Il ventotto dicembre 1964 Giuseppe Saragat fu eletto Presidente della Repubblica, dopo ben venti scrutini infruttuosi, con i voti della Democrazia cristiana, del Partito comunista, del Partito socialista, del partito socialista democratico e di quello repubblicano.
Dopo il ventesimo scrutinio, Saragat aveva diramato un comunicato in cui chiedeva la convergenza sul suo nome “dei voti di tutti i partiti democratici e antifascisti”, dando così soddisfazione al P.C.I. che aveva sollecitato una richiesta esplicita dei propri voti.
Con questo fatto, che interveniva dopo l’apertura alla sinistra socialista, verificatasi già due anni prima con la costituzione del primo governo organico quadripartito di centrosinistra presieduto da Aldo Moro, diventava chiaro che la storia politica imboccata dal nostro Paese tendeva ormai in maniera decisa verso sinistra, al fine di una cogestione della cosa pubblica con i socialisti e di una pacifica convivenza con il Partito comunista, e verso quella “conventio” che, per un ventennio circa sotto il nome di Arco costituzionale, avrebbe determinato una seria discriminazione tra i partiti fondatori della Repubblica, P.C.I. compreso, cui comunque avrebbe potuto competere di governare, e gli altri -soprattutto il M.S.I.- i cui voti in Parlamento non avrebbero potuto essere accettati né per l’approvazione di importanti leggi, né per sostenere un governo, né per eleggere alte cariche dello Stato.
Ora sappiamo che una tale convenzionale cristallizzazione delle forze politiche esistenti, secondo una sorta di classicizzazione operata sulla base delle rispettive origini storiche, sarebbe durata fino al crollo del comunismo sovietico (1989) ed alla decomposizione per logoramento morale della Democrazia cristiana (1993); ma allora, soprattutto nelle persone che avevano ancora nella mente la scomunica comminata nel 1949 dal Sant’Uffizio per i comunisti e per tutti coloro che ne accettassero, sostenessero e divulgassero le idee, l’ammissione del comunismo tra le forze che potessero avere un qualche ruolo nel governo del Paese fu cosa difficile ad accettarsi.
In questo clima, ispirato e sostanzialmente diretto, in quanto a linea culturale e politica, da Gaetano Falzone (1), nacque a Palermo il 14 febbraio 1965, il settimanale La Rivolta, sotto la direzione responsabile del giornalista Carlo De Leva. Il giornale denunziava subito il proprio ruolo e la propria ragione d’esistere – chiaramente per la penna dell’Ispiratore, anche se senza la sua firma – così: “se c’è oggi nel nostro Paese un bene precario questo è la libertà. Un investimento d’intelligenza e di capitali sull’avvenire di questo bene presuppone notevoli rischi d’esercizio. Le prospettive che si aprono per il nostro Paese nell’immediato avvenire sconfortano molti buoni cittadini; inducono gli opportunisti a saltare al più presto il fosso e collocarsi fra i vincitori di domani; e rendono, infine, arditi gli eversori dell’attuale ordine, i quali tuttavia, nella certezza di cogliere il frutto maturo a causa della distrazione congeniale del giardiniere, si guardano bene dall’apparire, per il momento tracotanti”.
E questo stava per avvenire, “proprio quando la pacificazione fra gli italiani, fra quelli che avevano combattuto con la Repubblica sociale e quelli che avevano costituito il Regno del Sud stava per compiersi, nel segno di un luminoso e saldo progresso economico che aveva suscitato l’ammirazione del mondo”.
Osservando tutto ciò, si presagiva quello che sarebbe presto stato l’Arco costituzionale: proprio perché, con l’elezione di Saragat a Presidente della Repubblica mediante i voti comunisti richiesti ed accettati, era successo che “i comunisti che fino a ieri erano stati ufficialmente considerati nemici della democrazia hanno purtroppo, in occasione della elezione del Capo dello Stato, ottenuto il riconoscimento scritto dal PSDI e dal PRI, avallati dal PSI (essendo questa la sola firma cui i comunisti ritengono di potere accordare fiducia) di essere perfetti democratici, verso i quali non sarebbe giusto operare discriminazioni. Una larga parte dello schieramento politico italiano ha goduto nell’inginocchiarsi dinanzi alle bandiere rosse”.
