F. RENDA, Salvatore Giuliano. Una biografia storica. Sellerio Editore, Palermo 2002.
Francesco Renda, professore emerito dell’Università di Palermo, prolifico autore di pregevoli opere sulla storia della Sicilia, si sofferma in quest’ultimo suo lavoro, sulla figura, ormai quasi leggendaria di Salvatore Giuliano, per trarne, passando per gli innumerevoli scritti sul bandito (ben 51 biografie più il film di Rosi), quella che egli stesso definisce una biografia storica, cioè mirante a rappresentare la verità storica al di là delle interpretazioni di parte.
L’autore, ripercorrendo le fonti e le testimonianze, distingue una verità processuale dalla verità storica. La prima ha bisogno di prove certe e inconfutabili, senza delle quali il giudice non può che assolvere; la seconda, pur non potendo prescindere da documenti certi, può farsi strada anche in assenza di prove inconfutabili sostituendole con la logica deduzione derivante dalla conoscenza dei fatti, dei precedenti storici e dell’ambiente.
Così se dal processo tutta la classe politica del tempo uscì indenne da condanne giudiziarie, dal giudizio storico essa risulta direttamente o indirettamente coinvolta in quella terribile strage che non è esente da risvolti internazionali.
In effetti sulla strage di Portella della Ginestra ancora oggi nulla appare scontato, nemmeno l’effettiva volontà di Giuliano di uccidere deliberatamente, colpendo nel mucchio, contadini ignari e innocenti, riuniti in quel pianoro per festeggiare, dopo le tragedie della guerra, un giorno diverso, festeggiare quella speranza nella riscossa che molti vedevano ormai vicina a realizzarsi.
Lo stesso Giuliano in una delle tante testimonianze rese, sostenne di avere avuto l’intenzione di colpire i capi comunisti, avendo saputo che fra di loro si annidavano spie e traditori, per dare al popolo una lezione politica, per far capire a tutti da che parte stava il potere; tuttavia non vedendo nessuno dei capi, ordinò di sparare in aria, in segno di avvertimento. Ma i primi spari colpirono i cavalli e i muli all’altezza dei garretti e poi cominciarono ad abbattersi sulle persone in piedi; era una traiettoria ben diversa da quella desumibile dalla testimonianza del bandito, una traiettoria quasi orizzontale rispetto alle vittime e quindi appariva impossibile credere che i colpi provenissero dalle mitragliatrici degli uomini di Giuliano, appostati sulla montagna. Questa è la tesi sostenuta da Giuseppe Casarrubea, il quale avanza l’ipotesi che oltre alla banda Giuliano, altri uomini, segretamente, erano pervenuti sul luogo, appostandosi alle falde della montagna. Erano questi ad aver ricevuto l’ordine di sparare sulla folla, mentre all’ignaro Giuliano era stato ordinato di sparare in aria per intimidire la gente, senza rivelargli il vero progetto stragista dei mandanti. Un volta commesso l’eccidio, nessuno avrebbe potuto dubitare della colpevolezza di Giuliano e della sua banda, il che avrebbe reso molto più difficoltoso risalire ai mandanti.
Tale tesi, seppur non sostenuta apertamente da Renda, appare da lui stesso ventilata, soprattutto quando viene sottolineata la natura del bandito di Montelepre, guascone, crudele, ribelle, ambizioso, ma mai schieratosi contro i più poveri e i più deboli. L’autore ricorda ciò che nella zona si raccontava di Turiddu, diventato un eroe leggendario non soltanto per i suoi paesani, ma anche per i mass media nazionali ed esteri che vedevano in lui un odierno Robin Hood. Tutti erano a conoscenza di come beneficasse i più miseri – ad una vecchia signora minacciata di sfratto per morosità aveva fatto trovare, la mattina ai piedi del letto, la somma necessaria – e nessuno si sarebbe spiegato il suo comportamento feroce contro donne e bambini innocenti se non accettando l’ipotesi che fosse stato ingannato per ottenere un duplice scopo: lanciare alle masse, che pochi giorni prima avevano mandato al parlamento siciliano una maggioranza di sinistra, un chiaro messaggio sull’anticomunismo del loro indiscusso eroe; liberarsi di un personaggio che, se era stato utile nel passato, appariva adesso troppo scomodo, anche perché con le sue manie di protagonismo attirava troppo l’attenzione dell’opinione pubblica sugli affari del mondo agrario siciliano.
