precisazioni. Egli apprezzava “moltissimo” il settimanale “Vita Giovanile” e sottolineava che il movimento avanguardistico non era “tollerato” ma pienamente riconosciuto.
IV. Il giornalista cattolico
Il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 diede una svolta alla costruzione del regime; furono enunciate una serie di decreti, “le leggi fascistissime” che, tra l’altro, soppressero la libertà di stampa e di attività politica. Tale legislazione sulla stampa spingeva i cattolici a fissare i punti della loro attività pur restando al di sopra e al di fuori di qualsiasi influenza politica.
In occasione della pubblicazione del testo di norme in materia di stampa cattolica, diramato dalla Giunta Centrale dell’Azione Cattolica Italiana, Cammarata scrisse due articoli su “Primavera siciliana”.
Il testo sottolineava che tutti gli scrittori e redattori cattolici dovevano essere mossi da vero spirito di apostolato; da una vasta cultura religiosa e sociale provvedendo che nessuno di essi fosse vincolato alle azioni di partiti politici “pur rimanendo liberi di esercitare, secondo coscienza, i diritti che, come cittadini, loro competono per il maggior bene della Religione e della società”(45). Tale normativa, secondo Cammarata, andava messa in stretta relazione con l’indirizzo da imprimere ad un giornale cattolico, soprattutto sul modo di trattare le questioni politiche e sociali. Su un punto, però, egli riteneva necessaria una sua precisazione e cioè sul divieto, per il giornalista cattolico, di essere vincolato ai partiti politici. Ogni cattolico, a suo avviso, in quanto facente parte di un organismo federale dipendente dall’Azione Cattolica non poteva, né doveva, occuparsi di politica pur non trascurando di trattare i problemi che dipendono dalla politica. Ma questo non significava che si voleva impedire al giornalista cattolico di occuparsi – in quanto facente parte della società – di problemi che hanno un profondo nesso con la politica. Le norme del testo, infatti, chiarivano di lasciare “liberi (gli scrittori e i redattori)” di esercitare secondo coscienza i diritti che, come cittadini loro competono. Il cattolico, secondo Cammarata, agendo nella società civile aveva il dovere di influire sulle istituzioni pubbliche “per improntarle dell’idea religiosa”(46). Era compito del cattolico, in quanto cittadino, mettere in pratica gli insegnamenti che aveva ricevuto dalle associazioni cattoliche.
Egli precisava che tenendo contemporaneamente presenti le norme emanate dalla Giunta Centrale dell’Azione Cattolica sulla stampa e i propositi dell’associazione degli scrittori cattolici “San Francesco di Sales”, l’azione dei cattolici avrebbe assunto una maggiore considerazione. L’associazione di “San Francesco di Sales”, con sede a Roma, si proponeva di promuovere tra i soci i sentimenti di pietà religiosa e di devozione alla Chiesa e al pontefice; di rendere efficace “l’apostolato comune della stampa”; incoraggiare e guidare i giovani scrittori; in una parola di diffondere la stampa cattolica. Cammarata valutava positivamente la presenza, all’interno dell’associazione degli scrittori cattolici, di un assistente ecclesiastico che avrebbe rappresentato l’autorità ecclesiastica garantendo lo spirito cattolico dello stesso giornale.
Nei suoi articoli su “Primavera siciliana” Cammarata correda le norme dell’Azione Cattolica in materia di stampa con brevi osservazioni. Egli era consapevole che un giornale cattolico potesse perseguire particolari intenti politici ed economici purché tali interessi non fossero in contrasto con la dottrina e la disciplina della Chiesa e purché il giornale, d’intesa con l’autorità ecclesiastica, avesse come scopo “l’apostolato sociale e cristiano a servizio della Chiesa e in aiuto della Azione Cattolica per il raggiungimento del suo altissimo fine che è la restaurazione cristiana della società”(47). Per lo spirito il giornale non doveva mai perdere di vista il suo fine, cioè, contribuire con l’Azione Cattolica a diffondere e applicare i principi della dottrina e della morale cattolica e, se necessario, a mettersi contro gli stati d’animo prevalenti pur di perseguire le direttive dell’autorità ecclesiastica. Il giornale cattolico doveva, in ogni sua parte, “anteporre gli interessi di Dio e della Chiesa ad ogni altro interesse di partito o di persona”(48).
Il fatto che un giornale cattolico non dovesse legarsi ad alcun partito non significava che esso dovesse disinteressarsi dei problemi e degli avvenimenti politici; al giornale si chiedeva di essere organo di informazione imparziale e non espressione di tendenze politiche. La redazione cattolica doveva essere libera di esaminare e di criticare gli avvenimenti politici considerandoli nel loro valore intrinseco e in rapporto agli interessi della Chiesa. Non era compito del giornalista cattolico fare polemica politica o lasciarsi andare a competizioni e passionalità politiche.
Per l’azione sociale, invece, il giornale cattolico doveva diffondere il pensiero sociale cattolico: “segua le norme segnate dell’Azione Cattolica anche nella loro applicazione agli avvenimenti sociali e ne diffonda la conoscenza opportunamente indirizzando i cattolici alla loro attuazione”(49). Le norme emanate dalla Giunta Centrale, osservava Cammarata, rivestivano carattere di obbligatorietà per tutti gli scritti all’Azione Cattolica e ciò significava che erano aumentate le responsabilità soprattutto di coloro che dovevano guidare il giornalismo cattolico ai quali venivano richieste qualità di disciplina “al volere della superiore autorità” difendendo le organizzazioni cattoliche da invadenze e violenze. Cammarata si rivolgeva soprattutto ai giovani pubblicisti che, a suo avviso, sarebbero stati i primi a mettere in pratica le norme emanate, uniformando i loro giornali allo spirito di quelle stesse norme.
V. Sui rapporti Chiesa-Stato
Arcangelo Cammarata non mancò di riflettere sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa quando, ancora, dovevano trovare la soluzione negli accordi del 1929. Più volte, anche se ormai erano passati molti anni dal 1870, a causa della loro obbedienza al pontefice, i cattolici erano stati accusati di essere “nemici della Patria”(50). E proprio in seguito alla soluzione della “questione romana”, ricorda il giovane studente di legge, i cattolici “offesi e sconcertati di quanto vedevano e sentivano” si erano ritirati dal prendere parte attiva alla vita politica del paese.
Quei “nemici della Patria”, polemizza l’autore, si misero in disparte e assistettero con dolore a tutto ciò che avveniva in Italia. La politica liberale e laica, “rese schiave le istituzioni al regime economico socialista instaurando il socialismo di Stato” e fece in modo di oscurare i valori morali e spirituali.
I cattolici “che sentivano forte l’amore della patria” cominciarono ad organizzarsi sperando che in un prossimo futuro potessero ritornare nell’agone politico e mettere “a disposizione della loro terra tutta la loro attività di cristiani”(51).
Con lo scoppio della guerra mondiale i giovani cattolici, che non avevano voluto l’intervento italiano, ugualmente corsero “nei campi di battaglia a versare il loro sangue per la grandezza della Patria”. I cattolici in guerra, commenta Cammarata, fecero il loro dovere e ciò veniva dimostrato dalla statistica dei morti della Società della Gioventù Cattolica Italiana che attestava il generoso tributo dei giovani cattolici. Fu questa fedele partecipazione alla causa del paese che, secondo Cammarata, cominciò a determinare un mutamento di giudizio. E “appena si cominciavano a dimenticare i primi effetti della guerra micidiale i cattolici si univano e sorgeva sotto buoni auspici il P.P.I.”(52) .
La partecipazione dei cattolici alla vita politica attiva, alla ricostruzione dell’Italia, avvenne attraverso il programma dei popolari che aveva le sue radici nel programma sociale cristiano della Rerum Novarum, “l’immortale” enciclica di Leone XIII, il “papa degli operai”(53). L’aconfessionalità del Partito Popolare non contrastava con il riconoscimento della libertà della Chiesa. Anzi, egli osserva come l’attaccamento al papa e la dedizione alla Patria fossero due sentimenti perfettamente conciliabili.
Il giovane Cammarata, già nel 1922, pensava che l’invito rivolto dal cardinale Gasparri facesse sperare in una imminente risoluzione dei rapporti Stato e Chiesa. Il cardinale aveva detto che “la Santa Sede non reclama[va] da altri la sistemazione dei suoi rapporti con lo Stato italiano se non dal senno e dal cuore del popolo italiano”(54). Con tale auspicio Cammarata si rivolgeva a tutti i giovani cattolici siciliani i quali – avendo ereditato “una tradizione gloriosa […] cristiana ed italiana”, avevano con affetto assistito alla “glorificazione” del milite ignoto, avevano gridato “Viva il papa”, avevano cantato l’inno di Mameli – dovevano affermare “dinanzi a tutti che con coscienza di veri e ardenti patrioti […] non c’è contraddizione alcuna quando ci chiamiamo cattolici e patrioti”(55).
Tutti i giovani – egli amava dire – rappresentavano una forza imponente e, per questo, essi avevano diritto “ad una cittadinanza italiana nell’espressione della […] fede di cattolici, devoti al Papa e all’Italia”(56).
La coscienza dei cittadini cattolici non poteva essere considerata distinta da quella di credenti(57). Il dissidio tra Stato e Chiesa era un “anacronismo storico”(58) che non aveva più alcuna ragione di esistere e per questo egli incitava i giovani cattolici a pregare per una immediata pacificazione.
Cammarata precisava il suo essere al tempo stesso “cattolico” e “cittadino italiano”. L’amore dei cattolici verso la Chiesa e il pontefice non poteva essere disgiunto da quello per la Patria e per le istituzioni. Ogni cattolico, giornalmente, egli sottolineava, offre il proprio contributo alla società in qualunque campo e, pertanto, anche in quello politico. Era convinto che la libertà di partecipar alla cosa pubblica fosse frutto del volere del pontefice che aveva concesso tale autorizzazione sicuro che i cattolici avrebbero esercitato la politica come “una forma di doverosa carità sociale”(59). Ma tale partecipazione non doveva fare dimenticare che la Chiesa aveva dei diritti insopprimibili per l’esercizio della sua missione terrena. E se il dissidio tra l’essere cattolici e l’essere cittadini era stato risolto sui campi di battaglia “quando schiere di cattolici compirono intero il loro dovere di italiani, consacrati all’amore della grandezza della Patria”(60), ciò non significava che quei cattolici avessero diminuito il loro attaccamento al pontefice e, soprattutto tra i giovani, tale attaccamento era vissuto in maniera ancora più entusiastica. L’Italia del dopo guerra, secondo Cammarata, aveva rinnegato i fatti del 1870 documentando una nuova realtà di pacificazione religiosa e patriottica con episodi che facevano intravedere la concordia. Già nel 1924 egli chiedeva al popolo italiano di non perdere tempo e dare inizio alla pacificazione tra Stato e Chiesa; lo Stato avrebbe trovato nella Chiesa “un solido strumento di collaborazione per la sua reale ricostruzione e per il suo avvenire migliore”(61).
VI. Proposta per la riforma scolastica
Il 1923 fu l’anno della riforma di Giovanni Gentile (1875-1944), il quale, nominato Ministro dell’Educazione Nazionale, si preoccupò di creare una scuola laica. La sua riforma, preparata dai progetti di Anile e di Croce, abolì la sesta classe – prevista dalla legge Orlando del 1904 – istituendo le classi integrative di avviamento al lavoro per dare, a chi non frequentava la scuola secondaria, una preparazione più completa(62).
