Il mio contributo allo studio di questa grande figura d’uomo, di giurista, di politico di poeta delle cose concrete, ritengo non possa che partire da una frase scritta da Pier Luigi Ingrassia, direttore de L’Ora di Palermo, in occasione della presentazione del discorso di commemorazione tenuto dall’on. Paolo D’Antoni al Circolo della Stampa di Palermo il 6 febbraio 1950, Ingrassia che lo conobbe molto da vicino nei caotici mesi che precedettero la conquista dell’autonomia e che lo apprezzò per la chiarezza delle idee e la coerenza dei comportamenti, scrisse in quell’occasione che <<Giovanni Guarino Amella aveva speso una esistenza intera con il popolo siciliano e per il popolo siciliano>>.(2)
Purtroppo, tuttavia, di quest’uomo che spese una vita per il miglioramento delle plebi meridionali e per la crescita morale ed economica della sua Sicilia, i siciliani che abbiano meno di cinquant’anni conoscono ben poco: è questa l’ingrata legge della storia che spesso, molto spesso, riconosce grandi meriti a chi pochi ne ha, e si dimentica di chi ha effettivamente agito nell’interesse collettivo, magari rifiutando ogni forma di protagonismo. Così oggi, accanto a personaggi che sono stati immortalati dalla storiografia e dalla pubblicistica come padri e madri dell’autonomia e dello statuto, sol per aver abbozzato un articolo dello stesso o per aver genericamente scritto di regionalismo(3), l’uomo che aveva fatto parte della Consulta regionale elaborando uno dei primi progetti d’autonomia, dal 1860 in poi, che aveva appassionatamente difeso lo statuto approvato dalla consulta regionale, nel suo ruolo di consultore nazionale, contro la tenace opposizione di Einaudi e di Ricci, che aveva lottato affinché la carta dell’autonomia fosse varata immediatamente con decreto luogotenenziale, senza attendere l’elezione dell’assemblea costituente e che aveva, infine, fatto parte della Commissione paritetica per l’attuazione delle norme statutarie, dando un contributo determinante per la sua preparazione giuridica e per il suo equilibrio, meritando di essere definito <<tra gli uomini politici siciliani, il più competente nel problema dell’autonomia siciliana e il più appassionato e tenace sostenitore(4)>>, non è nemmeno citato come parente lontano di quella che, allora, fu una delle più grandi conquiste che il popolo siciliano avesse conseguito nei millenni della sua storia.
Non si pretende certo, in questa sede, di fare completa giustizia, ma ci si augura di far meditare, soprattutto le più giovani generazioni di studiosi, sulla necessità di avviare approfondite indagini storiche e giuridiche su questo grande siciliano, indagini che ora appaiono certamente favorite dai documenti messi a disposizione dalla neonata fondazione Giovanni Guarino Amella.
Guarino Amella che, fin da giovane, “esercitò la politica come una scienza ed un’arte, che mentre difende e regola concreti interessi, non perde di vista i fini umani e morali della vita”(5), nacque da famiglia di piccoli proprietari di Sant’angelo Muxaro, in provincia d’Agrigento, l’8 ottobre 1872. Giovanissimo, si trasferì per motivi di studio a Canicattì dove entrò nelle grazie del barone Francesco Lombardo, ricchissimo proprietario lungimirante e aperto ad ogni forma di progresso che, conquistato dall’intelligenza del giovane, lo pose sotto la sua protezione finanziandogli tutti gli studi fino alla laurea in giurisprudenza, conseguita presso l’ateneo palermitano e che finì per considerarlo come un vero e proprio figlio adottivo.
Ritengo che non si possa comprendere appieno la personalità del politico agrigentino prescindendo dall’influenza che su di lui esercitò il barone Lombardo. Questi fu uno dei pochi aristocratici siciliani, forse perché figlio di un’aristocrazia nuova, nata da una borghesia intraprendente e laboriosa, che seppe comportarsi alla stregua degli antichi possidenti inglesi, la cosiddetta gentry, cioè quella nobiltà di campagna che aveva trasformato le terre avite in vere e proprie aziende attive e aperte sempre a nuove sperimentazioni culturali, oggetto d’investimenti continui, determinanti per l’ulteriore arricchimento dei proprietari, ma soprattutto per il miglioramento dell’economia locale. Così Francesco Lombardo, come del resto molti altri possidenti dell’alacre centro agrigentino, lungi dall’accontentarsi dell’esigua rendita cerealicola e dall’appiattirsi sulla parassitaria conduzione latifondistica, comune alla maggior parte del territorio isolano, volle sperimentare nuove colture, come, per esempio, quella del mandorlo che soppiantò la vite dopo l’epidemia della fillossera. Convinto che fosse meglio per tutti favorire l’evoluzione delle plebi contadine verso forme di vita più civili, favorì la nascita delle prime affittanze collettive cattoliche, cedendo in affitto a tali cooperative parte dei suoi estesissimi latifondi, all’interno dei quali costruì una razionale rete stradale di ben 60 chilometri e parecchie case coloniche. Tale sua intraprendenza e la lungimiranza, nell’avvertire la necessità sempre più impellente di cambiare le insostenibili condizioni imposte al mondo contadino dalla struttura latifondistica, procurarono lavoro e mantenimento ai tanti derelitti che costituivano la stragrande maggioranza della Sicilia del tempo.(6) Per tali iniziative fu citato da Giovanni Lorenzoni nella sua relazione sull’inchiesta agraria condotta in Sicilia dal governo nel 1910.(7)
In collaborazione con il suo pupillo, il barone costituì una commissione per richiedere al governo di Roma l’ampliamento del territorio di Canicattì e si adoperò tenacemente per l’abolizione delle decime regie nel territorio agrigentino, anacronistica derivazione dalle decime ecclesiastiche la cui completa abolizione sarà ottenuta in seguito, proprio per l’indefesso lavoro del Guarino.(8)
E’ indubbio che l’interesse del barone per i problemi della società circostante e il suo tenace impegno per il miglioramento delle plebi locali, influirono positivamente sulla formazione spirituale e politica del giovane Guarino che, in un periodo particolarmente ricco di avvenimenti per la Sicilia, – i Fasci, la crisi agraria, le ripercussioni negative della tariffa doganale, l’inizio dell’emigrazione – trovò un’effettiva rispondenza ai suoi ideali nella sinistra estrema del tempo, costituita da repubblicani, democratici mazziniani, radicali, riuniti intorno alle figure carismatiche di Imbriani e Cavallotti, a livello nazionale, e di Napoleone Colaianni, a livello regionale. Giovane studente universitario nella Palermo dei Fasci, Guarino se ne fece sostenitore insieme a Colaianni e, dopo la proclamazione dello stato d’assedio e lo scioglimento degli stessi nel gennaio del 1894, si sottrasse alla prigione grazie, ancora una volta, al barone Lombardo che ne protesse la latitanza. Già da allora, alla scuola del Colaianni che, dalla redazione dell’Isola prima, e del Siciliano poi, lanciava il suo programma politico alla gioventù assetata di giustizia e di cambiamenti, Giovanni Guarino aveva cominciato ad accarezzare l’idea dell’autonomia, esaltata da quella sorte d’esperimento politico e amministrativo che fu il Commissariato civile di Codronchi e dal famoso Memorandum a lui indirizzato dai socialisti siciliani.(9) Nel radicalismo di fine Ottocento il giovane avvocato di Canicattì trovava la soluzione ai disagi derivanti, sia da un collettivismo livellatore e distruttore d’ogni libertà personale, proprio del messaggio marxista, sia da un liberismo sfrenato ed individualista assolutamente insensibile ai problemi dei più deboli. Tale concetto sarebbe stato alla base dell’azione politica del Guarino fino alla sua morte, se in un articolo de La Fiaccola, giornale da lui fondato nel dopoguerra, quando era ormai esponente del partito demosociale, dove era confluito dopo la diaspora che aveva svuotato il partito radicale nel primo dopoguerra, così scriveva: “Mai nel campo economico è esistito ed esisterà un asserto che sia puramente liberista o assolutamente comunista. Vi è sempre una coesistenza d’iniziativa privata e d’intervento di Stato. Si tratta di realizzare, in ogni situazione storica, la sintesi più efficace”(10).
Da sempre il lavoro fu per lui elemento distintivo e qualificante all’interno della società: ” chi non lavora non dovrebbe essere né elettore, né cittadino”, ma il lavoro non era inteso solo come lavoro manuale, ma anche come lavoro di concetto dei professionisti, degli impiegati degli stessi proprietari terrieri o imprenditori attivi e propensi, con lo sforzo della mente, ad incrementare la produzione e lo sviluppo del benessere generale. Tale posizione lo avvicinava molto al pensiero e al progetto politico di uno dei primi socialisti italiani, annoverato fra la pattuglia dei socialisti utopisti, cioè premarxisti, Giuseppe Ferrari, convinto sostenitore del principio di un diritto di proprietà vincolato essenzialmente al lavoro. Guarino, pur ampliando il concetto del Ferrari, col riconoscere l’ammissibilità anche della proprietà ereditaria, purché gestita attivamente e in senso imprenditoriale, era anch’egli schierato sul fronte della socializzazione dei servizi essenziali: ” Il nostro movimento si riassume nel binomio di democrazia e di lavoro. […] Dalle soffocanti ingerenze del regime fascista e poi dell’economia di guerra noi aneliamo ad un maggiore respiro di libertà e di iniziativa privata; ma è indispensabile la guida e il controllo dello Stato che si spingerà sino alla socializzazione, per dati servizi essenziali ed industrie chiave, ed alleggerirà, invece, la mano per altre attività economiche”.(11)
Il suo ingresso nell’agone politico risale al 1902 quando fu eletto consigliere al Comune di Canicattì, imponendosi sulle forze conservatrici di Cesare Gangitano; arriva, finalmente, l’occasione per trasferire i suoi ideali da un piano eminentemente astratto alla realizzazione concreta o, almeno, alla lotta effettiva per farli trionfare. Nel 1906 viene eletto consigliere provinciale per la provincia di Girgenti, come esponente dell’Unione Democratica Popolare, battendo, ancora una volta, nel collegio di Canicattì, il Gangitano, la cui famiglia aveva monopolizzato fino a quel momento la politica cittadina. Fondamentale nel suo successo elettorale era stata la propaganda condotta sul primo fra i tanti giornali da lui fondati, Il Moscone, in cui aveva esposto con chiarezza e determinazione il suo programma politico centrato, soprattutto, sul risveglio delle plebi siciliane e sul miglioramento della situazione economica e sociale della regione. Egli sosteneva la necessità di migliorare le condizioni di vita delle masse rurali, con una maggiore istruzione e con una maggiore tutela della salute dei lavoratori, cominciando col fornire loro abitazioni dignitose. Tutto ciò, insieme ad un maggiore investimento di capitali, avrebbe nettamente migliorato le condizioni dell’agricoltura, principale risorsa dell’economia siciliana, rimasta fino a quel momento in uno stato di spaventosa arretratezza. Pensò bene, perciò, di riportare per intero, sulle pagine del suo giornale, l’articolo di un esperto nel campo dell’agricoltura, il prof. Tommaso De Crescenzio, il quale aveva in poche righe sintetizzato il male fondamentale dell’economia agraria siciliana “[…] il grande proprietario si diverte da signore in città, l’affittuario sfrutta volgarmente la terra, il contadino, con fatalismo musulmano, fa quel che i suoi avi facevano e non si cura di altro[…].”(12)
La pubblicazione dell’articolo del De Crescenzio consentiva a Guarino di far conoscere, dalle pagine del suo giornale, le occasioni che la legge sul Mezzogiorno, voluta da Sonnino, offriva all’agricoltura meridionale. Tale legge prevedeva la riduzione del 30% dell’imposta erariale sui terreni e l’esenzione totale dei fabbricati rurali dall’imposta sui fabbricati e dall’imposta sui terreni. Ai fabbricati rurali venivano equiparati fiscalmente anche le case site all’interno dei centri abitati che servissero da abitazione ai contadini. La legge Sonnino, peraltro, provvedeva all’antico problema dei contadini, quello relativo alla mancanza di capitali per comprare le sementi, obbligando i proprietari a fornirle agli stessi, insieme all’indispensabile per la coltivazione del fondo e per il mantenimento delle famiglie. Quest’obbligo fatto al proprietario liberava, finalmente, il contadino dalla piaga dell’usura, per combattere la quale le masse si erano affidate alla protezione dei clericali che, tramite le casse rurali, avevano cercato di ovviare a questo drammatico fenomeno. Pur riconoscendo che il movimento cattolico aveva, in effetti, portato un certo sollievo al ceto rurale, Guarino era certo che non dalla Chiesa potesse venire la riscossa per le plebi, né dal movimento socialista. Si trattava, infatti, di due integralismi che non ammettevano soluzioni diverse da quelle prospettate dalla loro dottrina, respingendo, dunque, a prescindere da ogni valutazione di merito, l’apporto che potesse venire al movimento contadino e all’agricoltura siciliana, in genere, da altre forze politiche. Pur essendo un progressista, aveva apprezzato fortemente l’impegno meridionalista del conservatore Sonnino che, con la legge sul Mezzogiorno, aveva fatto molto di più per il proletariato agricolo meridionale di quanto avessero fatto Giolitti, malgrado le sue apparenti aperture al problema sociale, e gli stessi socialisti, interessati quasi esclusivamente alla questione del proletariato industriale del nord.
Era proprio una caratteristica di Guarino, cosa che peraltro dimostrava il suo perfetto equilibrio interiore, quella di apprezzare i lati positivi dell’avversario politico, evitando di demonizzarlo tout court solo perché combattente sull’altra parte della barricata. Abbiamo molti esempi della sua tolleranza che non era altro che la manifestazione esteriore di ciò che egli effettivamente perseguiva: il bene della collettività da chiunque fosse determinato. Pur essendo un convinto anticlericale, apprezzò, per esempio, il carisma, la forza interiore e l’impegno sociale del cappuccino canicattinese padre Gioacchino La Lomia, in cui vide, forse nell’unico, breve incontro della sua vita, i segni della santità: “[…] Confesso che io vissuto nel tumulto delle passioni e nei contrasti di lotte aspre, rimasi disorientato. Non mi ero trovato mai in contatto con un uomo veramente al di fuori e al di sopra delle passioni umane: avevo di fronte un mondo morale, una psicologia ed un’intelligenza a me sconosciuti. Umile, sereno, indulgente, esprimeva con poche parole, sui fatti e sulle persone di cui gli parlavo, un giudizio assolutamente diverso da quello che avrebbe dato qualunque altro uomo, concorde o discorde da me. Ciò perché il punto di riferimento dei suoi giudizi era al di fuori e al di sopra dell’umanità. Ed ebbi allora la sensazione che Padre Gioacchino non fosse un uomo di questo mondo, ma un Santo”(13)
Nel 1912 Guarino era diventato assessore al Comune di Canicattì, braccio destro del sindaco Gaetano Rao che, vent’anni prima, era stato il presidente del fascio locale. Due anni dopo assume le funzioni di pro-sindaco e le mantiene per tutta la durata del conflitto.Nonostante le difficoltà e le ristrettezze economiche che la guerra comporta, riesce a realizzare alcune tra le più importanti opere pubbliche della storia della Canicattì moderna: l’istituto scolastico Rapisardi, l’ampliamento del cimitero, la bonifica del torrente Naro, il lazzaretto e soprattutto costituisce il Consorzio tra sette comuni per la gestione dell’acquedotto Tre Sorgenti. A proposito di questa sua felice sindacatura commenta il D’Antoni: “Non è facile trovare un capo di parte che sia veramente il Sindaco della città, né un sindaco che sia davvero un capo. Ma Guarino Amella realizza nella sua persona questa felice esperienza. Egli, senza negare le ragioni e gli interessi del partito, lo supera, combattendo le tendenze utilitarie, gli esclusivismi, le faziosità, sempre ricorrenti, e soccorre in misura e modi diversi tutti, ricchi e poveri, prodigandosi in mille forme di assistenza civile[…] A quanti ne invocano l’aiuto, non chiede tessere e certificati. A nessuno ricorderà mai le ragioni della gratitudine”.(14)
Nelle elezioni generali del 1913, le prime a suffragio universale, Guarino si dimostrò protagonista della vita politica agrigentina lottando strenuamente contro i clericali, guidati da padre Sclafani, contro i ministeriali dediti al trasformismo che avevano il loro maggiore esponente provinciale in Gregorio Gallo e contro la cosca massonica locale capeggiata dal suo nemico di sempre: Enrico La Loggia. Grazie all’abilità di Guarino e all’intelligente propaganda condotta attraverso il suo giornale del momento Il Chiodo, lo schieramento progressista da lui sostenuto riportò una schiacciante vittoria sui clericali portando in Parlamento l’avv. Marchesano che riuscì vincitore sul canicattinese Gangitano, il Duca di Cesarò nel collegio d’Aragona e La Lomia Aldisio in quello di Licata. Risulta strano al giorno d’oggi che un uomo che era indubbiamente la personalità politica più importante della provincia, si adoperasse con tutte le sue forze per l’elezione di altri, rimanendo dietro le quinte, con l’intima soddisfazione di aver fatto trionfare il partito antigiolittiano.
