LA PATRIA DI MACHIAVELLI LA FONDAZIONE ETICA DELLO STATO di Giorgio E.M. Scichilone – N. 15 Aprile 2002

LA PATRIA DI MACHIAVELLI LA FONDAZIONE ETICA DELLO STATO di Giorgio E.M. Scichilone – N. 15 Aprile 2002

Home / Numeri / Rassegna Siciliana di Storia e Cultura – N. 15 Aprile 2002 / LA PATRIA DI MACHIAVELLI LA FONDAZIONE ETICA DELLO STATO di Giorgio E.M. Scichilone – N. 15 Aprile 2002
icon ball 01 (6)
icona ball alto sinistra 2
segnaposto rassegna siciliana 1

“… perché dolersi se Machiavelli tende quasi a divenire il carceriere del suo interprete? Potrebbe, dopo tutto, quest’ultimo godere di una migliore compagnia?”

(Gennaro Sasso)

I. Machiavelli e la morale

1. Etica e politica

La questione fondamentale che inevitabilmente ricorre ogni qual volta si accenna all’opera di Niccolò Machiavelli riguarda la relazione tra etica e politica(1)#, sbrigativamente esemplificata dal celebre aforisma machiavellico del fine che giustifica i mezzi, che pure l’autore de Il Principe mai formulò e per il quale addirittura viene sovente citato.

“La politica afferma: “siate prudenti come serpenti”, la morale aggiunge (come condizione limitativa): “e semplici come colombe”(2). Politica e morale possono veramente convivere in un unico comando, come pensava Kant, o la antinomia è irrimediabilmente insuperabile? E se lo fosse, Machiavelli avrebbe incoraggiato questa inconciliabilità?

O ancora, esiste un’etica per la vita pubblica e una per quella privata? La morale tradizionale cristiana (il discorso della montagna) può essere assunta a sistema etico vincolante per l’agire politico così come è praticato per la salvezza personale dell’anima? O piuttosto per la politica, per la salute dello Stato, occorrono altre regole da cui poi discendono nuovi criteri di valutazione del comportamento dell’uomo politico?

La distinzione che Weber prospetta tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, che sembra legittimamente applicarsi a (o desumersi da) quanto Machiavelli delinea nella sua politica, è in definitiva l’esatta relazione tra politica e morale che il fondatore del discorso moderno sulla politica individua percorrendo quella strada nuova mai prima da nessuno trita?

Ciò che fa del Segretario della repubblica fiorentina il pensatore politico più frequentato dagli studiosi, la figura rinascimentale che non cessa di suscitare un interesse approfondito, “nella vita e nelle opere”, per cui ulteriori biografie più minuziose vengono pubblicate#(3), nuove edizioni dei suoi scritti, sempre più accurate filologicamente, continuano ad essere prodotte(4)#, è dovuto al fatto che la sua “originalità” deriva anche dalla disarmante lucidità e mancanza di reticenza con cui i problemi fondamentali che la politica pone alla coscienza morale sono stati trattati.

La tesi di questo saggio risiede nella convinzione che una simile questione implica l’esplicitazione della idea di uomo e degli uomini che Machiavelli semina lungo i diversi suoi scritti con puntuale, inequivocabile chiarezza. Nella sua filosofia politica ricorre infatti con assiduità il riferimento all’essere umano. Non è una frequenza indifferente. Dietro tale ripetizione sta una precisa antropologia, essenziale per la riflessione politica che il solitario scrittore di San Casciano vuole “ridurre” nell’opuscolo de principatibus.

Per quanto sia un legame naturale quello tra uomo e politica, tra zoon politicon e polis, essendo la città il luogo della politica, nel senso che quest’ultima è la violenza umana regolata dalle leggi che consentono la convivenza civile(5)#, occorre sempre tenere presente che la politicità dell’uomo (il suo appartenere alla politica), ha il proprio fondamentale presupposto nell’umanità della politica: il fine di quest’ultima, la più eminente attività umana, che sussistendo permette tutte le altre, sono gli uomini stessi. Tutta la riflessione sulla politica parte da ciò, e sotto questo duplice profilo Machiavelli offre spunti che non smettono di costituire un’esemplare e provocatoria analisi.

Dicevamo “nella vita e nelle opere”, come recita il titolo di una nota biografia: Niccolò Machiavelli sentì in modo talvolta perfino ossessivo la dimensione politica della propria umanità. Chi studia il suo pensiero politico è fatalmente attratto(6)# da questa vocazione, che ispira le opere storiche, politiche e letterarie del Segretario fiorentino. È obbligatorio lasciarsi provocare da una simile dimensione, a cui si perverrà dopo che avremo tentato di capire come è risolta la relazione tra antropologia e politica – gli uomini e la loro polis – dallo stesso Machiavelli. In questa prospettiva, come detto, ci sembra di porre un approccio adeguato al problema etico che ci siamo posti all’inizio.

Lo scandalo de Il Principe è racchiuso nei suoi capitoli centrali, laddove iniziano le pagine della “realtà effettuale” contrapposta polemicamente alle repubbliche immaginarie dei filosofi: è adesso che viene presentata l’essenza della sua dottrina, in quell’ammonimento così contrario alla mansuetudine evangelica che invita a porgere l’altra guancia: “uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono”(7)#.

Il presupposto di questo precetto#(8) è esplicitato immediatamente prima in una contrapposizione che rimarrà paradigmatica per la sua evidente, e temeraria, confutazione della morale cristiana: “Perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua”. La morale machiavelliana si adegua perfettamente all’esistente, non scaturisce da imperativi superiori o interiori. La descrizione del comportamento umano già offre tutte le regole per l’agire degli uomini.

E al XV capitolo, per l’appunto, troviamo homines. Questa parola compare una volta soltanto in un testo machiavelliano, dato che è sempre la lingua fiorentina quella usata dallo scrittore, ad eccezione proprio dei titoli dei capitoli de Il Principe. Ciò su cui ci imbatteremo sarà invece la sua esatta traduzione, il plurale uomini.

Nel momento culminante del machiavellismo c’è dunque il riferimento agli homines, praesertim (specialmente) ai principes, è vero, ma si tratta dei diversi livelli dell’unica realtà della politica: “dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti…”(9)#. L’attenzione di Machiavelli si concentra sui reggitori dello Stato, perché hanno maggiori responsabilità, ma ciò che lo scrittore ha da dire è valido per tutti. E allora, “discorrendo quelle cose che sono vere”, qual è questa verità? Che le condizioni umane non consentono di essere buono, ripete in queste brevi ed intense pagine che introducono i tre capitoli successivi insieme ai quali si è determinata la fortuna, nel bene o nel male, di chi la ha scritti. Anzi, “non si curi di incorrere nella fama di quelli vizii, sanza quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà et il bene essere suo”(10).

Gli usuali criteri morali, evangelici, ma anche “dei doveri” ciceroniani, e in sostanza umanistici, sono dunque sbalzati via?

2. L’Uomo Machiavelliano: homines e vires

2.1. Per le condizioni umane che non lo consentono, ecco dunque da dove nasce la nuova via machiavelliana alla politica, qual è la sua lacerante intuizione. Gli uomini dunque, questa riflessione sulla natura umana viene svolta parallelamente al discorso politico e non a caso culmina laddove questo discorso è cruciale, decisivo.

Riguardo al discorso antropologico i riferimenti più celebri sono quelli del capitolo XVII de Il Principe e nel primo libro dei Discorsi; poi ovunque si trovano una serie di frasi incidentali che ribadiscono il giudizio secco che è espresso in questi due passi fondamentali, perché è lì che la riflessione ha in sé intenzione e compiutezza. Leggiamoli:

Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figlioli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina(11)#.