La riforma prevedeva l’istituzione di asili; scuola elementare con programmi indicativi che lasciavano libertà didattica all’insegnante; obbligo scolastico fino al 14° anno; scuola complementare triennale con licenza finale; creazione dell’istituto magistrale; preminenza del ginnasio-liceo considerato la “scuola liberale e umanistica per eccellenza”.(63)
Arcangelo Cammarata, in perfetta sintonia con l’articolo II del Programma del Partito Popolare(64), sottolineò l’importanza dell’istruzione professionale(65). Egli riteneva che la riforma Gentile avrebbe assicurato per il futuro la formazione di una classe colta di liberi professionisti ma era necessario colmare la “grave lacuna” sul problema del lavoro. Egli denunciava in Italia la mancanza di un “sistema organico e ben coordinato di insegnamento professionale” che tenesse conto delle esigenze dei lavoratori i quali, uscendo dalle scuole “popolari”, desideravano acquistare nozioni tecniche e razionali. Il governo, a suo parere, non si era posto questo problema. Era necessario che i giovani potessero acquisire le conoscenze dei nuovi mezzi tecnici “che l’invenzione del genio ha messo a disposizione della classe lavoratrice per ridurre le necessità e le asprezze del lavoro manuale e per far aumentare la produzione nazionale”(66).
Il Congresso nazionale del P.P.I. di Torino si era preoccupato dell’argomento votando un ordine del giorno dell’on. Bosco Lucarelli che, su tale aspetto, aveva presentato alla Camera dei Deputati un progetto di legge “per la riforma e l’incremento di scuole professionali”. Cammarata riteneva fondamentale che i giovani che non disponevano di sufficienti mezzi finanziari per intraprendere gli studi classici, potessero formarsi negli studi tecnici.
L’Italia non aveva solo bisogno di una classe colta di liberi professionisti ma di una classe lavoratrice che spingesse “le [sue] intelligenze alla comprensione dei grandi vantaggi, che lo sviluppo della cultura e della scienza preparano”(67). Egli credeva che la scuola professionale avrebbe formato una classe di lavoratori che “specializzandosi nello studio di mestiere, che riguardano il lavoro” avrebbe contribuito allo sviluppo della stessa produzione concorrendo con la classe dei liberi professionisti.
La società aveva, in definitiva, maggiore bisogno di tecnici “necessari all’avvenire dell’industria” e, quindi, di provvedimenti che “purgassero” la scuola di quegli elementi superflui tendenti ad aumentare la “già abbondante” classe di liberi professionisti alla quale egli stesso, l’anno seguente, con la laurea in Legge, sarebbe appartenuto.
VII. La battaglia popolare a San Cataldo
Il P.P.I. appena sorto, si trovò immediatamente a combattere la sua battaglia elettorale con il sistema proporzionale e lo scrutinio di lista. Nel nisseno esso ebbe una buona affermazione.
Furono subito evidenti le divergenze tra popolari e i candidati del “blocco democratico” i cui membri erano accomunati dall’avversione al popolarismo sturziano – colpevole di insidiare il potere delle vecchie consorterie – e dalla appartenenza alla massoneria(68). Luigi Sturzo, per rispondere ad esigenze elettorali ma, soprattutto, per mancanza di personale politico professionale nel nisseno, presentò alle politiche del 1919 una lista con quattro candidati su cinque legati agli ambienti democratici, scatenando, ancora di più, l’astio nel blocco democratico(69). Tra i candidati vi fu il giornalista nazionalista Ernesto Vassallo, la cui inclusione aveva suscitato il disappunto del giovane Cammarata al quale Sturzo aveva prontamente risposto motivando quell’inclusione per una reale adesione di Vassallo ai principi popolari oltre che per finalità elettorali(70). Ernesto Vassallo e Calogero Cascino, ex radicale e massone, furono eletti e riconfermati alle politiche del 1921.
Nel 1920 il P.P.I. riteneva che per ricostruire socialmente ed economicamente il Paese bisognava assicurare con la maggioranza democratica “quei contatti che rendessero possibile un governo” garantendo la libertà di lavoro e di organizzazione; era necessario ridare ordine, funzionalità, disciplina e solidarietà sociale; affrontare le riforme che potevano rendere meno aspra la crisi economica; elevare il credito e la fiducia nazionale all’estero; ammettere riforme nel campo dell’agricoltura e dell’industria; rendere libera la scuola; dare soluzione ai problemi del Mezzogiorno e delle isole(71).
L’organo provinciale nisseno del Partito Popolare Italiano, “Il Popolo”, – al quale Arcangelo Cammarata collaborò saltuariamente – registrava le adesioni al partito sturziano che, appena costituitosi, veniva più volte accusato di essere confessionale e asservito al Vaticano. La redazione in favore del Partito Popolare sottolineava la difesa dei suoi rappresentanti verso l’ordine e la loro avversione contro ogni manifestazione di violenza. In ciò stava, tra l’altro, la loro diversità dal partito socialista: questo fautore della dittatura del proletariato, quello “più pratico, seguendo l’ordine naturale delle cose”(72) desiderava, al contrario, la conservazione delle libertà politiche.
Nel settembre del 1920 si riunì a San Cataldo il Fascio Giovanile del P.P.I. alla presenza dell’onorevole Ernesto Vassallo, e del Presidente della Sezione. Già Cammarata ricopriva il ruolo di Segretario Politico(73) e sotto la sua “regia”(74) le elezioni amministrative del 1920 ebbero un sorprendente risultato: su 6200 iscritti solo 61 si erano recati alle urne, non per mancanza di coscienza civile, ma per protesta.
Le finanze del Comune versavano in condizioni disastrose; era necessaria una nuova amministrazione. Fu stabilito un accordo tra il Partito Popolare, il vecchio partito capeggiato dalla famiglia sancataldese Baglio – che da circa 30 anni teneva le redini del potere – e le Società cittadine. Al Partito Popolare era riservata una lista separata di minoranza, ma il sabato precedente le elezioni alcuni rappresentanti del partito di Baglio ruppero il patto apprestandosi alla lotta per la conquista del potere. Il fatto sollevò indignazione tra i cittadini i quali, senza ricorrere alla violenza, annunciarono l’astensione generale. A tale astensionismo presero parte gli stessi rappresentanti del partito democratico dei Baglio che si erano dissociati dai propri compagni di partito. A votazioni concluse seguì una manifestazione spontanea guidata dalla bandiera bianca con scudo crociato del P.P.I.. Coloro che, con quei pochissimi voti, erano stati eletti, ritennero opportuno dimettersi. “Il Popolo”, con orgoglio, dalle sue pagine, definiva quel giorno “una data storica; [che segnava] la caduta e la liquidazione definitiva, irrimediabile di cricche personalistiche che pareva ancora dovessero durare inquinando la […] vita amministrativa”(75). A tale pacifica lotta non mancò di contribuire, come già detto, il giovane Cammarata e il fascio giovanile popolare da lui guidato. Furono indette altre elezioni e il partito sconfitto fu quello capeggiato dal commendatore Cataldo Baglio che per tutta risposta organizzò la costituzione di un Circolo Democratico Indipendente che, a detta dei redattori de “Il Popolo”, non avrebbe avuto lunga vita. Il suo programma era decisamente anticlericale anche se alcune idee venivano copiate dal P.P.I tranne l’attenzione verso la famiglia, la libertà di insegnamento e della Chiesa(76).
Nella prima decade del mese di ottobre 1920 il Segretario politico del P.P.I. e la Sezione reduci di guerra organizzarono un comizio che fu tenuto dall’avvocato Ernesto Mellina, delegato regionale dell’Unione reduci di guerra, e dall’avvocato Angelo Amico, Segretario del P.P.I. di Caltanissetta. Mellina sottolineò la piena fiducia all’imminente approvazione del progetto di legge sul latifondo del ministro popolare Giuseppe Micheli. Tale progetto, secondo l’oratore, avrebbe accontentato anche i proprietari poiché essi avrebbero dovuto cedere le terre “non colle cooperative improvvisate e impotenti degli ex combattenti” ma con forti organizzazioni economiche di reduci appoggiate dalle Casse rurali cattoliche(77).
Amico, nel suo discorso, si soffermò, invece, sulla questione dell’occupazione violenta dei feudi “bollando a sangue l’antinazionalismo delle associazioni combattenti che si [erano] dichiarate pronte a passare al socialismo se non [fossero] state contentate nelle loro aspirazioni rivoluzionarie e irrealizzabili”(78). Il 29 novembre 1920 con una giunta popolare, fu eletto sindaco di San Cataldo Egidio Amico Roxas e Calogero Cammarata cominciò a svolgere la funzione di sindaco per le prolungate assenze di Amico Roxas. Carica che il canonico continuò a ricoprire fino al 1923 anche dopo l’elezione a sindaco di Nicolò Asaro, avvenuta il 19 settembre 1921(79).
Nell’aprile del 1921 l’arrivo dell’on. Ernesto Vassallo, deputato della precedente legislatura, fu accolto con grande entusiasmo nella cittadina nissena.
Vassallo riferì il lavoro del gruppo parlamentare popolare, la loro difficile e travagliata opera legislativa tesa a realizzare gli interessi nazionali(80). “Il Popolo” era certo che nelle imminenti elezioni politiche “ogni uomo di senno” avrebbe riconosciuto ai deputati popolari il merito di avere difeso le istituzioni nazionali approvando leggi che avrebbero affermato l’autorità dello Stato; i redattori erano convinti che a San Cataldo, la lista popolare avrebbe avuto una votazione plebiscitaria(81); gli oppositori, al contrario, ritenevano che il 15 maggio, data delle elezioni, si sarebbe assistito alla “morte” del P.P.I. Ma l’unanime voto dei sancataldesi a favore del partito e dell’on. Ernesto Vassallo testimoniò che i cittadini non erano “mandra di pecore”(82).
Nello stesso mese di aprile fu fondato nella provincia di Caltanissetta il primo fascio ma solo dopo la marcia su Roma, da fenomeno marginale, il fascismo cominciò a prendere il sopravvento(83): la federazione provinciale del Pnf si costitutì il 18 agosto 1922 con Segretario Damiano Lipani(84).
Ernesto Vassallo fu convinto assertore dell’opportunità che il Partito Popolare collaborasse con Mussolini criticando l’orientamento antifascista del Congresso del partito tenuto a Torino nel marzo 1923. Mussolini, da parte sua, aveva risposto a quell’atteggiamento licenziando i ministri e i sottosegretari popolari(85).
Vassallo uscì dal Partito Popolare e la delusione suscitata tra i giovani gli valse l’appellativo, suggerito dal suo cognome, di “vassallo di Mussolini”(86).
Il 29 agosto 1923 si tenne il IV Congresso dei Popolari della Provincia di Caltanissetta; ad esso parteciparono l’on. Aldisio, il segretario provinciale Filippo Inzalaco e l’on. Prof. Luigi La Rosa in qualità di rappresentante della Direzione del Partito. Il Congresso elesse un Comitato provinciale costituito da quattordici membri tra i quali compare il nome di Arcangelo Cammarata(87).
In occasione del quinto anniversario della fondazione del Partito popolare, la sezione sancataldese organizzò una cerimonia durante la quale Cammarata, vice-segretario provinciale, rivestì il ruolo di oratore ufficiale relazionando Sulla funzione del P.P.I. nell’attuale momento politico(88).