La rivalità tra Guarino e La Loggia, nata proprio in quel periodo, sarebbe durata tutta la vita, portando i due, veri campioni dell’intellighenzia agrigentina e siciliana, a militare su barricate opposte anche quando le loro idee collimavano. Si trattò certamente più di una rivalità personale che di un vero e proprio antagonismo politico, dovuto all’impatto tra due grandi menti e tra due personalità sostanzialmente diverse; la passionalità e l’intransigenza di Guarino cozzavano contro il tatticismo e il protagonismo di La Loggia.
Il duello tra i due cavalli di razza agrigentini sarebbe continuato nelle elezioni politiche del 1919, le prime col sistema proporzionale, quando il massone La Loggia, pur di sconfiggere il suo diretto rivale, non esiterà a chiedere l’appoggio dei clericali di Sclafani suscitando così l’ironia del Guarino che, sulle pagine de Il Chiodo, metteva magistralmente alla berlina l’accordo innaturale tra due non avversari, ma nemici, il massone Parlapiano e il clericale Demichele che, dopo la vittoria elettorale “[…] si corsero freneticamente incontro e si abbracciarono come due fratelli che si erano a lungo amati senza saperlo. D’altronde è missione del prete unire due anime sospinte l’una verso l’altra da invincibile impeto d’amore e, se anche l’unione si rivela contro natura, curerà padre Sclafani d’impartirle l’apostolica benedizione”(15). In quella consultazione elettorale l’avvocato canicattinese ottiene dal suo collegio, quasi plebiscitariamente, esattamente con 37.845 voti, il mandato parlamentare e correttamente, decide, per tutto il tempo in cui esercita la funzione di deputato, di interrompere l’esercizio della professione, poiché giudica eticamente incompatibili le due attività. Tuttavia la legge elettorale che prevede la rappresentanza delle minoranze, concede anche all’avversario di sempre, La Loggia, un seggio in Parlamento.
Il seggio parlamentare di Guarino Amella sarebbe stato confermato nelle successive elezioni del 1921 e del 1924, elezioni in cui l’illustre avvocato si presentò nella lista dei demosociali.
Anche nei confronti del fascismo mantenne un atteggiamento coraggioso, ma obiettivo, a differenza della retorica melensa degli antifascisti dell’ultima ora, divenuti pronti ad ergersi in tutta la loro integrità morale contro il regime liberticida, ma solo quando lo stesso era rotolato nella polvere. Guarino era stato coerente ai suoi ideali lottando contro il fascismo fin dal suo sorgere, nonostante alcuni esponenti del suo partito, come Colonna di Cesarò fossero stati chiamati a far parte del primo governo Mussolini. Fu segretario dell’Aventino, scelto per ricoprire tale incarico appunto per il suo noto coraggio e per l’onestà intellettuale. E il coraggio, in effetti, lo dimostrò in due particolari episodi: quando a Pontecorvo, vicino a Roma, rischiò di essere bruciato vivo dentro una casa assediata dai fascisti che il giorno prima gli avevano intimato di lasciare il paese e di rinunziare al comizio contro il governo e quando, dopo l’inizio della dittatura vera e propria, entrò a Montecitorio, con le armi in pugno, per superare l’opposizione di Farinacci e degli altri gerarchi fascisti.
Ritiratosi nella sua Canicattì, dopo le leggi fascistissime del ’25, vi esercitò la professione forense fino all’arrivo degli alleati che lo investirono dell’incarico di sindaco. Fu così il primo sindaco antifascista nominato dagli alleati in Sicilia. Tuttavia, fu sempre pronto a riconoscere quelli che considerava i lati positivi del ventennio: apprezzò indubbiamente il carattere corporativista dello Stato fascista se, nel suo progetto di Statuto regionale proponeva, se non la costituzione di una Camera corporativa con potestà legislativa, almeno un consesso formato dai rappresentanti delle varie categorie di lavoratori e datori di lavoro che avesse, almeno, potere consultivo o, addirittura, propulsivo in relazione alle leggi concernenti materie di competenza regionale.(16) Fu colui che nello stilare, per la Consulta regionale, la relazione sull’ordine pubblico, chiese addirittura il ripristino delle leggi di polizia fasciste e della stessa pena di morte, in un momento in cui, per lo smarrimento generale, tali misure apparivano le più idonee alla situazione gravissima. D’altra parte anche in relazione al problema del latifondo, le soluzioni da lui prospettate non erano molto lontane da quelle previste dalla legge Tassinari sull’assalto al latifondo, del gennaio 1940. Guarino, invero, premetteva la divisione della proprietà, ad ogni tipo di bonifica, ritenendo che le migliorie sarebbero naturalmente intervenute in seguito alla gestione individuale delle piccole quote; tuttavia, auspicava la creazione di un ente che desse ai contadini l’indirizzo tecnico per una coltivazione razionale dell’intero latifondo seppur suddiviso in quote: “[…] Così potrà aversi ancora, nonostante la quotizzazione in proprietà, la possibilità degli acquisti in comune delle sementi, delle macchine agrarie e la possibilità della costruzione e della manutenzione in comune dei bevai e delle vie poderali, perfino la comproprietà delle zone montuose, pascolative, tutto ciò insomma che esce dall’ambito della piccola proprietà individuale e che richiede unità d’azioni e di volontà o associazione delle singole azioni e delle singole volontà coordinate da un unico fine”(17) Il diritto di proprietà era per lui inscindibilmente legato all’esercizio razionale dello stesso che, dunque, veniva automaticamente meno, nel momento in cui la proprietà non venisse fatta fruttare. Un concetto, questo, molto vicino, oltre come abbiamo già detto alle teorie del Ferrari, anche al programma del fascismo sansepolcrista e del fascismo di Salò.
Era, peraltro, d’accordo sull’urbanizzazione delle campagne che avrebbe favorito l’impianto di culture intensive, quindi più redditizie e che poteva ottenersi soltanto con la costruzione di borghi rurali.
Da uomo tutto d’un pezzo non si faceva scrupoli nel riferire anche gli episodi che gettavano luce sul fascismo, perché, pur detestandolo egli conservava sempre rispetto per il nemico che combatteva.(18)
D’altra parte di fronte all’onestà e all’intelligenza dell’interlocutore egli metteva da parte ogni divisione ideologica e politica, sacrificando l’idea sull’altare dell’amicizia e della stima personale. Nel suo studio si attorniava d’allievi, giovani avvocati, quasi tutti militanti nelle file della Democrazia Cristiana, partito per il quale non nutrì mai particolare simpatia, parlo di Paolo Trento, di Giuseppe Signorino, di Giuseppe Alaimo. Ebbe veri amici fra gli stessi fascisti che non disdegnò mai di frequentare a livello di rapporti assolutamente personali. E quando il regime chiese, dopo le sanzioni economiche inflitte all’Italia dalla Società delle Nazioni, per l’attacco all’Etiopia, oro per la patria, Guarino, antifascista della prima ora, fu il primo ad offrire ciò che di più caro possedeva, la medaglietta d’oro di deputato nazionale, accompagnando l’offerta con una lettera che così si concludeva: “Nel cratere che arde sull’altare della Patria si fondono le vecchie e le nuove passioni”(19)
Fu soprattutto alla fine del secondo dopoguerra che Guarino Amella diede il meglio di sé, dedicandosi, anima e corpo, alla realizzazione di quell’autonomia regionale che fin dal 1906 aveva fortemente auspicato. In un momento in cui l’accentramento politico e amministrativo appariva indiscutibile, Guarino dalle pagine del suo giornale Il Moscone, sosteneva che l’autonomia era l’unico rimedio, data la contrapposizione di interessi fra nord e sud e la diversità di energie e di risorse, per risolvere il divario economico e avviare la Sicilia verso il progresso: “[…] C’è troppa disuguaglianza tra i nostri caratteri e finché saremo governati da uniche leggi, i nostri sforzi per avanzare saranno vani, quel che c’è di barbaro in mezzo a noi metterà più solide radici, perché è impossibile che un popolo si possa levare ad altezza di sentire, ad alte idealità, quando le leggi che lo governano non mirano al suo benessere materiale e morale”.(20) Erano, tutto sommato, le idee già espresse in Lombardia da Dario Papa e dal Niceforo, alla fine del secolo precedente; essi auspicavano, rispettivamente, una secessione del nord dal sud e una legislazione diversa per le due parti del Regno. Era anche l’idea propugnata da Salvemini che aspirava, almeno, a quel federalismo fiscale, che sarebbe stato abbracciato dal Guarino, proprio nel suo schema di statuto regionale.
Quest’idea che Guarino coltivava da tempo non poté più essere discussa per l’avvento, prima della guerra, e poi del fascismo. Nel secondo dopoguerra il problema venne precipitosamente a galla per lo scoppio, nella Sicilia liberata dagli americani e formalmente fuori dalla guerra, della tempesta indipendentista.
Non si può parlare a riguardo, come fanno alcuni storici di una forma di reazione alla tirannide accentratrice fascista, quanto, a mio parere, del riaffiorare periodico dello spirito separatista siciliano che, come scrive Renda, scorrendo come un fiume carsico sotterraneamente, affiora impetuoso ogni qualvolta una crisi istituzionale si affaccia all’orizzonte, quasi un sisma che scombini i precari equilibri esistenti.
Se guardiamo alla storia della nostra terra, tale fiume carsico affiorò per la prima volta nel 1282 con la rivoluzione dei Vespri, quando l’Isola, estinta la dinastia normanno-sveva, perdeva la sua indipendenza a favore degli angioini di Napoli; nel 1812 in seguito al rimescolamento d’equilibri europei dovuto alle guerre napoleoniche e alla conquista da parte dei francesi del Regno di Napoli, nel 1820 in seguito alla crisi della monarchia borbonica scaturita dalla rivolta carbonara di Morelli e Salviati; nel 1848 nel clima di generale ribellismo prodottosi in Europa, probabilmente anche in seguito alla carestia e dunque alla crisi economica dell’anno precedente; nel 1866 dopo l’unità e soprattutto dopo la soppressione di quelle compagnie religiose che supplivano all’assenza dello Stato nell’assistenza dei più poveri; nel 1894 si registrò solo un sussulto autonomista, più che separatista, in seguito alla repressione dei Fasci siciliani e alla crisi di fine secolo e infine nel 1943 dopo la sconfitta militare, l’occupazione nemica e la caduta del regime fascista.
Fu certamente questo rigurgito di separatismo che rimise sul tappeto una questione da qualche tempo accantonata, ma mai completamente dimenticata.
Il separatismo di Finocchiaro Aprile si nutriva di rivendicazioni e recriminazioni contro uno Stato che, nei secoli, in Sicilia era stato sempre latitante o, quantomeno distratto. Si rivangavano tutti i torti che l’Isola aveva subito fin dall’Unità, quando era divenuta mercato delle merci del nord, alla stregua di un vero e proprio possedimento coloniale. Nella loro battaglia i separatisti furono in un primo tempo incoraggiati, seppur in maniera quantomeno equivoca, dagli anglo americani che, in quel momento avevano bisogno di agire su un ambiente non ostile e perciò non potevano che appoggiarsi su quel piccolo stuolo di antifascisti costituito dai mafiosi e dai separatisti. Questi ultimi tornavano ad agire come i vecchi feudatari del ‘500 e del ‘600, i quali si servivano del malcontento popolare per scatenare rivolte miranti a conservare il loro stato di privilegio. Così separatisti e mafiosi speravano di poter gestire, senza ostacoli di sorta, una Sicilia indipendente da uno Stato che, diviso dalla guerra civile, occupato a nord e a sud dai nemici, non avrebbe avuto, in quel momento, la forza di reagire.
Malgrado la Sicilia avesse aderito quasi unanimemente al fascismo, soprattutto dopo la campagna antimafia di Mori, dopo la caduta del regime, i notabili siciliani si affrettarono ad abbracciare la tesi del fascismo come malattia del Nord.(21) Le menti più vigili capivano perfettamente che l’indipendenza era soltanto un pericoloso sogno; a parte le remore di carattere patriottico che in molti esponenti della classe intellettuale e politica siciliana, cresciuti nel mito del Risorgimento, si affacciavano con forza, era chiaro ai meno sprovveduti che la Sicilia da sola non avrebbe potuto reggersi soprattutto dal punto di vista economico. Furono proprio questi uomini, che avrebbero costituito la futura nuova classe politica regionale, a scendere immediatamente in campo per arginare i danni che la propaganda separatista avrebbe potuto seminare e a preparare un idoneo ritorno della Sicilia nell’alveo nazionale.
Tra i primi a scendere nell’agone politico fu Enrico La Loggia che, soppiantato ormai da tanti anni, all’interno della provincia, dalla leadership di Guarino Amella, vedeva giunta l’occasione per riprendere il controllo della situazione. Lo fece fondando il Fronte Unico Siciliano contro il separatismo e scrivendo il primo libro che uscì dalle tipografie della Sicilia occupata, Ricostruire, puntigliosamente centrato sull’assetto che l’Isola avrebbe dovuto assumere dopo la fine della guerra. Proprio da quel libro sarebbe nata l’idea di quel famoso articolo 38 che tanta fama avrebbe dato al politico agrigentino, tanto da far sì che venisse definito come il vero padre, insieme a Sturzo, dello Statuto siciliano. Fondare la paternità dello statuto sulla elaborazione di un solo articolo, peraltro il più chiacchierato, o sugli appelli che dagli Stati Uniti giungevano dall’esule calatino, appare quanto meno esagerato, mentre studiosi come Guarino, Salemi, Vacirca, Mineo, Montalbano, spendevano tutte le loro energie per la redazione di uno strumento istituzionale che fosse il più completo possibile e il più adatto alle esigenze della popolazione siciliana. Tuttavia, già dalle tesi avanzate da La Loggia nel suo Ricostruire, si evidenzia la diversa impostazione che egli volle dare, rispetto a Guarino o al Vacirca, alla futura autonomia regionale. La Loggia parte da intenti riparazionisti, dal dovere di uno Stato patrigno di ripagare la Sicilia, da sempre trascurata, dai torti subiti nel passato. Accertato che la quota della popolazione attiva siciliana era minore della media nazionale, l’agrigentino suggeriva un intervento statale, attraverso la spesa pubblica e trattamenti fiscali preferenziali, che accrescesse l’occupazione e perequasse “le quote di popolazione attiva delle varie regioni proletarie a quelle delle regioni più ricche”.(22)
L’autonomia che intendeva La Loggia, consisteva semplicemente in un decentramento di uffici amministrativi, poiché egli rifiutava a piè pari l’istituzione di un organo legislativo regionale, insomma rifiutava il decentramento politico che avrebbe comportato il rischio di scivolare verso il federalismo per “[…] la storica accensibilità del popolo siciliano più volte (come nel 1837, nel ’62, ’66 e ’93) sviatasi e trascesa […] e non contenuta e difficilmente contenibile senza la forza e il prestigio di un potere nazionale”. Un decentramento legi-slativo – secondo La Loggia – sarebbe forse convenuto “[…] più alle regioni ricche, le quali non hanno rivendicazioni da far valere, anziché alle regioni povere che verso le altre vantano un credito che vorremmo chiamare storico – unitario. […] il regionale bisogno, più che di una irrilevante riforma amministrativa…[è] di un indispensabile e vigoroso apporto ad un industrialismo isolano”.(23) Una regionalizzazione, dunque, di carattere apolitico che non si scontrasse con le esigenze di unità politico – amministrativa e che si esaurisse nel settore economico sindacale, con la costituzione di una Camera regionale, e in quello dei Lavori pubblici, mediante la creazione di un Ufficio Regionale.