Il rischio d’una comunistizzazione del Paese – anche con la forza – era allora ancora attuale, essendo freschi i ricordi degli interventi sovietici in Cecoslovacchia, in Ungheria ed in Polonia, e delle stragi nel triangolo rosso ed il giornale coglieva i sintomi d’un tale pericolo anche in fatti locali, cominciando già dal primo numero quella che sarebbe stata una specie di crociata contro il nuovo corso del Giornale di Sicilia in cui, dopo l’assunzione della direzione da parte di Delio Mariotti (cosa probabilmente traumatizzante in sé, essendo rimasta la direzione del giornale sempre in “casa Ardizzone”), e l’adeguamento al nuovo orientamento politico governativo, “le istanze liberali dell’onorevole passato del Giornale non solo sono state seppellite dai nuovi nocchieri venuti da lontano, ma addirittura oltraggiate. Il patriottismo non certo fanatico, ma costantemente leale, del giornale è stato archiviato” (2).
In un siffatto spirito di fondo, nel secondo numero del giornale (3), commentandosi i lavori del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, si evidenziava come l’onorevole Salizzoni, portavoce dell’onorevole Moro, “se l’è presa con l’onorevole Malagodi; ha protestato non contro il comunismo ma contro l’anticomunismo dei liberali, in termini così violenti e calunniosi che nemmeno i comunisti avrebbero usato. Secondo Salizzoni l’onorevole Malagodi vuole contrabbandare, sotto l’etichetta dell’anticomunismo, una merce di provenienza reazionaria e l’anticomunismo dei liberali è solo conservatorismo: quindi niente anticomunismo del tipo liberale”.
D’altro canto, la parte dei socialisti che non aveva seguito Saragat nella scissione di Palazzo Barberini era fortemente avversata dal Giornale: “caduto il fascismo, ci fu la prova di appello per il socialismo italiano. Non era degno del voto degli italiani e, tuttavia, alle elezioni del 2 giugno ebbe più voti del P.C.I.. Come si servì di quella forza? Portandola all’ammasso comunista” (4). La verità è forse che il periodo in cui il giornale fu pubblicato (1965-1968) fu un tempo di particolari, profonde e manifeste tensioni, non solo tra i partiti politici né solo nella dialettica parlamentare tra le diverse concezioni degli indirizzi che lo sviluppo della società italiana avrebbe dovuto avere, e che il giornale raccoglieva le preoccupazioni di consistenti strati sociali per un possibile salto verso l’ignoto.
E’ del 1964 il “Piano Solo” predisposto dal generale dei carabinieri Di Lorenzo per un intervento in caso di grave crisi politica e di emergenze nell’ordine pubblico; piano che si presterà ad essere interpretato come un progetto di golpe, a conoscenza del Presidente della Repubblica, e che quindi confermò nella borghesia la convinzione dei rischi d’ingovernabilità che stava attraversando il nostro Paese. Nel ’64 e nel 65 l’Alto Adige subisce numerosi attentati da terroristi sudtiloresi, con uccisioni di agenti e militari italiani. Nelle università iniziavano le prime manifestazioni violente tra estremisti di destra e di sinistra, con le connesse dimissioni del rettore dell’università di Roma, Papi, accusato di gestione antidemocratica dell’università. La legislazione si evolveva in senso protezionista dei lavoratori con l’introduzione del limite della giusta causa nei licenziamenti (1966) ed i sindacati acquistavano un ruolo sempre più rilevante, non solo nella difesa degli interessi dei propri iscritti ma anche nella politica generale dello Stato.