Tra le figure di popolari che maggiormente avevano colpito il giovane vice-segretario vi fu quella di Vincenzo Tangorra che egli volle ricordare ai lettori de “Il Popolo” nel primo numero del 1924. Una figura di italiano che, a suo avviso, poteva essere di esempio per i popolari in un periodo che cominciava a diventare critico. Cammarata ne ricordò le doti di studioso, di docente universitario succeduto alla cattedra di Giuseppe Toniolo. Nel 1922 Tangorra era stato designato Ministro della ricostruzione finanziaria dello Stato italiano ed era stato invitato da Mussolini a collaborare col suo governo(89). Cammarata sottolineò l’impegno di Tangorra come ministro, carica che egli visse come missione tanto da non lasciare l’incarico neppure quando si erano aggravate le sue condizioni di salute.
I giovani cattolici militanti nei diversi circoli siciliani potevano, inoltre, trarre grandi insegnamenti dallo studio delle opere di Alessandro Manzoni definito dal giovane Cammarata “fiaccola, apostolo, simbolo” di letterato che, con la sua penna, aveva affermato “l’esistenza della Fede” e sostenuto i diritti del popolo che “anelava progresso e civiltà”(90).
L’ascesa del fascismo cambiò il quadro politico provocando lo “strangolamento” del Partito Popolare al quale, ben presto, mancò persino il sostegno del clero. Alle elezioni del 6 aprile 1924 si assistette alla schiacciante vittoria del “listone governativo” e nel nisseno risultarono eletti l’ex popolare Vassallo, il federale fascista Lipani, il demosociale massone Rosario Pasqualino Vassallo e nella lista popolare Salvatore Aldisio che, dopo l’Aventino, fu espulso dal Parlamento.
In una lettera a Luigi Sturzo, Cammarata ribadì l’impegno dei popolari dinanzi al fascismo che sembrava ormai trovare l’appoggio dello stesso clero: “I vecchi amici sono sempre al loro posto, non si sono piegati; nel silenzio mantengono i loro propositi e attendono giorni migliori, per riprendere la propaganda dei nostri postulati. I più capaci dirigono il movimento cattolico, pur ostacolati dalla maggioranza del clero, alla luce del sole solidale col movimento fascista”(91).
Negli anni 1925-26 il Partito Popolare cessa la sua attività lasciando il campo, nel nisseno, ai “fascisti della “prima ora”” di Damiani Lipani e, sull’altro versante, ai clerico-fascisti di Ernesto Vassallo e ai liberali conservatori del principe Pietro Lanza di Scalea.
III. Azione Cattolica e fascismo
Dinanzi al fascismo la Chiesa nissena e il laicato cattolico non espressero una posizione univoca. Vi era il gruppo clerico-fascista – formato negli anni 1923-25 attorno alla figura di Ernesto Vassallo – nel quale il “collante” tra laici cattolici e fascismo era rappresentato dal nazionalismo, dai sentimenti patriottici e dal fatto di non provenire dalle organizzazioni economico-sociali del movimento cattolico, né dalle associazioni di Azione Cattolica(92).
Dopo il concordato i posti di responsabilità furono occupati dai clerico-fascisti a dimostrazione che il Pnf, mancando di personale politico adeguato, dovette far ricorso al personale pre-fascista e, soprattutto, agli ex popolari(93).
Tra gli ex popolari che occuparono ruoli di dirigenza vi fu lo stesso Arcangelo Cammarata iscritto al partito fascista nel 1927, probabilmente più che per convinzione, per poter continuare ad occupare posti di prestigio e, in tal modo, proseguire le sue battaglie sociali; non è un caso che la diocesi nissena, nella figura del vescovo Giovanni Jacono avesse trovato in lui il politico sinceramente legato alla Chiesa e all’Azione Cattolica che poteva influenzare, dall’interno, il fascismo locale(94).
In una circolare dattiloscritta della Federazione diocesana degli Uomini cattolici del 13 marzo 1929, trasmessa in copia al prefetto, il presidente Cammarata affermava che era dovere di ogni buon cattolico e “nell’interesse superiore della Religione e della Patria” partecipare alle elezioni poiché i membri dell’Azione Cattolica, “pur rimanendo estranei alle competizioni politiche” avevano il dovere di interessarsi, in quanto cittadini italiani alla vita pubblica(95). Della stessa opinione era il presidente della Giunta Diocesana di Azione Cattolica, il canonico Angelo Currera, che in un’altra circolare invitava gli associati a votare il pieno riconoscimento dell’opera poderosa del Regime per armonizzare gli interessi supremi della Patria e quelli della coscienza religiosa con il raggiungimento dell’unità spirituale dell’Italia(96).
Negli anni Trenta, il clerico-fascismo perse la sua influenza politica, anche a causa dell’allontanamento di Ernesto Vassallo, diventato senatore del regno nel 1934. Se il clerico-fascismo ebbe connotazioni politiche organizzative, il filofascismo cattolico fu privo di tale organizzazione. Esso fu, piuttosto, un atteggiamento di apprezzamento nei confronti del regime nel cui seno si distinse un filone democratico cristiano e uno motivato patriotticamente che raggiunse l’apice in occasione della conquista dell’Etiopia(97).
Ideologicamente anticattolico, il fascismo iniziò una campagna contro l’Azione Cattolica.
Il 30 maggio 1931 il direttorio del Pnf ordinò lo scioglimento immediato di tutte le organizzazioni giovanili non legate ad esso e all’Opera Nazionale Balilla. Anche a Caltanissetta si registrarono numerosi episodi di tensioni tra fascisti e Azione Cattolica come dimostra una lettera scritta da Arcangelo Cammarata, presidente della Giunta Diocesana, e inviata ad Augusto Ciriaci, presidente della Giunta Centrale, con la quale egli difendeva i rappresentanti della Giunta Diocesana accusati di aver “parlato male delle organizzazioni del Regime […di aver] parlato di politica e non di azione cattolica”(98).
Il 2 settembre 1931 “l’Osservatore Romano” annunciò la “confermata riconciliazione”: in base all’accordo l’Azione Cattolica dipendeva direttamente dai vescovi i quali avrebbero scelto i dirigenti ecclesiastici tra coloro che non avevano mai appartenuto a partiti avversi al regime(99). L’accordo di settembre, inoltre, sopprimeva la precedente disposizione del 10 luglio 1931 sulla incompatibilità tra iscrizione al partito fascista e iscrizione alle organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica.
A Caltanissetta, una lettera del prefetto informava il ministero che, dopo l’accordo, il vescovo Jacono, nei giorni 29 e 30 ottobre 1931, aveva presieduto due adunanze alla presenza di parroci, assistenti ecclesiastici e membri della giunta diocesana al fine di ricostruire i comitati parrocchiali e le associazioni di Azione Cattolica. Il prefetto rendeva noto che da “notizie confidenziali” le riunioni non avevano avuto “subdoli scopi politici” e poi, soffermandosi sul dirigente interinale della Giunta diocesana, l’avvocato Cammarata, così si esprimeva: “costui, pur provenendo dal Partito popolare, in questi tempi si è mostrato favorevole al fascismo e al Governo nazionale”; al contrario, il prefetto riferiva che i dirigenti ecclesiastici e laici di alcune associazioni, “oltre ad avere appartenuto al Partito popolare”, conservavano ancora “un atteggiamento politico equivoco”(100). In occasione delle due giornate di lavoro, Cammarata riferì sullo stato dell’Azione Cattolica nella diocesi illustrando la necessità di dare vita ai Consigli parrocchiali e assicurando il vescovo e i parroci che i laici organizzati nelle associazioni cattoliche intendevano collaborare “all’apostolato gerarchico della Chiesa con devozione al Papa e in disciplinata obbedienza alle direttive dell’Autorità Ecclesiastica e in perfetta armonia con la professione dei doveri di cittadini”(101) e raccomandando i ritiri mensili per dirigenti e soci dell’Azione Cattolica.
VIII. La difesa delle classi lavoratrici
Dalle colonne de “Il Popolo” il canonico Calogero Cammarata incitava i cittadini a unire le forze cattoliche per la Federazione Nazionale delle Casse rurali sotto la quale era sorto l’Istituto Bancario della Federazione Bancaria Italiana Credito Nazionale.
Vis unita fortior doveva essere il motto per essere uniti e attuare il programma economico-sociale cristiano sancito da Leone XIII nella enciclica Rerum Novarum(102).
Stimolato dall’ambiente familiare, Arcangelo Cammarata mostrò sempre particolare sensibilità verso i problemi riguardanti il lavoro e, in particolare, i problemi sindacali tanto che sull’argomento Sindacalismo e Stato(103) discusse la sua tesi di laurea nel novembre del 1924, relatore il prof. Gaspare Ambrosini che certamente influì nella formazione del giovane Cammarata.
In Sicilia i problemi del lavoro si identificavano con il mondo agrario, per il quale Luigi Sturzo ebbe sempre particolare attenzione. Il problema agrario della colonizzazione interna della Sicilia era stato avvertito come dovere necessario nella realtà del primo dopoguerra; bisognava risolvere la questione del latifondo “sia creando l’istituto dell’enfiteusi speciale per quei latifondi che possano utilmente quotizzarsi e trasformarsi a coltura intensiva; sia agevolando i contratti d’affittanza a lunghe scadenze”(104). Occorreva andare oltre i semplici decreti fatti “per la carta dei giornali”; preparare provvedimenti di legislazione agraria atti a risolvere i vecchi problemi, affrontare nuove situazioni, trasformando in senso più sociale il diritto di proprietà privata.
Tale concezione era lontana da quella socialista il cui desiderio di socializzazione della terra veniva definito dal sacerdote calatino “congegno illogico e antitetico” che poteva servire a fare “un po’ di politichetta agraria a buon mercato”(105) ma incapace di risolvere, effettivamente, il problema agrario.
Il politico calatino deplorava l’assenteismo di alcuni proprietari, incapaci di svolgere il loro dovere e di portare avanti la loro funzione sociale. Era opportuno formulare leggi che, direttamente o indirettamente, costringessero il proprietario ad avere cura del proprio fondo obbligandolo anche ad attuare migliorie nelle strade, bacini, rimboschimenti e quant’altro necessario alla produzione, definita da Sturzo, “dovere morale e sociale […] dovere patriottico”(106). Tutto ciò avrebbe impedito l’emigrazione della mano d’opera e favorito la costruzione della piccola e media proprietà.
Il programma economico agrario del P.P.I. vedeva convergere in esso la maggior parte dei sindacati bianchi anche se, mentre l’azione sindacale era definibile come azione di classe a tutela dei loro rispettivi interessi, il partito politico faceva in modo che tali interessi convergessero gli uni agli altri arrivando “ad esser un interesse generale (e non particolaristica o classista)” e sostenuto “nel campo delle realizzazioni legislative e pratiche”(107). Sin dall’inizio della sua attività, infatti, il P.P.I. aveva presentato tre progetti di legge agrarie: sul latifondo siciliano, sulle Camere regionali di agricoltura e sulla difesa della piccola proprietà.
