Partendo dalla famosa frase di D’Azeglio, pronunciata all’indomani dell’avvenuta unificazione – Fatta l’Italia, adesso bisogna fare gli italiani -, sorgono spontanee alcune domande: Si può costruire un’identità nazionale con decreti governativi, o plebisciti, o manovre diplomatiche? Esiste un popolo italiano? Si è mai formata la coscienza nazionale?
Noi studiosi del Risorgimento, purtroppo ormai passato di moda, identifichiamo tale periodo storico, appunto, con il travaglio intellettuale e politico che portò una sparuta minoranza di italiani a partorire un sentimento comune di italianità, senza il quale sarebbe stato impossibile progettare l’unificazione statuale. Ciò ci fa pensare che il sentimento di nazione non sorse spontaneo, ma fu una creazione forzata in funzione della costituzione dello stato nazionale. E se lo stato unificato era un’aspirazione che scaturiva dall’utilitarismo proprio della borghesia illuminata, industriale ed industriosa del nord dell’Italia, stanca di vedere ostacolati i propri traffici dalla molteplicità di barriere doganali, di leggi commerciali e di valute che frazionavano l’attività economica dell’intera penisola, la nazione era una creazione ideale che scaturiva dalla diffusione del movimento romantico e dalla constatazione dell’emarginazione dell’Italia dal contesto europeo, dominato, per la maggior parte, da stati nazionali o da imperi plurietnici.
La penisola, divisa in otto staterelli, per lo più satelliti di varie grandi potenze, non apparteneva né all’una, né all’altra categoria e si illanguidiva nel torpore di un fatalismo dovuto a secoli di dominazioni straniere e di sfruttamento coloniale che avevano tarpato quell’evoluzione artistica e spirituale che aveva dato il via, proprio dalle rive dell’Arno, dalla laguna veneziana, dai navigli milanesi, al grande movimento rinascimentale europeo.
Ma come nasce il sentimento nazionale fra popoli che quasi nulla avevano in comune dal punto di vista storico, legislativo, economico, sociale e anche linguistico, se si eccettua l’esistenza di una comune lingua scritta, conosciuta si e no dal 20% della popolazione? E quando nasce e perché?
Indubbiamente molto si deve alla diffusione fra le regioni italiane dei principi della rivoluzione dell’89, affermatisi con l’aiuto delle baionette dei rivoluzionari francesi che avrebbero di lì a poco fondato, nella penisola, le repubbliche giacobine. Nonostante la rivoluzione predicasse, ligia alla moda illuministica, principi di cosmopolitismo, essa aveva proclamato l’uguaglianza, la libertà e la fraternità non solo fra i singoli cittadini, ma anche fra i popoli. Quindi il diritto dei popoli oppressi alla liberazione e alla autodeterminazione. Tali sentimenti furono rafforzati dai vantaggi economici che alla borghesia settentrionale avevano apportato i pochi anni di unione amministrativa del nord, prima sotto le repubbliche cispadana e transalpina, poi sotto la Repubblica italiana, presieduta da Napoleone e, infine, sotto il Regno Italico di cui fu vicerè Eugenio di Beauharnais.
Già ai tempi della repubblica italiana, di cui fu vicepresidente l’intellettuale aristocratico lombardo Melzi d’Eril, si cominciava a coltivare l’aspirazione ad uno stato italiano unito, monarchico, che liberasse la popolazione, accomunata dalla lingua e dalla geografia, dal servaggio secolare(1).
Napoleone fu visto dai giovani intellettuali italiani come il liberatore; la sua politica di rinnovamento infiammò i loro animi, conquistati dall’esempio francese anche nel simbolismo (la bandiera tricolore, la raffigurazione dell’Italia come donna in catene, ecc.). Tuttavia, il trattato di Campoformio con cui la secolare Repubblica Serenissima di Venezia, l’unica veramente indipendente del territorio italico, veniva venduta all’Austria e la spoliazione continua dei tesori artistici italiani effettuata dal grande corso, suscitarono una forte reazione di ripulsa nei confronti dei francesi che si erano rivelati anch’essi dei conquistatori ancora più spregiudicati dei precedenti. Fu allora che scattò la molla dell’orgoglio nazionale che, coniugandosi con il ribellismo, proprio in ogni epoca, della gioventù, portò alla costituzione delle società segrete e all’esaltazione dell’eroismo, ma anche del terrorismo e del martirio, dando luogo quasi ad un cammino cristologico in cui la fede era costituita dall’amore per la patria, gli apostoli erano i cospiratori, i martiri gli eroi caduti per la causa.
