Ho sempre pensato che la Settimana Rossa, svoltasi tra il 7 e il 14 giugno del 1914, pochi giorni prima dell’attentato di Sarajevo e poche settimane prima dello scoppio della I guerra mondiale, avesse rappresentato per Mussolini una tappa fondamentale nell’evoluzione del suo pensiero e nell’elaborazione della sua futura tattica politica.
A tale episodio, nel contesto degli avvenimenti immediatamente successivi che travolsero l’Italia e l’Europa, si tende ad attribuire un ruolo marginale nel quadro storico del momento, dimenticando che esso costituì l’ultima, la più lunga e la più violenta espressione del malcontento delle classi popolari, allora rappresentate in Parlamento dal solo partito socialista, contro l’ormai anacronistico e fatiscente apparato di uno stato borghese, destinato, da lì a poco, ad essere travolto dalle conseguenze degli avvenimenti bellici.
Lo sciopero generale, proclamato il 7 giugno del 1914, mise in evidenza agli occhi del socialista eretico Mussolini, direttore dell’Avanti!, giornalista di grandissimo successo e di notevole seguito, protagonista e trionfatore del recente Congresso di Ancona (1), i limiti insiti nella lotta di classe fin lì portata avanti dal suo partito. La classe proletaria, infatti, si presentava particolarmente disunita e disomogenea sia a livello di base che a livello dirigenziale. Se la base era profondamente divisa dagli interessi di categoria che portavano i metallurgici a scontrarsi con i ferrovieri, i tessili con i marittimi e in genere la classe operaia con quella contadina, il vertice era diviso fra il riformismo della CGL di Rigola, l’intransigentismo della USI, la tattica politica del gruppo parlamentare socialista, il massimalismo del direttore del’ Avanti! e dei socialisti non parlamentari, il personalismo e il protagonismo dei singoli.
La classe proletaria, insomma, portava nel suo seno interessi tanto diversi fra loro, se non spesso contrastanti, da non poter essere idonea a rendersi promotrice della rivoluzione sociale, nella prospettiva di una costruzione di un mondo nuovo, alla maniera soreliana e di un uomo nuovo, alla maniera nietzschiana.
Furono queste considerazioni, unite alla delusione datagli dal voto favorevole alla guerra espresso dai socialisti belgi, austriaci, francesi e tedeschi, che scardinava la logica dell’Internazionalismo operaio e dell’antimilitarismo ad oltranza, a portare il giovane Mussolini – di formazione anarchica ma anche mazziniana, marxista ma anche soreliana, bergsoniana ma anche nietzschiana, – a perdere ogni fiducia nel determinismo marxista, nel materialismo che vi stava alla base, nel suo dogmatismo e a spingerlo verso altri lidi che gli permettessero, senza rinnegare il suo marxismo di fondo, di trovare una nuova strada per ottenere, attraverso la massiccia partecipazione delle masse, quel mondo nuovo e quell’uomo nuovo che sarebbero state fondamentali nella sua spasmodica ricerca fino alle soglie della morte.
La crisi del marxismo e il ribellismo giovanile
La Settimana Rossa, scoppiata ad Ancona proprio il giorno della celebrazione dell’anniversario dello Statuto Albertino, a ridosso del Congresso socialista che vi si era svolto e che aveva visto, fra l’altro, il trionfo della pregiudiziale antimilitarista e antimassonica, frutto soprattutto dalla battaglia personale di Benito Mussolini, non nasce come manifestazione improvvisa del malcontento popolare, ma come logica conseguenza della maturazione di una delusione nata dopo la concessione del suffragio universale.