Gli scioperi nelle fabbriche dilagavano e dilagavano anche le manifestazioni giovanili e le occupazioni di facoltà universitarie contro la guerra nel Vietnam, contro la Nato e gli Stati Uniti e contro l’imperialismo e l’autoritarismo in genere; perfino l’università cattolica di Milano fu in quegli anni occupata dagli studenti. Anche la figura del Papa, fino ad allora sempre oggetto di rispetto, fu messa in discussione dalla programmazione a Roma, nel febbraio 1965, della rappresentazione del dramma “Il Vicario” di Rolf Hochhuth che trattava in maniera assai critica l’atteggiamento di Pio XII di fronte allo sterminio nazista degli ebrei nel corso dell’ultima guerra. La polizia ne vietò la rappresentazione (5). Ma si costruivano anche fabbriche nel sud ed, in particolare, quella, importantissima ai fini della battaglia contro la disoccupazione, dell’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco.
In sostanza, il periodo de La Rivolta corrisponde ad un’epoca di forti contrapposizioni sociali e di traumatiche trasformazioni nella società italiana, fino ad allora coerente, tutto sommato, con quella che era stata l’Italia, sia prima che durante il fascismo: un paese di forti tradizioni cattoliche, di radicate concezioni morali di tipo agricolo-provinciale e conservatore, di consolidate gerarchie sociali e generazionali e soprattutto un paese non aperto né ad una diffusa filosofia industriale né alle abitudini europee emergenti. La trasformazione avveniva con forti scontri tra le varie componenti sociali, esulanti anche dagli schemi dei partiti tradizionali.
Anche nel resto d’Europa gli assetti socio-politici erano tutt’altro che tranquilli: nel 1964 erano iniziati i bombardamenti USA nel Vietnam del Nord e ciò provocava manifestazioni di dissenso in tutto l’Occidente. Il 27 aprile del 1967, con un colpo di stato, un gruppo di militari assumeva il potere in Grecia ed il Governo italiano esprimeva ufficialmente la propria preoccupazione per la svolta autoritaria. La Rivolta commentava: “il colpo di Stato in Grecia ha parato e prevenuto la marcia su Atene che i socialcomunisti preparavano su ispirazione e l’avallo del vecchio Papandreu che a Salonicco aveva convocato un’adunata oceanica che avrebbe dovuto realizzare ben altro colpo di stato che quello incruento effettuato da militari e magistrati. Non a caso la flotta di guerra sovietica solcava minacciosa le acque dell’arcipelago greco” (6).
Nel 1966 cadeva il decennale della rivolta d’Ungheria, scoppiata a Budapest nell’autunno del 1956 e poi soffocata nel sangue dai carri armati dell’URSS. L’occasione fu molto opportuna, nell’ambito del disegno di rivolta anticomunista del giornale, per ricordare con evidenza, contro l’immagine che si andava accreditando nel nostro Paese, e soprattutto presso gli intellettuali di sinistra, d’un comunismo pacifista, rigorosamente democratico, legalitario, sostenitore della cultura e soprattutto gradito al popolo più cosciente del proprio ruolo sociale, quale fosse il vero volto del comunismo reale. E si rivelava anche, con l’occasione il comportamento ambiguo da parte dei socialisti.
Non sarebbe bastato solo qualche articolo di rievocazione storica, sia pure con commento politico e morale. Si formò allora attorno al giornale un Comitato palermitano degli amici dell’Ungheria, cui aderirono con l’entusiasmo dei grandi momenti, oltre che numerose personalità del mondo cattolico ed anticomunista, palermitani di tutti i partiti, con eccezione di quello socialista e di quello comunista, nonché i pochi ungheresi residenti a Palermo. La rievocazione avvenne a Palermo il 6 novembre cominciando nel clima solenne e profondo di una messa nella chiesa di S. Domenico, celebrata in suffragio dell’anima di Luigi Tukory (le cui spoglie riposano proprio in questa chiesa) e dei caduti della rivolta ungherese dal padre Janos Asztalos, già condannato dal governo ungherese all’impiccagione, quindi “graziato” in cambio dell’ergastolo e poi riparato in Italia nei giorni della rivolta.