Bisognava, tuttavia, che tale sentimento nazionale scaturito dal ribellismo, dallo sdegno e dalle aspirazioni sentimentali di uno sparuto gruppo di intellettuali, per lo più giovani, si diffondesse al resto della società. Il proselitismo passò così dal campo politico istituzionale a quello poetico letterario, alla ricerca di comuni glorie del passato da riesumare e proporre ai più colti, anche attraverso il romanzo storico. I Vespri siciliani di Amari, Il Conte di Carmagnola o l’Adelchi di Manzoni, L’assedio di Firenze di Guerrazzi, l’Ettore Fieramosca di D’Azeglio furono le letture di moda, mentre le odi come I sepolcri o All’Italia, consacravano due grandi poeti, Foscolo e Leopardi come vati del patriottismo italiano. Dante diveniva il precursore dello spirito italico, così come l’Italia medievale, invano impegnata a liberarsi dalla pesante tutela dell’imperatore e del papa, veniva vista come l’esempio più vicino e più comune al popolo italiano verso la riscossa.
Indubbiamente si trattava di artifici letterati e storici, poiché la vera divisione degli italiani, che peraltro non erano mai stati veramente uniti, iniziò proprio nel Medioevo. Il nord fu assoggettato dagli invasori sassoni che venivano dal centro Europa, il sud rimase, prevalentemente, sotto la dominazione bizantina. In seguito, al nord una borghesia mercantile in continua ascesa, per la maggiore speditezza dei traffici commerciali, grazie alle comunicazioni fluviali e terrestri facilitate dal terreno pianeggiante e per la vicinanza al centro dell’Europa, avrebbe cercato una maggiore autonomia amministrativa ed economica ribellandosi al gioco dell’Impero e fondando i primi comuni; al sud la cultura feudale introdotta dai normanni, avrebbe dato luogo ad una secolare economia latifondista fondata sul predominio della aristocrazia terriera e sull’assenza della borghesia. Sia nell’una che nell’altra parte della penisola si sarebbe affermata la completa assenza dello stato come potere assoluto centralizzato, insidiato a nord dalle autonomie comunali e a sud dall’anarchia feudale.
Nord e Sud avrebbero così imboccato due strade antitetiche, allontanando sempre più le popolazioni italiche, che nemmeno durante l’Impero romano condivisero leggi e costumi, poiché i romani lasciavano alle singole città ampia autonomia amministrativa e legislativa, ponendo così le basi di quella che sarebbe stata – secondo Cattaneo – l’Italia della città. Se, dunque, la storia comune è l’elemento che più distingue il carattere di un popolo, Croce obiettava che gli italiani, non avendo nemmeno una storia comune, mancavano di uno dei pilastri essenziali che costituiscono la nazione(2).
Gli italiani non condividevano nemmeno la lingua, visto che al sud le parlate locali erano più vicine ad un latino involgarito, al nord risentivano molto l’influenza delle lingue diffuse oltre le Alpi. Un piemontese e un siciliano, che non fossero intellettuali, conoscitori del latino o dell’italiano come lingua aulica non parlata, solo usata in letteratura e negli atti pubblici, non avrebbero potuto intendersi. Meglio si sarebbero compresi un siciliano con il dirimpettaio tunisino o il piemontese con il vicino francese.
Accorgersi di tale diversità non è difficile, tanto che Melchiorre Gioia, osservando le differenze etniche, linguistiche, storiche, giuridiche, economiche e perfino climatiche, arrivava ad affermare: “Non esiste l’italiano, esistono gli italiani”(3).
Ancora più drastico Gioberti che sosteneva che il popolo italiano “[…] è un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa, e non so pur se si trovi nel nostro vocabolario. V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, di istituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini”(4).
Appunto per suscitare l’orgoglio nazionale di un popolo infiacchito dalla lunga servitù politica, giudicato dagli stranieri senza carattere – ricordiamoci l’infelice espressione di Lamartine sull’Italia da lui definita terra dei morti – diveniva indispensabile basare l’educazione popolare allo spirito comune di nazione su termini molto forti, evocativi anche di un impegno religioso, comunque, non comune, come primato, missione, apostolato, martirio, ecc.
Creare lo spirito italico era dunque un’impresa ardua che sarebbe stata facilitata dall’invasione napoleonica, dal diffondersi del Romanticismo e del pensiero dei principali filosofi romantici tedeschi, Herder e Fichte, che avrebbero sovrapposto il sentimento di nazione al patriottismo.