Quella che era sembrata la più grande concessione che la sinistra avesse potuto ottenere dopo anni di lotta, si era, alla fine, dimostrata quasi un inganno. Le elezioni del 1913, le prime a suffragio universale, seppure avevano permesso l’accesso alla Camera di un nutrito drappello socialista, avevano peraltro rafforzato, tramite il Patto Gentiloni tra cattolici e liberali e tramite l’impresa libica che aveva tonificato le forze nazionaliste, il fronte borghese – conservatore. Giolitti era stato sostituito dal moderato Salandra, rappresentante del mondo agrario meridionale, affiancato da un uomo come Sidney Sonnino, da sempre avversario dello statista di Dronero, mosso da una forte fede nello Stato autoritario, ma nello stesso tempo convinto riformista. Dunque, la risultante finale delle prime elezioni a suffragio universale era costituita fondamentalmente dalla formazione di un governo molto più conservatore di quelli precedenti la grande riforma elettorale. (2)
Il Congresso socialista di Reggio Emilia del 1913, che aveva visto come protagonista un vero peone, il poco più che ventenne Mussolini, reduce dalle carceri regie dopo gli eccessi commessi, insieme a Nenni, nel 1911 per sabotare la spedizione libica, aveva deliberato l’espulsione dei riformisti Bonomi, Bissolati e compagni, ma anche la netta virata a sinistra del partito che aveva finito per rompere i legami con la cosiddetta sinistra costituzionale, cioè con i radicali e con parte dei giolittiani, legami che gli avevano permesso, nel 1900, di portare avanti con successo la battaglia ostruzionistica contro le leggi liberticide di Pelloux. (3)
I socialisti avevano così deciso di isolarsi da tutte quelle forze che, se pur progressiste, miravamo al gradualismo riformistico perseguito attraverso la lotta parlamentare e sindacale. Avevano abiurato, cioè, ad ogni legame con la sinistra disposta a collaborare con le forze sane della borghesia allo scopo di riformare insieme l’assetto sociale. Si trattava, in fin dei conti, delle stesse polemiche che dividevano i socialisti francesi, Jaurès e Guesde, i socialisti tedeschi Bernstein e Kautsky e i russi Martov e Lenin. (4)
La seconda Internazionale aveva sancito, al di là della messa al bando del revisionismo bernsteiniano, il trionfo del riformismo e del parlamentarismo che trovavano i loro principali alfieri in uomini come Lassalle, Bebel, Kautskj, in Germania, e Jaurés in Francia. Si trattava di elaborazioni dottrinali del verbo marxista che, pur ripudiando il revisionismo come eresia, al revisionismo tutto sommato si ispiravano, mettendo da parte il momento rivoluzionario e optando per un programma minimo gradualista basato sulla lotta politico-parlamentare e sindacale. Si trattava, insomma, di un sofisma; da un lato infatti, si bandiva il teorema di Bernstein il quale negava la necessità della rivoluzione, dall’altro, pur accettando tutti i dogmi marxisti, dalla legge bronzea dei salari, alla lotta di classe, all’ineluttabilità della rivoluzione e all’annullamento dello stato borghese, si attendeva fatalmente il giorno in cui il proletariato sarebbe stato pronto all’atteso scontro finale, accontentandosi, per il momento, di una battaglia combattuta all’interno dello stesso stato borghese con un programma che, di fatto, per nulla si scostava da quello revisionista. Jaurès, infatti, riconosceva il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato, rinnegando implicitamente il dogma marxista dell’immiserimento progressivo, ma rifiutava categoricamente di essere considerato discepolo di Bernstein:
vivranno tra gli uomini uguali e riconciliati, solo in una vasta emulazione di lavoro e di giustizia”.(5)
La lotta politica e parlamentare metteva sul tappeto lo scottante problema della collaborazione dei socialisti con gli altri partiti borghesi. Tale problema acquistò notevole pregnanza quando in Francia scoppiò il caso Millerand, cioè la partecipazione di un socialista ad un governo borghese. Il problema fu discusso al Congresso socialista di Parigi del 1900 dove sull’argomento, ampiamente dibattuto, prevalse la risoluzione di Kaustskj su quella di Guesde.