Il Partito Popolare aveva il merito di realizzare in Italia un programma agrario che unisse gli interessi della produzione e quelli delle varie classi in un “regime di giustizia sociale”(108). E da meridionale egli sapeva che “la cancrena politica e morale del Sud è anche cancrena economica e asservimento finanziario”(109); egli sapeva che il duce, da romagnolo, non poteva conoscere l’anima meridionale “e che forse non [sapeva] a quale prezzo i suoi lanzichenecchi [avessero] comprato il successo del voto”(110). Sturzo non credeva che l’avvento del fascismo potesse tradursi in un novus ordo; egli era convinto che senza la solidarietà fra i ceti agricoli e fra le regioni agricole d’Italia non si sarebbe potuta realizzare una politica salda e unitaria nel risolvere i problemi economici e certamente il fascismo, a suo avviso, era lontano dal potere realizzare tale unione di interessi(111). La battaglia del regime in ambito agrario era definita dal politico calatino né più né meno che una “piccola scaramuccia di vallata”(112), tra proprietari e fittavoli della Val Padana contro i contadini, che aveva acuito ancora di più la disunione.
La concezione dello Stato divideva irrimediabilmente il P.P.I e il Pnf in tema di rapporti internazionali, di rivendicazioni sociali, di rispetto della democrazia, di libertà costituzionali e di Parlamento: “Per noi lo stato – affermò Sturzo nella famosa relazione tenuta a Torino al IV Congresso del P.P.I. – è una società organizzata politicamente per raggiungere i fini specifici; esso non annulla, non crea i diritti naturali dell’uomo, della famiglia, della classe, dei comuni, della religione; soltanto li riconosce, li tutela, li coordina, nei limiti della propria funzione politica. Per noi lo stato […] non crea l’etica […] non è la libertà, non è al di sopra della libertà: la riconosce e ne coordina e limita l’uso, perché non degeneri in licenza […] Per noi la nazione non è un ente spirituale assorbente la vita dei singoli: è il complesso storico di un popolo uno, che agisce nella solidarietà della sua attività”(113).
Cammarata condivise e aderì pienamente al programma popolare. Egli riteneva indispensabile una riforma istituzionale che mantenesse la Camera dei Deputati e il Senato organi essenzialmente legislativi ma nel senso che il primo dovesse interessarsi dei problemi generali dando “man forte” al potere esecutivo; il Senato, avrebbe dovuto abbandonare “l’abito di retrogrado” che lo faceva apparire “anemico” e avrebbe dovuto, almeno in parte, diventare organo elettivo(114), dando posto ai rappresentanti di organismi che in Italia esercitavano attività amministrative, sindacali e scolastiche. Un Senato elettivo – ripetendo le stesse espressioni dell’articolo X del programma popolare(115) – sarebbe stato in grado, secondo Cammarata, di dare una “rappresentanza prevalente ai corpi della nazione (corpi accademici, comune, provincia, classi organizzate)”(116).
Ancora una volta egli mostrava di essersi forgiato sugli scritti e i discorsi di Luigi Sturzo che, sull’argomento, ritornò più volte, anche poco dopo l’entrata in vigore della costituzione italiana, per dimostrare come l’errore della nostra carta fosse quello di avere un Senato “quasi identico alla Camera dei Deputati” mentre il sistema bicamerale presupporrebbe una diversità “di origine, di natura e di funzione”(117).
I sindacati professionali dovevano essere riconosciuti giuridicamente(118) al fine di poter partecipare “alla divisione dei poteri”(119).
Tale riconoscimento doveva interessare tutte quelle associazioni che possedevano alcuni attributi fondamentali: “pluralità di persone, patrimonio sociale formato dai contributi degli iscritti e fine lecito”(120). Il riconoscimento giuridico non doveva essere concesso da organi amministrativi poiché essi subivano le vicende politiche dei governi e, quindi, i contrasti tra i partiti. I sindacati, per poter beneficiare di una certa autonomia, dovevano restare “apolitici”; dovevano godere di un libero sviluppo che non fosse “inceppato” dai contrasti politici contingenti(121). Per questo motivo era compito del potere legislativo creare leggi che regolamentassero i rapporti tra sindacato e Stato, le quali leggi dovevano essere attuate da un potere indipendente come quello giudiziario.
Per far fronte ai contrasti tra capitale e lavoro egli proponeva la costituzione di consigli di azienda che, attraverso una commissione eletta dagli operai, operassero un controllo sulle manovre aziendali affinché esse fossero sempre a favore dei lavoratori.
Senza obblighi da parte dello Stato si doveva favorire l’azionariato visto da Cammarata come mezzo sicuro per migliorare il capitale aziendale ed eliminare il pericolo di scioperi. Questi ultimi venivano giudicati “piaghe sociali” da combattere attraverso il riconoscimento giuridico degli organismi sindacali poiché sarebbe venuto meno il contrasto fra capitale e lavoro(122).
Cammarata considerava l’associazione professionale un “diritto naturale consacrato alle più radicate tendenze umane”(123) che spingono un singolo individuo ad unirsi ad un altro per soddisfare meglio i propri bisogni economici.
Contro la lotta di classe propugnata dal sindacalismo socialista bisognava attingere al “dottrinarismo sindacale” cristiano, quello che era stato sancito dall’enciclica Rerum Novarum e fondato sulla solidarietà, giustizia e carità.
Dinanzi all’ascesa del fascismo, egli si sofferma anche a riflettere su un possibile ruolo del sindacalismo fascista come “terzo polo” tra quello bianco e quello rosso.
Rispetto alle due forme storiche di sindacalismo, quello fascista non solo mancava di un “passato” che, invece, aveva costruito gli altri due, ma appariva ai suoi occhi come un “anacronismo storico, che il tempo [avrebbe dovuto] liquidare”(124) poiché la storia era ormai segnata solo dai due tipi di sindacalismo: socialista e cristiano. Solo quest’ultimo però si fondava sulla collaborazione tra lavoratori e datori di lavoro; sulla vera eguaglianza di doveri e di diritti. E quasi rivolgendosi alle due classi protagoniste del mondo del lavoro – lavoratori e datori di lavoro – così si esprimeva: “Senta l’operaio lo stimolo dell’organizzazione professionale per la richiesta dei suoi diritti, ricordi il proprietario quale somma di doveri la Provvidenza gli ha imposto, quando l’ha immesso nell’uso della ricchezza. Agevoli lo Stato la collaborazione fra gli individui e le classi […] Si crei […] una coscienza realistica dei rapporti sociali e si smantelli lo Stato di quel substrato di insana burocratizzazione, che impedisce il pulsare incessante dell’attività degli individui”(125).
Tale riflessione allinea Cammarata a tutta una tradizione di “preti sociali” che, in Sicilia, si fecero promotori della realizzazione dei principi e delle idee della Rerum Novarum, come Ignazio Torregrossa e Luigi Sturzo. Essi avevano denunciato – tra le cause della questione sociale – la prepotenza dei proprietari e dei capitalisti e la conseguente oppressione dei lavoratori. Da un lato le alte classi della gerarchia sociale che abusano dei loro privilegi e sono dimentiche dei loro doveri; dall’altro gli oppressi che devono adempiere ai loro doveri senza avere la possibilità di tutelare i propri diritti. Torregrossa definiva tale divario il sintomo della plutocrazia liberale, il trionfo del più forte sul più debole(126); e Sturzo, allo stesso modo, contro la lotta di classe, aveva sollecitato la collaborazione tra capitale e lavoro, l’unità “morale” dell’impresa fra padroni e operai(127).
In seguito ad un colloquio, riportato dalle cronache, tra Mussolini e i rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, Cammarata scrisse un articolo dal titolo I problemi sindacali e la libertà di organizzazione(128).
Egli interpretava la politica mussoliniana come una minaccia della libertà sindacale proponendo il monopolio sindacale, da sempre sostenuto dai socialisti e, fino a quel momento, non accettato dal fascismo.
I popolari, “eredi della concezione sociale maturata nella democrazia cristiana, nel campo politico oltre che nel sindacale”, si erano sempre opposti al pensiero socialista difendendo il principio di libertà sindacale contro quello del monopolio e dell’unità.
I dirigenti socialisti si ponevano agli antipodi di tale concezione poiché, secondo Cammarata, avevano il solo scopo di “soffocare la libertà di quelle classi sociali, che non dal marxismo ma dal cristianesimo traggono la concezione etica del loro programma di organizzazione”(129).
Contro la lotta di classe egli ricordava la libertà degli umili di rivolgersi ai “potenti e ai ricchi, che considerano fratelli e quindi concorrenti nella giustizia e pace sociale, che è voluta dai dettami della carità evangelica”(130). Era stato questo, ancora una volta, il messaggio leoniano della Rerum Novarum: la Chiesa doveva dare insegnamenti per comporre il conflitto tra le classi sociali affinché queste “cospirassero” insieme a favore degli interessi degli operai. Leone XIII riteneva che “lo sconcio maggiore” della questione sociale fosse il “supporre l’una classe sociale nemica naturalmente all’altra; quasicché i ricchi ed i proletari li abbia fatti natura a battagliare con duello implacabile fra loro”(131). E nonostante il sindacalismo fascista partisse da una concezione differente subordinando gli interessi delle varie classi a quello nazionale, esso aveva mostrato di essere contro il monopolio e tale possibilità di unione sindacale, paventata in seguito all’incontro di Mussolini con la CGL, veniva vissuta dal giovane Cammarata come una negazione del principio di libertà, come un pericolo da combattere(132).
Nel 1923 i popolari nisseni erano ancora convinti che, nonostante le differenze di principi di base e di premesse, era possibile auspicare e ipotizzare un’alleanza con il fascismo. “Il Popolo” riteneva che, morti i vecchi partiti che avevano conteso con i popolari “il passo per la loro affermazione di principi amministrativi e politici”, il fascismo poteva concorrere con loro nell’affermazione “dei suoi postulati programmatici”(133); era necessario allearsi per concorrere al raggiungimento del fine comune. E sull’argomento tornava, un mese dopo Vincenzo Anzalone, segretario politico, il quale, facendosi portavoce dei Consiglieri comunali popolari, affermava il desiderio di “cooperare con l’attuale governo per la grandezza della […] cara Patria l’Italia e pel suo benessere morale, religioso e cristiano e civile, senza deflettere”(134) dal programma popolare. Questo non significava che i popolari avessero “cambiato casaccia”; essi erano rimasti “disciplinati” e solidali agli organi direttivi del partito.
Il 2 dicembre 1923 Mussolini fece emanare un decreto sulla costituzione del Consiglio Superiore dell’Economia nazionale che, secondo Cammarata, aveva peggiorato la situazione sindacale italiana poiché le tre sezioni del Consiglio Superiore non costituivano “organi aventi potere deliberativo o vera delega legislativa”(135). Era utopico pensare di sostituire il Parlamento politico con uno “tecnico”; era necessario, invece, che ci si preoccupasse dei problemi del lavoro attraverso la costituzione di consigli nazionali tecnici creati attraverso la rappresentanza di classe selezionata da un sistema proporzionale(136). A livello comunale ogni lista elettorale avrebbe dovuto comprendere uomini e donne sopra i 18 anni, purché appartenenti a gruppi e categorie indicate dalla legge da formulare. I dirigenti comunali, avrebbero poi, con sistema proporzionale, eletto il rappresentante o rappresentanti della regione, che avrebbero costituito il consiglio nazionale tecnico(137). I consigli tecnici dovevano contemplare anche gli interessi degli enti autarchici “comuni e province, dei corpi scientifici, accademici e giurisdizionali dello Stato, non ché degli organismi cooperativi e mutualistici”(138).