È necessario a chi dispone una republica e ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione(12)#.

Già si desume attraverso il conforto del contesto in cui viene inserita la parola, che l’accezione è negativa, se non palesemente spregiativa. L’uso indefesso e naturale del plurale denota un approccio qualunquistico, una generalizzazione che lascia poco spazio al discernimento obiettivo delle qualità della persona. Il singolare è piuttosto il numero dell’individualità, del giudizio di merito. Si può anche usarlo per esprimere la pluralità, l’uomo nel senso di genere umano ed in questo caso l’approccio è più sereno, neutro; ma il termine è raramente usato da Machiavelli e quando ciò avviene, come in questo emblematico caso, è per l’appunto con questo senso.

Del resto è la stessa tradizione umanistica a fornire all’intellettuale fiorentino un lessico specifico che ritaglia una cornice ideologica ed ermeneutica ben precisa. Gli umanisti, infatti, ha dimostrato Quentin Skinner(13)#, capovolgono la concezione agostiniana della natura corrotta dell’uomo che risale a San Paolo. Ci sono due testi significativi. Petrarca scrive il De viris illustribus nel 1373 e Pico della Mirandola il De hominis dignitate nel 1484, in cui il riferimento all’uomo è declinato già nelle parole con una prospettiva post-medievale. Il primo, per riferirsi a uomini illustri, ad un’insieme di straordinarie individualità, adopera il termine vires e non homines; e il secondo usa la parola homo, al singolare, per rilevare quale sia la natura umana.

Gli homines allora non sono i vires (come il vulgo non è il popolo), e poiché sia homines che vires hanno in volgare un’unica traduzione, quando Machiavelli, non scrivendo in latino, intende vires, aggiunge al termine “uomini” un aggettivo che sia significativo come “virtuosi”, “eccellenti”, “meravigliosi”, quasi a voler sottolineare che di per sé gli uomini non sono virtuosi, appunto vires.

Se l’umanista Machiavelli sia stato un attento conoscitore della lingua che adoperava per esporre la sua teoria politica, una lingua utilizzata anche in funzione politica, allora l’uso delle parole non è mai stato casuale. Si pensi non tanto ad una prova evidente che dimostra una competenza specifica – il Discorso sulla lingua – ma ad una imprevedibile ed improvvisa spiegazione che tra parentesi introduce in quel XV capitolo, in cui si sofferma sulle ragioni che lo hanno indotto ad usare un determinato vocabolo al posto di un altro. Ed i termini che adopera per significare in modo diretto l’essere umano ci sembrano altrettanto centrali quanto quelli più frequentati dagli studiosi del Machiavelli, quali “stato”, “virtù”, “fortuna”.

È una tale ripetuta chiarezza che già dice quanto questa idea sia presente a Machiavelli con estrema nettezza e debba pertanto essere considerata come tratto tra i più coerenti e portanti della sua teoria politica. L’antropologia machiavelliana, come altri aspetti salienti del suo pensiero politico, non appare mai sviluppata come invece avviene in altri filosofi o scienziati della politica. Piuttosto è data per cenni; eppure sono punti essenziali al pensiero politico che lo scrittore intende fondare.

Da una parte abbiamo l’etica, un sistema di norme che si impone alla coscienza dell’uomo e ne ispira il comportamento. Ma su questo comportamento interviene in modo decisivo la politica, le relazioni di potere tra gli uomini. In uno scritto esemplare del 1503, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, il Segretario fiorentino preannuncia il pensatore politico dei Discorsi:

Io ho sentito dire che le historie sono la maestra delle actioni nostre, et maxime de’ principi, et il mondo fu sempre ad un modo habitato da uomini che hanno havute sempre le medexime passioni, et sempre fu chi serve et chi comanda; et chi serve malvolentieri et chi serve volentieri; e chi si ribella et è ripreso#(14).

I motivi che abbiamo rinvenuto ne Il Principe hanno già qui la loro radice: uomini che comandano e altri che obbediscono. In questa anatomia semplice ed eterna del mondo umano la politica si specchia sull’antropologia, elementi entrambi naturali, fatti irriducibili ed immutabili della storia:

Come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano antiquamente#(15) .

Tutti i giudizi sugli uomini, le frasi lapidarie dal sapore inconfutabile – “li uomini sono sempre nimici delle imprese dove si vegga difficoltà”(16)# -nascono “per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo”(17)#. Come nella dedica dei Discorsi, Machiavelli è esplicito e chiarissimo in quella de Il Principe: “la cognizione delle azioni delli uomini grandi imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique”(18)#. La pratica o la esperienza diretta degli uomini trova conforto nelle sentenze degli antichi scrittori. Si perviene così alla conoscenza della perenne natura dell’essere umano su cui si fonda la riflessione politica, legata intrinsecamente ad una prospettiva programmatica:

Non sia pertanto nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato conseguito da altri: perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre con uno medesimo ordine#(19).

2.2. L’analisi dei due testi maggiori citati ci fornisce preziosi spunti intanto perché esprimono lo stesso concetto e la medesima ansia (così emerge il problema agli occhi dello scienziato della politica). Questi sono talmente collegati che “E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina”, è proprio l’eco di “è necessario a chi dispone una republica e ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei”. Ma se possibile, più grave sembrerebbe il giudizio dello scritto “repubblicano”: presupporre gli uomini colpevoli ha una radicalità che il “si può dire generalmente” dell’opera “maledetta” attenua.

Giudizio aprioristico e senza appello, Machiavelli sembra dunque predestinare gli uomini all’inferno: una dannazione, certo, dal punto di vista del Leviatano, del dio mortale.

Ma la loro è una colpa pubblica, connessa cioè al vivere politico, alle relazioni che tra loro instaurano in società?

Sulla condizione presociale dell’uomo Machiavelli non si esprime, mai ricorre allo stato di natura, ma piuttosto accenna nei Discorsi agli albori della storia immaginando un’evoluzione del tutto aliena da congetture filosofiche o religiose#(20). Da ciò non sappiamo se l’uomo privo di relazioni sociali sia incorrotto (sebbene qualche capitolo dopo esprime l’opinione che la lontananza dalla “civiltà” è condizione favorevole alla istituzione di uno Stato saldo e ben ordinato#(21)), ma possiamo dire che quest’uomo passa da una condizione ferina ad uno stadio in cui si unisce ai suoi simili per necessità ed utilità, scegliendo il più adatto e forte al comando e dopo, avuta “cognizione della iustizia”, quello “più prudente e più giusto”. Con questo passaggio fondamentale verso la civiltà Aristotele è significativamente abbandonato: le origini della storia sociale umana divergono da quelle della Politica. La questione della naturale socievolezza dell’uomo è in tal modo trattata e risolta.

Sappiamo infatti da quel che leggiamo ancora in tutta l’opera machiavelliana, che l’uomo ha in sé una naturale tendenza a fare del male appena ne abbia l’occasione. Di rimando ai Discorsi, sempre nel medesimo passo de Il Principe, ribadisce: “per essere gli uomini tristi [il vincolo tra loro] da ogni occasione di proprio utilità è rotto”(22)#. Così nasce l’uomo sociale machiavelliano, con quest’ombra sull’anima, con una singolare tristizia; qui risiede il peccato originale dello zoon politikon secondo Machiavelli. I Discorsi si aprono con parole che ne portano melanconicamente il segno: “Ancora che per l’invida natura degli uomini…”(23)#. Una natura che deve essere violentata perché sia volta alla virtù: gli uomini, Machiavelli ne è convinto, non operarono mai il bene se non necessitati, costretti, che è un modo di dire speculare e rafforzativo del passo già citato.