Il riformista tedesco si pronunziava su due problemi distinti: alleanze tra socialisti e partiti borghesi e partecipazione di ministri socialisti a governi borghesi. Nel primo caso Kautskj ammetteva la collaborazione politica solo in casi eccezionali, per esempio per la difesa delle libertà fondamentali dei cittadini, come era avvenuto in Italia nel 1898, o per la difesa dei diritti politici come era avvenuto in Francia, in Belgio ed in Austria:
” Il Congresso ricorda che la lotta di classe vieta ogni sorta di alleanza con una frazione qualsiasi della classe capitalista. Anche ammesso che circostanze eccezionali rendano necessaria in qualche caso coalizioni (…) queste coalizioni possono essere tollerate solo in quanto la loro necessità sarà stata riconosciuta dall’organizzazione regionale o nazionale cui appartengono i gruppi interessati”. (6)
Sulla seconda questione la risoluzione Kaustskj così si pronunziava:
” .. L’ingresso di un socialista isolato in un governo borghese non può essere considerato come l’inizio normale della conquista del potere politico, ma soltanto come espediente forzato, transitorio ed eccezionale. Se in caso particolare la situazione politica necessita questa esperienza pericolosa è una questione di tattica e non di principio: il Congresso internazionale non ha da pronunziarsi su questo punto”. A tale risoluzione Jaurès aggiunse il seguente emendamento: ” In ogni caso il Congresso ritiene che anche in questi casi estremi un socialista deve abbandonare il ministero quando il partito riconosca che questo dà prove evidenti di parzialità nella lotta tra capitale e lavoro” (7)
Jaurès quasi anticipava quella che sarebbe stata la tattica stalinista nel periodo dei fronti popolari degli anni trenta: identificare, cioè, il nemico comune e nel comune bersaglio da combattere superare la divisione imposta dalla dottrina marxista tra rappresentanti di classi diverse. In quel momento il socialismo parlamentare e riformista identificava il nemico comune agli altri schieramenti progressisti, anche fedeli alla logica del capitale, nella reazione, nel militarismo, nell’antisemitismo:
” (..) quando la libertà repubblicana è in gioco, quando la libertà di coscienza è minacciata, quando i vecchi pregiudizi che risuscitano orgoglio di razza e le atroci diatribe dei secoli passati sembrano rinascere, è dovere del proletariato socialista marciare con quella tra le fazioni borghesi che non vuole tornare indietro.. E’ Marx stesso che ha scritto queste parole di ammirevole chiarezza: ” Noi socialisti rivoluzionari siamo col proletariato contro la borghesia con la borghesia contro i feudali e i preti”. (8)
Appare chiaro che dietro il paravento della tattica, il principio marxista andava a farsi benedire giustificando, così, la famosa frase di Giolitti secondo cui Marx era stato mandato in soffitta. Ciò veniva pienamente compreso dai massimalisti come Guesde o Liebknecht i quali si rendevano conto dei rischi che tali operazioni tattiche potevano comportare, soprattutto dal punto di vista dell’immagine del partito nei confronti delle masse proletarie, visto che il principio della lotta di classe risultava incompatibile con qualsivoglia alleanza tra il mondo del capitale e quello del lavoro:
” Figuratevi questa partecipazione socialista, questo socialista entrato in un governo borghese, – sosteneva Guesde – e che ha la responsabilità non solo della politica interna borghese, ma anche della politica estera capitalista, obbligato a depositare richieste di crediti militari, marittimi coloniali.. E’ la distruzione dell’Internazionale che state preparando, con un Millerand prussiano, con un Millerand italiano, con un Millerand francese, con un Millerand inglese, non c’è più Internazionale operaia possibile” (9)
Guesde arrivava a condannare anche l’avallo dato dai socialisti a Dreyfus, poiché si trattava, ancora una volta, di un sostegno dato dal proletariato ad un rappresentante della borghesia vittima di un ingiustizia. Giammai, invece, la borghesia sarebbe intervenuta in difesa del proletariato vittima perenne delle ingiustizie della società capitalista. (10) Evidenziava, inoltre, come i socialisti tendessero a smarrirsi all’interno di sterili polemiche borghesi, perdendo di vista i problemi veri del proletariato; se qualsiasi tipo di collaborazione, anche quella ideologica o culturale, era ritenuta inquinante, tanto più era da considerarsi eretica una collaborazione socialista ad un governo borghese. Guesde riteneva, perciò, Millerand ostaggio del governo Waldek Rousseau per disonorare l’opposizione socialista, così come in Italia si riteneva disonorevole la convocazione di Bissolati da parte di Giolitti, o la tacita accondiscendenza alla politica giolittiana di Turati, chiamato ormai, sprezzantemente dai massimalisti, il poliziotto del regime.
D’altra parte i massimalisti consideravano pietosi paraventi, dietro cui i compagni riformisti nascondevano una netta scelta borghese, le argomentazioni da loro sostenute in relazione ai pericoli della reazione, addirittura di un ritorno indietro alle antiche istituzioni feudali, al trionfo del clericalismo. Esistevano ormai dei principi ben radicati in tutti gli strati della popolazione, per cui certe conquiste di libertà apparivano veramente indiscutibili. I massimalisti, tuttavia, non tenevano conto del fatto che un’alleanza tra il socialismo riformista e le fazioni borghesi più progressiste, avrebbe potuto salvare la società dalle aberrazioni a cui il darwinismo e il positivismo l’avevano portato, sfociando nell’irrazionalismo, che avrebbe dato l’imput a ben due guerre mondiali e alla crisi dei regimi democratici.