In un teatro Politeama gremito, come nelle occasioni che i cittadini avvertono solenni nella Storia, il direttore de La Rivolta, Gaetano Falzone, rievocò la crudele repressione sovietica dell’aspirazione alla libertà del popolo magiaro. Ovviamente, il giornale aveva preparato l’evento ricostruendo storia, cronaca e cultura di quegli orribili giorni, quando tutto il mondo occidentale era rimasto inerte di fronte all’appello di aiuto invocato in tutte le lingue dagli ungheresi attraverso la radio, trattenendo piuttosto il fiato, atterrito com’era dal ricatto di una possibile offensiva sovietica nell’Europa occidentale. Gli articoli di quei numeri del giornale sono ora di un certo interesse nella ricostruzione di quei giorni, dell’animo siciliano di fronte alla storia del Paese da cui era venuto Tukory al seguito di Garibaldi nel 1860 ed anche della stessa cultura nazionale e patriottica dell’Ungheria nel tempo della rivolta (7), ma rivelano anche la tendenza culturale del giornale nel rilevare il valore dei moti nazionalistici contemporanei degli altri paesi, anche al fine di rivalutare ed attualizzare la nostra tradizione risorgimentale ed i valori nazionali dell’Italia. Ci si sofferma dunque, nel giornale, ad approfondire i significati delle date 24 maggio e 4 novembre e quelli della rivolta siciliana del 1812 e del Parlamento siciliano del 1848 (8).
A voler trarre poi il senso di tutta una serie di articoli di intonazione storica o geopolitica o etnoantropologica, riguardanti altri paesi, e non secondari nell’economia di ciascun numero del giornale, la sua linea complessiva emerge ricca del rispetto e dell’esaltazione del valore delle storie e della fierezza nazionali. “Beirut É vive la sua vita di deliziosa sovrana dell’Oriente, che accoglie con uguale cortesia ed opulenza gli emiri del Kuwait e gli uomini d’affari americani. Vive la vita delle sue mille banche, dei suoi molti antiquari, dei suoi mercati d’oro e di tappeti” (9).
E guardando la Spagna, si osservava: “fino a che al Palazzo del Pardo, residenza del generalissimo capo di stato spagnolo, Iddio concede la salute ed il vigore all’ultra settantenne Francisco Franco y Bahamonde É las cosas de Espana pueden marchar bien” e “esta es la clave de nuestra politica: unir lo national y lo social bajo el imperio del o espiritual” (10).
E a proposito della Romania, governata dal Ceaucescu, si nota che “Balcescu (il poeta nazionale, morto a Palermo nel 1852) era di quelli che all’insegnamento dell’occidente voleva aggiungere quello delle memorie, delle tradizioni, delle leggi antiche della gente romena, che aveva una sua civiltà antica da fare risplendere (11). E si parla del Portogallo, vecchio impero tormentato dalla crisi del sistema coloniale (12); mentre il Giappone appare forte della gentilezza dei suoi abitanti e del serio sviluppo economico in atto visibile nelle varie industrie Canon, Thosiba ecc (13); e poi É la “fierezza millenaria dell’Ungheria di S. Stefano” (14), e l’antico interesse dei finlandesi per la Sicilia, dalla scoperta nell’università di Turku di una dissertazione di uno studente, nel 1766, sulla conquista della Sicilia da parte dei normanni, fino all’interesse per il “Gattopardo”, sia pure per il tramite della moglie baltica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “L’università di Turku era allora costruita in legno e fu distrutta nel 1827 dal fuoco. Oggi è tutta nuova e brillante. L’ho vista circondata dalle nevi, ma riscaldata dalla gaia e solenne vita dei suoi studenti” (15)
Dal punto di vista d’una azione politica più immediata, ovvero da quello della politica economica, il giornale mostrò intenti spiccatamente liberali e liberistici.