Certo se Giuliano aveva accettato di combattere il comunismo ottenendo come contropartita l’immunità e la libertà, da uomo d’onore non avrebbe mai accettato di conseguire tali mete a prezzo del sangue innocente dei suoi compaesani: “Non ho sparato volontariamente contro quei poveri lavoratori inermi: 1) perché non sono disceso mai a tale bassezza di agire contro uomini inermi, e lo dimostra il fatto non solo che ho affrontato interi eserciti, ma anche ho usato quello spirito di cavalleria di avvertire il nemico prima di svolgere l’azione; 2) che non potevo commettere di sparare volontariamente contro gente che sono della mia stessa classe, che nelle mie circostanze ne sono stato sempre familiarizzato e gli ho dato quel po’ d’aiuto che mi è stato possibile; 3) io non sono un ricco feudatario, non appartengo a quel cerchio di patrizi a cui piace fare il gioco dello schiavismo della bassa plebe e neanche sono stato al loro servizio, ma, posso dire, forse loro nemico” (pp. 66-67)
L’autore analizza con abbondanza di particolari, il giallo della lettera ricevuta, pochi giorni prima della strage, da Giuliano e da lui immediatamente distrutta. Renda riporta le varie tesi risultanti dai verbali degli interrogatori di Giuliano e degli altri coimputati e dagli atti del processo. Si affacciano varie verità: la lettera era stata scritta da Scelba e prometteva al bandito la libertà in cambio dell’uccisione dei lavoratori, oppure proveniva dai servizi segreti americani intenzionati a servirsi dello stesso Giuliano per annientare in Italia la minaccia comunista che, dopo le lezioni regionali del 1947, era divenuta sempre più pressante?
Pur mantenendo un pieno distacco sulla vicenda processuale e in parte sul processo storico – sociologico che sulla vicenda fu fatto da una moltitudine di storici e giornalisti, l’autore esprime un chiaro e inequivocabile giudizio sulle conseguenze di quella misteriosa strage, cioè sul risultato storico:
“[…] Fu nel contesto di quell’ineluttabile grande passaggio dalla Sicilia antica alla Sicilia moderna e democratica, che venne ideata ed attuata la strage di Portella della Ginestra, nell’assurdo tentativo di bloccarne il compimento […] Gli ideatori, i mandanti e gli esecutori della strage, oltre che sconfitti sul piano morale e politico, sono anche definitivamente scomparsi come attori e partecipi della vita del Paese. Non c’è più il latifondo, come non c’è più con primaria funzione dirigente la classe dei grandi proprietari del latifondo titolari e beneficiari. Quella Sicilia è scomparsa senza più possibilità di ritorno. Le vittime della strage, invece, insieme con i contadini guidati dalle loro cooperative, dai loro sindacati e dai loro partiti, rifulgono nella memoria storica italiana fra i protagonisti che hanno concorso a fare dell’Italia un paese industriale, democratico e moderno” (pp. 76-77).
Gabriella Portalone
F. M. STABILE, Giovanni Blandini. Dal neoguelfismo al cattolicesimo sociale, Collana del “Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia” della Facoltà Teologica di Sicilia, Caltanissetta – Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2002, pp. 185.
Francesco Michele Stabile iniziò questa ricerca nel 1994, a 150 anni dalla fondazione della diocesi di Noto che, per l’occasione, aveva affidato a un gruppo di storici i lavori di un Convegno.
L’autore ripercorre la vita e l’opera del vescovo Giovanni Blandini (1832-1913) attraverso ben 38 anni di episcopato e osservando il passaggio dal vecchio regime a quello liberale “dalla chiesa della Legazia alla chiesa papale, dal localismo municipalistico alla consapevolezza di far parte della chiesa italiana” (p. 5).
Blandini, forgiatosi sulle idee neoguelfe, apparteneva a quel clero che si diceva convinto in una possibile conciliazione tra patria e fede religiosa. E, nonostante il prevalere della soluzione francese, prospettata e voluta dal regime liberale che non garantiva tale armonia, egli continuò sempre nella sua vita a tentare di conciliare religione e libertà stimolato anche dalla nuova realtà prodotta nel mondo cattolico dall’enciclica leoniana Rerum Novarum.