Socialismo o imperialismo: questa alternativa, come sosteneva Rosa Luxemburg, abbracciava ed esauriva l’orientamento politico dei partiti operai nell’ultimo decennio del secolo diciannovesimo. (11)
Il socialismo riformista, tuttavia, attraversava il suo momento di maggiore floridezza in tutta Europa, in Italia, in Belgio, in Austria, ma soprattutto in Germania e in Francia. In questi paesi la dialettica politica era particolarmente vivace, non soltanto per la loro robusta tradizione culturale, ma anche perché si trattava di due stati che alla fine degli anni ’80 avevano raggiunto la floridezza economica e lo sviluppo industriale della vicina Inghilterra. Lì il movimento operaio non aveva mai avuto connotati rivoluzionari, ma sempre gradualisti identificandosi nel sindacato delle Trade Union, che per molto tempo mantenne una posizione di priorità e di guida rispetto al Labour Party che sarebbe nato alcuni decenni dopo. Il socialismo inglese si chiamò dunque fabiano, da Fabio Massimo il Temporeggiatore, poiché l’aristocrazia proletaria degli operai specializzati era alla guida del movimento e riteneva un dato di fatto inconfutabile che lo sviluppo del capitale, seppure avesse sproporzionatamente arricchito i suoi detentori, aveva altresì determinato inimmaginabili passi avanti nel tenore di vita della classe operaia.
In Germania si era verificato lo stesso fenomeno, dal quale era poi sgorgata la dottrina eretica di Bernstein, ma Lassale e Kautskj, pur defilandosi da quell’eresia, avevano portato avanti una politica parallela alle teorie revisioniste, trovando sulla loro strada un’opposizione marginale che si concretizzava soprattutto nell’azione di due personaggi, che avrebbero avuto un notevole rilievo nella storia futura del Paese: Rosa Luxemburg e Liebknecht.
In Francia era ancora più vivace la polemica tra una destra rappresentata da Jaurès e Millerand e da una sinistra facente capo a Guesde, Lagardelle, Sorel, Berth. In quel Paese il successo del socialismo riformista trovava, probabilmente, fondamento anche nella tradizione di quel socialismo utopistico che era nato sul principio della mediazione e della collaborazione fra le classi. Benoit Malon era stato il precursore del riformismo francese con il suo Socialisme integral del 1890, con cui si staccava dalle tesi possibiliste di Brousse, formulate agli inizi degli anni ottanta e si imponeva di svolgere un ruolo unificatore tra le varie correnti del socialismo francese, avanzando un programma di riforma dello stato da realizzare gradualmente per mezzo della lotta elettorale e parlamentare. (12)
Accanto alla socializzazione della rendita, dei trasporti pubblici, delle fabbriche di prodotti indispensabili alla vita come, per esempio, i mulini, gli zuccherifici, gli oleifici, Malon proponeva il mantenimento della proprietà privata per i beni strettamente personali, lasciando, tuttavia, larghi margini di discrezionalità alla determinazione di tali beni. Risultava molto più chiaro il siciliano La Loggia, a tale proposito, facendo una netta distinzione tra beni di lusso e beni di necessità. (13)
Millerand svolgendo un’opera di mediazione che annullava gradualmente i confini tra capitale e lavoro, rinnegava l’ottica rivoluzionaria sostenendo che non da una minoranza in rivolta, ma dalla maggioranza cosciente si sarebbero potute ottenere le trasformazioni sociali.
Tale tipo di socialismo cosi conciliante e addomesticato non soddisfaceva, tuttavia, le nuove generazioni, spinte dal ribellismo proprio del novecento verso traguardi più ambiziosi e sconvolgenti. Sia i giovani che le masse operaie meno evolute, economicamente e culturalmente si sentivano traditi da un socialismo che andava a braccetto con i suoi nemici storici e che invitava ripetutamente la massa alla pazienza e alla moderazione.
Il dibattito ideologico all’interno del movimento socialista italiano.