Ma la gravità del presupporre gli uomini rei merita un’ulteriore riflessione.

Se si prendono tutti i passi in cui Machiavelli si sofferma sull’essere umano ne viene fuori sempre e complessivamente un’immagine desolante. Se ne Il Principe manca il carattere perentorio e definitivo dei Discorsi e il giudizio si fa più argomentato, il disprezzo diviene incontenibile e non è più trattenuto in una sola battuta; per questo probabilmente l’autore ha bisogno di un freno che gli fornisce all’inizio quel generalmente: “ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”. Il quadro dato nei Discorsi è completato ne Il Principe: la tendenza al male dell’uomo scaturisce dalla sua viltà: non agiscono apertamente gli uomini, attendono il momento favorevole per usare la malignità del loro animo, perciò sono simulatori, cioè ipocriti e di un’ipocrisia che Machiavelli vuole tratteggiare nel particolare, con implacabile precisione e con un biasimo che si copre di un impareggiabile sarcasmo: “e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figlioli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano”(24)#. Non è soltanto ingratitudine. Non è soltanto cupidigia, attaccamento viscerale al denaro e alla roba che perfino un principe crudele, solo per quel calcolo dettato dalla prudenza politica, deve astenersi dall’intaccare, dato che “gli uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio”(25)#. Questi sono tutti tratti che convergono in una generale e sconfortante doppiezza, una fondamentale meschinità che rimane incisa in più passi dell’opuscolo immortale. Già prima, nel capitolo sul “principato civile”, troviamo un simile, quasi identico ammonimento dato al principe che ancora una volta “non può fondarsi sopra a quello che vede ne’ tempi quieti, quando e’ cittadini hanno bisogno dello stato, perché allora ognuno corre, ognuno promette, ciascuno vuole morire per lui, quando la morte è discosto; ma ne’ tempi avversi, quando lo stato ha bisogno de’ cittadini, allora se ne truova pochi”(26)#. Per quanto sia un’amara e desolante raffigurazione, rimane gustosa la parodia che ricorda i toni della Mandragola: ognuno corre, ognuno promette, ognuno offre addirittura i propri figli, anzi lui stesso vuole morire per lo stato; ma solo quando, postilla Niccolò, il pericolo è lontano. Al momento in cui deve venire fuori la virtù, la patria ne trova pochi di vires.

È miseria quella umana, è questa la materia (il soggetto) della politica. Perciò l’antropologia machiavelliana diventa imprescindibile per la comprensione della politica stessa. Laddove si sviluppa l’essenza del machiavellismo si riversa incontenibile il giudizio dello scrittore sugli uomini. Lo specchio del principe su cui si riflette l’immagine del potere ha prima dato una triste visione dell’uomo. Principato o repubblica, governo tirannico o licenza, tutto inizia da quella decisiva premessa.

Allora non è una simile innata malignità dell’uomo una condizione che il legislatore, l’uomo di Stato, deve considerare in via ipotetica e preliminare per non trovarsi nudo di altre preparazioni successivamente, pronto cioè a fronteggiare situazioni difficili nate da ragioni impreviste. È proprio la conoscenza della natura umana che non consente di fare affidamento sulle loro parole. Qui non si tratta più dell’usuale prudenza politica, poiché sarebbe bastato un riferimento ad altre formule precise di accortezza e lungimiranza che sempre Machiavelli adopera senza mettere in risalto quella malignità dell’animo umano.

Presupporre gli uomini rei è un’anticipazione ancora più forte dell’hobbesiano homo hominis lupus, che pure non manca in Machiavelli. La differenza è che il pensatore fiorentino non ricorre al sostegno di un ipotetico stato di natura, ma gli basta fermare il dato costante su una antropologia decisamente negativa: questa è la prima realtà effettuale. Da tale postulato, la cui evidenza non ha bisogno di dimostrazioni, inizia il discorso politico; con questo postulato si intreccerà sempre il discorso politico.

3. Etica pubblica o morale privata

3.1 Dopo questi passaggi si può legittimamente osservare che ci si trova di fronte ad un’ambiguità di fondo. Se da una parte c’è un peccato originale che riguarda l’uomo, dall’altro sembra delinearsi una situazione in cui il male dell’uomo diviene una reazione al male altrui, ovvero una colpa acquisita in società: la cattiveria dell’uomo è causata dalla cattiveria dell’uomo. Quella naturale tristizia genera cioè delle condizioni umane che non permettono agli uomini, e soprattutto agli uomini di Stato, che hanno la responsabilità della comunità, di essere buoni. Da una parte quindi si è rinvenuto un giudizio assoluto, che prescinde dalla dimensione pubblica dell’uomo; ma è in società che gli uomini hanno occasione di farsi del male, esprimendo comunque una inclinazione naturale. Tuttavia, per non soccombere di fronte a quest’ultimi, Machiavelli invita i buoni ad essere cattivi. E se c’è questa preoccupazione, ciò significa che anche la bontà sembra essere una possibilità naturale dell’uomo, benché pericolosa per chi la possiede.

Immagini appropriate per descrivere una simile situazione possono venire da Manzoni. L’uomo sembra essere un vaso di terracotta in mezzo a tanti di argilla, per cui, per sopravvivere, “non resta che far torto o patirlo”, con le parole dell’Adelchi morente.

Questo circolo vizioso che esaspera la malvagità umana facendola apparire dilagante, presenta delle implicazioni importanti per la questione da cui si era partiti.

Alla questione iniziale, se sia esatto individuare in Machiavelli un doppio sistema di regole morali che si divide in un’etica pubblica per la vita politica e in una moralità per i “privarti cittadini”, si può ritornare con nuovi elementi.

Anche qui si deve ricorrere a un passo fondamentale dei Discorsi:

Sono questi modi crudelissimi e nimici d’ogni vivere non solamente cristiano ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere, conviene che entri in questo male#.(27)

La prima annotazione non è apparentemente ed immediatamente di merito, ma si ferma alla stile, che è un altro modo di entrare nel cuore dell’intenzione che sorregge ed ispira il periodo. Il testo riportato ricorda da vicino “il pudore” dell’autore de Il Principe laddove premette ad una affermazione estremamente impegnativa e drammatica la celebre incidentale: se del male è licito dire bene. Lì Machiavelli sta svolgendo la spinosa questione delle “crudeltà male usate o bene usate”. È uno dei casi in cui lo scrittore sembra che giochi di sponda e con ironia sullo scandalo ipocrita che suscitano simili dilemmi. In tali frangenti il genio di Machiavelli vola. Ogni qual volta ci sono di mezzo i preti – i ministri dell’etica tradizionale, quelli “che hanno disarmato il cielo” – la sua arte diviene ineguagliabile. È lo stesso clima di altri passi dei Discorsi, per esempio sui fiorentini che non si ritengono né rozzi né ignoranti eppure furono persuasi da Savonarola che egli parlasse con Dio proprio come presso gli antichi Romani Numa simulò – il parallelo è perfido – di avere dimestichezza con una ninfa. O ancora dell’obbligo che abbiamo noi Italiani con la chiesa romana, di essere diventati cattivi e senza fede e di essere politicamente divisi e facile preda delle potenze straniere.

In quell’espressione capitale dei Discorsi apparirebbe netta pertanto la distinzione tra due sistemi di regole morali: una per la città, un’altra per la vita personale. Il circolo vizioso non si compone, né è spezzato. Una via comoda, tranquilla perché privata, consente la pratica delle virtù cristiane e conduce alla santità: il “dover essere” può essere praticato senza pericolo. Un’altra rischiosissima, diabolica, è affatto alternativa alla “via del bene” e al bene stesso si oppone in modo addirittura confliggente. Stando così le cose, non si intravede alcuna redenzione per la società; né – e questo vuole sottolineare lo scrittore – la santità personale sembra essere preziosa per benedire il prossimo. Quel male dilagante ne giustifica un altro, la crudeltà del principe, e su questo sarebbe costruita la politica.