Visti d’altra parte retrospettivamente, gli anni sessanta si presentavano, si, attraverso i fatti emblematici che abbiamo visto, ma furono anche gli anni in cui il reddito pro capite salì in Italia sensibilmente ed il prodotto interno lordo crebbe (nel decennio 1961-1970) almeno del trenta percento. Di conseguenza, crescevano gli scambi di merci con l’Europa e col mondo ed esplodeva il consumismo, determinando una vera rivoluzione soprattutto nel costume familiare. Si comincerà presto a parlare, del resto, oltre che di mercato comune europeo, di global village e si cominciava ad avvertire l’inadeguatezza della pubblica amministrazione nei rapporti con le imprese ed in quelli con la nascente Comunità europea (16).Tra i partiti del centro-sinistra o meglio, dato il neologismo ormai acquisito, tra le forze dell’Arco costituzionale, l’espressione che sintetizzava la ragione di un possibile lavoro comune, necessario alla Nazione, era “riformismo” e l’obiettivo da raggiungere il welfare state. Il che significava: riforma della scuola, riforma universitaria, riforma della pubblica amministrazione, riforma urbanistica, programmazione economica, nazionalizzazione e municipalizzazione delle imprese di servizi di rilevanza sociale (di quelle produttrici di elettricità, prima di tutte), istituzione delle regioni di diritto comune ecc.. Ciò impensieriva imprenditori ed industriali per i costi che tali riforme avrebbero potuto avere sulla spesa complessiva dello Stato e per gli oneri che si sarebbero riversati sul mondo della produzione.
Lo stesso partito comunista partecipava ai dibattiti ed agli studi riguardanti le riforme, anche se al suo interno e presso la base elettorale, questo termine significava, almeno per una parte consistente dei lavoratori, un modo di eludere il programma di fondo: la distruzione del capitalismo. “A questi stessi lavoratori è gradito il messaggio agitatorio del PCI, che parla ancora di lotta di classe rivoluzionaria, perché al mitico aggettivo rivoluzionario non vuole certo rinunziare; tanto più che nel ’62 era esplosa un’ondata violenta di manifestazioni e di scioperi, destinata a prolungarsi per un intero decennio. Insomma il PCI non era ancora il partito di lotta e di governo che sarà teorizzato solo alla fine degli anni settanta” (17).
L’idea liberale, oggi indiscussa dalla maggior parte delle forze in campo, sostenuta allora da La Rivolta come la vera utile alternativa alla collettivizzazione del Paese, appariva, a dir poco, mostruosa.
Neanche il programma delle grandi riforme, comunque, fu poi portato a compimento, se non per quanto riguardava l’istituzione delle regioni, la nazionalizzazione delle industrie elettriche e, a livello locale, le municipalizzazioni; mentre nell’opinione pubblica non di derivazione marxista “non si distingue tra socialisti e comunisti: gli uni e gli altri sono rossi, sono marxisti, sono pagati da Mosca” (18).
Il giornale dunque conteneva in ogni suo numero almeno un forte articolo tecnico sul liberalismo, sull’economia di mercato o sulla Comunità economica europea (19) in cui si spiegava la necessità che tutto il sistema produttivo, favorito nel gioco della competitività, realizzasse una maggiore complessiva ricchezza da ridistribuire.
Complesso si rivela il quadro di considerazione, da parte del Settimanale, dell’unica forza che allora si qualificava di destra, ossia del Movimento sociale italiano: “abbiamo sempre sostenuto che l’attuale classe politica, che dice di voler difendere lo Stato italiano, non si comporta saggiamente cercando di estromettere dal gioco politico i combattenti, i lavoratori e i giovani che aderiscono al MSI” (20). Si avvertiva però anche come il tempo della nostalgia, della difesa delle giuste ragioni di chi era stato fascista nel “ventennio” e della retorica patriottica andava consumandosi.