Per andare incontro alle esigenze, sia delle masse deluse, sia delle nuove generazioni insoddisfatte, Antonio Labriola, massimo interprete italiano della dottrina marxista, cercò di elaborare un programma socialista che tenesse conto e degli interessi economici del proletariato e degli slanci ideali della gioventù intellettuale. Egli combatté strenuamente il gradualismo portato avanti in Italia da uomini come Turati, Bissolati, Treves e Bonomi e l’eresia revisionista, cercando di diffondere capillarmente il verbo marxista con una nuova interpretazione del Capitale. (14) Secondo Croce, egli contrapponeva alla visione materialista del marxismo una visione più idealista, una sua interpretazione nazionale, in funzione conservatrice (15). Rendendosi conto della crisi che attraversava il pensiero marxista, Antonio Labriola si imponeva di rievangelizzare i socialisti italiani, convinto com’era che in Italia si parlasse di revisionismo senza, in effetti, conoscere Marx:
” Io non sono il paladino di Marx – scriveva – ammetto tutte le critiche, sono io stesso in tutto ciò che dico un critico, non smentisco la sentenza:comprendere è superare, ma mi conviene pure d’aggiungere superare è aver compreso” (16)
La vulgata marxista diffusa dal Labriola svolse un ruolo fondamentale nell’educazione delle giovani generazioni, e lo stesso Mussolini conobbe Marx attraverso i suoi scritti, intravedendo in essi un’originale reinterpretazione del pensiero marxista in cui veniva rigettato ogni teleologismo volontaristico:
” (…) L’avvento della produzione comunistica – scriveva Labriola – è dato (nel materialismo storico) non come postulato di critica, né come meta di una volontaria elezione, ma come il risultato dell’immanente processo della storia. Qui trattasi di riconoscere o di non riconoscere, nel corso presente delle cose umane, una necessità la quale trascende ogni nostra simpatia e ogni nostro subiettivo assentimento. ( Il materialismo storico). La coscienza teorica del socialismo sta oggi come prima e come sempre nell’intelligenza della sua necessità storica (..) ” (17)
Dall’assunto di Marx si deduce la fatalità della rivoluzione sociale e dell’avvento della società comunista, indipendentemente dai socialisti e dalla loro volontà. Ciò comporterebbe la passività del proletariato, l’uomo – avrebbe dedotto Mussolini –
” (…) come essere volitivo è relegato all’arriére – plan (…)
e tutto ciò non poteva essere accettato da chi era stato educato alla luce degli scritti di Mazzini e De Amicis, da chi non poteva sottrarsi al fascino dell’idealismo di Hegel, al culto dell’io assoluto di Stirner e del superuomo di Nietzsche. Già da giovanissimo insegnante elementare a Pieve di Saliceto, frazione del comune di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, aveva dato prova di respingere il positivismo e il materialismo storico in un articolo pubblicato sulla rivista I diritti della scuola, in cui lamentava i metodi d’insegnamento ispirati ad un arcadico semplicismo ed alieni da un substrato di alte idealità che egli considerava la causa prima per la quale uscivano dalla scuola giovani demotivati, caratterizzati dall’ignavia dell’anima.. Auspicava, perciò, un insegnamento che conculcasse nei discenti il senso della cooperazione, della solidarietà e della fratellanza. Secondo il Tricoli proprio questi principi avrebbero, in seguito, ispirato la riforma scolastica Gentile. (18)
Perciò Mussolini accetta e abbraccia l’interpretazione più lata, quasi un’interpretazione revisionista, che Labriola dà degli scritti di Marx, inserendo nel materialismo storico quell’aspetto etico che Engels respingeva, ma che diventa indispensabile per l’hommme qui cherche e che nella sua ricerca si fonda essenzialmente sull’ideale e non sull’ideologia e tanto meno sulla mera economia:
” (..) ognuno è l’artefice del proprio destino – concludeva Mussolini – Ora non basta che il socialismo sia, come afferma Labriola ‘storicamente condizionato’, ma bisogna dimostrare che il suo trionfo rappresenta il trionfo delle idee di Bene e di Giustizia. Entra in scena la Morale: la valutazione etica del fenomeno (..) Il fattore economico da subordinante diventa subordinato. Passa in seconda linea. Il socialismo non è più una necessità economica, ma una necessità trascendente, metafisica: è la necessaria realizzazione dell’Idea. Il socialismo non è più solo il prodotto del gioco e del travaglio delle forze economiche, ma anche e prevalentemente il risultato di un atto di volontà (..) ” (19)
Egli è dunque un volontarista che nel concetto di azione volontaria supera il determinismo marxista e l’evoluzionismo fatalista dei riformisti. (20) Supera il primo perché respinge il concetto per cui non possa essere la volontà a determinare il momento rivoluzionario dell’evoluzione; si scaglia contro il secondo perché vede in esso una degenerazione borghese dell’ideologia socialista. Il riformismo infatti, finisce per creare, tramite il sindacato, una aristocrazia operaia, che lotta per il mantenimento dei propri privilegi sociali ed economici, disinteressandosi di quelli che Lenin chiama gli interessi fondamentali a tutta la classe operaia. La sua critica al riformismo socialista risale al periodo svizzero, tra il 1902 e il 1904 ed è documentata dai suoi primi articoli sull’Avvenire del Lavoratore di Como e sulla Giustizia di Reggio Emilia.