Il patriottismo, infatti, inteso come lealtà alle istituzioni del proprio stato, era un sentimento vecchio quanto l’uomo come essere sociale che nulla, tuttavia, aveva a che fare con il sentimento nazionale. Per gli storici la patria non era un luogo naturale ma un’istituzione, non concepivano quindi la patria e tantomeno la nazione, senza il presupposto politico dello stato. Per l’inglese Price, vissuto durante la gloriosa rivoluzione “Per patria s’intende non il suolo o l’angolo di terra dove ci è capitato di nascere; non le foreste e i campi, ma la comunità di cui siamo membri, o quel corpo di compagni, di amici e di simili con i quali viviamo insieme sotto la medesima costituzione politica, protetti dalle stesse leggi e uniti dalla stessa società civile”. Da tale concetto escludeva ogni forma di sciovinismo e di prevaricazione(5).
Anche lo spagnolo Vilar, durante la rivoluzione spagnola antinapoleonica, scriveva cose simili, non disgiungendo il concetto di patria da quello di cittadinanza e di libertà “Farebbe un grosso errore chi credesse di avere una patria per il solo fatto di vivere nel luogo natio fra le cose cui ha rivolto i suoi primi sguardi e i suoi primi balbettii […] Non c’è patria nell’accezione del diritto pubblico, dove non ci sono cittadini e i cittadini esistono solo dove c’è la libertà civile”(6).
Se non meraviglia che la pensassero in tal modo Price o Vilar, cittadini di stati nazionali unitari, appare più strana la posizione di Goethe, secondo cui la patria “non è la repubblica, né il luogo dove siamo nati, ma qualsiasi luogo in cui possiamo vivere sicuri con le nostre proprietà, trovare un campo, una casa che ci ripari dalle intemperie”(7).
Fu Herder, il primo a coniare il termine Nationalismus, inteso non come impegno per la libertà politica e civile, ma difesa della cultura nazionale che si basa sull’unità spirituale della nazione, basata soprattutto sulla lingua comune. Secondo Herder nazione significa unità culturale fondata sulla comune lingua, storia, letteratura, religione, arte. In base a tali elementi che vanno al di là dello stato, ogni nazione avrebbe una sua identità originale ed inesprimibile se non con la propria lingua: “Nessuna nazione ha la stessa storia di un’altra, ogni nazione ha un proprio destino a seconda dei doni che Dio ha voluto dare ad essa. Non solo Dio non vuole l’amalgama delle diverse nazioni, ma vuole che ogni nazione vada per la sua strada senza adottare idee e forme di vita che non sono sue e danneggerebbero la sua unità e autenticità spirituale”(8).
Fin qui il pensiero di Herder è molto vicino a quello di Mazzini che considera anche lui imprescindibile che ciascun popolo prenda coscienza della propria identità nazionale per essere soggetto di storia e per avere un futuro. Tuttavia, mentre per Mazzini la nazione presuppone una scelta volontaria dell’individuo e prescinde, dunque, dal luogo di nascita e dalla razza, per Herder essa è una creazione naturale di Dio che non dipende dalla volontà degli uomini e dall’esistenza degli stati. Se Dio ha creato le nazioni e non gli stati – sostiene Herder – ciò vuol dire che le prime sono più importanti dei secondi. Posizione, questa, molto vicina a quello che sarà il pensiero di Crispi per il quale: “Lo Stato è un ente organico, autonomo che vive in virtù di leggi proprie, ma che è di vita naturale ed eterna quando rappresenta la nazione […] Quando lo Stato rappresenta la nazione ha una vita che non è data dalle leggi, ma gli è data da Dio, e questo è il caso dell’Italia. e avvertite, signori, che il mio concetto nazionale va anche un poco più in là. Per me non credo neppure che a costituire uno Stato, il quale comprenda la nazione, siano necessari plebisciti, né credo possa dipendere dalla volontà dei cittadini o dalla volontà dello straniero che questo Stato si rompa; e se mai fu e se mai potesse essere rotto, il suo diritto inalienabile, imprescrittibile, eterno, nessuno potrebbe mai disconoscerlo”(9).