Vero era che “attraverso la strumentale solidarietà antifascista i comunisti guidavano i partiti democratici del centrosinistra verso il baratro ed il caos” (21) e che per la messa al bando del M.S.I.” si sfruttavano tutte le possibili occasioni dei disordini sindacali e giovanili delle varie piazze calde d’Italia, ma si avvertiva pure che, perché qualche forza politica meno filocomunista aiutasse il MSI a ritrovare un ruolo efficace nella dialettica democratica, il partito dovesse determinare, esso stesso, l’attualizzazione dei propri valori nel segmento di Storia che andava sviluppandosi in quegli anni ormai lontani dal 1945.
Ma, intanto, l’area di destra appariva poco consistente per un bilanciamento delle forze ancora marxiste del Paese. Randolfo Pacciardi, già comandante partigiano ed ora espulso dal Partito repubblicano per aver votato contro il Governo Moro, fondava -evidentemente a destra- l’Unione democratica per la nuova Repubblica ed il Giornale commentava: “in una situazione come quella che esiste in Italia, e che può degenerare mentre meno ce lo aspettiamo, la presenza dell’U.D.N.R. è un elemento di fiducia” (22).
Il giornale terminò la propria pubblicazione col finire del “mitico” 1968; nell’agosto del quale anno la Cecoslovacchia fu invasa dalle truppe e dai carri armati del Patto di Varsavia, ponendo così fine a quell’esperienza di diretta adesione politica alle istanze popolari, guidata da Alexander Dubcek, che fu chiamata la “Primavera di Praga”. Questa volta il Partito comunista definì però “grave decisione” e “ingiusta decisione” l’invasione.
Il giornale commentava aspramente e con scetticismo, riproduncendo in evidenza una dichiarazione al riguardo di Luigi Gedda, presidente nazionale del Comitato civico: “i comunisti italiani e altri compagni di strada chiedono che non si faccia dell’anticomunismo. E’ la farsa del dramma. Non sono comunisti gli aggressori della Cecoslovacchia? Non vengono anzi dalla patria del comunismo?” (23).
Ma il 1968 fu anche l’anno in cui esplodeva in tutto il mondo occidentale la cosiddetta contestazione giovanile ed il giornale, commentando per la firma di Maurizio Barendson il massacro di studenti contestatori avvenuto a Città del Messico, alla vigilia delle olimpiadi ospitate in quella città, osservava, nel suo spirito di difesa delle rivolte risorgimentali nazionali, e con un certo apprezzabile equilibrio, che “esistono oggi paesi al mondo nei quali la strategia per il rinnovamento delle istituzioni prevale anche su occasioni storiche, come è una olimpiade” e che “è legittimo o quanto meno suggestivo pensare che un’olimpiade meno sospetta (di inutili lussi e di ingiustificabili sprechi), più pura, più aderente ai problemi e ai fermenti del paese non avrebbe avuto la aggressiva e irrituale accoglienza che ne ha turbato la vigilia in misura incancellabile” (24).
Il giornale, che aveva guardato al momento della sua vita con la consapevolezza d’appartenere ad un segmento della Storia e della storia ancora risorgimentale della nostra Nazione, chiudeva dunque mentre la Storia fluiva più che mai con le sue rapide e traumatiche maturazioni e tra violenze di vario significato: come nei secoli precedenti, come in quelli a venire; lasciando tuttavia come suo messaggio quello dell’imperativo della rivolta delle coscienze, ove la Nazione lo reclami (25).