Non concepisce il socialismo come mero materialismo positivista, poiché ritiene che solo staccandosi dagli interessi materiali e dalla lotta economica quotidiana esso potrà diventare universale. Crede, conformemente all’insegnamento di Schopenhauer- che il mondo è volontà e rappresentazione, crede, dunque, in un socialismo idealista, poiché l’idea comune può essere elemento di unità che trascende le differenze di categoria:
L’unione per se stessa non fa la forza. E’ tempo di rivedere questo cliché di toglierlo dalla circolazione. L’unione diventa la forza, quando l’unione è cosciente. Altrimenti no. L’operaio semplicemente organizzato è divenuto un piccolo borghese che non obbedisce che alla voce degli interessi” (..) (21)
Il socialismo è per lui non una formula, ma il mezzo per l’elevazione del popolo, per la creazione di una società più giusta: il filo rosso di una prassi, (…) non legata, appunto, a dogmi, ma al movimento reale della storia, secondo l’insegnamento vichiano. (22)
La rilevanza che Mussolini dà al concetto di Idea, coincide non solo con l’interpretazione del materialismo storico elaborata da Labriola, ma è anche una delle tante peculiarità del pensiero marxista italiano; esso, infatti, aveva una matrice umanistica, più che materialista, con il conseguente prevalere dell’elaborazione filosofica su quella strettamente economica. (23)
Labriola favorì, peraltro, la ricerca di una via italiana al marxismo, resa necessaria, secondo Santarelli, anche dalla particolare struttura della società italiana, rispetto alle società europee più industrializzate. La società italiana era una società quasi uniformemente contadina, con l’eccezione del triangolo industriale Milano – Torino – Genova e di qualche altra realtà marginale in altre parti d’Italia. Si doveva, dunque, adattare il verbo marxista, rivolto esclusivamente al proletariato industriale, ad una struttura sociale rurale ed arcaica, più evoluta nella valle padana e nella campagne toscane, ma molto arretrata nel centro sud del Paese. Non per niente i più grandi teorici del marxismo italiano furono dei meridionali come Labriola, Cafiero, Gramsci, i quali per l’ambiente in cui erano nati e vissuti, non potevano non essere influenzati dal problema contadino. (24)
Un’altra caratteristica del movimento socialista italiano era data dal fatto che esso era nato borghese, cioè l’influenza su di esso della piccola e media borghesia intellettuale era stata determinante:
” Tracce evidenti di questo fenomeno – scrive Santarelli – si riscontrano, in modo particolarmente marcato, ma non perciò meno sintomatico, nel sindacalismo rivoluzionario, nelle sue inflessioni e degenerazioni nazionaliste, nel suo incontro col nazionalismo imperialista, nella elaborazione di un socialismo nazionale durante il periodo della guerra libica e della I guerra mondiale” (25)
Oltre ad un’arretratezza economica rilevante, ad una stratificazione sociale diversa che negli altri paesi europei, con prevalenza assoluta della componente contadina, esistevano in Italia delle questioni particolari, estranee ai paesi più industrializzati, come la questione meridionale e il problema dell’emigrazione, che proprio all’inizio del secolo, raggiungeva proporzioni inimmaginabili. Per questo i socialisti italiani si divisero anche sul problema coloniale, poiché alcuni di essi vedevano nella conquista della Libia una possibile soluzione ai problemi che tormentavano il Meridione, primo fra tutti, appunto, l’emigrazione, per cui Antonio Labriola finiva per appoggiare il colonialismo che costituiva, peraltro, l’antitesi dell’ortodossia marxista:
“Gli Stati d’Europa.. sono in continuo e complicato divenire, in ciò che ambiscono, conquistano, assoggettano e sfruttano in tutto il resto del mondo. L’Italia non può sottrarsi a questo svolgimento degli stati che porta con sé uno svolgimento dei popoli. Se lo facesse e potesse farlo, in realtà si sottrarrebbe alla circolazione universale della vita moderna e rimarrebbe arretrata in Europa. Il movimento espansionista delle nazioni ha le sue ragioni profonde nella concorrenza economica” (26) Antonio Labriola aveva perfettamente compreso i caratteri e le radici dell’imperialismo, ma li aveva certamente elaborati non in senso socialista.