Il padre dell’autonomia, dunque, almeno in un primo tempo non era per nulla autonomista e la sua proposta, mirante a conciliare le esigenze unitarie e le rivendicazioni meridionalistiche, non era nient’altro che un palliativo giuridico- istituzionale per tenere a bada le istanze separatistiche. Niente di più, dunque, rispetto al progetto minghettiano che puntava su un decentramento regionale assolutamente amministrativo, senza nessuna sfumatura di carattere politico che il Minghetti, invece, riservava, per ragioni di ordine storico, a comuni e province. “La monarchia nazionale da un lato, il decentramento amministrativo dall’altro, erano, secondo lui, la premessa per realizzare l’unione tra ‘forza centrale e libertà locale, necessaria a soddisfare le esigenze delle diverse classi sociali mediante interessi altrimenti incompatibili”(24)
Di tutt’altro avviso il Vacirca, da sempre socialista, ma da sempre geloso custode delle peculiarità della sua Isola che, l’11 gennaio 1944, presentava ai rappresentanti dell’AMGOT uno schema di statuto per l’autonomia siciliana chiedendo che l’obbligo dello Stato italiano di dare l’autonomia alla Sicilia fosse imposto nello stesso trattato di pace. Il progetto Vacirca – Montesanti affidava ad un’Assemblea costituente siciliana, eletta a suffragio universale, il compito di designare i modi e le forme dell’elezione di un’assemblea legi-slativa che sarebbe durata in carica due anni e di elaborare i regolamenti e gli organici dei vari dipartimenti che avrebbero costituito l’impalcatura burocratico – amministrativa della regione autonoma siciliana e di approvare una carta costituzionale regionale.
Il progetto si spingeva fino a chiedere un proprio sistema doganale per la Sicilia e l’autonoma imposizione e riscossione delle imposte. In compenso la regione avrebbe pagato annualmente allo stato una somma proporzionale alla ricchezza totale dell’Isola, alle tasse che avrebbero pagato le altre regioni e ai servizi forniti dallo Stato ai siciliani.(25)
Il progetto di Vacirca, per il suo radicalismo, scandalizzò i più moderati, come La Loggia, il quale addirittura parlò di autonomia separatista. Tuttavia, stretto tra i separatisti e gli autonomisti più radicali, attratti soprattutto dal progetto di regime doganale autonomo che il Vacirca prospettava, La Loggia, per non perdere gli agganci con i cattolici, tradizionalmente autonomisti, ma anche con le forze economiche della regione, inserì nel suo primitivo progetto l’attribuzione alle Camere regionali economiche e sindacali della potestà deliberativa vincolante per l’esonero dai dazi doganali delle merci importate in Sicilia. Improvvisamente anche La Loggia perveniva ad una vera proposta politica e a una riforma di carattere costituzionale, pur giustificando questo suo comportamento con le solite ragioni riparazioniste.(26)
L’11 febbraio 1944 la Sicilia veniva restituita dagli alleati all’amministrazione del Regno d’Italia, rappresentato dal governo del maresciallo Badoglio. Ciò determinò violente proteste da parte dei separatisti, ma anche nel campo degli autonomisti creò qualche problema. Adesso che la Sicilia era pienamente tornata sotto la giurisdizione dello Stato italiano, l’autonomia diveniva questione nazionale e se non era facile mettere d’accordo tutti i siciliani sulla scelta autonomista, ancora più difficile appariva ottenerla da uno Stato in piena crisi militare ed istituzionale, a meno che non si agitasse davanti al governo Badoglio lo spauracchio del separatismo.
In effetti il movimento separatista faceva non poca paura alla classe politica italiana, pronta alla ricostruzione dopo la fine della guerra che si rivelava ormai prossima. Esisteva il concreto pericolo che il territorio italiano ne uscisse mutilato non solo delle terre orientali, Istria e isole dalmate, ma anche della Sicilia, la più estesa delle regioni della penisola, la più ricca di storia. Perciò apparve conveniente dare ai siciliani almeno un’illusione di autogoverno nominando un Alto Commissario di nomina governativa che sovrintendesse a tutte le amministrazioni civili dello Stato nell’Isola, agli Enti locali, agli Enti ed Istituti di diritto pubblico ed agli Enti soggetti a tutela o vigilanza dello Stato e che coordinasse e indirizzasse l’azione dei prefetti e delle altre autorità civili, esercitando in Sicilia tutte le attribuzioni delle Amministrazioni centrali dello Stato, ferme restando l’autorità e la competenza del Consiglio dei Ministri e fatta eccezione per l’amministrazione della Giustizia, della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica. Per assisterlo venne istituita una Giunta Consultiva, prima di sei membri, poi di nove, uno per ogni provincia siciliana e, infine, di 36 – dopo un’aspra battaglia politica la cui storia è ancora oggi ignota – e fu quest’ultima, insediatasi a Palazzo delle Lapidi il 25 febbraio del ’45, a discutere ed approvare lo Statuto. La seduta inaugurale avrebbe dovuto essere solennemente presieduta dal capo del governo Bonomi, ma, alla fine, questi si limitò a mandare un messaggio di saluto, letto da Aldisio, allora ministro degli Interni, dove si sottolineava la necessità che un’ancora ipotetica autonomia regionale, sui limiti della quale le opinioni apparivano molto discordi, non costituisse un allentamento del legame col passato unitario. Aldisio commentò la lettura del messaggio in senso più favorevole al carattere costituente della Consulta “sia perché la sua elaborazione giuridica nel quadro dell’unità nazionale formerà lo scopo principale degli studi [dei consultori], sia perché l’esperimento consultivo costituirà, da una parte, la dimostrazione del grado di maturità politica delle regioni d’Italia al loro autogoverno e dimostrerà, dall’altra, l’attitudine dell’ente regione non già ad allentare, ma a rinvigorire il vincolo nazionale.”(27)
Primo Alto Commissario fu nominato, l’8 marzo 1945, Francesco Musotto, già prefetto di Palermo, gradito sia agli alleati, sia ai separatisti. Una delle attribuzioni concesse all’Alto Commissario era quella di partecipare alle riunioni del Consiglio dei Ministri dedicate alla trattazione di affari riguardanti la Sicilia, senza voto deliberativo.
Se per il governo Badoglio la nomina dell’Alto Commissario aveva un significato interlocutorio, serviva, cioè, a tacitare i fermenti indipendentisti siciliani prima di riassorbire l’isola nel normale sistema amministrativo centralista, tant’è che il decreto di nomina limitava l’esercizio delle funzioni dell’Alto Commissario ad un solo anno, per i siciliani, invece, si trattava solo di una prima tappa verso la completa autonomia, tant’è che Salvatore Aldisio, nominato ministro degli Interni nel secondo governo Badoglio, dichiarò di subordinare la sua permanenza nell’esecutivo al riconoscimento di massima del regime autonomistico alla Sicilia, il più presto possibile. Del resto subentrato da lì a quattro mesi all’uscente Musotto nel ruolo di Alto Commissario, intessé una fitta rete diplomatica per ampliare i suoi poteri ed accelerare la concessione dell’autonomia alla Sicilia.(28)
La prima seduta della Consulta, in effetti, dimostrò le diverse anime dei suoi componenti e soprattutto le differenze d’opinioni che scaturivano dalle molteplici formazioni ideologiche. Infatti, Li Causi, rappresentante del PCI, cercò di focalizzare l’attenzione dell’Assemblea sul ruolo che i Comitati di Liberazione avrebbero dovuto avere nel periodo di ricostruzione della Sicilia che iniziava appunto, formalmente, con la convocazione dell’illustre consesso, soprattutto come spinta democratica intesa a sconfiggere gli elementi reazionari che già tentavano di porsi alla guida dell’esperimento autonomistico. Se le parole di Li Causi furono accolte con entusiasmo a sinistra, molto tiepida se non infastidita fu la reazione dei liberali, dei demolaburisti e dei democristiani, ma chi interpretò con maggiore veemenza tale fastidio, il tentativo, cioè, dei comunisti di politicizzare fin dall’inizio l’opera della Consulta, distribuendo patenti di democraticità secondo i loro criteri, fu Giovanni Guarino Amella:
“Voglio fare innanzitutto qualche rilievo sul discorso Li Causi; è necessario farlo perché il silenzio non possa essere interpretato con consenso a qualche sua affermazione. Egli, che ha parlato a nome del Comitato di Liberazione della provincia di Palermo, ha detto che questa assemblea costituisce il primo decisivo passo verso la democrazia. Mi pare che Li Causi per foga oratoria abbia esagerato. Questa assemblea, così come è stata costituita e voluta dal Governo, non è affatto, per ora, un passo verso la democrazia; molto meno è un primo passo e ancora meno un passo decisivo[…] Dire, quindi che questa Assemblea, nominata soltanto per metà su indicazione dei partiti e priva di ogni potere deliberativo, senza facoltà di risolvere alcun problema, sia un primo decisivo passo verso la democrazia, è una frase di effetto senza rispondere alla realtà.
Altro rilievo debbo fare su quanto Li Causi ha detto relativamente ai Comitati siciliani di Liberazione, che egli chiama “vera istituzione democratica”. Mi pare di sapere che egli sia venuto in Sicilia di recente […] Ma ormai egli è da alcuni mesi in mezzo a noi e non è giusto che egli chiuda gli occhi per non vedere e si turi le orecchie per non sentire. Qui in Sicilia i Comitati di Liberazione non sono spesso che organi di manovre elettoralistiche per il collocamento degli amici e degli aderenti nei vari posti di comando. I loro componenti non hanno liberato nulla; quelli che si dichiarano esponenti di uno dei sei partiti, spesso non hanno dietro di sé che cinque o sei persone, magari quindici o venti, distaccati artificiosamente da altro partito, a scopo di rafforzare questo dandogli un altro voto nella sistemazione di amici agli uffici e alle cariche pubbliche.
Il prof. Li Causi offende i nobilissimi Comitati di liberazione nazionale della Grecia, della Polonia, della Francia e anche dell’Italia continentale mettendoli a confronto ai comitati siciliani senza discriminazioni.
Il Li Causi deplora che si sia detto che in Sicilia i Comitati di Liberazione non abbiano ragione di esistere. Non lo deplori; lo riconosca, invece, e con lealtà si associ a tale giudizio, che del resto è stato consacrato per due volte negli articoli del giornale” L’Avanti!” a firma del suo amico Nenni. […]”
Riguardo poi alla discussione sull’autonomia, Guarino sottolineava come la nomina di un Alto Commissario le cui funzioni erano limitate ad un anno e di una consulta avente soltanto potere propositivi, non si prestava certo ad essere interpretata come esperimento autonomistico, bensì come la premessa ad un decentramento amministrativo che ormai alla Sicilia non bastava più. Proponeva, quindi, di elaborare “uno schema di provvedimento da sottoporre al governo e al popolo siciliano, che conferisca alla Consulta, nella sfera delle attività di un organo autonomo regionale, i compiti e le attribuzioni atte a conseguire le più urgenti e necessarie realizzazioni nel campo economico e sociale e che sancisca la elettività di tale organo”(29)
Intanto nell’agosto del 1945 il governo Bonomi costituiva la Consulta Nazionale di cui veniva chiamato a far parte Giovanni Guarino Amella, Consulta che si riuniva per la prima volta a Palazzo Montecitorio il 25 settembre successivo. Subito dopo l’insediamento dell’Assemblea, i consultori siciliani si riunivano adottando una risoluzione unanime che venne presentata il 30 settembre proprio da Guarino Amella, con cui si sollecitavano immediati aiuti per la Sicilia in risorse energetiche, materie prime e lavori pubblici. La risoluzione iniziava ricordando al governo l’impegno già precedentemente preso in relazione alla concessione dell’autonomia all’Isola:
“I Consultori nazionali della Sicilia, mentre si fanno interpreti dell’unanime sentimento con cui s’invoca nell’isola la sollecita attuazione della tanto invocata autonomia nel quadro dell’unità nazionale, segnalano al Governo l’improrogabile necessità che sia urgentemente provveduto agli impellenti e molteplici bisogni di carattere economico e tecnico dai quali dipende in questo momento la vita stessa delle tribolate popolazioni dell’isola[…].(30) Tale proposta, tuttavia, fu lasciata cadere, soprattutto per l’opposizione dei socialisti.
Se la questione dell’autonomia era oggetto d’appassionate discussioni nei salotti della borghesia siciliana, altri problemi più tangibili tormentavano le miserabili plebi delle campagne. Oltre alla mancanza di generi alimentari e di carbone, ciò che più preoccupava la gente erano le condizioni disastrose in cui si trovava la pubblica sicurezza, minacciata sia dalle bande armate che imperversavano per tutto il territorio dell’Isola, sia dai piccoli delinquenti comuni in cerca del necessario per sopravvivere, sia dagli atti di sciacallaggio diretti soprattutto alle abitazioni velocemente abbandonate per la paura dei bombardamenti. Nel secondo Convegno dei sindaci e presidenti di deputazioni provinciali, riunitosi a Palermo il 4 giugno del ’44 e presieduto da Tasca, Guarino Amella presentò la sua puntigliosa relazione sull’ordine pubblico. Tale relazione si concludeva con un documento, che fu approvato dall’Assemblea, in cui si elencavano una serie di proposte dirette al miglioramento della situazione. Guarino proponeva, innanzi tutto, la creazione di una direzione regionale dei servizi di pubblica sicurezza, poiché da Roma era impossibile combattere appieno la delinquenza siciliana che aveva caratteristiche particolari rispetto a quella d’altre regioni e, quindi, suggeriva una serie di misure ritenute particolarmente urgenti:
– eliminare dal personale addetto alla sicurezza pubblica quelli con famiglia a carico, poiché chi ha il peso di una famiglia non può avere quello spirito di sacrificio e quella libertà d’azione, indispensabili alla missione da compiere, e i richiamati che dopo tanti anni di vita civile, non davano grande affidamento;
– impedire che tale personale esercitasse le sue funzioni in luoghi vicini ai paesi d’origine o che fossero residenza di parenti o affini;
– allontanare il personale dai comuni in cui si trovava durante il periodo fascista, poiché indubbiamente erano stati oggetto di contatti, compromissioni, transazioni tali, da renderli inidonei a continuare a svolgere il loro servizio in quegli stessi luoghi;
– elevare la retribuzione e migliorare l’alimentazione;
– reclutare nuovi elementi;
– fornire il personale di mezzi celeri e di armi moderne, poiché mentre i delinquenti erano forniti di bombe a mano e di mitragliatrici, le forze di polizia dovevano affrontarli con antichi moschetti;
– favorire l’organizzazione e il funzionamento dei corpi di assistenza privata e garantire da processi il cittadino che reagisca all’aggressione di delinquenti;
– intensificare l’opera preventiva delle commissioni del confino di polizia secondo la legislazione prefascista;
– facilitare da parte delle autorità comunali il rilascio del porto d’armi ai cittadini incensurati;
– disporre un rigoroso rastrellamento delle armi da guerra;
– adeguare il prezzo del grano e le razioni di pane e pasta alle necessità agrarie e alle tradizioni e bisogni alimentari delle popolazioni siciliane, come unico mezzo per eliminare il mercato nero.(31)
La relazione fu ripresa da Rondelli al Congresso della Democrazia del Lavoro a Catania, l’anno successivo, fu approvata e fu votata anche la proposta, già avanzata dal Guarino, di istituire un’imposta speciale di polizia sulla proprietà immobiliare e un’addizionale, allo stesso fine, sull’imposta di Ricchezza Mobile, dovuta da affittuari, allevatori ed industriali.