È dunque possibile che le cose stiano veramente in questo modo? È sul serio questo il pensiero profondo del Machiavelli? O la verità che vuole svelare al principe si cela dietro ad una prima concessione formale al moralismo diffuso (“sono questi modi crudelissimi…”) per poter entrare in un discorso complesso e scottante – dove è possibile, tragico e doveroso, dire bene del male – la cui conclusione sarà la confutazione e il capovolgimento dell’assunto iniziale?

3.2. Ciò che rende plausibile quest’ipotesi ce lo dovrebbe suggerire innanzitutto la irresistibile e confessata passione per la politica di Machiavelli, proprio per quella “via del male” per la quale il Segretario fiorentino sente una vocazione specifica che nel tempo si esprimerà con l’azione e con la riflessione, con l’ufficio in cancelleria e con il continuo ragionare dell’arte dello stato. È questa vocazione, questa irrequieta passione che è alla base di tutta la sua vita e di tutti i suoi scritti, da Il Principe ai Discorsi, dall’Arte della guerra alle Istorie; è il riferimento sotterraneo o aperto delle commedie e nel Discorso sulla lingua, è il tema centrale delle lettere familiari, da cui si ricava la sua biografia autentica. È tale irresistibile vocazione che unisce tutte le parti del variegato discorso politico machiavelliano. Non è assolutamente possibile che chi dichiari, in tono quasi mistico: “mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui”(28)#, immagini in definitiva per se stesso una comunione demoniaca con la politica. Non è proprio pensabile che una simile radicale fedeltà conduca alla dannazione.

Allora si intravede un altro significato in quella espressione perentoria dei Discorsi, un’altra prospettiva nasce dalle medesime parole, che eleva la politica nell’ambito che le è proprio, dove una crudeltà necessaria – ecco il sacrificio – conduce ad una particolare, nuova forma di santità: che lascia irrisolto il problema del male e perciò produce la tragedia della politica. Ad un simile sacrificio gli uomini (quegli homines tanto disprezzati) non sono affatto capaci. È l’uomo virtuoso, in grado all’occorrenza di essere non buono, di volgersi al peggio, pronto a perdere la propria anima, perché più di quella sua anima ama la patria, a cui Machiavelli pensa con ammirazione. Sarà la sua abnegazione a porre un freno e il rimedio al male e ad innestare un nuovo circolo virtuoso.

Così, in una selva di uomini mediocri e miserabili, si staglia l’eroe machiavelliano a cui il Leviatano, quel dio mortale o mostro che si muove negli abissi del potere, chiede l’olocausto dell’anima: “Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre saranno iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati”(29)#. Non c’è più differenza tra il trattato sulle repubbliche e il libro sui principati, il fine è adesso la salvezza della patria: “perché dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà”(30)#. Così nei Discorsi viene sviluppato lo stesso concetto, e però questa volta liberando l’ideale democratico, poiché se nell’analisi della monarchia il discorso si limitava ai modi della conservazione dello Stato, o alla gloria del principe che ne accresceva la potenza con beneficio dei sudditi (se la potenza dello Stato del principe si separa dall’utilità del popolo il principato civile sale a quel grado assoluto di tirannia deprecato dallo scrittore), qui – nei Discorsi appunto – si aggiunge e diviene decisiva la preoccupazione per la libertà. “Le salvi la vita e mantenghile la libertà”: è affermato una volta per tutte il fondamento della morale machiavelliana della politica: la libertà è la salvezza della patria.

Qui nasce la religione civica del Machiavelli(31), in questa fede per la patria che consente, anzi prescrive a un principe (ma adesso, potendo invertire la piramide de Il Principe, l’esortazione si estende ai vires), laddove è necessario, non “osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione […] e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato”(32)#. Così del resto fece Cesare Borgia, che era ritenuto crudele: “non di manco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagnia, unitola, ridottola in pace et in fede”(33)#.

3.3. Non vi è più alcun dubbio, i ritratti dei vires, da Il Principe ai Discorsi, sono illuminati dal medesimo giudizio. E quando vuole prevenire le accuse moralistiche, o si giustifica esplicitamente (“se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono”#(34)), o, con ironia e astuzia veramente machiavelliane, offre come modello e giusto esempio di condotta politica adeguata alle condizioni umane da lui descritte un papa [“Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini, e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che l’osservassi meno; non di meno, sempre li succederono l’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo”(35)#] e quel re detto per antonomasia il Cattolico: “Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare [Ferdinando il Cattolico], non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato”(36)#, così è concluso il capitolo XVIII in cui si invitano i principi a non osservare i patti, se la “fede” nuoce allo Stato.

E da immagine in immagine, attraverso anche un sotterraneo itinerario psicologico, si perviene al memorabile e appassionato profilo che dà a più riprese su Pier Soderini, “anima sciocca”(37)#, che non seppe essere severo come Bruto che condannò i propri figli per avere attentato alla libertà di Roma.

Da questo straordinario (e probabilmente unico nella storia della filosofia politica) intreccio di passione politica, ricostruzione storiografica di una travagliata stagione politica e rielaborazione filosofica delle vicende della propria patria in cui proprio lui, Niccolò Machiavelli, fu protagonista e vittima, nasce una magistrale pagina di lezione in cui ci sono tutti i motivi dell’etica e della politica machiavelliana: “e benché quello [Soderini] per la sua prudenza conoscesse questa necessità, e che la sorte e l’ambizione di quelli che lo urtavano gli dessi occasione a spegnerli, nondimeno non volse mai l’animo a farlo”(38). La preoccupazione del Gonfaloniere era (“e molte volte ne fece con gli amici fede”(39)) che un’eccessiva autorità nelle sue mani avrebbe compromesso dopo la sua morte l’istituzione suprema della repubblica e causato gravi disordini nella città. “Il quale rispetto era savio e buono; nondimeno e’ non si debbe mai lasciare scorrere un male rispetto a uno bene, quando quel bene facilmente possa essere da quel male oppressato. E doveva credere che, avendosi a giudicare l’opere sue e l’intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l’avessi accompagnato, che poteva certificare ciascuno come quello aveva fatto era per salute della patria e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in modo che uno suo successore non potesse fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma lo ingannò la prima opinione, non conoscendo che la malignità non è doma da tempo né placata da alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e’ perdé insieme con la patria sua lo stato e la reputazione”(40)#.