Diverse erano state le sue attese all’indomani della costituzione del Ministero dell’Economia Nazionale che, a suo parere, avrebbe segnato un passo importante nel processo di unificazione dei problemi sociali facendo sperare in una legislazione sociale a favore delle masse operaie. Il Ministro guardasigilli e il Ministro dell’Economia Nazionale avevano approvato uno schema di decreto che doveva rendere obbligatori i contratti collettivi di lavoro(139). Cammarata ricordava la “politica funesta” dell’ex Ministro dell’Agricoltura Capitani che Sturzo, acutamente, aveva definito “demagogia a rovescio”(140) perché sopprimeva tutti gli organismi indispensabili alla soluzione dei conflitti tra lavoratori e proprietari. Tale politica veniva cancellata dal decreto su contratti collettivi, decreto che Cammarata giudica “molto debole quanto incompleto” poiché una volta attuato ci sarebbero stati atti “di irrimediabile ingiustizia e di violazione del principio della libertà dell’organizzazione sindacale”(141) dovuti a quella libertà di organizzazione non definita dal decreto. I contratti collettivi di lavoro avrebbero superato la “concezione [dell]’individualismo atomico”(142) – legando “moralmente e materialmente”, attraverso sanzioni, i contraenti – se il legislatore avesse dato inizio a una costruzione giuridica del rapporto di lavoro e facendo tesoro del principio, portato avanti dai popolari(143), di trasformare le organizzazioni di lavoro in unità giuridiche(144).
Il Partito popolare, nel 1924, aveva più che mai sottolineato la necessità di una battaglia per le “Camere Regionali di Agricoltura, la trasformazione del latifondo e la regolamentazione dei patti agrari”(145). Ma alcuni provvedimenti legislativi avevano annullato gli sforzi popolari a favore delle classi agricole tanto che il giovane Cammarata accusava il governo fascista di aver “defenestrato” completamente la legislazione sociale che era stata preparata dopo avere superato l’opposizione della classe latifondista meridionale.
Dopo la rivoluzione fascista, il partito dominante, una volta giunto al potere – denunciava Cammarata – dimenticò i voti dei contadini meridionali: “e si liquidò l’opera legislativa imposta per massima parte al parlamento dall’attività del gruppo parlamentare popolare”(146). Decreti legge abrogarono le “provvidenze legislative” a favore della classe agricola; furono dimenticati i progetti per le Camere Regionali di Agricoltura perché il ministro dell’agricoltura, una volta approvato il progetto di trasformazione del latifondo dalla Camera dei Deputati, lo ritirò prima di essere votato dal Senato. “Venne così a determinarsi – scrive Cammarata – una legislazione contraria agli interessi dei contadini, che dovevano rassegnarsi a dimenticare i loro bisogni”(147). E fu così che nel Meridione, la classe padronale dei gabelloti “eterni sfruttatori dei mezzadri, la classe intermediaria parassitaria fra la proprietà e il lavoro, ricominciò a premere con gli abusi e le ingiustizie sui poveri contadini”; tornò l’epoca delle “angherie e dei soprusi”(148).
Il Meridione, e in particolare la Sicilia, furono sottoposti ad un regime di polizia che voleva affermare l’inferiorità del Sud rispetto alle altre regioni e portando avanti una politica sociale “antidemocratica”. Il Sud tornava ad essere, come aveva denunciato Sturzo, “terra di conquista e […] di soggezione al capitalismo industriale del Nord” che, secondo Cammarata, dirigeva, in verità, tutta la politica italiana incarnando “la vera essenza del fenomeno fascista, che è antidemocratico e conservatore”(149).
Ma la denuncia di Cammarata non si ferma qui. Egli registra una contraddizione di fondo nell’azione politica del fascismo al Sud; esso tendeva ad opprimere la classe padronale che, nel Mezzogiorno, aveva più di tutti appoggiato il fenomeno fascista. Fu abolita la tassa di successione e per far fronte ai bisogni finanziari, fu creata l’imposta di ricchezza mobile sui redditi agrari che, ancora una volta, colpì il piccolo reddito del contadino: “E il nuovo flagello venne a colpire il disgraziato lavoratore dei campi”(150).
Il sistema tributario esistente – egli ammoniva – distruggeva la possibilità di accumulare risparmi; la classe dei piccoli proprietari sarebbe scomparsa e la classe lavoratrice sarebbe ritornata “nello stato di servaggio al capitalismo”(151).
Conclusioni
Nel periodo tra le due guerre mondiali Arcangelo Cammarata ci appare con gli ideali di un giovane che non si lascia intimorire dal grigiore dei tempi: egli incitava i popolari a “salvare il bagaglio delle […] aspirazioni ideali, la luce spirituale del […] programma cristiano di giustizia e di libertà”(152). Era necessario rafforzare le organizzazioni cooperative e sindacali cattoliche; il movimento cooperativistico bianco avrebbe dovuto fare in modo che i suoi dirigenti, supportati da pubblicazioni, sviluppassero il pensiero sociale cristiano, organizzando corsi di preparazione per dirigenti di cooperative di credito, di produzione e di lavoro.
Tale iniziativa era stata già intrapresa dall’Azione Cattolica in Sicilia che nel febbraio del 1921, con una circolare firmata dal Presidente del Consiglio Regionale siculo Andrea Butera, informava i Circoli cattolici siciliani dell’organizzazione di corsi per segretari di cooperative. Butera riteneva che: “la pratica delle società cooperative [era…] di grandissima utilità” e, soprattutto, era in perfetta sintonia con la tradizione della Società di Gioventù Cattolica da sempre all’avanguardia nel movimento sociale cristiano(153).
Cammarata continuava a nutrire grande fiducia nelle Casse rurali che avrebbero recato vantaggi alla classe lavoratrice la quale, in tal modo, avrebbe potuto emanciparsi dal gabelloto sfruttatore e dalla piaga dell’usura. La soluzione stava nella quotizzazione dei latifondi presi in affitto, a favore dei contadini i quali, con i loro risparmi, avrebbero potuto, un giorno, acquistare quelle stesse terre.
Accanto alle cooperative doveva esserci la lega di lavoro il cui scopo doveva essere quello di realizzare i fini di importanza superiore. Era questa la soluzione che, sviluppando l’azione cooperativa e sindacale, avrebbe costituito la premessa di un movimento politico(154).
Le cooperative di lavoro erano state l’arma socialista della lotta di classe. Anche per questo egli avvertì l’esigenza di seguire un movimento che ricomponesse tutta la società, finendo per riprendere alcuni principi propri del corporativismo tonioliano.
La corporazione cattolica non aveva nulla a che vedere con quella fascista il cui interventismo statale finiva per sopprimere, nell’organizzazione sindacale, ogni libertà e autonomia sia individuale che di gruppo(155). E pur lasciandosi affascinare dalle suggestioni del corporativismo cattolico, Arcangelo Cammarata comprese che ci sono momenti in cui bisogna restare attenti alla realtà concreta, ai fatti, alla “verità effettuale”, non esitando a guidare e incoraggiare forme di resistenza e di lotta a favore dei contadini; raduni che, in una testimonianza del presidente Giuseppe Alessi, sono ancora “memorabili” nell’esperienza politica e sociale nissena.
Con l’ascesa del regime fascista non vi fu, ben presto, più spazio per i sindacati liberi. La legge del 3 aprile 1926 e, poi, la Carta del lavoro del 1927 sanciranno l’affermazione del corporativismo fascista e la definitiva esclusione delle libere confederazioni sindacali. L’unica a sopravvivere sarà la cooperazione e, soprattutto, quella delle casse rurali. Per tale motivo storico contingente, ma anche per la peculiarità della tradizione sociale cattolica nissena, caratterizzata da un profondo legame tra sindacalismo e cooperazione – poiché le azioni di resistenza, gli scioperi, erano organizzati dalle cooperative e supportati dalle casse rurali(156) – Cammarata finirà per aderire al cooperativismo, cioè al modello solidaristico della tradizione cattolica, come attesta lo scritto del 1952 Le Casse rurali in Sicilia e la sua relazione a un convegno tenuto a Catania nel 1947 su Gli organismi cooperativi regionali.
Arcangelo Cammarata fu l’uomo d’azione che, avendo recepito il messaggio leoniano della difesa delle classe lavoratrici, si avvalse degli strumenti che erano, in quel determinato contesto storico, più confacenti: ora il sindacato, ora la cooperazione. Già da studente universitario impegnato ad elaborare la tesi di laurea – per la stesura della quale chiese consigli allo stesso Luigi Sturzo(157) – puntualizzando sulla necessità di creare consigli tecnici, teneva a precisare che questi non dovevano interessarsi solo delle organizzazioni professionali(158), e dunque dei sindacati, ma contemplare gli interessi di organismi cooperativi e mutualistici.
Appendice(159)
Archivio Luigi Sturzo(160), fasc. 57, doc. n. 8
22/XII/1923
Egregio Professore,
Le invio un pensiero di filiale devozione da Porto Empedocle, dove mi fermo per un’ora attendendo il treno per andare a Sciacca, per continuare il giro di propaganda per il giornale “Il Popolo” che curo da un mese. Ancora una volta ho voluto dimostrare il mio attaccamento al P.P.I., trascurando la mia situazione personale e non curando sacrifizi e condizioni di salute (da cinque mesi appena sono uscito dalla pleuro polmonite), e ho risposto all’appello della direzione del giornale popolare, mettendomi al lavoro.
Ho visitato molti paesi e dovunque ho trovato abbonamenti, ottenendo risultati, che non sono dispiacenti.
La informerò, alla fine della missione di propaganda, delle impressioni ricevute visitando i comuni della Sicilia e della situazione del P.P.I. che cerco di conoscere viaggiando per l’Isola.
Non potrò visitare tutti i Comuni, ma avrò agio, pur nella ristrettezza del tempo e tenendo conto delle condizioni della viabilità, che diventano più difficili per la mancanza di adatti mezzi di comunicazione e per il pericolo della stagione, che non permette di visitare più d’un paese al giorno (il freddo e la neve e la pioggia frequenti impediscono gli sforzi e la buona volontà di viaggiare ininterrottamente da mane a sera), di toccare i paesi più importanti delle provincie siciliane. Il giorno 5 gennaio sarò a Caltagirone, che ancora non conosco, domani sarò a Sciacca, dove conto di trovare un terreno favorevole alla campagna di abbonamenti. Per il giorno di Natale conto di trovarmi in famiglia per dividere coi miei le festività del giorno tanto solenne all’affetto della nostra famiglia. Il 25 il mio pensiero sarà rivolto a Roma, la mia umile preghiera indirizzerò al Bambino nascente, richiedendo per Lei le grazie desiderate, perché sia conservato all’affetto degli amici, che hanno bisogno, per svolgere la loro missione, dell’ausilio possente della Sua guida, che ha illuminato e illumina gli sforzi, di quanti conservano il loro attaccamento alla Chiesa e alla Patria.
Fin da oggi Le formulo gli auguri più sinceri e devoti per il Buon Natale e La prego in quel giorno nelle Sue preghiere ricordarsi di me, che con affetto e stima ricambio la simpatia nel passato dimostratami e che sicuramente per l’avvenire mi riconfermerà.
Dopo ciò sospendo il disturbo e Le invio l’espressione dell’immutata devozione, ossequiandoLa vivamente. Mi creda.