Per Fichte la nascita della nazione non è altro che la libertà della stessa di esprimere la propria identità; perciò la nascita della nazione tedesca coincide con la lotta delle tribù germaniche ai Romani che tentavano di omologarle alla loro cultura e cancellarne l’identità: “Libertà significava per loro rimanere tedeschi, risolvere le proprie questioni indipendentemente e originalmente secondo il loro spirito […]”. Dunque, per l’autore del Discorso alla nazione tedesca, i popoli politicamente oppressi devono prima costruire la propria identità, difendendo il linguaggio e la storia nazionale, e poi pensare alla lotta per la libertà politica.(10)
Anche la posizione di Fichte è molto vicina al pensiero di Mazzini che premette la rivoluzione nazionale a quella politica e sociale. Tuttavia, il pensatore genovese contesta ai tedeschi di aver trascurato l’importanza delle istituzioni fondate sulla libertà e l’uguaglianza. Egli vede in Dante il solo esempio che i veri italiani avrebbero dovuto seguire per il suo affetto patrio ben concepito, per aver egli compreso che l’amore per la patria deve essere infinito, immune da pregiudizi, ispirato alla pace e alla lotta contro la corruzione e la servitù: “La patria – scrive Mazzini – è una comunione di liberi e di eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine […] La patria non è un aggregato, è un’associazione. Non v’è patria dove l’uniformità di quel diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze […]” E ancora: “La patria non è un territorio: il territorio non ne è che la base. La patria è l’idea che sorge su quello: è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio […]” “Prima di associarsi con le nazioni che compongono l’umanità bisogna esistere come nazione. […]”(11)
Le teorie mazziniane trovarono difficile applicazione fra popoli che, come abbiamo sopra affermato, poco o niente avevano in comune se non la mancanza del senso dello stato, il secolare servaggio, l’individualismo, il disfattismo che porta tutt’ora noi italiani del XXI secolo a dimenticare la data dell’unica grande vittoria nazionale, e festeggiare orgogliosamente una sconfitta, pomposamente ribattezzata Liberazione.
Se la Chiesa fu l’elemento fondamentale di disunione degli italiani, visto che senza di essa e, soprattutto, senza il suo Stato che si estendeva proprio nel mezzo della penisola, l’unità politica dalle Alpi al Lilibeo, nel rispetto dei naturali confini geografici, forse si sarebbe potuta attuare fin dai tempi di Federico II di Svevia, essa costituì contestualmente l’unico vero collante fra popoli tanto diversi. Lo comprese benissimo Gioberti con il suo progetto di una Confederazione di stati, presieduta dal Papa, che unificasse senza fonderli i vari popoli che componevano la penisola. Lo comprese anche Manzoni che, a differenza di Cuoco, che vedeva la comunità di caratteri fra gli italiani nel mondo pre-romano, e di Mazzini che faceva riferimento alla comune origine da Roma faro di civiltà, si rifaceva alla Roma dei papi a quel cattolicesimo che aveva permesso il mantenimento di molte antiche tradizioni divenute, infine, l’unico sostrato comune dei popoli italici.
Esiste oggi la nazione italiana? Secondo Galli della Loggia la parte più importante dell’identità italiana […] ciò che è per l’appunto uguale e comune, ciò che è identico e che conta sia tale – è la parte nascosta nelle viscere del tempo. Ma il fatto di essere nascosta non significa che non ci sia”(12).
NOTE
1 Secondo Bollati la costruzione diplomatica della nazione italiana, iniziò nel Settecento con Melzi d’Eril e continuò poi nel Risorgimento con Cavour e Vittorio Emanuele, Cfr. Giulio Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione. Torino 1983, p. 25.
2 Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1996, p. 316-318.
3 Melchiorre Gioia, Riflessioni sull’opera di Banstetten, in M. Gioia, Opere minori, vol. VI. Lugnao 1834, pp.110.
4 Vincenzo Gioberti, Del Primato morale e civile degli italiani, Capolago 1846, vol. I, pp. 117-118.
5 Maurizio Viroli, Per amore della patria, Bari 1995, pp. 48 e 94.
6 Pierre Vilar, Patrie et nation dans le vocabulaire de la guerre d’Indipendance espagnole, in Annales Historiques de la revolution francaise, vol. XLIII, 1971, p. 508.
7 J.B. Goethe, Sommtliche Werk, Stuttgart – Berlin, 1902-1912, vol. XXVI, p. 67.
8 Riportato da Maurizio Viroli, Per amore della patria, op. cit. p. 115.
9 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, tornata dal 6 marzo 1990, riportato da G. Portalone, Adua: fine di un sogno, in Rassegna Siciliana di storia e cultura, n. 9 Aprile 2000, p. 23. Se per Crispi la nazione e non ha bisogno di plebisciti, per Renan essa, intesa come principio spirituale di un popolo che desidera vivere insieme “è un plebiscito di tutti i giorni”. Cfr. E. Renan, Che cos’è una nazione?, Roma 1994, p. 20.
10 Riportato da Maurizio Viroli, op. cit. p. 122.
11 G. Mazzini, Scritti editi e inediti, Imola 1906, vol. LXXXIII, pp. 882-885.
12 E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Bologna 1998, p. 163.