Paradossalmente dava al fenomeno un’interpretazione più marcatamente marxista Olindo Malagodi quando sosteneva che:
” (…) l’oligarchia politica ed economica all’interno diventa imperialismo all’estero.” (27)
Anche in Italia la causa principale della crisi del marxismo fu data dalla diffusione delle teorie revisioniste di Bernstein che, non solo minarono le certezze nei dogmi marxiani, ma che finirono per accentuare, pur se respinte dal socialismo ufficiale, una sempre più marcata adesione al riformismo e al parlamentarismo che avrebbe portato il partito ad una collaborazione tacita ed indiretta con la politica giolittiana. Turati, leader e fondatore del Partito socialista dei lavoratori italiani, aderì senz’altro alla teoria del pensatore tedesco, pur ribattezzando la sua personale interpretazione del marxismo come riformismo e non come revisionismo, per rimanere, almeno formalmente, nell’ambito dell’ortodossia marxista. Egli accettava Bernstein in modo tattico ed empiristico, senza per questo contestare i postulati marxisti:
” (…) Il partito socialista – scriveva – è e vuole essere un partito essenzialmente critico e sperimentale e, per determinarne la condotta… infatti, l’insegnamento dei fatti ha più valore di qualsiasi teoria architettata a priori. E’ in questo senso unicamente che deve intendersi il motto bernsteiniano: nel socialismo il moto è tutto (..). Alle origini del partito, fummo tutti più o meno intransigenti, perché si trattava di affermarsi e di differenziarsi, poi fatte le ossa, quando si trattò di agire, si è dovuto mutare atteggiamento, perché l’azione, si voglia o no, è sempre transazione..” (28)
Una filosofia della prassi questa, che si avvicina molto al pensiero dell’eretico Mussolini, l’homme qui cherche,- nonostante egli si dichiarasse acerrimo nemico e del revisionismo e dei revisionisti – alla perenne ricerca di una sintesi dottrinale che potesse effettivamente applicarsi alla realtà italiana senza cadere nell’utopia. (29)
Turati, in effetti, sarebbe stato portato alla transazione, per l’esperienza che gli era derivata dall’esperimento di collaborazione parlamentare, effettuato con la sinistra borghese durante la crisi di fine secolo, in difesa dei fondamentali diritti di libertà dei cittadini, ai quali Di Rudinì e Pelloux, con una politica fondata sui decreti legge, avevano tentato di derogare. (30) Secondo Michels, agli inizi del secolo si combattevano, in Italia, due revisionismi; il revisionismo riformista di Turati, rivolto a destra, e il revisionismo rivoluzionario di Merlino e dei discepoli di Sorel, rivolto a sinistra. (31)
Il fatto che il saggio sul revisionismo di Bernstein sia datato 1898 e che il partito socialista dei Lavoratori Italiani fosse nato solo sei anni prima, incise notevolmente sul dibattito politico del tempo. (32) I socialisti italiani, dunque, parteciparono attivamente al dibattito internazionale, il Bernstein debatte, che si sviluppò sulle tesi revisioniste. Ma in un Paese che aveva conosciuto solo da poco la rivoluzione industriale, che si era invece diffusa nel primo trentennio dell’Ottocento negli altri stati del centro Europa, il revisionismo di destra non avrebbe potuto conseguire largo seguito; infatti il maggiore interprete di Bernstein non fu un socialista, ma fu un liberale come Croce, anche se negli anni del diffondersi del revisionismo, egli era ancora molto vicino al pensiero marxista. (33) Per tali motivi in Italia ebbe più successo il sindacalismo rivoluzionario di Sorel che il revisionismo di Bernstein, se quest’ultimo affermava che il fine è nulla, il movimento è tutto, il primo viceversa sosteneva che la violenza è tutto, la rivoluzione è nulla; e che
” (…) La forza ha per iscopo di imporre l’organizzazione di un ordine sociale, in cui governi una minoranza: laddove la violenza mira alla distruzione di quell’ordine”
Da tale insegnamento soreliano, Mussolini deduceva una sua personale teoria sulla differenza tra forza e violenza:
” (…) La forza è l’espressione dell’autorità, la violenza della rivolta. La prima è del mondo borghese, l’ultima dell’organizzazione proletaria. La violenza si riassume nello sciopero generale che, come la guerra di libertà, è ‘la manifestazione più spiccata delle forze individuali delle masse ribelli.’ Dall’esercizio della violenza proletaria sgorga quella che il Sorel chiama morale dei produttori, la nuova morale che dà vita rigogliosa ad uno stato di spirito riboccante di epicità e tiene tese tutte le energie dell’anima, per realizzare le condizioni in cui possa fondarsi l’opificio degli uomini liberi e ardenti ricercatori del meglio.. Alla violenza il socialismo deve gli alti valori morali coi quali porge la salvezza al mondo moderno” (34)
In una società di sfruttati, fra una gioventù insoddisfatta ed educata sulla base di principi umanistici che cozzavano con il positivismo dilagante e che contestava il determinismo, dunque, il rinnovamento marxista su una base rivoluzionaria, trovava più adepti delle teorie revisioniste di Bernstein.