Aff. Arcangelo Cammarata
N.B. Mi sono incontrato viaggiando con un fascista, che verso la Sua persona usò, parlando, massima deferenza. Leggevo io le ultime pagine del Suo volume “Dall’idea al fatto”, e mi manifestò il proposito di acquistarlo. Volli manifestare allo avversario leale il sentimento della mia ammirazione, regalando il volume, che Lei ora dovrebbe curare di farmi avere a S. Cataldo, per completare la collezione dei Suoi scritti che è venuta a perdere uno dei Suoi migliori scritti.
ALS, fasc. 59, doc. n. 101
San Cataldo 16/08/24
Egregio Professore
Peppino Spataro in una lettera mi ha dato i Suoi saluti. La ringrazio della simpatia che mi conserva e che desidero maggiormente confermata con l’invio di una fotografia grande con dedica , che mi piace conservare nel mio studio e la quale del resto ho avuto da tempo promessa.
Sto ultimando la preparazione della tesi di laurea, che appena avrò scritto per intero Le rimetterò per eventuali suggerimenti e per qualche correzione. Sono sicuro che si occuperà di leggerla presto e di rimandarmela poi con le annotazioni del caso.
Prendo occasione per interessarLa a far pubblicare sul “Popolo Nuovo” un ordine del giorno, inviato all’Avv. Spataro e che gli amici desideravano vedere pubblicato anche dal quotidiano romano “Il Popolo”, al quale spedii un buon contributo finanziario. Ho notato delle irregolarità che occorre fare evitare. Per es. prima di pubblicare il commento alla seduta del Comitato provinciale nisseno del P.P.I. ultimo, fu pubblicato il commento da me spedito, che ha lasciato un vuoto da far colmare con la pubblicazione della relazione precedente. Ha avuto le mie quote di abbonamento al “Popolo Nuovo” e al Bollettino bibliografico.
Si abbia con mio fratello l’espressione del devoto omaggio con i migliori auguri di bene.
La ossequio con affetto e mi degno Aff.
Arcangelo Cammarata
ASL, fasc. 296, doc. n. 48
s.d.
Ancora attendo l’adempimento di una promessa. Sono ansioso di ricevere una fotografia grande raffigurante la Sua immagine onde colmare il vuoto, lasciato nello studio. Mi dispiace dovere essere molto insistente, ma desidero essere accontentato. La prego di non indugiare nello accoglimento della mia insistenza. Grazie.
A. Cammarata
ALS, fasc. 59, doc. n. 102
14 ottobre 1924
Caro Arcangelo,
Il mio silenzio è dovuto al grande lavoro di questi giorni, e al proposito di farti una lunga lettera.
Son sicuro che i tuoi dubbi circa la permanenza nel partito Popolare siano svaniti; posso assicurarti che a nessuno si consiglia di lasciare il posto di combattimento. Spero quindi che lavorerai per il partito e per il Popolo come per il passato con fede ed entusiasmo.
Ti mando la ricevuta dell’abbonamento al Bollettino.
Appena avrò le fotografie grandi, te ne manderò una come è tuo desiderio.
Circa il Sindacalismo e lo Stato vi sono due recenti pubblicazioni, una del dottor Pergolesi (recensita nel bollettino) ed altra del Prof. Panunzio. Ma il tema non vi è approfondito. Leggerò con piacere il tuo manoscritto e te lo rimanderò subito.
Saluti cordiali.
[Luigi Sturzo]
ASL, fasc. 289, doc. n. 89
Palermo 8/XII/1924
Egregio Professore
Con un breve ritardo, dovuto alla mancata conoscenza del Suo indirizzo, Le comunico che ho conseguito col massimo dei voti la laurea in giurisprudenza, riscuotendo per lo svolgimento della tesi il plauso del professore relatore. La tesi, come Le scrissi altra volta, ha avuto questo titolo: Sindacalismo e Stato, quindi riguarda un argomento di scottante attualità, come potrà vedere fra giorni, dato che domani gliene spedisco una copia in omaggio, onde al più presto avere un suo giudizio sulle conclusioni di essa.
In verità io avrei intenzione di farla pubblicare, opportunamente ampliata e dopo averla riveduta, però prima desidero conoscere il parere Suo sul merito di esso, e per una agevolazione nelle spese sarei disposto a cederla alla Società Editrice da Lei diretta, alla quale Ella prima dovrebbe scrivere, onde regolarmi sul da fare. E allora La prego di scrivermi con cortese sollecitudine, indicandomi il modo come debbo regolarmi.
Grazie con anticipo di tutto.
Io sto prestando il servizio militare alla Scuola Allievi Ufficiali e sarò libero nel dicembre del 1925.
Formulo a Lei gli auguri più fervidi per un ottimo soggiorno nella nuova dimora che non è affatto un luogo di esilio, ma il punto donde partire ancora una volta la parola incoraggiatrice alle azioni dei liberi e dei forti.
Con un abbraccio devotissimo. Aff.
Arcangelo Cammarata
Corso Tukory 366. Casa dei Giovani
ALS, fasc. 289, doc. n. 90
s.d.
Egregio Professore
Sono sicuro che la presente si incrocerà con la Sua risposta alla mia lettera di Palermo, che precedette di qualche giorno l’invio della copia della mia tesi di laurea, che mi auguro a questa ora avrà ricevuto.
Sento il dovere e il bisogno, intanto oggi, di unire il mio cuore a quello delle migliaia e migliaia di Suoi devoti ammiratori, per formularLe nell’esilio londinese gli auguri migliori per l’inizio del nuovo anno. La nascita del Bambino Gesù […].
Sono ancora in attesa della promessa fotografia in grande, che sicuramente mi spedirà da Londra, con dedica superba per espressioni di simpatia e di affetto. Il Suo ricordo ambisco con maggiore insistenza oggi, che vedo sulle pareti del mio studio lo spazio in bianco che vuol essere presto colmato. Attendo con ansia il Suo giudizio sulla mia tesi e le notizie richieste per la pubblicazione di essa.
Rinnovando gli auguri più devoti, abbracciandoLa con affetto La prego di benedirmi. Aff.
Arcangelo Cammarata
ALS, fasc. 291, doc. n. 33.
All’Egregio Professore Luigi Sturzo,
St. Mary of the Angels, Westmoreland Road, Bayswster, Londra
Palermo, 29/03/925
Egregio Professore,
Le chieggo scusa del ritardo a rispondere alla Sua lettera. La ringrazio dei giudizi espressi sul mio lavoro di laurea e della speranza fattami sorgere per una futura stampa di esso da parte della S. E. I.
Io mi fermerò a Palermo ancora per un mese dovendo a chiusura della scuola militare essere inviato a reggimento con il grado di sergente. Sto sempre bene e lo stesso auguromi sentire da parte Sua. Continui a godere della mia devota affezione e mi conforti della Sua simpatia. Gli amici Le conservano sempre devozione e ricordandoLa, esprimono con me auguri di bene.
Un abbraccio e mi degno Suo Aff.
Arcangelo Cammarata
ALS, fasc. 296, doc. 47.
San Cataldo 22/10/25
Egregio Professore,
Sono lunghi mesi che non ricevo direttamente Sue notizie.
Io per le esigenze del servizio militare ho dovuto rinunziare a scrivere più continuamente ai cari amici e senza volerlo ho dovuto dimenticare apparentemente anche Lei. Ma ora, essendo in lunga licenza […] – in attesa della nomina a sottotenente di complemento del Genio – dovrò a giugno prestare altri due mesi di servizio militare, sento il dovere di ripristinare le antiche relazioni e rivolgere a Lei il mio primo pensiero. La mia devozione per la Sua persona, dovuta anche a intera solidarietà all’idea, che propugna con tanto encomiabile ardore anche dall’esilio, doloroso anche per gli amici che si vedono impossibilitati a rivederLa quando ne sentono il vivo desiderio, è sempre uguale, anzi si potenzia di giorno in giorno.
La fedeltà mia all’idealità propugnata dal P.P.I. non può smentirsi, anzi si irrobustisce, perché gli anni che passano mi fanno sempre più e meglio persuaso della necessità storica del nostro movimento politico per incanalare nel campo della vita pubblica tutte quelle aspirazioni, volute nel nostro campo dall’azione cattolica.
Mantengo costante la mia attività nell’azione cattolica, perché sono convinto che sarebbe un torto disinteressarsi dello sviluppo di questa branca, la quale in verità dovrebbe essere indirizzata a criteri direttivi di maggiore serietà e di più giusta intransigenza a ogni modo occorre rimanervi per vigilare e pur rimediare, quanto potrebbe essere deviato.
Sono di opinione che Ella converrà nelle mie superiori considerazioni e mi conforterà della Sua approvazione.
In merito alla situazione politica locale Le dirò brevemente.
Durante le elezioni, io ero assente, i nostri si astennero, i cosiddetti fascisti guidati da E. Vassallo, si impadronirono del Municipio.
I votanti effettivi non raggiunsero il numero di 300 su 6300 iscritti. I vecchi amici sono sempre al loro posto, non si sono piegati; nel silenzio mantengono i loro propositi e attendono giorni migliori, per riprendere la propaganda dei nostri postulati. I più capaci dirigono il movimento cattolico, pur ostacolati dalla maggioranza del clero, alla luce del sole solidale col movimento fascista.
Lo zio è al suo posto sempre, fedele ai dettami della sua coscienza e, non essendo preoccupato di nessuna opera direttiva municipale – non volle entrare nella composizione della lista – , si occupa della costruzione di un edificio per l’educazione delle donne, che sarà affidato alle Suore di Maria Ausiliatrice e che alla Cassa Agraria costerà un milione di lire. Lo zio è stato nominato Vicario foraneo. Io inizierò subito la pratica professionale e conto fra qualche anno scegliere la residenza di Caltanissetta per l’esercizio della professione libera. In attesa di Suo riscontro e di Sue notizie La ossequio con i migliori auguri.
Arcangelo Cammarata
ALS, fasc. 300, doc. n. 11
San Cataldo, 15 gennaio 1926
Cartolina “Saluti da S. Cataldo”. Panorama.
All’Egregio Signor Prof. Luigi Sturzo.
St. Mary’s Priory 264. Fulham Road. London S. W. 10
Per il 18 gennaio promettiamo preghiere per l’avvento delle forze libere alla conquista della giustizia cristiana e delle libertà civili. A. Cammarata, Anzalone Rosario, [firma illeggibile], Anzalone Vincenzo, Raimondo Pellegrino.
NOTE
* L’argomento è stato oggetto di una relazione presentata all’Incontro di studio Arcangelo Cammarata, la sua terra e il suo tempo, Centro Studi Cammarata, San Cataldo (Caltanissetta), 19-20 dicembre 2001.
(1) Sulla storia del Partito Popolare Italiano si veda: S. JACINI, Storia del Partito Popolare Italiano, prefazione di Luigi Sturzo, 1950, ristampa di Napoli, La Nuova Cultura Editrice, 1971; G. DE ROSA, Il Partito Popolare Italiano, Bari, Laterza, 1985.
(2) Sulla scelta del movimento cattolico nisseno tra clericomoderatismo e “intransigentismo” sturziano si veda C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, vol. II, I cattolici nella società: la politica, l’economia e la cultura, Caltanissetta – Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1991, pp. 12-14.
(3) Ivi, p. 13.
(4) Ivi, p. 38.