Durante il suo episcopato vecchi ordini religiosi e nuove congregazioni cominciarono ad attivarsi in favore dei poveri, dei malati e degli orfani. E quasi sempre il tutto avveniva gravando sulle finanze del vescovo già oberate da molteplici tasse. Egli volle fondare anche nuove associazioni “inculcando lo spirito di devozione e di ansia missionaria per la conversione dei peccatori e la fedeltà al vescovo e al papa” (p. 43). L’obiettivo era di formare un cattolico più attento all’impegno etico e caritativo. E Blandini si inserì nella vita amministrativa chiedendo al clero di fare altrettanto. Per tale scopo egli si adoperò per introdurre la diocesi di Noto nel movimento cattolico nazionale dell’Opera dei congressi diffondendo messaggi e inviando un suo rappresentante al congresso di Firenze del 1875.
Il punto culminante del movimento cattolico siciliano si ebbe con l’organizzazione a Palermo di una conferenza episcopale (20 gennaio 1903) i cui documenti principali furono le Deliberazioni e Disposizioni pratiche intorno alla Democrazia cristiana e la lettera pastorale collettiva, scritta proprio dal vescovo di Noto, dal titolo La Democrazia cristiana, che avrebbe dovuto portare al riscatto economico della Sicilia e a una nuova coscienza civile facendo leva sulla consapevolezza religiosa. In seguito alla lettera, Noto fu scelta come sede del IV Congresso regionale cattolico (14-19 dicembre 1903). Durante i lavori il vescovo chiese a Romolo Murri di prendere la parola: la Chiesa doveva aprirsi al mondo moderno e all’impegno civile e sociale (p. 143) e la democrazia doveva essere diretta dai principi cattolici. Il discorso del prete marchigiano piacque a Blandini, il quale, riprendendo la battuta di Leone XIII – morto l’estate prima – a proposito di Cristoforo Colombo, esclamò “il sac. Murri è nostro” (p. 144).
Stabile, con la sua specifica competenza di studioso della storia del cattolicesimo siciliano, ha il merito di aver documentato e ricostruito la vicenda di Giovanni Blandini, uno dei vescovi più impegnati e più sensibili nella diffusione del pensiero cristiano, del movimento sociale cattolico e della democrazia di ispirazione cristiana. Convinto che solo la Chiesa potesse porsi come mediatrice tra operai e proprietari egli chiese al clero di presentarsi come “pacificatore tra le classi sociali” (p. 136). Il suo modello di prete sociale era certamente rappresentato da Luigi Sturzo “quel giovine Levita che, con isparuto numero di seguaci, sulla montagna Calatina inalberava […] arditamente il bianco vessillo della democrazia cristiana” (p. 155). Blandini sollecitò il clero a uscire dalle sacrestie e “dall’inerzia del sonno” ma ebbe il limite di non riuscire a liberarlo dai forti legami con le strutture municipali, con gli interessi familiari e i partiti locali. Il clero di Noto, provenendo dalla borghesia, non fu capace di sganciarsi dai propri interessi e di mobilitarsi in favore delle classi più umili. Fu questa la grande scommessa di un vescovo – figlio di un calzolaio, uno dei pochissimi a non avere origini aristocratiche – che presentò Dio come il liberatore dei mali sociali, e che, legato ad uno schema controriformistico, portò i cattolici “fuori dalle sacrestie” per poi farli “rientrare” nelle parrocchie.
Claudia Giurintano
AA.VV., Georges Sorel nella crisi del liberalismo europeo, presentazione di Paolo Pastori, introduzione di Giovanna Cavallari, Università degli Studi di Camerino, Collana del Dipartimento di Scienze giuridiche e politiche, Ancona, edizioni Affinità elettive, 2001, pp. 667.
Il volume raccoglie le relazioni del Convegno internazionale di Studi, Georges Sorel nella crisi del liberalismo europeo, svoltosi, il 22-23 febbraio 1999, in occasione del trentennale dell’istituzione del Corso di laurea in Scienze Politiche, a cura dell’Istituto di Studi storico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza di Camerino e sotto l’alto patronato dell’Ambasciata di Francia in Italia.
Gli Atti sono divisi in quattro sezioni. La prima, Sorel fra più culture, introduce il saggio di Paolo Pastori sulle ipotesi di localizzazione del sostrato etico-politico nella critica soreliana alla società borghese. Dal senso critico del filosofo normanno emerge la piena “consapevolezza della necessità di rafforzare scienza, razionalità, progettualità politica al loro stesso fondamento, al primato del fine etico, cioè del benessere morale, culturale e pratico degli individui” (p. 39).