Alla fine dell’aprile 1945, dato il peggioramento della situazione della pubblica sicurezza, la Consulta Regionale aveva deciso di nominare un’apposita commissione ristretta costituita da Girolamo Li Causi, Giovanni Guarino Amella e Giuseppe Alessi. Il 3 maggio la commissione depositò una relazione di indiscutibile gravità, che Alessi non sottoscrisse, preoccupato che in tal modo si presentasse un’immagine troppo negativa della Sicilia. La relazione dettagliatissima, oltre a riproporre le misure già suggerite nel giugno dell’anno precedente all’Assemblea dei sindaci e dei presidenti delle province, richiedeva se non la revoca, anche solo la sospensione dei decreti del gennaio precedente che regolavano secondo norme più democratiche il confino di polizia e abolivano la pena di morte per i reati più gravi. Tornando alla proposta, fatta un anno prima e poi discussa nell’aprile precedente al Congresso del partito, Guarino sottolineava che il bisogno di sicurezza pubblica era tanto impellente fra le popolazioni siciliane che ben volentieri si sarebbero sobbarcate un altro onere fiscale allo scopo di rendere più motivato e quindi più efficiente il personale della forza pubblica:
“[…] Così la Sicilia accoglierebbe di buon animo un immediato decreto che autorizzasse l’Alto Commissario a gravare temporaneamente tutta la proprietà immobiliare di una speciale imposta di polizia proporzionata all’estensione del terreno ed al numero dei vani dei fabbricati, e ad imporre una addizionale sull’imposta di ricchezza mobile dovuta dagli affittuari, allevatori, industriali. Così parimenti sarebbe ben accolto un provvedimento che allo stesso fine raddoppiasse o anche quadruplicasse i diritti che si pagano per ogni variazione dell’anagrafe bestiame, diritti oggi troppo bassi, assolutamente inadeguati al valore odierno degli animali, che supera 40-50 volte il valore dell’epoca in cui tale misura fu stabilita.
In tal modo si potrebbero agevolmente ricavare qualche centinaio di milioni, sufficienti a fronteggiare le maggiori spese di equipaggiamento e indennità per lo speciale corpo di polizia destinato a riportare definitivamente nel giro di qualche anno alla normalità le condizioni della sicurezza pubblica in Sicilia”.
Tale relazione non venne approvata dalla Consulta, pur essendo perfettamente aderente alla realtà, essendo stata ritenuta un troppo grave atto d’accusa all’Alto Commissario Aldisio.(32)
Il 25 novembre 1944 si era celebrato ad Acireale il Congresso della Democrazia Cristiana regionale; in quell’occasione Franco Restivo aveva illustrato all’Assemblea la sua proposta di statuto siciliano, avvalendosi sia degli studi di Ambrosini a tal riguardo, sia del dibattito politico in corso e degli altri progetti già illustrati. Restivo, mentre ammetteva la potestà legislativa regionale solo su quelle materie strettamente attinenti alla regione, prevedeva un potere consultivo dell’organo legislativo regionale su materie relative alla finanza locale e al sistema doganale; ipotizzava la facoltà, da parte di tale organo, di presentare al Parlamento nazionale schemi di provvedimenti da esso elaborati e di sostituirsi a taluni organi nazionali nel procedimento di formazione di particolari atti legislativi. Sull’iter di formazione delle leggi regionali, Restivo proponeva che l’atto legislativo approvato dall’assemblea regionale venisse esaminato dal Senato, inteso come consiglio delle regioni, prima di diventare legge con la promulgazione del capo dello Stato. Quanto alla composizione dell’organo legislativo regionale, Restivo propendeva per una rappresentanza mista, costituita per due terzi da membri eletti a suffragio universale e per un terzo da membri eletti col sistema della rappresentanza di interessi, con un ugual numero di rappresentanti per la categoria dei lavoratori, dei datori di lavoro e dei professionisti e tecnici.(33)
Come si può notare nel progetto illustrato da Restivo la potestà legislativa della regione appare limitatissima e, peraltro, comunque dipendente dal vaglio finale del Senato. Tale proposta, molto più vicina al tradizionale regionalismo sturziano che all’autonomismo vero e proprio, documenta il graduale passaggio della DC dall’iniziale semplice decentramento amministrativo all’autonomia piena di cui si sarebbero fatti paladini alcuni dei suoi maggiori esponenti, da Aldisio, ad Alessi, allo stesso Sturzo.
Il terzo progetto di Statuto presentato e, questa volta, discusso davanti alla Consulta, fu quello del prof. Paresce, allora sottosegretario al Ministero della Finanze, che lo presentò alla fine del marzo ’45 al Comitato siciliano d’azione di Roma dove, peraltro, lo illustrò personalmente il 4 aprile, nel corso di una conferenza da lui tenuta, sul tema: “Regione, presidio di libertà”. Secondo Paresce gli organi della Regione avrebbero dovuto essere: il Consiglio generale di 80 membri, in carica per un triennio, eletto, per metà, a suffragio universale diretto e, per l’altra metà, dai consigli provinciali e dai direttivi degli enti sindacali. Capo dell’amministrazione regionale e rappresentante del governo col rango di ministro, sarebbe stato il presidente regionale, nominato dal capo dello Stato fra una rosa di cinque nomi propostagli dal Consiglio. La giunta regionale, composta da sette assessori (lavori pubblici, istruzione, finanze, agricoltura, giustizia, economia e lavoro, comunicazioni), sarebbe stata nominata dal presidente scegliendo gli assessori fra i membri del Consiglio. Quest’ultimo avrebbe avuto competenza legislativa complementare, nel quadro della legislazione di principio dello Stato, nelle seguenti materie: ordinamento amministrativo regionale, con esclusione dell’ordinamento dei comuni, delle province e degli uffici statali; pubblica istruzione; piani di ricostruzione e di valorizzazione economica della Regione; modalità di esproprio per lavori di pubblica utilità; antichità e belle arti, caccia e pesca fluviale, sanità e assistenza pubblica e regime di elettricità (eccetto le linee di importanza nazionale). L’esecutivo regionale avrebbe gestito, fra l’altro, i servizi postali e telefonici, i trasporti pubblici, miniere, aziende agricole modello, aziende di produzione e distribuzione di energia elettrica, luoghi di pena, l’esazione delle imposte e delle tasse di competenza regionale.
Le entrate regionali sarebbero state costituite dal gettito di alcune tasse prima statali, da percentuali del gettito di tasse statali, dal gettito di eventuali tasse o imposte regionali, oltre alle entrate provenienti dai beni demaniali. La regione avrebbe potuto emettere prestiti pubblici e il Consiglio sarebbe stato chiamato a dare il proprio parere sul regime doganale nazionale e sui trattati di commercio riguardanti i prodotti regionali.(34)
Tele progetto, che venne illustrato il 9 aprile a Catania da Avarna di Gualtieri, al Congresso dei demolaburisti, appariva più adatto ad un sistema regionalista accentuato che ad un regime fondato sull’autonomia della regione. Ad essa erano assicurati ben pochi poteri, anche la pesca marittima era considerata di competenza statale, alla regione rimaneva, niente poco di meno che, la competenza sulla pesca fluviale!
Il progetto appariva tanto più insoddisfacente soprattutto se confrontato con quello che aveva presentato Guarino Amella, soltanto il pomeriggio precedente e che costituiva, in effetti, assieme a quello di Vacirca, un vero schema di autonomia regionale, partendo da premesse completamente differenti rispetto a quelle di La Loggia e, soprattutto, rispetto alla proposta Restivo. Pur non negando che fosse stato spinto a tale passo dalla necessità di arginare il movimento separatista, non bisogna dimenticare che, fin dal 1906, dunque in tempi non sospetti, il giurista agrigentino, aveva auspicato la nascita di una regione autonoma che potesse risolvere più prontamente e più efficacemente i problemi peculiari della Sicilia.
Fin dal momento della presentazione del suo progetto all’Assemblea del partito, Guarino specificava che si trattava d’un progetto di statuto, dunque di legge costituzionale e non ordinaria, che avrebbe dato alla Sicilia un’autonomia politica e non soltanto amministrativa. Egli proponeva di chiamare l’organo legislativo che in Catalogna, al cui statuto per molti punti s’ispirarono sia Guarino che Salemi, si chiama Generalidad e in Austria Dieta, più modestamente Consiglio Regionale. Prospettava all’auditorio un dilemma: i 100 membri di tale Consiglio sarebbero stati eletti per elezione diretta o di secondo grado? Coloro che propendevano per l’elezione di secondo grado, cioè demandata ai Consigli provinciali e comunali, alle assemblee dei rappresentanti delle categorie dei lavoratori e dei datori di lavoro, nonché delle organizzazioni professionali e di mestiere, sostenevano che non fosse conveniente sottoporre l’elettorato a troppe consultazioni elettorali. I sostenitori dell’elezione diretta, invece, sostenevano che, trattandosi dell’elezione di un corpo legislativo, non si potesse prescindere dall’interrogare direttamente il popolo senza violare i principi fondamentali della democrazia. Per Guarino l’essenziale era che l’organo legislativo provenisse da elezione regionale, sul resto si sarebbe potuto decidere in seguito: “Io penso che di tali questioni la soluzione può essere diversa secondo le circostanze di tempo e di luogo, secondo cioè la maggiore o minore maturità politica e la situazione politica di un dato momento storico. E può essere diversa anche da un altro punto di vista, che va esaminato con attenzione: l’opportunità, cioè, che i rappresentanti dell’organo legislativo della Regione abbiano origine da corpi elettorali e sistemi elettorali che hanno eletto i rappresentanti del Parlamento nazionale, per evitare inutili doppioni o, peggio, eventuali stridenti contrasti d’atteggiamenti degli eletti nelle due assemblee in analoghe questioni politiche od economiche”.
Il secondo dubbio che Guarino esternava all’assemblea del partito era relativo alla composizione del Consiglio elettivo regionale. Sarebbe stato opportuno che fosse costituito solo da rappresentanti politici, o sarebbe stato meglio affidarsi a rappresentanti del mondo economico, o ancora meglio propendere per un organo a composizione mista? Lasciare il compito di legiferare ad un’assemblea costituita solo da rappresentanti del mondo del lavoro, avrebbe comportato il rischio di affidarsi ad un organismo dalle vedute ristrette, capace di legiferare più a favore degli interessi di categoria che di quelli dell’intera collettività. Sarebbe stato ideale far sì che le leggi passassero sotto il vaglio di due assemblee, una politica e l’altra economica, ma risultando ciò eccessivamente farraginoso, si sarebbe potuto optare per un organo legi-slativo a composizione mista, formato, cioè, per due terzi da membri eletti a suffragio universale e per un terzo col sistema della rappresentanza degli interessi: “[…]qualcosa come la Camera dei Fasci e delle Corporazioni o come il Consiglio dei Paesi e delle Professioni stabilito nella legge costituzionale del 1929 dalla Repubblica federale austriaca”(35). Tale soluzione, tuttavia, gli faceva temere il sorgere di contrasti tra le due anime dell’assemblea per il diverso modo di vedere le cose: “[…] Io penso, invece- ed in ciò sono d’accordo con Sturzo- che la potestà deliberativa debba essere lasciata all’assemblea politica, che necessariamente varia nella sua composizione, perché trae origine diretta dalla volontà popolare e dalla multiforme espressione di svariate esigenze e interessi diversi. Così nell’assemblea elettiva politica, quale organo sintetico, si coordinano come in una camera di compensazione gli interessi specifici per una visione reale e simultanea degli interessi generali, della loro immediatezza, della loro maggiore o minore importanza. Ma con ciò non voglio escludere che sia ascoltata anche la voce dei diretti rappresentanti degli interessi di categoria. E con l’art. 21 io propongo che ogni legge, prima dall’essere votata dal Consiglio regionale, sia sottoposta all’esame di corpi speciali consultivi e tecnici: dell’agricoltura, del commercio, dell’industria, del lavoro, delle professioni, della scuola, ecc.”(36)
Il presidente della Regione sarebbe stato eletto con scrutinio segreto, a maggioranza assoluta dal Consiglio, davanti al quale sarebbe stato responsabile insieme alla Giunta. Avrebbe avuto il rango di ministro in posizione assolutamente paritaria rispetto agli altri componenti del governo nazionale.
Il terzo punto che Guarino sottoponeva all’attenzione del Congresso era forse il più importante, poiché concerneva la scelta delle materie che rientrassero nella competenza legislativa regionale. Qui soprattutto sta l’originalità del suo progetto, visto che esso è l’unico che preveda una competenza legislativa regionale determinata negativamente. Fermo restante che alcune materie non possono che rimanere, per la loro stessa natura, di competenza statale (acquisto e perdita della cittadinanza, relazioni tra Stato e Chiesa, politica estera, immigrazione, emigrazione e regime degli stranieri, estradizione, difesa nazionale, grandi linee di comunicazione, sistema monetario e proprietà intellettuale) e tenuto conto che per altre materie appaia opportuno che sia lo Stato ad emanare i principi normativi di massima, a cui le norme regionali debbano ispirarsi (sanità, istruzione pubblica, stampa, polizia stradale, disciplina del credito e del risparmio), le rimanenti materie rientrano nella competenza legislativa esclusiva della Regione, compresi gli ordinamenti di comuni e province che il progetto Paresce riservava allo Stato, attribuendo alla regione una semplice tutela sugli stessi.
Il progetto prevedeva, altresì, l’abolizione delle province, le cui competenze sarebbero passate alla Regione, ai Comuni e ai consorzi di comuni che avessero facilità di comunicazioni fra di loro e omogeneità d’interessi, tenuto presente che vari servizi non sarebbero potuti essere disimpegnati adeguatamente dai singoli comuni.(37) La provincia che, date le nuove reti di comunicazione, risultava come una circoscrizione territoriale artificiosa, non sempre corrispondente alla facilità d’accesso dei singoli comuni al capoluogo, diventava anche un’anacronistica inframmettenza dello stato, tramite la presenza del prefetto, all’interno di un territorio ormai completamente di competenza regionale o comunale.
Quanto alla finanza regionale, tra le due soluzioni possibili,- cessione da parte dello Stato alla Regione di parte dei proventi delle imposte riscosse sul territorio, ovvero facoltà data alla Regione di imporre tributi e di riscuoterli, Guarino sceglie senza tentennamenti la seconda ipotesi. Secondo il suo progetto, dunque, la Regione avrebbe acquisito capacità d’imposizione e riscossione delle imposte in via esclusiva, fermo restando il versamento annuale alle casse statali di una cifra, stabilita da una commissione paritetica sulla base delle spese sostenute dallo Stato e della capacità contributiva della Regione, come compenso per i servizi prestati all’interno del territorio regionale. La soluzione scelta da Guarino era la stessa che già nel 1860 aveva inutilmente proposto al governo di Torino il Consiglio Straordinario di Stato, riunitosi a Palermo dopo il plebiscito e la stessa su cui si orientavano i sardi per regolamentare le competenze finanziarie della loro regione, al momento della concessione dell’autonomia. Dovettero essere, a tal proposito, frequenti i rapporti tra Guarino e gli autonomisti sardi e lo si evince da una lettera molto confidenziale inviatagli da Mario Berlinguer proprio alla chiusura del Congresso Regionale del Partito Democratico del Lavoro, commentando il progetto di Statuto da lui proposto, dove, peraltro, nel postscriptum si fa riferimento anche a Lussu:
“Carissimo, ho letto il resoconto del vostro Congresso e la tua lucida interessantissima relazione sull’autonomia regionale siciliana…Vi è da tenere conto delle differenze tra la tua Sicilia e la nostra Sardegna. Ma, a parte ciò, il complesso della tua relazione è in armonia con i nostri programmi e con le nostre esigenze; ed è veramente ottima cosa il contributo concreto, dettato da una passione che è la passione nostra ed espresso in concetti così chiari e realistici che tu dai alla soluzione positiva del problema.