Siamo di fronte all’apice della riflessione politica machiavelliana. Il destino del Gonfaloniere di Firenze è accomunato a quello di un altro illustre personaggio della vita politica fiorentina, Girolamo Savonarola, il “profeta disarmato” de Il Principe. Entrambi, per quella “bontà” che alla fine nuoce a se stessi e alla Stato, andarono in “rovina”. Entrambi, per seguire quelle cose che sembrano virtù, persero tutto. Tuttavia – questa è l’audace e nervosa conclusione dell’autore dei Discorsi – perfino la Bibbia prescrive il dovere tragico di un’azione violenta diretta contro quelli che per “la loro perversità d’animo sarebbero contenti vedere la rovina della loro patria”(41)#. È una necessità a cui non ci si può sottrarre per il bene di tutti. Di qui il biasimo per Soderini più ancora che per il frate, il quale non disponeva delle “armi” a cui poteva invece ricorrere il capo dello Stato di Firenze:

A vincere questa invidia non ci è altro rimedio che la morte di coloro che l’hanno. E quando la fortuna è tanto propizia a quell’uomo virtuoso ch’e’ si muoiano ordinariamente, diventa sanza scandolo glorioso, quando sanza ostacolo e sanza offesa e’ può mostrare la virtù. […] E chi legge la Bibbia sensatamente vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini i quali non mossi da altro che dalla invidia si opponevano a’ disegni suoi. […] Questa necessità conosceva benissimo fra Girolamo Savonarola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze. L’uno non potette vincerla per non avere autorità a poterlo fare (che fu il frate) e per non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbero avuto autorità. […] Quell’altro credeva, col tempo, con la bontà, con la fortuna sua, col beneficiare alcuno, spegnere questa invidia; […] e non sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna varia e la malignità non truova dono che la plachi; tanto che l’uno e l’altro di questi due rovinarono, e la loro rovina fu causata da non avere saputo o potuto vincere questa invidia#.(42)

3.4. Se continuano a levarsi sullo sfondo le due morali, una privata, quella per cui gli uomini sono ritenuti buoni (ma che non può adesso, di fronte alle sfide della storia e alle forze oscure della fortuna, non apparire minore) e una politica, che salta la prima per ritrovarsi a reggere la terribile responsabilità dello Stato, è ancora un’apparenza: nel valore supremo e grandioso della patria, chi ha perso l’anima la ritroverà perché sarà ritenuto quasi un dio; la sua opera tragica di sacrificio sarà recuperata nella gloria e nella reputazione dei cittadini: nella memoria della libertà non possono dimenticarsi gli eroi che l’hanno conquistata e preservata dai nemici e dai tiranni. Ciò che non comprese o non si risolse a fare Soderini, a differenza di Ferdinando il Cattolico e Cesare Borgia, se non addirittura di Mosè: salus publica suprema lex esto, l’antica lezione di Cicerone riceve da Machiavelli un suggello attuale ed imperituro. La legge delle leggi non è un’astratta norma fondamentale, lo Stato non è ordinamento formale: la legge suprema spinge la politica su un altro piano etico, quello virtuoso, a cui pochi sono chiamati, e tragico, perché bisogna sapere bene usare le crudeltà, ma il fine – la salvezza pubblica – rettamente perseguito, se non giustifica il male (“non si può ancora chiamare virtù ammazzare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza relligione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria”(43)#), segna di una colpa che si tramuterà nel bene dei concittadini: le crudeltà bene usate “si convertiscono in più utilità de’ sudditi che si può”(44)#.

Ecco quindi la redenzione di chi ha operato il male per necessità, per la salvezza della comunità. Nell’ultimo capitolo de Il Principe un linguaggio inusuale evoca direttamente Dio: l’esortazione al valore dei Medici per “redimere” l’Italia (“farsi capo di questa redenzione”(45)); qualcuno della nobile casata fiorentina “ordinato da Dio per la sua [dell’Italia] redenzione”(46)#; finanche la stessa patria “prega Dio che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare”(47)#. Adesso si comprende come e quanto il valore personale possa essere prezioso per gli altri. Quel male che l’uomo porta con sé nella comunità può essere redento nella comunità stessa. La politica cessa con Machiavelli di essere il luogo della dannazione per divenire l’occasione d grazia: “Et, esaminando le azioni e vita loro [“Ciro e li altri che hanno acquistato o fondato regni”], non si vede che quelli avessero altro dalla fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma parse loro; e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano”(48).

A fronte di una incredibile pochezza, una eccezionale qualità ristabilisce un equilibrio necessario per sanare la collettività. Se è l’uomo la causa dell’incombente rovina della società a cui egli stesso dà vita, è affidata all’uomo la possibilità di mantenere quell’ordine. Un’impresa che richiede certamente una tempra d’animo fuori del comune, capace di resistere alle avversità della fortuna e alla stupidità del mondo, così nell’espressione weberiana risuona l’eco machiavelliano della sfiducia negli uomini. “Ciro e li altri che hanno acquistato o fondato regni”, quei ritratti di vires sembrano appartenere ad una galleria mitologica più che alla storia: ma gli uomini veramente rari e meravigliosi non di manco furono uomini.

L’avvilimento impietoso si converte, forse anche per un gioco imprevedibile della necessità machiavelliana, in una fiducia nelle possibilità umane di creare l’ordine giusto per il vivere civile. Chi crede nella politica deve affidarsi agli uomini.

Allora dove prima era stato perfino crudele, l’ultima esortazione è un atto di speranza nell’uomo, non più astratto o mitico, ma storico, la cui concretezza è generata nel rapporto filiale con la propria patria: “l’uomo non ha maggior obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l’essere e di poi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto”(49)#. Inconcepibile è semmai l’uomo fuori della patria, e parricida chi osa lacerarla, per quello stesso processo di degenerazione antropologica che, lontano dalla polis e dalla politica, degradava l’uomo greco – se non era un dio – alla istintualità animale. Legando in modo indissolubile perfino l’identità individuale alla propria patria e alla politica, l’aspirazione all’onore è in funzione del bene che si può compiere per quella.

Morto nel 1519 il signore di Firenze, Lorenzo di Piero de’ Medici, il duca a cui fu indirizzato Il Principe, lo zio Leone X si pose il problema del governo della città. Tra le varie proposte di riforma pervenute al papa mediceo vi fu quella dell’ex Segretario della cancelleria: “Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che voluntariamente è loro dato dalla loro patria: credo che il maggior bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le republiche e i regni: questi sono, dopo quelli che sono stati Iddii, i primi laudati”(50)#.

Con puntualità e coerenza ritornano in queste parole del Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices tutti i motivi irrinunciabili dell’intero pensiero machiavelliano.

Il maggior bene che si può fare, quello che perfino Dio benedice ed incoraggia (Machiavelli lo ricorda al papa!), è quello che si fa alla patria. Ecco la santità civica: “dopo quelli che sono stati Iddii”, i grandi legislatori, i veri politici, sono “i primi laudati”(51)#. Si tratta di un’esortazione antitirannica rivolta direttamente al capo della famiglia padrona di Firenze. I Discorsi avevano già compiutamente celebrato quest’ideale in termini simili, con quella gerarchia di valori che configura un paradiso e un inferno tipicamente umanistico nel quale gli uomini ricevono per sempre gloria o biasimo:

Intra tutti gli uomini laudati, sono laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondato o republiche o regni. Dopo a costoro sono celebri quelli che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini letterati, e, perché questi sono di più ragioni, sono celebrati ciascuno d’essi secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de’ quali è infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale gli arreca l’arte e lo esercizio suo. Sono pel contrario infami e detestabili gli uomini distruttori di religioni, dissipatori de’ regni e delle repubbliche, inimici delle virtù, delle lettere e d’ogni altra arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione, come sono gli impii, i violenti, gl’ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili .(52)

La politica come arte di buon governo(53)#, amministrazione giusta della città a cui Machiavelli aspira si sintetizza in un’espressione ricorrente: Giustizia ed armi. Più ancora di Hobbes, e con un significato che necessariamente cambia, il Leviatano machiavelliano si innalza in una sfera superiore di diritto. Non si tratta più della forza dello Stato, ricevuta utilitaristicamente da ciascun individuo per impedire a tutti di essere reciprocamente lupi. Proprio quest’ultima miseria umana, che Machiavelli ben conosce, “rende onesto” sul piano etico le fondamenta oscure del vivere civile(54)#, e santificano le armi – pie, nella citazione liviana dell’accorata esortazione finale de Il Principe – quando servono per assicurare la giustizia nello Stato e mantenere così la libertà alla patria. L’eroe machiavelliano è Bruto con la sua tragica virtù, che condanna a morte i figli (ed assiste all’esecuzione) per aver tramato contro la repubblica.