La seconda parte, Sorel in Francia, presenta i contributi: di Willy Gianinazzi sulle reminescenze della storia e il mito rigeneratore; di Alessandra La Rosa sul sindacalismo rivoluzionario e la riformulazione in un confronto tra Éduard Berth e Georges Valois che tende a cogliere il “filo rosso” tra i due intellettuali accomunati dalla critica alla democrazia, dal concetto di lavoro e di processo lavorativo; di Patrice Rolland che studia il liberalismo e la democrazia in Sorel e in Ernest Renan; di Enzo Sciacca che approfondisce il pensiero di Fernand Pelloutier tra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario partendo dalla considerazione che buona parte della sua fortuna postuma fu dovuta al filosofo normanno.
La terza sezione, Sorel in Italia, si apre con il saggio di Paolo Bagnoli sulle suggestioni soreliane in Piero Gobetti e Carlo Rosselli.
Sorel rappresentò il punto di “referenza dottrinaria primaria” (p. 241) per tutti quegli intellettuali che, tra la fine del XIX e i primi del XX secolo, avvertirono l’esigenza di riformare, in modo creativo, la politica. E se su Gobetti Sorel influì in modo teorico, su Rosselli ciò avvenne in modo pratico-politico (p. 243). Stefano Boninsegni traccia la “via sindacalista” al socialismo; Giuseppe Ceci analizza il sindacalismo rivoluzionario e la rivoluzione liberale in Sorel e Gobetti. Pur essendo ritenuto uno dei precursori del Fascismo – tanto che Mussolini, nella Dottrina del fascismo, non mancò di sottolinearne le influenze (p. 427) – Sorel fu, insieme a Gobetti, “un nemico accanito del parlamentarismo parolaio, del compromesso, del trasformismo socialdemocratico, dell’ottusità della classe dirigente” (p. 261).
Luciano Cicconi, esaminando le Riflessioni sulla violenza, rileva come per Sorel il proletariato possa liberarsi dalla sua posizione attraverso il sindacalismo rivoluzionario, unico mezzo in grado di porre un freno alla borghesia e fondato sulla violenza come metodo di lotta e sullo sciopero generale come ideale momento propulsore. Daniela Coli ricorda che Benedetto Croce ebbe parecchi stimoli dal filosofo normanno che offriva un metodo per criticare la democrazia liberale; metodo che, poi, venne abbandonato da Gramsci – per fondare il Partito comunista – e da Mussolini per dar vita al Partito fascista (p. 294). Angelo D’Orsi coglie le influenze di Sorel sulla cultura e sulla vita intellettuale torinese, dimostrando come la fortuna soreliana in Piemonte costituisca uno “dei capitoli, se non più ricchi, certo stimolanti” (p. 296).
Allo scoppio della Grande Guerra, Sorel si attestò subito su posizioni di aperta condanna; e proprio la ricognizione del suo atteggiamento dinanzi al nazionalismo italiano può rilevare – afferma nel suo lavoro Francesco Germinario – motivi interessanti in ambito storiografico (p. 319).
Critico dell’impresa di Fiume, egli contestò il gruppo de “La Voce” e, soprattutto, coloro che, come Giovanni Papini, elogiavano Gabriele D’Annunzio senza comprendere che questi rappresentava la “peste per l’Italia” (p. 331) e il pervertitore delle “giovani generazioni” (p. 309). Tale confronto con il poeta pescarese è affrontato da Gian Biagio Furiozzi al cui studio segue quello di Marco Gervasoni sulle “avventure” della ricezione tra il 1890 e il 1932 partendo dalla riflessione che “le prese di posizione [di Sorel] furono sempre sottoposte ad uno spettro di letture tanto vasto quanto capace di generare distorsioni nel segnale tra mittente e destinatario” (p. 333).
Stefania Mazzone esamina il liberalismo e sindacalismo in Enrico Leone, esponente della frazione del “sindacalismo rivoluzionario” guidata da Arturo Labriola (p. 363) e il cui approccio sulla violenza e sulla forza appariva antitetico a quello del filosofo normanno. Mario Sznajder approfondisce il tema del sindacalismo rivoluzionario italiano mentre Stefano Tacchinardi, studiando il sorelismo nel Partito Socialista Italiano, riscontra in Amadeo Bordiga il “primato del politico sull’economico, della funzione del partito su le rivendicazioni sindacali promosse a progetto rivoluzionario dalla tradizione nuova e vecchia del sindacalismo o operaismo” (p. 423).