(5) Arcangelo Cammarata nacque a San Cataldo (Caltanissetta) nel 1901; si laureò nel 1924 con una tesi su Sindacalismo e Stato sotto la guida di Gaspare Ambrosini. Fu Segretario della sezione del Partito Popolare di San Cataldo e vicesegretario provinciale accanto all’on. Salvatore Aldisio. Nel 1929 il vescovo Jacono lo nominò presidente della Giunta Diocesana di Azione Cattolica, carica che tenne dal 1930 al 1939. Nel 1936 sostituì lo zio Luigi alla presidenza della Cassa rurale. Fu anche Presidente dell’Ente fascista di zona per l’assistenza alle casse rurali. Si iscrisse al partito fascista per poter accedere alle cariche amministrative ma i fascisti locali gli furono spesso ostili a causa della sua militanza nei popolari. Gli fu tolta ripetutamente la tessera e nel 1939 fu definitivamente espulso dal partito. Allo sbarco degli alleati fu nominato prefetto di Caltanissetta. Nel 1946 fu il primo sindaco democristiano eletto a San Cataldo. Si veda: A. CAMMARATA, Scritti sul sindacalismo e la cooperazione, a cura di Cataldo Naro, San Cataldo, Centro Studi “A. Cammarata”, 1986; C. NARO, Dizionario biografico del movimento cattolico nisseno, Centro Studi sulla cooperazione “A. Cammarata”, Caltanissetta, Edizioni del Seminario, 1986, pp. 36-37; A. CAMMARATA, La battaglia popolare, a cura di C. Naro, San Cataldo (Caltanissetta), Centro Studi sulla Cooperazione “A. Cammarata”, 1991.
(6) C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, vol. II, cit., p. 43.
(7) Ivi, p. 45.
(8) G. ALESSI, Testimonianza, in: C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, vol. II, cit., p. 53. Si veda anche G. ALESSI, I cattolici nisseni tra le due guerre, in: Idem, Incontri nella Chiesa nissena, a cura di Cataldo Naro, San Cataldo (Caltanissetta), Centro Studi sulla Cooperazione “A. Cammarata”, 1991, p.81
(9) Sulla vita si veda: C. NARO, Cammarata Calogero, in: Idem, Dizionario biografico del movimento cattolico nisseno, cit., pp. 37-39. Si veda anche A. CAMMARATA, In memoria di mons. Calogero Cammarata, Caltanissetta, Tip. S. Petrantoni, 1931.
(10) Su Alberto Vassalo si veda: G. ALESSI, Ricordi d’infanzia, in: Idem, Incontri nella Chiesa nissena, cit., pp. 115-118.
(11) G. SAPORITO, La cassa rurale di San Cataldo: il significato di un’esperienza cooperativistica, in: AA.VV., Amicitiae Causa. Scritti in onore del vescovo Alfredo M. Garcia, a cura di Massimo Naro, San Cataldo (Caltanissetta), Centro Studi sulla cooperazione “Arcangelo Cammarata”, 1999, p. 171.
(12) Sul rapporto tra associazionismo e democrazia a San Cataldo si veda: C. RIGGI, Associazionismo e democrazia in un comune della Sicilia dell’interno. San Cataldo dall’Unità ai Fasci, in: AA.VV., Amicitiae Causa. Scritti in onore del vescovo Alfredo M. Garcia, cit., pp. 53-80.
(13) Cfr. C. NARO, Tre preti “sociali”, in: AA.VV., Preti sociali e pastori d’anime, a cura di C. Naro, Studi del Centro “A. Cammarata”, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1994, pp. 106-107.
(14) Ivi, p. 119.
(15) Il piano del sociologo calatino era quello di “eliminare il gabelloto, questo gran parassita delle campagne e del lavoro, formato da esigenze ambientali e da tradizione capitalistica”. E. GUCCIONE, Le affittanze collettive nel pensiero politico ed economico dei cattolici tra Otto e Novecento, Palermo – São Paulo, Ila Palma, 1978, p. 19. I gabelloti erano, tra l’altro, conosciuti come la peggiore specie di usurai: “L’usura – scrive Sturzo – è un flagello […]; è un vampiro […]; è un male” (si veda: E. GUCCIONE, Luigi Sturzo tra società civile e Stato, Palermo- São Paulo, Ila Palma, 1987, p.35).
(16) Cfr. C. NARO, Tre preti “sociali”, cit., p. 115.
(17) C. NARO, Sulla fondazione del partito popolare, con appunti per una storia del popolarismo a Caltanissetta, Caltanissetta, Edizioni del Seminario, 1979, p. 15.
(18) C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, vol. II, cit., p. 63.
(19) Sull’influsso della Rerum Novarum in Sicilia nella vicenda del movimento cattolico si veda: C. NARO, L’area siciliana, estratto da: AA.VV., La “Rerum Novarum” e il movimento cattolico italiano, Archivio per la Storia del movimento sociale cattolico in Italia. Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Centro di documentazione Brescia, pp. 207-222.
(20) Cfr. C. NARO, Tre preti “sociali”, cit., nota 37, p. 138. Per un approfondimento dell’argomento si veda E. GUCCIONE, Le affittanze collettive …, cit..
(21) C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, vol. II, cit., p. 131.
(22) Ivi, pp. 130-131.
(23) Ivi, p.142.
(24) Tale carica fu ricoperta da Cammarata dal 1930 al 1939. Si veda C. NARO, L’Azione Cattolica a Caltanissetta 1923-1969, cit., p. 169.
(25) C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, vol. II, cit.,p. 142.
(26) Si veda “Monitore diocesano”, XXVIII (1934), n. 5, p. 5.
(27) C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, vol. secondo, cit., pp. 147-148.
(28) Ivi, pp. 149-150.
(29) Si veda C. GIURINTANO, I circoli palermitani della Gioventù Cattolica attraverso la corrispondenza di Giuseppe Pipitone (1921-1923), in: “Rassegna Siciliana di Storia e cultura”, n. 17, dicembre 2002, pp. 5-42; in particolare sulla critica di Di Forti agli interessi politici del canonico si vedano le pagine 23-26.
(30) Arcangelo Cammarata al Presidente della Federazione di Palermo, Palermo, 3 febbraio 1923.
(31) Si veda C. NARO, Cammarata Arcangelo, in: Idem, Dizionario biografico del movimento cattolico nisseno, cit., pp. 36-37.
(32) A. Cammarata, Per il congresso Universitario. Ai cattolici di Sicilia, “Primavera siciliana”, anno VII, n. 20, 10 luglio 1924, p. 1.
(33) Ibidem.
(34) Ivi, p. 2.
(35) La “Primavera siciliana” era l’organo ufficiale della Gioventù Cattolica siciliana. Il primo numero del periodico uscì nel 1918 con il titolo “L’eco giovanile”- organo mensile del Circolo giovanile cattolico “San Carlo Borromeo” di Palermo. Il 6 gennaio 1919 il mensile uscì con il nuovo titolo “Primavera siciliana” e il sottotitolo Florete flores, frondete in gratiam. Esso non era più l’organo del Circolo San Carlo Borromeo ma della Gioventù Cattolica in Sicilia. Nell’ottobre del 1920 il periodico divenne Organo del Consiglio Regionale Siculo. A causa di una grave crisi finanziaria il giornale fu costretto a chiudere i battenti nel 1939 anno in cui il giornale ebbe come testata “Voce Cattolica”, pubblicato sino al 1967 e nel 1968 con il titolo “Voce Nostra”. Su questi ultimi aspetti si veda: G. PALMERI, Giornali di Palermo. Settimanali d’opinione dal dopoguerra agli anni ’80, Palermo, Ila Palma, 2002, pp. 119-139.
(36) A. CAMMARATA, Presidente del Circolo Universitario Cattolico E. Amari, Gli Universitari Cattolici d’Italia a settembre si aduneranno a Palermo, in; “Primavera Siciliana”, anno VII, n. 15, 20 maggio 1924, p. 1. In occasione della manifestazione, il 31 agosto 1924, egli chiese ai giovani cattolici di partecipare alla traslazione dell’urna di Santa Rosalia da Monte Pellegrino alla Cattedrale di Palermo. (Si veda: A. CAMMARATA, Presidente del Circolo Universitario Cattolico E. Amari, Per il congresso Universitario. Ai Cattolici di Sicilia, in: “Primavera siciliana”, anno VII, n. 20, 10 luglio 1924, pp. 1-2).
(37) A. CAMMARATA, L’Università del Sacro Cuore ed il dovere dei giovani cattolici, in: “Primavera Siciliana”, periodico regionale della Gioventù Cattolica, anno, VI, n. 29, 20 ottobre 1923, p. 2.
(38) Ibidem.
(39) Lettera di Andrea Butera, in “Primavera Siciliana”, anno VII, n. 6, 20 febbraio 1924, p, 2.
(40) A. CAMMARATA, Problemi d’organizzazione, occupiamoci seriamente della propaganda, in: “Primavera Siciliana”, anno VII, n. 13, 1° maggio 1924, p. 1; si veda anche A. CAMMARATA, Per il congresso Universitario. Ai Cattolici di Sicilia, in: “Primavera Siciliana”, anno VII, n. 20, 10 luglio 1924, pp. 1-2.
(41) Lettera di Arcangelo Cammarata a Luigi Sturzo, San Cataldo, 22/10/1925, in: Archivio Luigi Sturzo, Roma, fasc. 296, doc. n. 47. La lettera, insieme ad alcune cartoline postali inedite indirizzate a Sturzo sono riportate in Appendice al presente lavoro.
(42) Tale iniziativa gli era stata, probabilmente, ispirata dallo zio Calogero Cammarata, presidente della cassa rurale di San Cataldo e della Federazione diocesana delle opere economico-sociali, che sei mesi prima (18 novembre 1923), durante la prima riunione della giunta diocesana di Azione Cattolica, aveva garantito l’appoggio delle casse rurali con quote annuali a favore dell’Azione Cattolica. (Si veda C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, cit., p. 127).
(43) Risposta di Andrea Butera, in: “Primavera Siciliana”, anno VII, n. 13, 1° maggio 1924, p. 1.
(44) A. CAMMARATA, Polemichetta cortese, San Cataldo, 26 gennaio 1924, in: “Primavera Siciliana”, anno VII, n. 6, 20 febbraio 1924, p. 2.
(45) A. CAMMARATA, Giornalismo cattolico, “Primavera siciliana”, anno IX, n. 10, 14 marzo 1926, p. 4.
(46) Ibidem.
(47) A. CAMMARATA, Giornale cattolico, in: “Primavera siciliana”, anno IX, n. 7, 21 febbraio 1926, p. 1.
(48) Ibidem.
(49) Ibidem.
(50) A. CAMMARATA, Cattolici e patriotti, (prima parte), in: “Primavera siciliana”, anno V, n. 16-17, 31 agosto 1922, p. 4.
(51) Ibidem.
(52) Ibidem.
(53) Ibidem.
(54) A. CAMMARATA (studente in Legge), Cattolici e patriotti, (seconda parte), in: “Primavera siciliana”, anno V, n. 20, 31 ottobre 1922, p. 4.
(55) Ibidem.
(56) Ibidem.
(57) A. CAMMARATA, 29 giugno, in: “Primavera siciliana”, anno VII, n. 18, 20 giugno 1924, p. 1.
(58) Ibidem.
(59) Ibidem.
(60) Ibidem.
(61) Ibidem.