L’Italia “battuta, spogliata, lacera, corsa” aspetta un simile redentore, non un principe qualunque.

Così la redenzione dell’uomo, l’unica che indica l’autore de Il Principe, passa attraverso la patria: quella è l’anima che l’uomo deve amare.

Rozza materia e ideali, antropologia e patria, hanno generato la politica.

II. La politica come vocazione

1. L’ultima riflessione, oltre la conclusione a cui ci ha condotto questo discorso, è interna all’uomo Machiavelli.

È stato delineato fin qui un profilo della generale concezione machiavelliana della politica, e si è visto come in definitiva questa sia generata da un’idea, che è prima ancora una dolorosa esperienza, che l’autore de Il Principe aveva degli uomini, dei suoi concittadini, di Firenze, la sua patria, del gioco politico della “provincia” italiana nella trama storica europea.

In tutto ciò è assai noto – non c’è studioso che non lo sottolinei – come le personali vicende (dall’intensa attività diplomatica all’esilio a Sant’Andrea in Percussiva, presso San Casciano) abbiano prodotto le opere che renderanno colui che era stato il Segretario della Cancelleria fiorentina un autore cruciale nella storia del pensiero politico occidentale. Eppure, proprio alla luce di quanto sostenuto in queste pagine, rimane ancora uno spazio – individuato nell’umanità di Niccolò – su cui indagare, che illumina di un significato profondo la visione complessiva della politica machiavelliana.

Dal momento della sua assunzione negli uffici della repubblica, dei fatti della sua vita sappiamo pressoché tutto. Così come è pure certificata, nelle sue lettere innanzitutto, per trasparire in tutti gli altri scritti, quella vocazione per la politica nei termini di cui già si è detto. Quando Orazio dice: sento che non morirò del tutto (non omnis moriar), affidando il suo nome alla poesia, è posto per sempre il senso della vocazione intellettuale. La formulazione di questo sentire, preciso ed ineffabile, il passaggio dall’estasi poetica alla consapevolezza teorica, è data dall’umanesimo fiorentino in un’epistola tra due letterati: mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui. Il XX secolo, che pure conoscerà la degenerazione del machiavellismo nel “volto demoniaco del potere”, li distinguerà in Beruf e Politik, i due principi della rinascita umanistica che cambiano l’orizzonte interiore dell’esperienza umana: l’autonomia del lavoro intellettuale ovvero la dedizione esclusiva all’arte (beruf), e l’autonomia dell’arte dello Stato come specifico impegno politico (politik), sono, non a caso, i primi segni e insieme i frutti della nuova epoca.

Nascere per la politica e di essa nutrirsi è la nuova fede per la possibilità di superare il limite di quanto vi è più caduco nella storia, ovvero l’edificazione della città dell’uomo, abbandonando la prospettiva escatologica che pone il superamento di quel limite in altri tempi che non appartengono più all’uomo, per affidarsi totalmente all’uomo e alla storia stessa. Ovvero agli dei mortali, i Leviatani.

Questa dichiarazione esprime allora il senso di una missione tutta umana che richiede la radicalità di una scelta, il sacrificio e l’abnegazione per essa. Vocazione e politica, Beruf e Politik, affiorano da questa nuova etica, si richiamano e iniziano un percorso comune, talvolta coincidente, per approdare al secolo di massima (e tragica) esposizione della politica nella lezione del “Machiavelli di Weimar”, Max Weber. O nel contestuale discorso sulla vocazione intellettuale di Thomas Mann, laddove la beruf diviene il segno dell’esclusione: una struggente maledizione individuale (Tonio Kröger) o il destino terribile di un popolo per una missione spinta da un’irresistibile, infernale volontà di potenza (Doktor Faustus). Ma ormai i vires di Machiavelli hanno lasciato il posto ai superuomini di Nietzsche, e Cesare Borgia è divenuto un ideale straordinario e demoniaco.

La storia di Niccolò Machiavelli è quella di un figlio di un giureconsulto fiorentino della fine del secolo quindicesimo, appartenente ad una famiglia un tempo illustre nella propina città, che vuole essere dentro la storia con la responsabilità di chi deve prendere decisioni per il proprio Stato. In questo senso servire la patria era l’onore più grande a cui Machiavelli aspirasse. Essere privato di questo onore la maggiore lacerazione.

Nella sua personale gerarchia di valori si è visto quale considerazione riservasse per gli uomini di Stato, per quelli che gli Stati hanno fondato o li hanno riformati, i grandi legislatori o i grandi condottieri, che hanno redento (salvato) la patria o la hanno ampliato ed accresciuto in potenza. Questa è la politica a cui Niccolò chiedeva una partecipazione. Sentire nel proprio spirito le altezze di un vir virtutis ed essere costretto da una continua malignità della fortuna all’esclusione dalla storia che decideva le sorti di Firenze e dell’Italia. Questo il suo dramma.

L’esclusione. Eppure qui nasce alla storia il nostro Machiavelli, nelle parole (unanimemente condivise) di Charles Benoist, “Machiavelli ha perduto il posto, ma noi abbiamo avuto Machiavelli”. Io mi logoro, lamentava nel triste epistolario l’ex segretario, e da quel travaglio saranno partoriti i grandi capolavori del pensiero politico moderno.

Come il Segretario della cancelleria di Firenze giudicava tutto questo? Quanto la sua umanità, e quel giudizio complessivo che oscilla tra una sconfortante sfiducia negli homines e una visionaria speranza nei vires che abbiamo individuato nei suoi scritti, è riversata nell’impegno pubblico e soprattutto, precluso dolorosamente questo, in quelle opere che rendono immortale il suo nome?

2. La lettura del testo ci guida a recuperare anche un’idea inconfessabile, che il nostro scrittore conduce all’interno del piano di lavoro delle specifiche riflessioni, che ci appare la forza vitale della parabola esistenziale post res perditas. Una lamentazione istintiva e naturale, che troviamo affidata alla lettera intima, o anche in modo più sublimato tra i prologhi o negli epiloghi delle varie opere, che persiste perfino come sfogo nella Mandragola, risolto comunque nel clima della commedia.

La personale malignità della fortuna, quella che per esempio colpì il Valentino o Castruccio Castracani, trova posto nella generale concezione della politica. Così, se direttamente capiremo il gioco di virtù, fortuna e occasione nelle vicende di Cesare Borgia o del tiranno di Lucca, abbiamo anche una chiave per accostarci quanto più vicino possibile all’idea che Niccolò Machiavelli ebbe della propria sorte, al di là di quella vena di autocommiserazione a cui si arrestò il Vettori.

Riprendendo la citazione là dove è stata lasciata nella prima conclusione, quella del Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, ci troviamo di fronte ad uno dei passi più significativi ed illuminanti non solo dell’intero percorso filosofico-politico machiavelliano, ma anche del suo itinerario psicologico e spirituale.