Bravissimo! Ti abbraccio
Mario Berlinguer(38)
La soluzione prospettata da Guarino oltre ad allinearsi perfettamente ai principi di quel federalismo fiscale tanto auspicato da Salvemini già alla fine dell’800: “[…] lasciate alle Regioni ed ai Comuni tutti i loro denari, all’infuori di quelli che sono necessari al governo centrale per compiere le sue funzioni di interesse nazionale; e allora, solo allora, le spese si ripartiranno egualmente, perché allora non si ripartiranno più, ma ognuno si terrà i suoi quattrini e li spenderà sul luogo come meglio crederà”(39), si presentava indubbiamente più dignitosa rispetto alla tesi riparazionista prospettata da La Loggia e che sarebbe poi stata adottata nell’art. 38 dello statuto regionale. Anche se appariva difficile determinare accuratamente la capacità contributiva della regione, rischiando, quindi, che la stessa si trovasse priva del necessario dopo aver versato il dovuto, il sistema prospettato responsabilizzava la classe dirigente regionale, insegnandole a far pieno affidamento su se stessa e sulle risorse del territorio e allontanando ogni tentazione a ricorrere, per le conseguenze del mal governo, all’ombrello riparatore della finanza statale: “[…] la Sicilia – scriveva Guarino Amella – che aspira ad ottenere la sua piena autonomia deve pur affrontare il rischio dei danni che questa comporta e trovare quindi in se stessa la forza e la capacità di superare ed eliminare questi rischi[…]”.(40)
Infine, Guarino esponeva la sua opinione sulle garanzie costituzionali per l’intangibilità dello Statuto da parte degli organi centrali dello Stato. Proponeva la costituzione di un organo giurisdizionale che egli chiamava Suprema Corte Costituzionale e che poi avrebbe preso il nome di Alta Corte, con sede in Sicilia, composta da membri nominati pariteticamente dal governo regionale. Anche lo Stato avrebbe dovuto valersi di un organo di controllo sull’operato della Regione e il Nostro lo individuava nella figura di un Commissario Generale nominato dal governo centrale che, con le funzioni di Pubblico Ministero, avesse la facoltà di impugnare innanzi alla Suprema Corte gli atti del governo regionale ritenuti contrari alla costituzione dello Stato italiano.
L’Alta Corte, poi, sancita dall’art. 22 dello Statuto, sarebbe in seguito stata abolita dallo Stato italiano. Guarino era già morto, ma nel ’48 intuiva il pericolo di tale abolizione e a riguardo scriveva una lettera accorata ad Alessi, primo presidente della Regione siciliana e suo personale amico:
Caro Peppino,
questa povera autonomia della Sicilia, passione mia e tua, è in pericolo. Per maggior disgrazia, a capo dello Stato è andato giusto l’Einaudi, di cui è noto il velenoso memoriale presentato alla Consulta nazionale il 7 maggio del 1946 per contrastare l’approvazione dello Statuto e che provocò un vivacissimo contrasto di Aldisio e di me, che ero riuscito ad avere, il giorno prima, copia del memoriale.
Ora si vuol inferire un colpo mancino con la questione dell’Alta Corte Costituzionale.
Sarà o non sarà abolita l’Alta Corte Siciliana, è certo comunque che quella nazionale può indirettamente pregiudicare gli interessi della Sicilia in qualche decisione.
Mi pare perciò che sia dovere degli autonomisti siciliani non disinteressarsi della formazione dell’Alta Corte nazionale.
Vi saranno cinque eletti dal Parlamento e cinque nominati dal Presidente della repubblica. Non credi doveroso che tra questi 10 ce ne sia almeno uno siciliano?
Con ciò non voglio avanzare la mia candidatura. Io non sono un democristiano; e poi…i vari Cortese e La Loggia non lo permetterebbero.
Ma la passione per questa nostra Sicilia non mi consente di disinteressarmi di ciò che per la libertà è vita o morte.
Saluti affettuosi
Guarino Amella(41)
La differenza tra il progetto Paresce e quello di Guarino Amella appare abissale, tenuto conto che quest’ultimo potrebbe accostarsi alla carta costituzionale di uno stato federale, mentre il primo non è niente più che uno schema di decentramento regionale particolarmente marcato.
Il partito della democrazia sociale si divise sui due progetti; quello presentato da Guarino Amella appariva a molti troppo radicale, troppo vicino ad una sostanziale separazione della Sicilia dallo Stato italiano, per cui si dichiararono favorevoli al progetto Paresce, Marotta, Giuffrida e il duca di Avarna il quale, in particolare, sosteneva che ” […] se non si vuole giungere al separatismo, se non nella forma nella sostanza, è necessario garantire al potere centrale la possibilità di intervenire, specie nelle questioni di carattere generale[…]”.(42)
Lo schema proposto da Guarino Amella aveva l’appoggio di Rondelli, Pancamo, Caruso il quale fra l’altro dichiarò che “[…] se si vuole parlare veramente di autonomia occorre scartare” lo schema Paresce e ancora di Pasqualino Vassallo Junior e di Saitta, risentiti soprattutto perché i democristiani, approfittando dell’autorità e del potere di Aldisio, miravano a scardinare il partito demosociale, attirando i più moderati fra le loro fila.(43)
Per vincere il contrasto tra le due diverse anime del partito si decise di sottoporre i due progetti all’esame di una commissione, costituita sulla base delle rappresentanze provinciali, che avrebbe dovuto, poi, sottoporre un terzo progetto definitivo al Congresso Nazionale del partito. Non si ha notizia, tuttavia, né della Commissione né di un eventuale terzo progetto, pare probabile, però, che ci fosse stato un successivo compattamento delle precedenti posizioni. Probabilmente lo stesso Guarino si era deciso a sostenere il nuovo progetto illustrato il 3 novembre davanti alla Commissione per la redazione dello Statuto, progetto che, pur partendo formalmente dalla base fornita dallo schema Paresce, se ne allontanava decisamente, col fare scelte indubbiamente radicali. Così soltanto, infatti , si spiega la lettera del duca Avarna di Gualtieri al giurista agrigentino, datata 6 novembre 1945, dal tono della quale si evince che i due avessero raggiunto un accordo. Dallo scritto, peraltro, si deduce il contrasto all’interno del partito e la crisi che si agitava tra gli esponenti di maggiore spicco:
Caro Amico,
mi è molto rincresciuto di averti mancato. Avevo prolungato la mia permanenza a Palermo fino a tutto Sabato oltre che per conoscere l’accoglienza fatta dalla Commissione al nostro progetto, anche per parlarti della D. L.
Circa l’accoglienza fatta al progetto avrai avuto notizie dirette; non me le aspettavo più favorevoli dopo il colloquio avuto col Prof. Salemi per stabilire le modalità della convocazione dei nostri delegati. Ora si tratta di fare un’opera diplomatica fra i membri della Commissione prima e fra i Consultori poi. Credo anzi che qualche Consultore favorevole potrebbe senz’altro presentare il progetto alla Consulta per aprire una discussione su di esso.
Quanto al partito avrei voluto sentire quali sono le tue intenzioni in proposito? Possiamo continuare ad accettare la situazione che ci viene imposta da Roma? Se non si fa opera di chiarificazione fra di noi e verso gli altri partiti coi quali possiamo collaborare, io ho intenzione di rivedere la mia posizione e dei miei amici.
Scrivimi qualcosa: Roma – Via della Longarina 65. Io parto il 6.
Cordialmente
Tuo G. Avarna di Gualtieri(44)
Poco meno di un mese dopo la fine del Congresso dei demosociali, si aprì a Taormina (6-10 maggio 1945) quello del partito liberale siciliano di cui La Loggia aveva ormai assunto la leadership. Nelle discussioni concernenti l’autonomia, traspare la preoccupazione di allarmare il governo e l’opinione pubblica nazionale con richieste esagerate e l’opinione, generalmente condivisa, che sarebbe stato più saggio e più redditizio puntare su un regionalismo moderato: “[…] Se non si disperderanno le energie che nei più diversi campi lottano in favore di uno Stato organizzato su basi regionali, […] se, infine, si avrà eventualmente la prudenza di concepire la Regione come un ente che in un primo tempo abbia non troppo estese funzioni cui possano, a mano, a mano, aggiungersene altre – la trasformazione dello stato su basi regionali non potrà mancare”.(45)
La Democrazia Cristiana, da parte sua, nell’intento di diventare il partito leader della Sicilia ricostruita, si pose come elemento di mediazione tra le più radicali tendenze, nel contesto di un regionalismo moderato che non si allontanava molto dalla concezione dei liberali. Tuttavia, ambedue i partiti cominciarono ad avvicinarsi ai progetti più apertamente autonomisti, quando si accorsero dei vantaggi che tale sistema avrebbe, nel futuro, comportato per gli interessi della classe dirigente. Infatti se ne era avuta la conferma con il decreto Aldisio del 10 luglio 1945, con cui si modificavano, per la Sicilia, sulla base delle sue diversità ambientali, culturali ed economiche rispetto alle altre regioni d’Italia, i decreti emanati dal ministro Gullo e concernenti la ripartizione del raccolto tra proprietari e mezzadri. Il decreto dell’Alto Commissario che modificava i provvedimenti in senso più favorevole ai proprietari terrieri, non dispiaceva né alla DC – Segni, sottosegretario all’Agricoltura si compiacque della conferma dell’autonomia siciliana che si evinceva da quel particolare provvedimento emanato da Aldisio scavalcando il ministro – che voleva evitare di perdere il sostegno della Chiesa e dell’alta e media borghesia, né ai liberali tradizionalmente vicini al grande capitale. Fu proprio la modifica dei decreti Gullo, imposta con un provvedimento commissariale, a modificare il gioco politico in senso filo – autonomista.(46)
La questione siciliana nell’agosto arrivò al tavolo del Consiglio dei Ministri che solo un mese prima aveva concesso l’autonomia alla Val d’Aosta, regione bilingue di nuova formazione, il cui statuto speciale era stato imposto dalla Francia, per salvaguardare le minoranze etniche e la propria influenza commerciale e culturale sulla zona.
Indubbiamente nella riunione del Consiglio dei ministri del 24 agosto 1945 a cui partecipò anche Aldisio, la discussione dovette essere alquanto vivace anche se il comunicato stampa affermava che il problema dell’autonomia era stato affrontato e risolto in linea di massima, ma precisava, nello stesso tempo, che il caso Sicilia non poteva essere dissociato da quello delle altre regioni d’Italia e che sarebbe stato disciplinato dalla Costituente. I più contrari all’autonomia siciliana furono Togliatti, Nenni e La Malfa; i primi due perché temevano che la Sicilia cadesse così sotto l’influenza della Democrazia Cristiana, della Chiesa e delle forze reazionarie del latifondo – accusarono, infatti Aldisio di non essersi appoggiato ai Comitati di Liberazione e di aver snaturato i decreti Gullo -, il terzo, pur essendo siciliano, sulla base di una formazione culturale e politica di stampo unitario – mazziniano, riteneva inopportuno concedere all’Isola più poteri rispetto alle altre regioni d’Italia. A placare gli animi contribuì decisamente l’ombra minacciosa del separatismo, per cui la riunione si concluse con un nulla di fatto. Aldisio, tuttavia, capì che se si voleva uscire dall’impasse, bisognava approfittare del momento di grande confusione istituzionale e agire mediante dei veri e propri colpi di mano. Così, tornato a Palermo, pur rifiutandosi di fare dichiarazioni di qualsiasi genere, il 1° di settembre nominava una Commissione incaricata di redigere un progetto di statuto. Ne facevano parte Alessi per la Democrazia Cristiana, Guarino Amella per la Democrazia del Lavoro, Mineo per il Partito socialista, Mirabile per il Partito d’Azione, Montalbano per i comunisti, Orlando per i liberali e tre docenti dell’ateneo palermitano: Restivo, Ricca Salerno e Salemi. La Commissione, insediatasi il 22 di settembre, cominciò effettivamente i suoi lavori il 28 e si valse anche della saltuaria collaborazione del costituzionalista Gaspare Ambrosini. Furono esaminati gli schemi presentati da Guarino, da Mineo, dal Movimento per l’autonomia della Sicilia, lo statuto della Valle d’Aosta, finché non divenne protagonista della discussione il progetto Salemi che, nonostante le modifiche subite, avrebbe costituito il vero abbozzo dello Statuto definitivo. Nessuna particolare proposta venne, invece, dal gruppo democristiano, nonostante nel Convegno regionale di Palermo – aperto da un appassionato discorso a favore dell’autonomia, di cui l’Alto Commissario chiedeva l’immediata concessione, senza aspettare la Costituente, così come era stato fatto per il Trentino e la Valle d’Aosta -, si fosse deciso di affidare al Comitato regionale del partito l’incarico di preparare una bozza di statuto.(47)
La bozza di statuto presentata dal Movimento per l’autonomia siciliana, a cui aderivano esponenti di partiti diversi, liberali come Gaetano Martino, demosociali come Paresce, democristiani come Stagno d’Alcontres, fu illustrato alla Commissione dal Duca di Avarna il tre di novembre. Tale progetto pur partendo dalla base presentata da Paresce nell’aprile precedente al Congresso del partito, in opposizione al progetto Guarino Amella che appariva eccessivamente separatista, finì per avvicinarsi più a quest’ultimo che al primo. Infatti, pur elencando positivamente le materie ricadenti nella competenza legislativa esclusiva della Regione, esercitata da un’assemblea di 90 membri eletti a suffragio universale diretto, e non accettando il criterio seguito dal Guarino che considerava implicitamente di competenza regionale tutte quelle materie diverse da quelle specificamente elencate come di competenza dello Stato, lo schema del Movimento per l’autonomia, andava molto al di là del progetto dell’agrigentino in relazione, ad esempio, della tutela dell’economia isolana. Era perciò prevista una partecipazione della Regione, tramite un suo rappresentante, alla formazione delle tariffe ferroviarie e alla regolamentazione e istituzione di tutti quei servizi di comunicazione che interessassero il suo territorio. Si prevedeva, inoltre, la richiesta obbligatoria, da parte del governo centrale, di un parere all’organo legislativo regionale in materia di trattati di commercio esteri, regime doganale, navigazione, immigrazione ed emigrazione. Non aveva visto male l’estensore del progetto, se si pensa che tali problemi in questo momento sono i più scottanti, sia in materia di ordine pubblico che di economia. Probabilmente la presenza nello Statuto e l’applicazione di una norma di tal genere avrebbe risparmiato alla Sicilia i continui incontenibili sbarchi di clandestini dall’Africa e dall’Asia e le avrebbe impedito di subire trattati commerciali capestro, come quello concluso, alcuni anni or sono, dal ministro degli Esteri Susanna Agnelli con il Marocco che prevedeva l’importazione per l’Italia di agrumi e pomodori, in cambio di macchine agricole, presumibilmente FIAT!