Infine, la quarta parte è dedicata alle influenze di Sorel in Europa e nelle Americhe con i contributi di Marco Dotti sulla filosofia del diritto italiano; di Alberto Filippi su Josè Carlos Mariátegui, con il quale il pensiero soreliano giunge nelle Ande; di Juan Francisco Fuentes sulla fortuna soreliana in Spagna tra il 1912 e il 1936; di Robertino Ghiringhelli sui Difensori della Libertà di James Burnham – seguace del trotskismo, membro della Quarta Internazionale, diffusore dell’elitismo di Mosca, Pareto e Michels in America – il quale fece scoprire al pubblico americano i caratteri peculiari del pensiero soreliano (p. 537).
La quarta sezione continua con i saggi di Yves Guchet su Karl Kautsky e di Francesco Mancuso su Carl Schmitt. Nonostante l’apparente distanza tra i due pensatori, il conservatore e “interprete della statualità” Schmitt, non mancò di citare l’antistatalista filosofo normanno in quasi tutte le sue opere.
Maria Pia Paternò approfondisce il tema del germanesimo, aspetto che interessò poco Sorel ma le cui riflessioni offrono spunti per una migliore comprensione del suo pensiero. Mario Ricciardi, nel suo studio, evidenzia il fatto che Isaiah Berlin – il filosofo britannico che ispirò la sua filosofia della storia ad una equilibrata concezione liberale – fu anche lettore di Sorel. E, infine, il contributo di Domenico Scalzo sul significato del mito attraverso le interpretazioni di Thomas Mann, Nietzsche, Walter Benjamin e assumendo come “paradigmatico della relazione violenza/ordine nella filosofia politica “il caso hobbesiano”” (p. 613).
I ventisei saggi hanno tutti il merito di continuare le ricerche su Sorel che, ben trent’anni prima – come ricorda nella sua attenta introduzione Giovanna Cavallari – avevano visti impegnati storici affermati tra i quali Luigi Firpo, Salvo Mastellone, Gian Mario Bravo e Enzo Santarelli. E proprio nella collana Utet curata da Firpo, nel 1963, Roberto Vivarelli aveva presentato alcuni scritti nei quali Georges Sorel prospettava la lotta contro lo Stato liberale in termini politici privando la classe operaia di ogni effettiva conquista del potere. L’ampio volume, nell’organica sequenza delle relazioni, ha il pregio di mettere in evidenza gli echi che il pensiero soreliano ebbe non solo in Italia “fino a condizionare la revisione […] del marxismo e a determinare il distacco dell’ala del sindacalismo rivoluzionario dal socialismo” (p. 15) ma anche nel resto dell’Europa e, come nei casi testimoniati da Mariátegui e da Burnham, anche nelle Americhe.
Claudia Giurintano
DAVIDE TARTAMELLA, Caro figlio… Caro padre…, Maroda Editori, Collana Narrativa, estate 2001, pagg. 112.
L’autore di questo libro Caro figlio… Caro padre… è un giovane nato nel 1982, tuttora studente. E, bisogna convenire, che non è di tutti i giorni incontrare un giovane appena ventenne che presenti una scrittura di eccellente fattura. Davide Tartamella possiede tale qualità e in questo diario in forma epistolare ne dà chiara dimostrazione.
Uno dei pregi del libro, che subito emerge, è infatti proprio la semplicità e la chiarezza, due caratteri fondamentali dello scrivere che oggi sembrano, sul piano generale, essere caduti nel dimenticatoio. Il giovane Davide li riesuma e se ne serve per dare luce e linearità al racconto, che è autobiografico e prende le mosse dal distacco dalla famiglia (che continua a vivere a Trapani) per raggiungere in Toscana il Cicognini, convitto dove dovrà continuare gli studi.
Naturalmente i primi sentimenti che travagliano il suo animo sono la nostalgia e la solitudine. Una nostalgia struggente. Un senso di solitudine profondo. Poi una serie di piccoli accadimenti registratisi in convitto (una palla da tennis che rotola nel corridoio dell’edificio, una rubrica che scompare, un diario ridotto a brandelli) e alcune lettere del padre aprono la stura ad importanti considerazioni sui temi attuali della società e della vita.