(62) Sui programmi didattici del 1923 si veda AA.VV., Maestri anni Novanta, Firenze, Le Monnier, 1991, pp. 349-351. Sui programmi scolastici di Giovanni Gentile si veda: G. LOMBARDO RADICE, I programmi di Gentile: discorso ai maestri di Fiume, 24 febbraio 1924, in: Problemi ed esperienze, pagine scelte e coordinate da E. Codignola, Firenze, La Nuova Italia, 1926; F. ARMETTA, Il carteggio tra Caramella e Lombardo Radice (1919-1935). Idealismo e riforma della scuola, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2001, pp. 157-182.
(63) A. SCHIAVO, Introduzione a Gentile, Roma-Bari, Editori Laterza, 1974, p. 115.
(64) “II. Libertà di insegnamento in ogni grado. Riforma e cultura, diffusione dell’istruzione professionale”.
(65) A. CAMMARATA, Scuola classica e scuola professionale, in: “Il Popolo”, anno IV, n. 9, 14 ottobre 1923, pp. 1-2.
(66) Ivi, p. 2.
(67) Ibidem.
(68) Cfr. C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, cit., p. 79.
(69) Ivi, p. 80.
(70) Ivi, p. 81, n. 19.
(71) “Il Popolo”, anno I, n. 1, 30 maggio 1920, p. 2.
(72) Il Partito Popolare Italiano a Caltanissetta, in: “Il Popolo”, anno I, n. 1, 30 maggio 1920, p. 2.
(73) Da San Cataldo. Il Fascio Giovanile P.P.I. e l’On. Ernesto Vassallo, in: “Il Popolo”, anno I, n. 11, 5 settembre 1920, p. 3.
(74) Cfr. C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, cit., n. 24, p. 86.
(75) Da San Cataldo. Elezioni amministrative, in: “Il Popolo”, anno I, n. 14, 19 settembre 1920, p. 4. Su questa vicenda si veda C. NARO, Tre preti “sociali”, cit., n. 35, pp. 136-137.
(76) Da San Cataldo. Risveglio democratico, in: “Il Popolo”, anno I, n. 15, 29 settembre 1920, p. 3.
(77) Da San Cataldo. Pubblico comizio per la quistione agraria, in: “Il Popolo”, anno I, n. 16, 14 ottobre 1920, p. 4.
(78) Ibidem.
(79) C. NARO, Tre preti “sociali”, cit., n. 35, p. 137.
(80) Da San Cataldo. Arrivo dell’On. Vassallo, in: “Il Popolo”, anno II, n. 2, 24 aprile 1921, p. 4.
(81) Da San Cataldo. Elezioni politiche, in: “Il Popolo”, anno II, n. 3, 1° maggio 1921, p. 4.
(82) Da San Cataldo. La venuta di S.E. e il contegno del Vice Commissario di P.S. provocano una dimostrazione di affetto e di amore al P.P.I. e ad E. Vassallo, in: “Il Popolo”anno II, n. 6, 15 maggio 1921, p. 2.
(83) Cfr. C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, vol. II, cit., p. 98.
(84) Ivi, p. 99.
(85) Ivi, p. 101.
(86) Ivi, p. 102.
(87) Vita di Partito. Il IV Congresso dei Popolari della Provincia, in “Il Popolo”, anno IV, n. 7, 9 settembre 1923, p. 2.
(88) Da San Cataldo. Nella Sezione del P.P.I., in: “Il Popolo”, anno V, n. 1, 6 gennaio 1924, p. 3.
(89) A. CAMMARATA, Figure che non scompaiono. Vincenzo Tangorra, in: “Il Popolo”, anno V, n. 1, 6 gennaio 1924, p. 1.
(90) A. CAMMARATA, Un cinquantennio, in: “Primavera siciliana”, anno VI, n. 5, 20 febbraio 1923, p. 1. Tale articolo fu scritto in occasione del cinquantesimo della morte di Manzoni, ricorrenza che sarebbe avvenuta nel maggio successivo. Cammarata incitava i giovani cattolici a celebrare l’anniversario organizzando nei vari circoli seminari e incontri culturali.
(91) A. Cammarata a Luigi Sturzo, San Cataldo 22/10/25, Archivio Luigi Sturzo (Roma), fasc. 296, doc. 47; la lettera è riportata in appendice.
(92) C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, cit., p. 191.
(93) Ivi, p. 112.
(94) Ivi, p. 192.
(95) Ivi, p. 211, nota 18.
(96) Ibidem.
(97) Ivi, pp. 189-209.
(98) Una denunzia dei fascisti di Sommatino contro i dirigenti diocesani dell’Azione Cattolica,Caltanissetta 14 novembre 1930, in: C. NARO, L’Azione Cattolica a Caltanissetta, cit., pp. 138-139.
(99) G. DE ANTONELLIS, Storia dell’Azione cattolica, Milano, Rizzoli, 1987, p. 171.
(100) Archivio di Stato di Caltanissetta, Prefettura Gabinetto, nuovo versamento, b. 62, fasc. Attività del clero e Azione Cattolica, lettera del 14 novembre 1931, in: C. NARO, La Chiesa di Caltanissetta tra le due guerre, cit., nota 13, p. 228.
(101) L’Azione cattolica riprende vigorosa la sua attività nella nostra Isola. A Caltanissetta,”Primavera siciliana”, anno XIV, n. 45, 8 novembre 1931, p. 1.
(102) Azione Economico Sociale. Federazione delle opere economiche della Provincia di Caltanissetta, in: “Il Popolo”, anno IV,. N. 3, 1° luglio 1923, p. 3.
(103) La tesi di laurea è stata pubblicata a cura di Cataldo Naro in: A. CAMMARATA, Scritti sul sindacalismo e la cooperazione, San Cataldo, Centro Studi sulla cooperazione “A. Cammarata”, 1986, pp. 15-68.
(104) L. STURZO, I problemi della proprietà terriera (1917), in: La battaglia meridionalista, a cura di Gabriele De Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 97.
(105) Ivi, p. 99.
(106) Ivi, p. 100.
(107) L. STURZO, La questione agraria e il Partito Popolare Italiano (1924), in: La battaglia meridionalista, cit., p. 105.
(108) Ivi, p. 111.
(109) L. STURZO, Per il risanamento del Mezzogiorno, (16 aprile 1924), in: La battaglia meridionalista, cit., p.115.
(110) Ivi, p. 112.
(111) L. STURZO, Politica agraria, (1925), in: La battaglia meridionalista, cit., p. 121.
(112) Ivi, p. 122.
(113) L. STURZO, La funzione storica del Partito Popolare Italiano (Torino, 12 aprile 1923), in: Opere scelte di Luigi Sturzo. Il Popolarismo, a cura di Gabriele De Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 112.
(114) A. CAMMARATA, Sindacalismo e Stato. Introduzione, in: Scritti sul sindacalismo …, cit., p. 19.
(115) “X […] Senato elettivo con prevalente rappresentanza dei corpi della nazione (corpi accademici, comune, provincia, classi organizzate”.
(116) A. CAMMARATA, Scritti sul sindacalismo, cit., p. 52.
(117) L. STURZO, Politica di questi anni (aprile 1948 – dicembre 1949), Bologna, Zanichelli, 1955, p. 197.
(118) Sulla necessità di riconoscere giuridicamente le organizzazioni professionali si veda: A. CAMMARATA, Sindacalismo e Stato, cit., pp. 33-48.
(119) Ibidem.
(120) Ivi, p. 34.
(121) Ivi, p. 43.
(122) Ivi, pp. 46-47.
(123) A. CAMMARATA, Sindacalismo e Stato, cit., p. 23.
(124) Ivi, p. 31.
(125) Ivi, p. 66.
(126) Si veda: C. GIURINTANO, Ignazio Torregrossa, carità cristiana e giustizia sociale, Torino, SEI, 1996, pp. 42-51.
(127) Cfr. L. STURZO, La funzione economica dello Stato, in: Del metodo sociologico (1950), Bologna, Zanichelli, 1970, pp.
(128) A. CAMMARATA, I problemi sindacali e la libertà di organizzazione, in: “Il Popolo”, IV, n. 6, 26 agosto 1923, p. 2: ora in A. CAMMARATA, La battaglia popolare, a cura di Cataldo Naro, San Cataldo (Caltanissetta), Centro Studi sulla Cooperazione “A.Cammarata”, 1991, pp. 9-10.
(129) Ivi, p. 10.
(130) Ivi, p. 11.
(131) LEONE XIII, Rerum Novarum. Sulla condizione degli operai (1891), in: Tutte le encicliche dei sommi pontefici, raccolte e annotate da Eucardio Momigliano e G. M. Casolari s.j., vol. I, Milano, dall’Oglio Editore, 1959, p. 440.
(132) A. CAMMARATA, I problemi sindacali e la libertà di organizzazione, cit., p. 12.
(133) Da San Cataldo. Uomini vecchi e sistemi nuovi, in: “Il Popolo”, anno IV, n. 10, 28 ottobre 1923, p. 2.
(134) V. ANZALONE, Da San Cataldo. Nella Sezione del P.P.I., in: “Il Popolo”anno IV, n. 11, 11 novembre 1923, p. 4.
(135) A. CAMMARATA, Sindacalismo e Stato, cit., p. 60.
(136) Ivi, pp. 63-64.
(137) Ivi, p. 63.
(138) Ivi, p. 67.
(139) A. CAMMARATA, L’obbligatorietà dei patti collettivi del lavoro, in: “Il Popolo”, IV; n. 8, 23 settembre 1923, ora in: A. CAMMARATA, La battaglia popolare, cit., pp. 13-14.
(140) Scrive Luigi Sturzo: “l’atto iconoclasta dell’on Capitani fu una piccola soddisfazione data agli agrari, con un gesto che per la sua improvvisazione peccava purtroppo di demagogia a rovescio”. L. STURZO, La funzione storica del Partito Popolare Italiano (Torino, 12 aprile 1923), in: Opere scelte, Il Popolarismo, cit., p. 117.
(141) A. CAMMARATA, La battaglia popolare, cit., p. 16.
(142) Ivi, p. 15.
(143) A tal proposito il programma del P.P.I. stabilisce il: “III. Riconoscimento giuridico e libertà dell’organizzazione di classe nell’unità sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia, lo Stato”.
(144) A. CAMMARATA, La battaglia popolare, cit., p. 18.
(145) A. CAMMARATA, Latifondo e politica fiscale del governo fascista, in: “Rassegna nazionale”, anno XLI, 1924, pp. 187-194; ora in A. CAMMARATA, La battaglia popolare, cit., p. 21.
(146) Ivi, p. 23.
(147) Ibidem.
(148) Ivi, p. 24.
(149) Ivi, p. 25.
(150) Ivi, p. 26.
(151) Ivi, p. 28.
(152) A. CAMMARATA, La battaglia popolare, cit., p. 28.
(153) Lettera di Andrea Buttera del 19 febbraio 1921.
(154) Ivi, p. 31.
(155) Sulle differenze tra i due tipi di corporazione si veda L. STURZO, Del metodo sociologico, Bologna, Zanichelli, 1970, pp. 109-118; 137-152; 161-178.
(156) Cfr. C. NARO, Tre preti “sociali”, cit., n. 37, p. 138.
(157) Si vedano le lettere riportate in Appendice.
(158) Si veda: A. CAMMARATA, Sindacalismo e Stato, cit., p. 67.
(159) Le lettere e le cartoline postali, riportate in Appendice si trovano presso l’Archivio “Luigi Sturzo” di Roma. Ringrazio il Prof. Vittorio De Marco per avermene gentilmente spedito le copie.
(160) Da ora in avanti verrà indicato con la sigla: ALS.