Tornando alla bozza presentata dall’Avarna, essa prevedeva, altresì, la possibilità per la Regione di imporre monopoli, di emettere prestiti interni, ma soprattutto la parte più originale, ma anche più radicale, era costituita dalla proposta di fare della Sicilia una zona franca dal punto di vista commerciale.(48)
E’ curioso pensare che una proposta in tal senso era stata fatta da Padre Gioacchino Ventura durante la rivoluzione del ’48. Nell’opuscolo allora scritto, Cenni sulla libertà di commercio in Sicilia, il teatino prospettava la possibilità che la Sicilia fosse costituita come porto franco. Ciò avrebbe, non solo avvantaggiato l’Isola politicamente, liberandola da ogni soggezione a potenze straniere, ma l’avrebbe fortemente avvantaggiata economicamente; divenuta porto franco avrebbe potuto essere il deposito di tutte le merci transitanti nel Mediterraneo e il centro delle contrattazioni internazionali. Ciò l’avrebbe resa indipendente e appetibile agli investimenti stranieri. Ventura traeva spunto, per queste sue ottimistiche previsioni, dai vantaggi che alla città di Messina aveva portato l’essere stata dichiarata porto franco dal governo borbonico nel 1783. Il movimento nel porto si era rapidamente moltiplicato con enormi vantaggi per la città e per il suo hinterland.(49)
La proposta di costituire la Sicilia come una zona franca venne bocciata dalla Consulta, malgrado la razionale difesa che ne fece Guarino Amella. Elencando tutti i precedenti, compreso quello recentissimo della Val D’Aosta, il cui territorio era stato considerato dallo Statuto concessole dal governo, esterno alla linea doganale italiana, ricordava le zone franche costituite, prima e durante il fascismo, nella città di Zara, nelle isole di Lagosta e Pelagosa, nel comune di Livigno, nei territori vicino a Nizza e Susa, nelle Isole dell’Egeo e nel Carnaro. La creazione di una zona franca in Sicilia avrebbe fatto dell’Isola un immenso emporio commerciale con vantaggi notevoli un po’ per tutti: “[..] La creazione in Sicilia di una grande riserva di prodotti di ogni provenienza richiamati dalla franchigia doganale e destinati all’industria del continente, apporterebbe, fra l’altro, cospicui vantaggi agli industriali dei paesi vicini che avrebbero a portata di mano i prodotti loro occorrenti senza dover sottostare ai rischi di lunghi viaggi, avarie, ecc. rischi che sarebbero riversati sugli importatori della zona franca. Inoltre le riserve di merci di tutte le provenienze del mondo accumulatesi nella zona franca provocherebbero una stabilizzazione di prezzi ideale per le attività produttive del vicino continente.[…]”(50)
Il progetto presentato dal Movimento per l’Autonomia regolava i rapporti finanziari -tributari e la risoluzione dei conflitti Stato – Regione, adeguandosi quasi integralmente al progetto Guarino Amella.(51)
Infine, il progetto socialista illustrato dall’on. Mineo e a cui aderì anche il rappresentante dei comunisti Montalbano, aveva l’ingrato compito di coniugare l’antiautonomismo delle sinistre con la volontà del mondo politico e dell’opinione pubblica dell’Isola. Per questo risultò fra tutti, certamente il meno convincente. Esso prevedeva una potestà legislativa esclusiva della Regione limitata a poche materie tassativamente elencate e gravi limitazioni in materia economico – finanziaria, visto che il piano economico regionale avrebbe prima dovuto essere approvato dalle Camere legislative nazionali. La Regione, inoltre, non avrebbe potuto estendere la sua capacità legislativa all’imposizione straordinaria sui beni capitali e sulla fabbricazione, alle importazioni ed esportazioni, alle imposte personali sul reddito globale, ai dazi doganali, ai monopoli fiscali e al debito pubblico. Infine, secondo il progetto socialista, lo Statuto elaborato dalla Consulta sarebbe dovuto entrare in vigore solo dopo l’esame della Consulta Nazionale.(52)
Per finire, il progetto redatto dal prof. Salemi, che avrebbe costituito lo scheletro dello Statuto definitivo, costituiva una sorta di mediazione tra le tendenze più radicali (Progetti Guarino e Avarna) e quelle più moderate (Mineo e Paresce). Esso divenne lo schema ufficioso della Democrazia Cristiana, dietro cui stava, dunque, la prudenza di Aldisio, preoccupato a recepire le istanze di un elettorato sempre più vasto che avrebbe dovuto diventare la riserva di voti del suo partito e timoroso di suscitare nell’opinione pubblica nazionale e, soprattutto, all’interno della consulta nazionale e del governo, posizioni pregiudiziali che sarebbe poi stato difficile superare.
Lo schema Salemi definiva positivamente le materie di competenza regionale che venivano tassativamente elencate; tutte le altre rimanevano di competenza statale.
Prevedeva il trasferimento alla Regione degli uffici statali operanti sul territorio siciliano, con esclusione di quelli relativi alle forze armate e della polizia e di quelli espletanti funzioni relative alle materie di competenza statale come, per esempio, gli uffici giudiziari. Manteneva in vita le province, eliminando uno dei punti più originali del progetto Guarino, a cui invece si rifaceva in relazione all’istituzione in Sicilia di sezioni degli organi giurisdizionali aventi sede solo a Roma. Per quanto riguarda la risoluzione dei conflitti tra Stato e Regione, non si discostava molto dal progetto Guarino, prevedendo la creazione di un organo giurisdizionale con sede a Palermo che denominava Alta Corte; dava allo Stato la facoltà di sciogliere il Consiglio regionale in caso di reiterate violazioni dello Statuto o per motivi di ordine pubblico e di riprendere la direzione degli organi di polizia, a capo dei quali, normalmente, avrebbe dovuto essere il Presidente della Regione.
La bozza statutaria redatta da Salemi accoglieva la richiesta di Guarino Amella di approvare lo statuto con decreto luogotenenziale e di farlo entrare in vigore immediatamente, senza attendere l’approvazione della Costituente.
Il punto in cui maggiormente si staccava dallo schema Guarino, rivelando la netta differenza di motivazioni e di indirizzi che aveva ispirato le due bozze, era quello relativo alla copertura finanziaria della Regione. A tale riguardo veniva accolta quasi per intero la tesi riparazionista e rivendicativa di La Loggia, visto che era stata respinta la soluzione impostata sull’attribuzione alla Regione di una potestà impositiva autonoma, ritornando al contributo statale da versarsi alla Sicilia a titolo di solidarietà e come ricompensa per i sacrifici finanziari ed economici subiti nel passato.
Tale contributo, secondo Salemi, avrebbe dovuto essere commisurato nel versamento da parte dello Stato alla Regione di tre quarti del gettito delle imposte pagate sul territorio siciliano.(53)
A ben guardare in quest’ultima parte lo schema Salemi non si allontanava sostanzialmente molto da quello Guarino Amella. La copertura del fabbisogno finanziario regionale in tutti e due i casi era costituita dal gettito fiscale: cambiava, tuttavia, completamente il principio ispiratore perché, mentre nello schema Guarino sarebbe stata la stessa Regione ad imporre e riscuotere le tasse autonomamente sul suo territorio, in base ad una potestà riconosciutale dallo Statuto, senza chiedere nulla allo Stato, a cui anzi avrebbe dovuto pagare un contributo annuo come ricompensa dei servizi prestati in Sicilia, secondo Salemi il gettito fiscale riscosso dallo Stato sul territorio siciliano, sarebbe stato in gran parte versato da quest’ultimo alla Regione a titolo di solidarietà e di rivendicazione.
L’apporto, poi, di La Loggia, che dalla metà di novembre domina le sedute della Commissione, senza avere rivali, poiché Guarino dal 15 del mese è impegnato a Roma per la crisi di governo, sconvolge totalmente anche l’impostazione data alla questione da Salemi, imponendo, con l’aiuto di Montalbano, in cui il sicilianismo ebbe il sopravvento sull’ideologia e sugli ordini di partito, il criterio riparazionista che sarà immortalato nel famoso art. 38.
A tal proposito risulta molto interessante rileggere il punto di vista del socialista Mineo, così come fu da lui stesso riferito allo storico Ganci:
“[…] A poco a poco[…] La Loggia senior riuscì a far prevalere in seno alla Commissione il proprio punto di vista[…] Da una parte, La Loggia sosteneva che era necessario adottare formulazioni assai flessibili, ed anche oscure, per approfittare del fatto che <<a Roma non ne capivano nulla>> […] Dall’altra La Loggia impostava la questione dell’autonomia in termini essenzialmente rivendicativi: lo Stato avrebbe dovuto riparare ai suoi torti storici verso la Sicilia, finanziando (col meccanismo previsto dall’art. 38) le iniziative economiche della Regione, in termini però di lavori pubblici e non già di industrializzazione. E’ evidente, credo, il presupposto conservatore da cui partiva La Loggia (e con lui gli uomini più intelligenti del blocco agrario – da Tasca ad Aldisio): una politica economica del genere non avrebbe potuto suscitare le reazioni o le preoccupazioni del Nord, mentre avrebbe portato ad un’evoluzione molto lenta della struttura economico – sociale dell’Isola, garantendo il mantenimento dei rapporti di forza attuali, favorevoli al blocco agrario. Nonostante i miei sforzi, La Loggia riuscì in fin dei conti a condurre anche la sinistra su queste posizioni[…].(54)
La Loggia, forse in buona fede, si era fatto strumento degli interessi della grande industria del nord che, grazie a tale impostazione politica, non solo non avrebbe avuto da temere alcuna concorrenza da parte della Sicilia, ma avrebbe anzi potuto contare sulle commesse statali per l’avvio delle grandi opere nel sud. L’avv. Bellavista avrebbe poi dichiarato che la posizione di La Loggia non era condivisa da tutti i liberali siciliani(55), ma intanto si apriva il sipario su una classe politica che, tutto sommato, si rivelava come l’erede di quella che, nel passato, per secoli aveva calcato la scena politica siciliana, una classe dirigente, cioè, pronta a vendere gli interessi della Sicilia in cambio del potere politico da amministrare secondo criteri clientelistici e improduttivi.
Il 19 dicembre, risolta la crisi politica nazionale con la nascita del governo De Gasperi, la discussione sullo Statuto riprende alla Consulta, alla presenza anche dei reduci da Roma: Guarino Amella, Cartia, Li Causi e Maiorana.
La Loggia in questa fase del dibattito si tiene quasi in disparte, sicuro ormai di aver imposto il suo pensiero per l’adesione allo stesso, soltanto per ragioni politiche e non ideali, della Democrazia Cristiana e delle sinistre; ma il suo avversario di sempre non rinuncia a battersi fino alla fine per affermare un’idea pura di autonomismo fondata sulla dignità e la responsabilizzazione del popolo siciliano:
“[…] Un discorso a parte merita Guarino Amella – scrive Giarrizzo – Nel confronto con la scettica furberia del vecchio La Loggia, egli s’avvantaggia della istintiva generosità del radicalismo democratico: il suo ideale è quello di una società di piccoli e medi proprietari, di piccoli e medi artigiani, che manifestano nella vita locale esigenze di operosità e di solidarietà umane. L’autonomia deve valere a rendere possibile questa società, proteggendola dallo sfruttamento del feudalesimo latifondistico. E’ una visione sociale e politica, sostenuta dalla tradizione democratica del secolo XIX, che non consente di confondere l’autonomismo del Guarino con le posizioni genericamente conservatrici del centro indipendentista […] E un ruolo proprio il Guarino ha assunto, fin dall’inizio della discussione, a proposito dell’art. 39 e dell’approvazione dello Statuto per decreto legge: occorreva saggiare la reale volontà del governo di dar corpo alla promessa autonomia,costringere la classe politica nazionale ad una scelta tra repressione e riforme, per fondare sull’esito di questa sfida il discorso sulla nuova volontà politica che doveva esprimere la costituzione dello Stato democratico.(56)
Discutere l’articolo 14 sulla competenza legislativa esclusiva della Regione, per le materie rigidamente elencate dall’articolo in questione, non fu impresa da poco. All’interno della Consulta, infatti, si presentavano posizioni ancora abbarbicate ad un regionalismo, ormai insufficiente alle richieste dei siciliani, e contrarie, quindi, ad ogni forma di potere legislativo autonomo della Regione. Ancora una volta fu Guarino Amella a battersi strenuamente contro i consultori Tuccio e Li Causi:
“Io non comprendo le difficoltà dell’ing. Tuccio e del consigliere Li Causi. Per quanto riguarda quello che dice l’ing. Tuccio, egli crede che non possano esistere in una Regione leggi diverse da quelle che siano dello Stato, ma di fatto non è stato mai così. Noi abbiamo avuto, ( prima del ’67, per esempio) una legge sulle miniere in Sicilia perfettamente diversa da quella dello Stato italiano; non perciò eravamo contro l’autorità dello Stato. Quindi ci possono essere, come vede, materie, come quella del sottosuolo, che possono essere regolate diversamente in Piemonte o nella Sicilia[…].Per esempio, l’agricoltura siciliana è ben diversa dall’agricoltura della Val Padana[…]. Noi abbiamo in materia di bonifica, una legislazione che è uguale per tutta l’Italia, legge che è stato possibile applicare in Alta Italia dove vi sono le Alpi e i bacini montani; legge che ha fatto spendere miliardi qui in Sicilia e nel Mezzogiorno d’Italia senza ottenere grandi risultati[…]. Questo concetto che le leggi per la Sicilia non possano essere diverse da quelle delle altre parti d’Italia, non ha fondamento[…].”(57) Quanto alla proposta di Li Causi, in relazione all’inserimento nell’articolo del limite rappresentato per la potestà legislativa esclusiva della Regione dalle leggi costituzionali dello Stato, Guarino affermava di non vedere la necessità di tale aggiunta, poiché, come previsto dallo stesso Statuto che si stava esaminando, qualora ci fosse stato contrasto tra le leggi regionali e le norme della Costituzione, le prime sarebbero state annullate dall’Alta Corte. Gli inconfutabili chiarimenti del consultore agrigentino, convinsero anche i più restii a votare l’art. 14 sulla competenza legislativa esclusiva nella sua formula originaria, senza limitazioni di sorta.
Anche la discussione sull’articolo relativo alle competenze regionali sull’ordine pubblico fu oggetto di vivaci discussioni. Guarino, infatti, notava una vera incongruenza nella formulazione dell’articolo 30 che prevedeva che al mantenimento dell’ordine pubblico in Sicilia provvedesse il Presidente della Regione a mezzo di reparti di polizia dello Stato e reparti di polizia regionale. Con la schiettezza che gli era abituale faceva presente ai colleghi che approvare l’articolo così come era formulato, avrebbe significato triplicare i conflitti all’interno delle forze dell’ordine, visto che era a tutti notoria l’esistenza di gelosie e inimicizie, dannose all’andamento delle indagini e alla difesa dei cittadini, che da sempre erano esistite tra i corpi di PS e quelli dei Carabinieri. Con tale articolo dello Statuto si sarebbe aggiunto al conflitto già esistente tra i due tipi di polizia, anche il conflitto tra polizia regionale e polizia statale: “[…] Quindi bisogna aver coraggio: -sosteneva Guarino durante il dibattito sull’articolo in questione in seno alla Consulta, opponendosi con decisione ai bizantinismi e agli artifici verbali propri dei legislatori incerti e bisognosi di assicurarsi l’approvazione generale, non prendendo nette posizioni sui singoli argomenti – o che tutti gli organi della polizia dipendano dallo Stato, anche in Sicilia, o tutti gli organi di polizia dipendano esclusivamente dalla Regione. Invece della duplicità che c’è attualmente, faremo una triplicità. Noi avremo la continuazione dei contrasti, del sabotaggio di un organo verso l’altro: è doloroso, ma è così, ed allora non aumentiamo questo pericolo[…]”. Personalmente, tuttavia, il consultore agrigentino si dichiarava favorevole ad una polizia regionale che sarebbe stata – a suo parere – più preparata ad affrontare il tipo di delinquenza che infestava la Sicilia e, proprio in quel periodo, le manifestazioni pseudo- politiche e gli atti squisitamente banditeschi sembravano moltiplicarsi: “[…]Non risponde allora alla nostra esigenza questo corpo che dipende da Roma, alle esigenze della nostra Regione, cioè dove c’è una mentalità delinquenziale ben diversa da quella di lassù. Qui i movimenti popolari hanno un aspetto ben diverso da quelli di Milano o Torino[…].”(58) Infine la Consulta votò per la polizia dipendente da Roma con il voto contrario di Guarino Amella che sottolineava l’incongruenza che dalla norma statutaria derivava, essendo il Presidente della Regione a capo di tale polizia che, nel contempo, non avrebbe potuto sottrarsi agli ordini del Ministro degli Interni. Un conflitto di competenze che, tuttavia, non avrebbe mai costituito un vero problema, visto che i presidenti regionali che si sono succeduti nel tempo, si sono ben guardati dall’esercitare il potere loro conferito dall’art. 30 dello Statuto, delegandolo totalmente al Ministero degli Interni.