Di rilievo il modo in cui è affrontato il tema della sicilianità e della mafia. La sicilianità è illustrata nelle sue molteplici dimensioni e soprattutto nei suoi controsensi. In ordine alla mafia invece Tartamella scrive: “La mafia è come un gas velenoso: non la vedi, non la odori, ma galleggia nell’aria e quando vuole arriva ai polmoni prescelti e ammazza”. L’immaginazione si confonde con la realtà e viceversa.
Il punto focale del racconto è però il dialogo padre-figlio, figlio-padre. Un dialogo intenso. Un dialogo in cui emergono i valori della famiglia. Ed è chiaro l’intento di valorizzarli, sia da parte del padre che del figlio. La famiglia è infatti il centro degli affetti colti nella loro sublimazione.
Altro aspetto importante del libro è dato dalle descrizioni. Quelle sulla notte e sui luoghi dell’infanzia raggiungono vette di liricità. Sulla notte il giovane Davide annota: “Bella è la notte. È eterna. È l’amore… La luce viene sconfitta dal buio. Il giorno si consuma… Il giorno si può creare uccidendo il buio, la notte è invincibile e irripetibile. E poi la notte genera il giorno, come fosse un parto”. E per quanto riguarda i paesaggi dell’infanzia, ecco le montagne di Custonaci ed ecco come sono descritte le segherie: “Montagne a guardarle brulle e inospitali, arse e riarse dal sole, inasaporite dalla salsedine del mare, popolate di corvi, di falchi pellegrini, di ratti, di poche lepri, di timidi ricci e di volpi… E le segherie, osservate da lontano, sembrano minuscoli altari dell’ossessione, collocati quasi volutamente sui crinali delle colline, e appaiono lontane quanto puntini stellari nel cielo d’estate”. Come sempre sullo sfondo appare la Sicilia con le sue ombre e con le sue luci e, soprattutto, con le sue stupende bellezze naturali.
Visto come opera prima, il libro è più di una promessa della narrativa. Peraltro è un libro fresco, se così si può dire. Un libro da leggere in questa estate particolarmente afosa.
Dino D’Erice
GAETANO ALLOTTA DI BELMONTE, Patrioti Girgentini esuli a Malta, Edizioni “Centro Studi Giulio Pastore” Agrigento, Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Assessorato Beni Culturali Ambientali e Pubblica Istruzione della Regione Siciliana, Agrigento 2000.
Gaetano Allotta, appassionato cultore di storia siciliana, dedica questo suo ultimo lavoro al ruolo culturale e politico svolto dagli emigrati siciliani del 1849 nella vicina isola di Malta. L’attrazione da sempre esercitata da queste due isole distese sull’azzurro del Canale di Sicilia, rilevata dallo stesso Goethe – “Era un arco di nuvole leggere che, appoggiando una delle sue estremità sulla Sicilia… finiva esattamente nella direzione di Malta […]. Sarebbe alquanto strano che la mutua forza d’attrazione delle due Isole si manifestasse in tal modo anche nell’atmosfera” – viene particolarmente sottolineata dall’autore. Sottratta alla dominazione araba da Federico II di Svevia e divenuta parte integrante del Demanio della Corona di Sicilia, fin quando Carlo V non la concesse all’Ordine Gerosolimitano, nel Quattrocento Malta appariva a tutti gli effetti come un’appendice della Sicilia per lingua, costumi, istituzioni politiche. La lingua in cui venivano redatti i documenti ufficiali era il siciliano che, evolutosi poi, nell’italiano – toscano, rimase il principale veicolo di comunicazione anche durante l’occupazione inglese. Anzi, quando nel 1899 gli inglesi imposero l’uso della lingua inglese al pari di quell’italiana, i maltesi che si sentivano particolarmente vicini alla Sicilia, anche per la comune religione cattolica, accolsero l’imposizione con atti d’aperta ribellione.
D’altronde l’autore dimostra con numerosi e dettagliati documenti tratti dall’Archivio di Stato di Agrigento, i secolari e continui rapporti commerciali, culturali, familiari tra Girgenti e Malta, ma soprattutto tra Licata e Malta.