NOTE:
(1) -Gaetano Falzone è nato a Palermo il 2 marzo 1912. Nel 1935 conseguì” la laurea in giurisprudenza; nel 1938 vinse il concorso per professore ordinario di filosofia e pedagogia ed insegnò tali materie presso gli istituti magistrali di Petralia Sottana e “G.B. De Cosmi” di Palermo; quindi passò all’insegnamento di storia e filosofia nel liceo “Garibaldi” di Palermo. Conseguita la libera docenza in storia del Risorgimento, si dedicò prima all’insegnamento universitario presso la facoltà di lettere e quella di magistero di Palermo e poi nella facoltà di giurisprudenza di Palermo. A ventiquattro anni partecipò da volontario alla guerra d’Etiopia, arruolato nel battaglione “Curtatone e Montanara”, e nella seconda guerra mondiale combatté da ufficiale in vari fronti. Durante il fascismo fu componente della Commissione nazionale dei Littoriali della cultura e dell’arte e segretario dell’Istituto coloniale di Palermo. Dopo la guerra, fu presidente del Comitato di Palermo della Consulta nazionale dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, componente del consiglio direttivo della Società Siciliana per la Storia Patria; socio di diverse accademie europee e, negli anni sessanta, direttore onorario del Museo etnografico “Giuseppe Pitré” di Palermo. collaborò attivamente con diverse riviste storiche e culturali nazionali, quali Nuova Antologia, Rassegna storica del Risorgimento, Archivio storico italiano, Il Risorgimento, Nuova rivista storica, Archivio storico siciliano, Archivio storico messinese, L’Osservatore politico-letterario e produsse una lunga serie di volumi dedicati soprattutto al Risorgimento e particolarmente al ruolo della Sicilia in quella stagione della Storia. Svolse anche una notevole attività di pubblicista dedicandosi soprattutto alla diffusione dei valori civili del Risorgimento, alla valorizzazione dei beni culturali della Sicilia ed all’amicizia tra i popoli del Mediterraneo e tra questi e quelli dei balcani e dell’Europa orientale. Collaborò per anni alla pagina culturale del Giornale di Sicilia; fondò e diresse la rivista di studi storici Il Risorgimento in Sicilia, Vie di Sicilia, Sicilia turistica, Vie mediterranee e La Rivolta. Morì a Palermo, dopo una lunga malattia che per anni fiaccò il suo temperamento dinamico, il 1¡ giugno 1984.
(2) Per altri articoli del genere, cfr. n. 2 del 21 febbraio 1965 e n. 7 del 28 marzo 1965.
(3) La Rivolta., n. 2 del 21 febbraio 1965.
(4) La Rivolta, n. 3 del 23 gennaio 1966.
(5) -Cfr. articolo di Giano Acame La commedia del Vaticano ne La Rivolta, n. 2 del 21 febbraio 1965.
(6) La Rivolta, 3 maggio 1967, n. 18: Castiglia P., Lacrime di coccodrillo.
(7) -Cfr. La Rivolta, 15 giugno 1966, n. 24: Il governo comunista di Kadar; 7 settembre 1966, n. 27: Il decennale della rivolta di Budapest; 12 ottobre 1966, n. 32: Sta per scoccare il decimo anniversario della legislazione di Budapest; 19 ottobre 1966, n. 33, Palmeri G., Il popolo ungherese volle la libertà; ivi, Il Padre Asztalos a Palermo; 2 novembre 1966, n. 35: Fierezza millenaria dell’Ungheria di Santo Stefano; ivi Tibor Tollas, Hanno chiuso le finestre con lastre di lamiera; 9 novembre 1966, n. 36: Nel nome di Tukory e dei caduti per la libertà ungherese; ivi, Gabriele Apor, Messaggio; ivi: Asztalos J., Messaggio. Nel n. 35 del 2 novembre 1996, si produceva la lettera di Pio XII del 5 novembre 1956 in cui il Papa, in occasione della rivolta in Ungheria, esprimeva tutta la sua amarezza perché “nelle città e nei villaggi dell’Ungheria scorre di nuovo il sangue generoso dei cittadini che anelano nel profondo dell’animo alla giusta libertà” e perché “le patrie istituzioni, non appena costituite sono state rovesciate e distrutte; i diritti umani sono stati violati ed al popolo sanguinante è stata imposta con armi straniere una nuova servitù”.