L’ultimo punto particolarmente dibattuto fu quello relativo al riconoscimento alla Regione della facoltà impositiva, proposta dalla bozza Salemi, sottoposta all’esame della Consulta. Si era optato, infatti, come già abbiamo detto, soprattutto sotto l’influenza di Enrico La Loggia, per il mantenimento di ogni facoltà impositiva allo Stato che avrebbe dovuto sovvenzionare la Regione con parte delle tasse esatte sull’Isola, più una somma variabile, a scopo riparatorio, sancita dall’articolo 38, creatura di La Loggia, commisurabile sulla base della differenza esistente tra la media nazionale di disoccupazione e quella siciliana. Se precedentemente – nel momento in cui aveva presentato il suo schema di Statuto e poi quando si era discusso sulla bozza del Movimento per l’Autonomia, a cui si era adeguato -, Guarino aveva giustificato la sua scelta, a favore del riconoscimento di una esclusiva potestà impositiva regionale, con la necessità di responsabilizzare la nuova classe dirigente locale e di emanciparla dagli aiuti statali, il 22 dicembre, davanti alla Consulta, a Palazzo Comitini, egli adotta un’ulteriore motivazione: la necessità, cioè, che la Regione possa imporre tasse proporzionate ai redditi della popolazione siciliana nei vari settori dell’economia. A sostegno della sua tesi adduceva molteplici esempi: una legge dello Stato, a titolo di solidarietà nazionale, aveva imposto una tassa di 50 lire per ettaro sia sugli ubertosi terreni della pianura padana, sia sugli aridi crinali montagnosi della Sicilia; tutto ciò rappresentava incontestabilmente un’ingiustizia. La stessa cosa avveniva con le imposte sui fabbricati che erano di uguale entità sia a Milano che a Caltanissetta, senza tenere conto delle diverse condizioni ambientali ed economiche e dell’inesistenza di case coloniche nella nostra Isola dove, quasi tutta la popolazione agricola vive nei centri urbani, mentre al nord vive nelle campagne, risultando così esente dall’imposta sui fabbricati abitati, perché considerati rurali: “[…] Ed allora diciamo: noi sappiamo quali sono le nostre risorse, le nostre forze, le nostre ricchezze: lasciate a noi il diritto d’ imposizione. Io perciò dico a tutti: non balocchiamoci in queste cose. Noi abbiamo interesse a non menomare le nostre risorse, abbiamo interesse a favorire nuove risorse, noi siamo un paese che deve risorgere, deve accrescere le industrie, aumentare tutte le nostre attività; abbiamo bisogno, quindi, non solo di non gravare quello che non merita di essere gravato,. Ma di diminuire le tasse e le imposte su quel che vogliamo incoraggiare perché risorga la Sicilia. Se questo non lo facciamo noi, lo faranno in Italia e metteranno tasse in modo tale da impedire che la Sicilia risorga nella sfera industriale com’è la nostra aspirazione in base alle nostre risorse.[…] Quando sento dire che per vivere tranquilli, bisogna dare alla Regione le imposte dirette, lasciando allo Stato le imposte indirette, mi viene in mente il povero impiegato che per vivere tranquillo deve vivere nella miseria perché vive a reddito fisso. Così si vuole dare alla Regione il reddito fisso per farla vivere in miseria; quando invece ci sarà qualche artigiano, qualche industriale che accrescerà la sua fabbrica, darà allo Stato allora i suoi tributi.[…] La Sicilia può pesare sui latifondisti per aiutare l’industria: viceversa sarebbe uno straziare la Regione.”(59)
L’articolo passò senza il voto di Guarino che aveva, tuttavia, dimostrato di comprendere perfettamente le motivazioni economiche che stavano dietro la scelta riparatoria voluta da La Loggia e aveva enunciato una perfetta teoria di federalismo fiscale che sembrava tratta dalle pagine appassionate di Salvemini.(60)
Il 23 dicembre la discussione si conclude con la votazione e l’approvazione dell’art. 39 che sanciva la promulgazione dello Statuto mediante decreto luogotenenziale e la sua immediata entrata in vigore. Tale articolo fu oggetto di notevoli dispute, visto che socialisti e comunisti insistevano per l’approvazione dello stesso in sede di Assemblea Costituente. In effetti la posizione delle sinistre non era deplorabile, poiché esse partivano dal presupposto che solo in tal modo lo Statuto avrebbe acquisito, almeno in parte, l’investitura del popolo. Se invece fosse stato approvato con un decreto luogotenenziale, il documento redatto e votato da una Consulta di eminenti siciliani, nessuno dei quali, tuttavia, eletto dal popolo, avrebbe senz’altro acquisito il carattere di una costituzione octroyée alla stregua di quelle che i principi graziosamente concedevano ai sudditi nell’ottocento, in seguito a rivolgimenti popolari. Ancora una volta, come in tutte le rivoluzioni preunitarie e come al momento dell’unificazione, il popolo sarebbe stato escluso dalle decisioni storiche che lo coinvolgevano direttamente, decisioni che, come sempre, sarebbero state prese dalla classe dei notabili.
In effetti tale ragionamento non poteva non condividersi, tuttavia cause di forza maggiore spingevano per una approvazione immediata. Si sapeva che la classe politica nazionale era generalmente contraria all’autonomia siciliana, sarebbe stato più facile, dunque, ottenerla subito in un clima di grave confusione istituzionale, quando il governo si dibatteva fra problemi, uno più grave dell’altro, piuttosto che dopo, quando tutto si sarebbe messo a posto e quando, magari, fosse venuta anche meno la minaccia di una presunta separazione della Sicilia dallo Stato nazionale. Bisogna, peraltro dire, che le sinistre, soprattutto i comunisti, erano comunque mossi dalla tradizionale diffidenza giacobina per ogni forma di decentramento che ritenevano potesse essere causa della formazione di centri di poteri locali facenti capo alle antiche forze reazionarie. Non sbagliavano del tutto, visto che l’esperienza di questi quasi sessant’anni di autonomia ci ha dimostrato come la mafia sia riuscita, quasi subito, a condizionare gran parte della politica regionale con la sua presenza minacciosa e ingombrante.
Giovanni Guarino Amella fu colui che si batté con più passione per l’approvazione immediata dello Statuto, dichiarando amaramente che se non si fosse approvato l’art. 37, diventato poi 39, sarebbe andati persi inutilmente sei giorni di discussioni e la gente avrebbe pensato che, come al solito, i politici si erano parlati addosso, avevano scherzato : “[…] Se tutto questo è inutile, se noi dobbiamo aspettare un nuovo progetto di legge, se dobbiamo aspettare che intervenga la Costituente o un altro organo era allora meglio dire a questi signori che hanno prospettato finora le loro ragioni, che si fossero assentati o avessero proposto anche di non far niente? Né si obietti che non si può per decreto luogotenenziale mutare l’ordinamento dello Stato.[…] Io mi sforzerò di essere calmo e di parlare tranquillamente. Se lasciassi libero corso al mio temperamento non potrei essere calmo di fronte a quell’affermazione che ha fatto Li Causi che noi si vuole l’autonomia per affermare le forze reazionarie. No Li Causi, noi siamo autonomisti perché vogliamo affermare le forze democratiche, sinceramente democratiche della Sicilia. Del resto io chiedo a Li Causi che cosa significa questo voler dire: <<volete l’autonomia per affermare le forze reazionarie>>? Quando lui stesso dice che tra qualche mese si faranno le elezioni della Costituente e quindi per l’autonomia, se la Sicilia è reazionaria, anche fra tre mesi, dovrebbe rispondere in modo reazionario. Io insorgo contro questa ipotesi. La Sicilia non è vero che è reazionaria […] E vado avanti, Perché noi abbiamo discusso l’autonomia e vogliamo l’autonomia? Che urgenza c’è?
No, Li Causi, c’è urgenza in questo senso: se dopo aver fatto in questi quattro giorni tante discussioni, mettessimo tutto nel cassetto e aspettassimo, quando noi potremmo avere questa autonomia desiderata?[…] Si faranno le elezioni per la Costituente, ma la Costituente non darà lo Statuto dell’autonomia regionale: la Costituente affermerà il principio, se l’affermerà, dello Stato regionale; poi la Costituente si scioglierà-; dopo sei, sette mesi, quando avrà discusso il problema agrario ed industriale e rimanderà al Parlamento, che verrà eletto dopo la Costituente, la formazione delle leggi relative. Quindi, dopo l’affermazione della Costituzione di uno stato a tipo regionale, dovranno venire le nuove elezioni dei deputati alla Camera per approvare la legge: andremo avanti per qualche anno […] .
Non è forse fuori dalla costituzione lo stesso ministero che impone leggi, non essendo emanazione di un libero parlamento elettivo? Non sono forse fuori dalla costituzione le Giunte comunali elette dai Prefetti? Non è forse fuori dalla costituzione questa assemblea pur così mutilata di poteri?
La Sicilia attende da noi le sue giuste leggi che vengano incontro ai suoi vecchi peculiari bisogni. Noi dobbiamo ottenere la possibilità di placare la giusta aspettativa. Così soltanto la Sicilia tornerà unanime quale figlia amorosa a fianco della grande madre comune Italia>>.(61)
Guarino non solo insisteva sulla insussistenza dell’obiezione a carattere costituzionale in un momento in cui anche i più alti organi dello Stato avevano dimenticato di avere una costituzione, ma sosteneva la necessità di presentare alla futura Assemblea costituente uno Statuto che fosse già stato sperimentato da almeno due anni. In tal modo la Costituente, non solo si sarebbe trovata davanti ad una situazione di fatto, quasi impossibile da revocare, ma l’esperienza attuata in quei mesi di autogoverno le avrebbe dato la possibilità di giudicare sui limiti o i pregi dello Statuto e correggere gli eventuali errori tramite la potestà normativa che le competeva. Un’altra ragione per approvare immediatamente lo Statuto era costituita dalle aspettative della gente: “[…] Volete voi che si dica – continuava Guarino Amella – che abbiamo chiacchierato, che non se ne farà niente? Questo è deludere, è dare esca a quel separatismo contro il quale tutti noi vogliamo combattere. Sarà questa l’arma migliore per i residui del separatismo. Vedete a che cosa servono tutte queste chiacchiere? Ad ingannarci.
Questi sono argomenti, badate, che sono adoperati dai valdostani. Anche lì c’è un movimento separatista; volevano andarsene con la Francia, ma gli elementi eletti hanno preso il coraggio a piene mani, hanno formulato un progetto e sono andati a Roma a dire: dateci subito questo decreto; sarà il solo modo perché possiamo metterci contro le correnti del separatismo.
Questo hanno detto quelli della Val d’Aosta e a queste implorazioni il Governo non è rimasto sordo ed ha emesso il decreto che ha dato l’autonomia alla Val d’Aosta e che non sarà la sola: la stessa cosa sta per avvenire per il Trentino; è l’unico modo per stroncare le azioni separatiste. […]
Io invoco da questa Assemblea un momento di coscienza di quello che fa; io chiedo di non respingere questa proposta di avere l’autonomia per decreto e subito. E’ un errore politico di cui potremmo pentirci, ma io non mi pentirò di quello che ho fatto. Ricordiamocene.”(62)
Quella stessa mattina l’articolo 39 venne approvato con 17 voti contro 12, ripudiando, per la prima volta dallo sbarco americano, la logica dei comitati di liberazione, infatti la Democrazia Cristiana votò insieme a liberali e demolaburisti, abbandonando al loro destino le sinistre e preparando il terreno per un nuovo indirizzo politico che, poco più di un anno dopo, sarebbe stato seguito anche a livello nazionale.(63) L’appassionata arringa di Guarino, probabilmente fu determinante per l’approvazione di quell’articolo che avrebbe segnato definitivamente il destino dell’Isola, ma <<lo Statuto nasceva>> – come afferma Giarrizzo – <<sui frantumi dell’unità antifascista>>.
Contemporaneamente al varo del progetto di Statuto da parte della Consulta, iniziava per l’ordine pubblico un periodo particolarmente turbolento: assalti alle caserme (si ricordi, solo tre giorni dopo, il 26 dicembre, l’assalto di Giuliano alla caserma di Bellolampo e quelli contro il trasmettitore radio di Palermo, il 26 gennaio e il 1 marzo), manifestazioni politiche disordinate e violente, recrudescenza del banditismo comune e politico con l’affacciarsi degli ultimi conati separatisti.(64) Le sinistre misero sotto accusa l’amministrazione Aldisio che, malgrado la difesa di De Gasperi e del ministro degli Interni Romita che, convocando, nel gennaio successivo, i consultori nazionali siciliani, assicurò solennemente l’impegno del governo contro la delinquenza comune e il separatismo, nel marzo successivo rassegnò le dimissioni come Alto Commissario. L’accusa che i socialcomunisti rivolgevano alla DC era quella di mostrarsi accondiscendente nei confronti dei separatisti – il cui movimento sarebbe stato, da lì a poco, legalmente riconosciuto – come prezzo da pagare per l’alleanza politica contratta con i liberali e con le destre. Peraltro, le sinistre sostenevano, e non senza qualche ragione, che le manifestazioni di violenza e i rigurgiti separatisti servivano come arma di pressione nei confronti del governo, affinché venisse concesso al più presto alla Sicilia lo Statuto già approvato dalla Consulta Regionale.(65)
Il governo, il 12 marzo, subito dopo la notizia dell’esito delle elezioni amministrative in Sicilia, che avevano visto un’insperata affermazione della sinistre, anche se la DC aveva conquistato la maggior parte dei comuni, esaminò finalmente il progetto di statuto, magistralmente illustrato da Aldisio che lo presentò come l’unico strumento di pacificazione tra la Sicilia e lo Stato e tra i siciliani fra loro, e lo trasmise, il 4 aprile successivo, alla Consulta Nazionale.(66) Qui, su proposta di Guarino Amella, le commissioni Affari Politici, Giustizia e Finanze, eleggono una giunta per l’esame del progetto di statuto, presieduta da Gilardoni e costituita da altri quattordici componenti, di cui sei siciliani (Aldisio, Guarino Amella, La Malfa, Li Causi, Musotto e Ziino) e due sardi (Berlinguer e Lussu). Tale Giunta esaminò il progetto il 27 e il 29 aprile accogliendo la tesi esposta da Guarino Amella sulla necessità della concessione dello Statuto alla Sicilia prima delle elezioni per la Costituente: “[…] La Sicilia soffre di un bubbone maligno, che forse non si ha in Sardegna: il separatismo. I separatisti sono in armi e affermano che la promessa d’autonomia è una turlupinatura, un gioco che si conduce dal Governo, dall’Alto Commissario e dagli autonomisti perché non se ne vuole fare nulla. Alla vigilia delle elezioni si deve dimostrare che il Governo non intende turlupinare nessuno, perché se l’affermazione dei separatisti dovesse essere accresciuta da ulteriori rinvii, le conseguenze sarebbero dolorosissime. Si debbono perciò compiere tutti gli sforzi affinché il parere della Consulta sia dato entro oggi o domani al Governo. Questi emetterà o non emetterà il decreto, ma sarà lui il responsabile, se non vorrà tener conto di questa gravità della situazione in Sicilia”.(67)
Il pesante avvertimento di Guarino ebbe effetto, poiché anche un irriducibile nemico dell’autonomia siciliana come Einaudi, rinunziò alla sua richiesta di ulteriore dettagliato esame del progetto di Statuto, affermando che le sue remore erano soltanto motivate da questioni personali di coscienza. Anche i socialisti e i comunisti, pressati dai loro compagni sardi e timorosi di assumersi con una loro opposizione, gravi responsabilità per il futuro dell’Italia, si convinsero a votare per l’immediata concessione dello Statuto. La minaccia separatista vinse, dunque, le ultime esitazioni, ma non solo quella; i partiti moderati che in seno alla Consulta avevano votato l’articolo 39, assumendo di fronte alla popolazione siciliana la veste di paladini dell’autonomia, avrebbero visto fruttare il loro impegno in termini di voti e di potere, solo se avessero potuto portare trionfalmente a Palermo il decreto luogotenenziale di concessione dell’autonomia.
Ancora una volta i destini dell’Isola, diventavano, nelle mani della classe dominante, strumenti di potere personale.
Il 15 maggio il progetto di statuto viene votato dal Consiglio dei ministri con l’opposizione di Nenni, Cattani e Gasparotto.