Il legame naturale fra le due isole – ricordiamoci che Malta è più vicina di Lampedusa alla Sicilia e a differenza di quella appartiene alla piattaforma continentale europea – fu accentuato dal ruolo ivi svoltosi dagli emigrati politici siciliani. Questi, accolti con estremo calore ed amicizia dal popolo maltese, scelsero tale isola come meta del loro esilio per molteplici motivi: la vicinanza geografica alla loro patria e dunque la possibilità di seguirne da vicino gli avvenimenti politici e di farvi ritorno in brevissimo tempo; la comunanza di lingua e di costumi, capace di dar loro la sensazione di trovarsi ancora in patria; e infine, la libertà che colà si respirava per merito della dominazione inglese, perciò i nostri emigrati, grazie alla libertà di stampa, potevano scrivere ciò che volevano sulla politica del tempo e addirittura fondare giornali, alcuni dei quali venivano diffusi clandestinamente anche in Sicilia. In tal modo l’emigrazione siciliana svolse a Malta una notevole azione di sviluppo culturale, attivando l’interesse degli ambienti intellettuali a sostegno della causa dell’unità italiana.
In piccolo, gli esuli ebbero a Malta un ruolo analogo a quello degli emigrati politici meridionali, siciliani e napoletani, a Torino, sonnolente capitale di un Regno ancora periferico politicamente e culturalmente nel contesto europeo. Fu grazie agli esuli meridionali, infatti, che la borghesia intellettuale piemontese e genovese, acquisì una maggior dimestichezza con il linguaggio democratico e nazionale.
Ma chi furono gli emigrati siciliani a Malta? Allotta si occupa effettivamente degli esuli agrigentini, ma non può trascurare il principe dei patrioti siciliani costretto, dalla restaurazione del ‘49, all’allontanamento definitivo dalla patria e alla famiglia e alla morte nel suo rifugio maltese, da cui, per motivi di salute e d’età, non riuscì più spostarsi, nemmeno dopo che fu nominato da Vittorio Emanuele II di Savoia, senatore e presidente della Camera Alta, per i suoli eccezionali meriti patriottici. D’altra parte fu proprio Ruggero Settimo, principale protagonista della rivoluzion siciliana del ‘48, ad indirizzare la classe politica isolana verso il credo unitario, anche se temperato da una forte fede federalista, inducendola ad abbandonare il ribellismo separatista che aveva fino allora caratterizzato l’intera storia dell’Isola.
Gli altri esuli, coordinati nella loro azione politica da Ruggero Settimo, fra cui Giovanni Andrea Nascè, Michele Caudullo, Giovanni Interdonato, Michele Bottari, e gli agrigentini Gerlando Bianchini, Vincenzo Barresi, Gaetano Navarra, Maiano Gioeni, Antonio e Francesco Gramitto e Vincenzo Montalbano, diedero vita al Comitato Siciliano Centrale, in aggiunta al Comitato Nazionale Italiano, con sede a Londra, dove operava da tempo Giuseppe Mazzini.
Gerlando Bianchini assunse la presidenza del Governo provvisorio siciliano a Malta, mantenendo costanti rapporti con lo stesso Mazzini. Giovanni Ricci Gramitto, probabilmente il più noto degli esuli agrigentini a Malta, nonno materno di Luigi Pirandello, fu uno dei più impegnati a mantenere i contatti con i patrioti rimasti in patria, senza poter, tuttavia gustare la gioia della realizzazione del sogno unitario, perché morto prematuramente proprio nel suo rifugio maltese.
Allotta non dimentica Francesco Crispi, espulso da Torino dove si era rifugiato dopo la restaurazione del ‘49, in seguito ai moti di Milano del 1853 e costretto quindi a cercare esilio a Malta. Il soggiorno nell’Isola ebbe per il patriota riberese una notevole importanza: lì, infatti, contrasse matrimonio con la sua convivente savoiarda, conosciuta durante il soggiorno a Torino, Rosalia Montmasson, unica donna a partecipare all’impresa dei Mille, matrimonio che sarebbe poi stato dichiarato nullo ma che sarebbe comunque valso ad attirare sullo statista sicilianol’accusa di bigamia, danneggiandolo politicamente. A Malta, inoltre, Crispi si dedicò con scrupolo, presso la biblioteca locale, ad una ricerca, commissionatagli da un editore siciliano, sulla storia dell’isola e ivi fondò due giornali, La valigia e La Staffetta che riuscivano ad essere distribuiti sia in Sicilia sia nel continente, ma essendo parecchi articoli poco graditi al Console del Regno delle due Sicilie, il Governatore inglese si vide costretto ad ordinare l’espulsione del patriota siciliano.
Gabriella Portalone