(8) -Cfr. per es.: La Rivolta 28 marzo 1965: Chi siamo e che cosa pensiamo; 9 novembre 1966, n. 36: Una vittoria senza cuori; 17 maggio 1967, n. 20: Scegli la Patria; 29 marzo 1967, n. 3: Redaelli A., Carducci oggi; 2 novembre 1968, n. 20: Una vittoria che oggi non è stata ancora del tutto vinta; 13 marzo 1966, n. 11: Falzone G., Fiume, Nitti e D’Annunzio.
(9) Ivi, 5 ottobre 1966, n. 31.
(10) Ivi,10 maggio 1967, n. 19.
(11) Ivi,17 maggio 1967, 20.
(12) Ivi,3 maggio 1967, n. 18.
(13) Ivi,18 aprile 1965, n. 10.
(14) Ivi,2 novembre 1966, n. 35.
(15) Ivi, Falzone G., Amore dei finlandesi per la Sicilia, 22 giungo 1966.
(16) -E’ del 1974 il saggio di M. Mc Luhan, Understanting Media. The extensions of the man cfr., anche Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, pagg. 383 e segg.
(17) Colarizi S., Storia del Novecento italiano, Milano 2000, pag. 385.
(18) Colarizi, cit. pag. 389.
(19) -Cfr., per es., Mosca O, La lira vale sempre meno, 7 marzo 1965, n. 4; Capr” G., Stato e Regione, 18 aprile 1965, n. 10; Mosca O., Imprenditori e sindacalisti, 11 aprile 1965, n. 9; Fierotti M., La lotta contro la povertà, 5 ottobre 1966, n. 31; Lucarini G., Lo Stato padrone, 17 maggio 1967, n. 20.
(20) La Rivolta, n. 10 del 6 marzo 1966.
(21) La Rivolta, n. 20 del 15 maggio 1966; Leto G., Attraverso la solidarietà antifascista ecc.
(22) La Rivolta, n. 37 del 21 novembre 1965.
(23) La Rivolta, 2 novembre 1968, n. 20.
(24) -Barendson M., La rivolta e la contestazione non risparmiano le Olimpiadi, 2 novembre 1968, n. 20.
(25) -Le firme comparse più frequentemente ne La Rivolta sono quelle di Giano Accame, noto ideologo di destra; Franz Aliqu˜; Maurizio Barendson, giornalista sportivo della RAI; Pietro Castiglia, già deputato ed assessore regionale per il Partito nazionale monarchico; David Hartington; Ignazio Calandrino scrittore; Giovanni Cardella, giornalista; Giovanni Capr”; Carlo De Leva, giornalista e scrittore; Michele Fierotti, esponente del Partito liberale italiano; Girolamo Leto; Giuseppe Mammina; Oreste Mosca; Luigi Maggiore; Ugo Manunta, già editorialista del Giornale di Sicilia; Luca Pietromarchi, già ambasciatore d’Italia a Mosca; Leonardo Kociemski; Nicol˜ Rodolico, storico del Risorgimento; Massimo Scaligero; Francesco Saia; Franco Tomasino, pubblicista nonché, infine, quella dell’autore di questo articolo. Il giornale era arricchito da incisive vignette e da esemplari caricature di siciliani dell’epoca disegnate da N. Rosselli, ossia “Cimabuco”. E’ facile supporre, inoltre, che la generalità degli editoriali, anche se non firmati, siano di Gaetano Falzone. A sua firma è contenuto, invece, nel giornale un certo numero di articoli di carattere storico, letterario o di geopolitica il cui elenco si trova nella bibliografia completa di G.F., a cura di Giuseppe Tricoli, in “Studi in memoria di Gaetano Falzone” edito dal Comitato di Palermo dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Palermo 1993.