Cominciava una nuova era per la quale l’impegno indefesso di Giovanni Guarino Amella era stato indubitabilmente determinante.
Malgrado la lunga battaglia condotta per la conquista dell’autonomia, Guarino Amella non riuscì a far parte di quell’Assemblea Regionale, frutto, in parte del suo impegno e della sua tenacia. Infatti, nelle prime elezioni regionali dell’Aprile 1947, malgrado fosse stato votato in maniera quasi plebiscitaria dagli elettori del suo collegio, non riuscì eletto poichè il suo partito non raggiunse, a livello nazionale, i voti necessari a farlo partecipare alla divisione dei seggi.
La sua disinteressata passione per il buon esito dell’autonomia regionale, fu dimostrata dall’impegno con cui, malgrado la delusione elettorale, seguì i dibattiti assembleari, in quei pochi mesi che lo dividevano dalla morte, avvenuta nell’autunno del ’49.
Una vita vissuta per la Sicilia, dunque, fino alla morte, un ideale coltivato appassiona, talmente al di là di ogni interesse politico e personale.
Tutto ciò non può non costituire un esempio fondamentale per le giovani generazioni disabituate, purtroppo, ad una lotta politica disinteressata e idealistica e sempre più aduse alla prevaricazione, alla prepotenza, al cinismo e alle meschine ambizioni personali.
NOTE
1) Relazione tenuta al seminario: “Il contributo di G. Guarino Amella alla formazione dello statuto della Regione Siciliana – Aspetti storici e giuridici” Palermo, 9 Dicembre 2002.
(2) Pier Luigi Ingrassia, Presentazione alla pubblicazione del discorso di commemorazione di Giovanni Guarino Amella pronunciato il 6 febbraio 1950 da Paolo D’Antoni, Palermo 1950
(3) Scrive Indro Montanelli a tal proposito: “Chi fra don Luigi Sturzo ed Enrico La Loggia, sia il babbo dell’autonomia regionale e chi la mamma non so. So soltanto che essi ne sono comunque i genitori […].” Cfr. Indro Montanelli, Incontri, vol. II, Milano 1966, p. 916.
(4) Articolo apparso su La Fiaccola, Organo del Partito Democratico del Lavoro, del 27 ottobre 1946.
(5) Discorso di commemorazione, op. cit. pag. 12
(6) Gabriella Portatone Gentile, Impegno politico e sociale dei cattolici agrigentini alla fine del secolo XIX, Palermo 1985 e della stessa autrice, Padre Gioacchino La Lomia da Canicattì. L’uomo, la città, la società del suo tempo, in A.A. Momenti di storia e pensiero politico in Sicilia, Palermo 1995 pp. 145-166.
(7) Sul barone Lombardo a cui venne intestato l’ospedale di Canicattì, per il cospicuo legato ad esso lasciato cfr. G. Lorenzoni, Sicilia, vol. Vi, Roma 1910 e Trasformazione e colonizzazione del latifondo siciliano, Firenze 1940, p. 306.
In occasione della morte del barone Lombardo, il giornale L’Ora dedicò un articolo all’opera dell’estinto, cfr. La morte del Barone Lombardo Gangitano, Palermo 21-22 gennaio 1910.
(8) D. Lodato- A. La Vecchia, La città di Canicattì, Canicattì, 1987 pp. 257-261. Sulle decime ecclesiastiche aveva iniziato l’iter parlamentare rivolto all’abolizione il deputato del collegio di Girgenti, dal 1862 al 1890, Luigi La Porta; cfr. Gabriella Portatone Gentile, Un democratico siciliano: Luigi La Porta, Caltanissetta, 1981, pp. 183 e ss.
(8) Il testo completo del Memorandum si trova in appendice dell’opera di S. Massimo Ganci, Da Crispi a Rudinì. La polemica regionalista (1894-1896), Palermo 1973.
(9) Articolo apparso su La Fiaccola del 5 agosto 1945.
(11) Ivi
(12) Tommaso De Crescenzio, Risveglio agrario? in Il Moscone n.18, Girgenti 26 agosto 1906
(13) Gabriella Portatone Gentile, Padre Gioacchino La Lomia, la sua famiglia, la sua città e l’ambiente agrigentino, in Gioacchino La Lomia, a cura di Cataldo Naro, Caltanissetta – Roma, 1995, pag. 34
(14) Paolo D’Antoni, Commemorazione, op, cit. p. 27
(15) Articolo a firma di Mefisto, verosimilmente lo stesso Guarino, apparso su Il Chiodo del 25 settembre 1919.
(16) Peraltro anche i democristiani nel messaggio alle popolazioni dell’Isola, nell’agosto del 1943, avevano sottolineato la fondamentale importanza che avrebbe avuto nello Stato ricostruito il sistema corporativo: “[…] Contro l’attuale degenerazione politico-burocratica dell’idea corporativa e contro ogni ritorno al metodo della lotta di classe, affermiamo che l’organizzazione degli interessi deve essere intesa non come espressione di sole esigenze economiche, ma anche e soprattutto come strumento di realizzazione di una migliore giustizia sociale e di collaborazione fra le classi.[…] alcune funzioni essenziali saranno riservate ad organismi professionali di diritto pubblico[…] Questi organismi di categoria eserciteranno il potere disciplinare sull’attività professionale concludendo e tutelando i contratti collettivi che, in caso di conflitto, saranno sottoposti all’arbitraggio obbligatorio; e raggruppati in maggiori unità costituiranno la base della rappresentanza degli interessi, che avrà i suoi delegati nei corpi comunali e regionali, nei consigli consultivi e normativi presso i dicasteri centrali dello Stato e nel Senato che vogliamo elettivo”. Cfr.: Salvo Di Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo 1967, p. 199. Lo stesso De Gasperi, inoltre, aveva previsto un Senato a carattere corporativo: “Accanto alla Camera dei Deputati si costituirà, in sostituzione del Senato, un’assemblea rappresentativa degli interessi organizzati, prevalentemente eletta dalle rappresentanze del lavoro e della professione[…]Il corpo rappresentativo della Regione si formerà prevalentemente sull’organizzazione professionale”cfr. Alcide De Gasperi, La parola dei democratici cristiani (1943-44) in I cattolici dall’opposizione al governo, Bari 1955, pp. 480-482.
(17) Paolo D’Antoni, Giovanni Guarino Amella, op. cit. pag. 24
(18) Nel numero unico de La Fiaccola del Partito democratico del lavoro, Canicattì 23 luglio 1944, apparve un articolo di Guarino Amella, quasi interamente dedicato al suo personale dissidio con La Loggia, il quale dopo anni di silenzio, aveva rialzato il capo mirando a diventare indiscusso protagonista politico della Sicilia in ricostruzione. Per far ciò non esitava a spargere veleno sui più diretti avversari e in particolare sul suo rivale di Canicattì. Aveva perciò ripreso un’antica polemica dell’anteguerra accusando il Guarino di aver sottratto corrispondenza a danno degli antifascisti: “[…] Il sig. La Loggia ha mentito quando ha informato i giornalisti che l’on. Palmisano fascista avesse parlato alla Camera in mio favore. Proprio ha mentito: alla Camera parlò soltanto l’on. Gangitano, il fascistissimo deputato di Canicattì e chiese che io fossi rinviato a giudizio; ma l’on. Bianchi replicò chiarendo l’indegna montatura e tutto finì: allora la Camera fascista aveva ancora qualche pudore. Basti ricordare che in quello stesso torno di tempo l’on. Balbo, per l’attacco fattogli di avere scritto una lettera di minacce contro un magistrato, fu costretto a presentare le dimissioni da sottoministro dell’Aeronautica”
(19) Archivio privato dell’avv. Giuseppe Alaimo, Canicattì, foglio n. 6, Commemorazione dell’on. Guarino Amella, orazione tenuta presso il Teatro Sociale di Canicattì, gennaio 1950
(20) Articolo apparso su “Il Moscone” n. 18, agosto 1906.
(21) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica 1943-45. La genesi dello Statuto regionale, in Consulta Regionale Siciliana, vol. I, Saggi Introduttivi, Palermo 1975, pag. 11. Cfr. S. Massimo Ganci, L’Italia antimoderata, Parma 1968.
(22) Cfr. Enrico La Loggia, Ricostruire, Palermo 1943, pag. 23.
(23) Ivi, pag. 24.
(24) Gian Biagio Furiozzi, Il dibattito sul regionalismo, in “Dall’Italia liberale all’Italia fascista”, Perugia, 2001, p.12
(25) S. Massimo Ganci, L’Italia antimoderata, op. cit. pp. 429-31.
(26) Enrico La Loggia, Autonomia e rinascita della Sicilia (scritti vari), Palermo 1953, p. 73
(27) Articolo apparso in Popolo e Libertà, del 28 febbraio 1945; Salvo Di Matteo, Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947, Palermo 1967, pp. 357-360
(28) Ivi, pp. 220-225
(29) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. p. 68.
(30) Salvo di Matteo, Anni Roventi, op. cit. p. 353.
(31) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, 1943-1945. La genesi dello Statuto regionale, in Atti della Consulta Regionale siciliana, op. cit. pp.35-36.
(32) La relazione è stata pubblicata la prima volta da Salvo Di Matteo in Anni roventi, op. cit. pp. 429-434.
(33) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. p. 57; Cfr. Corriere di Sicilia, Catania 27 novembre 1944.
(34) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. pp. 77-79.
(35) Giovanni Guarino Amella, Per l’autonomia regionale della Sicilia. Progetto di Statuto, Palermo, 1945 p. 7
(36) Ivi, p.8
(37) Probabilmente Guarino si rifaceva all’esperienza positiva del Consorzio fra comuni per la gestione dell’acquedotto Tre Sorgenti che egli aveva costituito come sindaco di Canicattì durante la prima guerra mondiale. Sulla necessità dell’abolizione delle province a favore dei consorzi dei Comuni si esprimeva favorevolmente, nel 1945, anche Oliviero Zuccarini nel suo lavoro La Regione nell’ordinamento dello Stato, Roma 1945.
(38) Lettera di Mario Berlinguer a Guarino Amella conservata nell’Archivio della Fondazione Giovanni Guarino Amella di Canicattì; sull’autonomismo sardo cfr,: Emilio Lussu, La Repubblica Regionale in Federalismo <<Quaderni di Giustizia e Libertà>>, n. 6, 1933, pp. 8-21; Camillo Bellini, L’autonomismo sardo, in AA.VV. Gli Stati Uniti d’Italia, Messina- Firenze 1991, pp. 225-228.
(39) Gaetano Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, Torino 1955, pp. 85-87.
(40) G. Guarino Amella, Per l’autonomia regionale della Sicilia, op. cit.p.13.
(41) Lettera di Giovanni Guarino Amella all’on. Giuseppe Alessi del 25 novembre 1948, in Archivio della Fondazione Guarino Amella.
(42) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. p. 81.
(43) Sullo sbandamento del partito della Democrazia del Lavoro cfr. Corriere di Sicilia, Catania 12 aprile 1945.
(44) Lettera di Avarna di Gualtieri a Guarino Amella del 6 novembre 1945, in Archivio della Fondazione Guarino Amella, Canicattì.
(45) Articolo di G. B. Rizzo, alto esponente del partito, scritto alla vigilia del Congresso,. in La Sicilia, Catania, 16 marzo 1945
(46) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Palermo 1983, pp.206 e ss.
(47) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. pp. 90 e ss.
(48) Movimento per l’Autonomia della Sicilia, Statuto della Regione Siciliana, Palermo 1945.
(49) Gabriella Portatone Gentile, Cenni sulla libertà di commercio in Sicilia, in Atti del Seminario Internazionale di Erice “Gioacchino Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento”, a cura di Eugenio Guccione, Erice, 6-9 ottobre 1988, Olschki ed. Firenze, 1991, pp. 737-747
(50) Consulta Regionale Siciliana, Atti della V sessione, vol. III, pp. 410-411.
(51) Salvo Di Matteo, Anni roventi, op. cit. p.371.
(52) ivi, p. 371.
(53) Salvo Di Matteo, Anni roventi, op. cit. pp. 371 e ss.; Alto Commissariato per la Sicilia, Relazione della Commissione incaricata di redigere il progetto di Statuto per l’autonomia della Regione Siciliana (relatore prof. Giovanni Salemi), Palermo, dicembre 1945, pp. 11-13.
(54) S. Massimo Ganci, L’Italia antimoderata, parte II, Parma 1962, p.391. n.
(55) Girolamo Bellavista, Ricostruzione liberale, 23 dicembre 1945.
(56) Giuseppe Giarrizzo, Sicilia politica, op. cit. p. 107
(57) Consulta Regionale, Atti della V sessione, op. cit. pp. 260-272.
(58) Consulta Regionale Siciliana, Atti della V sessione, op. cit. pp. 360-372.
(59) Ivi, pp. 398 – 404.
(60) “[…] Lasciate ai Comuni e alle federazioni regionali di Comuni la cura della viabilità, delle acque, della giustizia, dell’istruzione, dell’ordine pubblico, delle finanze, di tutto ciò che non è politica estera, politica doganale, politica monetaria, di tutti gli affari insomma che non sono d’interesse davvero generale; […] e allora, solo allora, le spese si ripartiranno egualmente, perché non si ripartiranno più, ma ognuno si terrà i suoi quattrini e li spenderà sul luogo come meglio crederà.[…]” In Gaetano Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, op. cit. pp.85-87.
(61) Giovanni Guarino Amella, Per l’autonomia regionale, op. cit. p. 32.
(62) Consulta Regionale Siciliana, Atti della V sessione, Palermo,1976, p.441-442.
(63) Cfr. Francesco Renda, Storia della Sicilia, vol. III, op. cit. pp. 243 e ss. Il giudizio di Renda a riguardo è naturalmente negativo, egli attribuisce alla rottura con le sinistre la <<defaillance>> di Aldisio e i cedimenti nei confronti del terrorismo e della mafia.
(64) Nel movimento separatista l’arresto di Varvaro, Finocchiaro Aprile e Restuccia, decapitò l’ala moderata dello stesso. Lasciando libero campo all’ala intransigente e militarista a cui facevano capo diversi rampolli dell’aristocrazia siciliana, come il figli del barone La Motta, il figlio di Lucio Tasca, gli eredi dei baroni Bordonaro. Costoro divennero una forza ribelle ed incontrollabile decisa a battersi fino alla fine per l’indipendenza della Sicilia. Si diedero, dunque, alla latitanza costituendo una nuova formazione armata il GRIS, indipendente dall’EVIS e organizzata alla stregua di una società segreta, come la Carboneria o la Giovine Italia, mescolando la loro indomita fede nell’indipendenza siciliana con equivoche alleanze con gruppi di mafiosi o di delinquenti comuni. Cfr. Francesco Renda, Storia della Sicilia, vol. III, op. cit. pp. 244-245; inoltre cfr. Francesco Paternò Castello, duca di Carcaci, Il Movimento per l’indipendenza della Sicilia. Memorie del Duca di Carcaci, Palermo 1977.
(65) Romita, allora ministro dell’Interno parlò di una <<Sicilia che sfuggiva al nostro controllo>>, cfr. Giuseppe Romita, Dalla Monarchia alla Repubblica, con prefazione di Giuseppe Saragat, Pisa 1959, p.51.
(66) Nel frattempo il governo aveva proceduto alla sostituzione di tutti i prefetti <<politici>> nominati dagli americani in Sicilia, con prefetti di carriera e aveva ottemperato alle richieste provenienti da molti ambienti politici siciliani, in relazione alla scarcerazione di molti giovani separatisti, le cui azioni furono considerate dettate da << impeto inconsiderato di imprudenza giovanile>>. Clamorosa fu la scarcerazione di Finocchiaro Aprile e di Varvaro che, il 27 marzo giungevano a Palermo su un aereo militare, messo a disposizione proprio dal ministro Romita. Cfr. Salvo di Matteo, Anni roventi, op. cit. pp. 460 e ss.
(67) Giovanni Salemi, Lo Statuto della Regione Siciliana, Padova, 1961, pag. 182.