Lo straordinario Discursus è una lucida analisi della situazione storica dello Stato di Firenze dopo la morte del duca Lorenzo. Vengono spiegate le ragioni della instabilità politica della città che diviene pericolosa precarietà istituzionale. Viene prospettata quindi la soluzione repubblicana quale migliore forma di Stato secondo il modello del governo misto, che non discende da un gusto letterario o per seduzioni teoriche, ma ne è dimostrata la opportunità dalla rispondenza alla natura delle cose fiorentine. Il caso concreto regala a Machiavelli l’occasione unica, o meglio un’altra illusione, dopo quella che lo aveva spinto a comporre Il Principe, per coniugare il suo idealismo repubblicano, l’amor di patria che rifulge dalla lezione delle antiche cose, con la giusta, imprescindibile determinatezza realistica: “…io lascerò il ragionare più del principato, e parlerò della republica; sì perché Firenze è subietto attissimo da pigliare questa forma”. E come ne Il Principe, il ricorso a Dio suggella l’esortazione finale:

Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che voluntariamente è loro dato dalla loro patria: credo che il maggior bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le republiche e i regni: questi sono, dopo quelli che sono stati Iddii, i primi laudati. E perché e’ sono stati pochi quelli che abbino avuto occasione di farlo, e pochissimi quelli che lo abbino saputo fare, sono piccolo numero quelli che lo abbino fatto; e è stata stimata tanto questa gloria dagli uomini che non hanno mai atteso ad altro che a gloria, che non avendo possuto fare una republica in atto, l’hanno fatta in iscritto; come Aristotile, Platone e molti altri: e’ quali hanno voluto mostrare al mondo, che se, come Solone e Licurgo, non hanno potuto fondare un vivere civile, non è mancato dalla ignoranza loro, ma dalla impotenza di metterlo in atto.

Di chi sta parlando l’autore di questo scritto? Del Papa, al quale direttamente si rivolge? Certo l’appello è diretto a lui, come del resto ne Il Principe, alla potente casa Medici. Con la differenza che questa volta il precetto si muove per un tipo di governo non più monarchico ma democratico. Addirittura il capolavoro retorico, quasi temerario, dell’autore risiede nel tentativo di persuadere una famiglia principesca ad accrescere in gloria facendosi promotrice dell’instaurazione della repubblica in Firenze, la loro città. Sarà anche un azzardo, ma lo stesso tentativo, assai più dissimulato e certamente inconfessabile, era contenuto nel cosiddetto codice della tirannide scritto nel 1513(55).

Ma occorre scavare nella superficie di parole. E per questo ci serviremo di altre parole, quelle riposte qua e là negli interstizi delle sue argomentazioni. “Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo”(56).

Qui è chiaro che ritaglia all’ombra del grande commento liviano uno spazio per sé. Vi è la ragione d’essere di uno scritto politico destinato all’agire politico (alcuno possa operarlo) e non agli scaffali dello studiolo dell’esilio o agli ameni orti in cui, quasi clandestinamente, può essere letta. Vi è l’eco dello struggimento epistolare, vale a dire il caso avverso, i mala tempora, e (il salto rispetto alle lettere) quel suo malinconico dovere di uomo buono che passa la mano a qualcun altro prediletto dal Cielo. E questo dovere consiste nell’insegnare ad altri, ai posteri anche – tanta è la fede nella politica e l’amore per la patria per ciò che la natura gli ha fatto conoscere. La sua vocazione è vissuta fino all’estremo, nel sublimarsi in una missione che, anche contro una sorte che lo relega nella solitudine, all’incomprensione e all’impotenza, trascende la fortuna maligna e i tempi cattivi.

3. Forse la pagina più bella ed alta che Machiavelli abbia scritto fu quella finale dell’Arte della Guerra. In un gioco letterario che appartiene al romanzo e non già ad un trattato di cose militari, c’è (e si è avverte drammaticamente proprio alla conclusione del libro) la trasposizione dello scrittore nel proprio personaggio, ed è tale che questa diviene identificazione nella espressione che contiene ciò che non si esiterebbe a definire l’epitaffio machiavelliano, il senso di un’esistenza: “e io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire”(57)#.

Tra le citazioni considerate non esiste contraddizione. Tutt’altro. La disillusione è la genesi psicologica di due capolavori del pensiero e dell’arte machiavelliani. Così nell’Arte della Guerra non viene meno il dovere di uomo buono espresso nei Discorsi, perché anche Fabrizio Colonna-Machiavelli consegna il suo sapere militare e civile ai giovani. Ma l’accento ritorna alla vocazione personale; l’atmosfera è quella delle lettere dell’esilio, dove riconosceva in sé (la particella mi si ripete con un’infelice ossessione), al di là di ogni ragione (erano freschi i “sei tratti di fune in su le spalle”(58)#), l’irresistibile demone: “la Fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta et dell’arte della lana, né de’ guadagni nÈ delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, et mi bisogna o botarmi di stare cheto, o ragionare di questo”(59)#.

Cosa la natura gli ha fatto conoscere se non quello spettacolo grandioso della natura stessa della politica? Cosa gli ha messo nel cuore se non l’amor di patria su cui riversare quella conoscenza? E cosa gli impedisce adesso quella stessa natura se non la possibilità di amare la patria attraverso quelle conoscenze che possono salvarla?

È qui che la vocazione non trova sbocchi. Il momento più acuto della crisi è questo. Al di là delle lettere, più di esse, è qui che con forza inconscia viene fuori il dramma della vocazione impedita. E in questo non ci sarebbe rassegnazione se non sopravvenisse quel proposito buono (singolare contraltare a precetti non buoni); se lo sfogo insospettato della sua vocazione non trovasse la via d’uscita nella forza stessa della vocazione, da cui nasce l’opera machiavelliana.

E allora questa via, attraverso il passo dei Discorsi, ci riporta alla citazione da cui eravamo partiti. E scopriamo che Niccolò Machiavelli non ha atteso ad altro che alla gloria, quella degli uomini virtuosi, che spinge a fondare un vivere civile o a redimerlo. Era questa la virtù che ha costruito la sua politica, e la ritroviamo intatta nel suo animo, in un’eroica rivincita strappata alla fortuna, mentre intraprende addirittura una strada prima di lui da nessun altro trita.

Alla fine di questo viaggio solitario anche per lui ci sarà allora la gloria, proprio come Aristotele e Platone, che non per ignoranza (la conoscenza della natura della politica – la natura che gli fa conoscere questo – accomuna questi uomini) ma per mancanza di occasione “non hanno potuto fondare un vivere civile”. E tuttavia lo hanno fatto per iscritto, risolvendo in un modo o nell’altro il passaggio dalla potenza all’atto. E come Licurgo e Solone, a cui la fortuna non negò la possibilità per dispiegare la loro virtù, celebrata per sempre dai posteri come soltanto gli dei immortali lo sono, questa gloria innalza “Aristotele Platone e molti altri” ad una lode perenne.

Tra quegli altri, tra cotanto senno, si potrebbe dire, c’è proprio lui, Machiavelli.

Dante ha conosciuto gli antichi saggi nel suo viaggio nella mente di Dio; con simulata superbia, rimane ultimo nella più dotta delle conversazioni. Alla sera, Niccolò viene accolto “amorevolmente” nelle antiche corti, proprio tra gli antichi uomini “che non hanno mai atteso ad altro che a gloria”. Non c’è più spazio né tempo per chi è chiamato dalla virtù. Quel cibo che solo a lui appartiene è il viatico per un cammino impervio e sconosciuto verso la politica e la comunione per la gloria immortale. Non omnis moriar.

NOTE

1 Anche per il solo aspetto qui trattato – la relazione tra etica e politica – una nota bibliografica risulta impossibile o, come oramai osservano gli esperti, perfino inutile, tale è la mole degli studi machiavelliani. In ogni caso, per un’ottima panoramica sulla letteratura machiavelliana, suddivisa anche per aree tematiche, si rinvia a E. Cutinelli-Rendina, Niccolò Machiavelli, Bari-Roma, Laterza, 2002. Per la questione qui affrontata non si può fare a meno di menzionare F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi, 1993 (in particolare Metodo e stile di Machiavelli, pp. 371-388); il saggio di Isaiah Berlin, The Originalityy of Machiavelli, presentato al convegno “I Tatti” del 1969 per la celebrazione del V centenario della nascita del grande Fiorentino e adesso in I. Berlin, Controcorrente, Milano, Adelphi, 2000. Oltre a ciò, ovviamente, Sasso, Niccolò Machiavelli, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 19933, vol. I: Il pensiero politico, pp. 454-477, in cui è inserita un’apposita appendice per discutere le tesi del filosofo inglese. Vedi inoltre R. Fubini, Politica e morale in Machiavelli, in AA.VV., Cultura e scrittura di Machiavelli, Roma, Salerno Editrice, 1998, pp. 117-143.

2 I. Kani, Per la pace perpetua, in Id. Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto (1795), trad. G. Solari, G. Vidari, Einaudi, Torino, 1956, p. 302.

3 Particolare favore ha riscontrato la recente biografia, di carattere divulgativo, di Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò, Bari-Roma, Laterza, 1999, che ha avuto più edizioni e diverse traduzioni.

4 L’ultima “impresa” editoriale è della casa editrice Saleremo, che ha iniziato a pubblicare in 8 volumi l’edizione nazionale dell’opera omnia di Machiavelli.

5 Cfr. N. Bobbio, Politica, in N. Bobbio-N. Matteucci-G. Pasquino (diretto da), Dizionario di politica (19832), Milano, TEA, 1990, pp. 800-809; G. Sartori, Politica, in Id., Elementi di politica, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 241-266.

6 L’epigrafe iniziale, tratta da una celebre prefazione di Gennaro Sasso (Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, p. IX), non è che un esempio della passione che suscita il Quondam Segretario tra i Machiavellisti.

7 N. Machiavelli, Il Principe, a cura di L. Firpo, con introduzione e note di F. Chabod, Torino, Einaudi, 1961, XV, p. 75.

8 Non sembra essere un caso che l’autore de Il Principe li chiami proprio così, precetti, quasi a volere evidenziare la contrapposizione di un codice etico, quello adatto alla politica e da lui indicato, ad un altro, insegnato dalla Chiesa.

9 N. Machiavelli, Il Principe, ibidem.

10 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XV, p. 76.

11 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII. p. 81.

12 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, con introduzione di G. Sasso e note di G. Inglese, Milano, Rizzoli, 1999, I,3, p. 69 (tutte le citazioni dei Discorsi si riferiscono a questa edizione).

13 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno (1979), trad. it. di G. Ceccarelli, ed. it. a cura di M. Viroli, Bologna, Il Mulino, 1989.

14 N. Machiavelli, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, in J-J. Marchand, Niccolò Machiavelli: i primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova, Antenore, 1975, pp. 428-429.

15 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, Proemio, p. 57.

16 N. Machiavelli, Il Principe, cit., X, p. 52. È soltanto una, a caso, delle innumerevoli espressioni del genere.

17 N. Machiavelli, Discorsi, cit., Dedica, p. 53.

18 N. Machiavelli, Il Principe, cit., Dedica, p. 3.

19 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, 11, p. 94.

20 “Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini, perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori rari, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi moltiplicando la generazione si ragunarono insieme”: è il celebre capitolo II del primo libro dei Discorsi in cui è esposta la teoria polibiana del governo misto.

21 Cfr. N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, 11, pp. 91-94.

22 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII, p. 81.

23 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, Proemio, p. 55.

24 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII, p. 81.

25 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII, p. 82.

26 N. Machiavelli, Il Principe, cit., IX, p. 50.

27 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, 26, p. 121.

28 N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini a cura di G. Inglese, Milano, Rizzoli, 1989, 10 dicembre 1513, p. 195.

29 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVIII, p. 88.

30 N. Machiavelli, Discorsi, cit., III, 41, p. 563.

31 Mi permetto di rinviare a G.E.M. Scichilone, Repubblicanesimo e religione, pensiero mazziniano, 3, 2000.

32 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVIII, p. 87.

33 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII, p. 80.

34 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVIII, p. 86.

35 N. Machiavelli, Il Principe, ibidem.

36 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVIII, p. 88.

37 Il celebre epigramma di Machiavelli:

La notte che morì Pier Soderini

L’alma n’andò dell’Inferno alla bocca:

E Pluto le gridò: anima sciocca,

Che inferno? va’ nel limbo tra’ bambini.

38 N. Machiavelli, Discorsi, cit., III, 3, p. 467.

39 N. Machiavelli, Discorsi, cit., III, 3, p. 468. Non può non avvertirsi una nota di personale partecipazione a quegli avvenimenti. Tra quegli amici che raccolgono le confidenze del Gonfaloniere non vi è dubbio che ci sia proprio lui, Niccolò, il più fedele della cerchia del capo dello Stato.

40 N. Machiavelli, Discorsi, ibidem.

41 N. Machiavelli, Discorsi, cit., III, 30, p. 540.

42 N. Machiavelli, Discorsi, ibidem.

43 N. Machiavelli, Il Principe, VIII, cit., p. 42.

44 N. Machiavelli, Il Principe, VIII, cit., p. 45.

45 N. Machiavelli, Il Principe, XXVI, cit., p. 126.

46 N. Machiavelli, Il Principe, ibidem.

47 N. Machiavelli, Il Principe, ibidem.

48 N. Machiavelli, Il Principe, cit., VI, p. 27.

49 N. Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, a cura di B. T. Sozzi, Torino, Einaudi, 1976, p. 3.

50 N. Machiavelli, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in Id., Arte della Guerra e altri scritti politici, a cura di S. Bertelli, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 247.

51 Il Rinascimento condivise questa grandiosa visione del fondatore di uno Stato nella figura biblica di Mosè. Come Machiavelli, che lo prese a modello nelle sue opere politiche, Michelangelo raffigurò il patriarca con le tavole della legge che trattiene un moto di ira per l’infedeltà del suo popolo. Proprio l’immortale scultura avrebbe suscitato l’ammirazione di Freud ed ispirato Thomas Mann per il suo raccanto La legge.

52 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, 10, p. 88.

53 Cfr. M. Viroli, Dalla politica alla ragion di Stato, Roma, Donzelli, 1994.

54 Il discorso dell’anonimo Ciompo delle Istorie fiorentine (che usa l’espressione “adonestano”) è un saggio magistrale della consapevolezza non solo machiavelliana ma umanistica (si pensi per esempio a Guicciardini) dell’origine violenta dello Stato.

55 Il principato civile munito di “armi proprie”, vale a dire di cittadini che volontariamente servono lo Stato, apre un grande problema di interpretazione sulla natura del principato stesso (da Chabod a Sasso a Cadoni), per quanto gli uomini che corrono a difendere lo Stato non chiedano altro di non essere oppressi (da cittadini potenti e prepotenti) e di godersi pertanto in tranquillità i beni che gli appartengono. La questione conduce all’interpretazione del repubblicanesimo machiavelliano, tra “libertà positiva” e “libertà negativa” (sollevato da ultimo da Skinner, Pettit, Viroli).

56 N. Machiavelli, Discorsi, cit., II, Proemio, p. 292.

57 N. Machiavelli, Arte della Guerra, cit., p. 519.

58 Sono i versi tratti da una poesia indirizzata a Giuliano di Lorenzo de’ Medici durante la prigionia sofferta da Machiavelli tra il febbraio e il marzo del 1513 accusato di aver preso parte alla congiura del Boscoli. La lettera del 9 aprile successivo indirizzata al Vettori, con un’incredibile ironia che Machiavelli riversa su stesso oltre che sull’amico,si apre proprio con un diretto riferimento alla tortura subita: “Questa vostra lettera mi ha sbigottito più che la fune…”.

59 N. Machiavelli, Lettere, cit., 9 aprile 1513, p. 110.