L’errore dei riformisti fu – come sottolineò magistralmente Croce – quello di rimanere irrimediabilmente e inamovibilmente legati all’ortodossia marxista fondata su una base positivistica che la gioventù novecentista aveva già abbandonato da tempo, sicché
” (..) continuavano per loro conto a ripetere trivialità positivistiche e sfogavano il malumore dell’ignoranza contro l’idealismo, che non sapevano cosa fosse, e confondevano con l’irrazionalismo, e curiosamente accusavano ora di reazionario, ora di rivoluzionario (..). (35)
La diffusione del pensiero di Sorel in Italia e la nascita del sindacalismo rivoluzionario
Indubbiamente la diffusione in Italia del pensiero di Sorel accentuò la crisi del movimento socialista e determinò le condizioni perché esso fungesse da ponte nel passaggio dal socialismo al fascismo.
La dottrina soreliana trae la sua origine dal movimento sindacale – anarchico fondato in Francia da Fernand Peloutier con la creazione delle Bourses de travail , organizzazioni sindacali con le quali ci si prefiggeva di distinguere il movimento operaio, che avrebbe dovuto avere necessariamente un contenuto rivoluzionario, dal movimento socialista politico – parlamentare. (36) Tale posizione, tuttavia, era stata già precedentemente sostenuta da Pouget, fondatore dei primi sindacati francesi nel 1879. Egli rivendicava l’autonomia del sindacato, al contrario di Guesde che, alla maniera marxista riteneva il sindacato una cinghia di trasmissione del partito. Pouget fu anche il teorico del boicottaggio, particolare forma di sciopero non violenta che rendeva la passività di coloro che usufruivano di un determinato servizio, alla base della controversia, strumento di pressione sull’opinione pubblica oltre che sulla controparte padronale.
Se Pouget teorizzava azioni di protesta basate sulla tattica della non violenza, che presupponevano, tuttavia, l’esistenza di un sindacato o, comunque, di un’organizzazione operaia, il suo connazionale Monatte, contestando e sfiduciando anch’egli il socialismo parlamentare, si poneva come il teorico dell’azione diretta dei lavoratori che, forti del loro numero, non avrebbero avuto bisogno per sostenere i loro interessi, della mediazione dei loro rappresentanti parlamentari:
” … E’ con lo sciopero che la massa operaia entra nella lotta di classe e si familiarizza con le reazioni che ne scaturiscono; è con lo sciopero che compie la sua educazione rivoluzionaria, che misura la propria forza a quella del suo nemico, il capitalismo, che prende fiducia, che impara l’audacia.” (37)
Che il sindacalismo rivoluzionario nasca come reazione emotiva e spesso irrazionale al concretismo del socialismo riformista è fuor di dubbio e la conferma ci viene da uno dei suoi precursori, anch’egli un francese, Hubert Lagardelle, il quale si spinge oltre Monatte rivendicando la necessità, ancor prima di Sorel, dello sciopero generale e gratificando il socialismo riformista con l’epiteto di cretinismo parlamentare, definizione questa, in futuro ampiamente sfruttata da Mussolini. Secondo Lagardelle il parlamentarismo aveva finito per posporre lo strumento dell’azione diretta del proletariato alla necessità della penetrazione politica nei corpi legislativi, esaurendo in ciò tutta l’azione politica e rivoluzionaria delle masse. (38) Secondo l’ortodossia marxista – sosteneva Lagardelle – l’essenza del socialismo stava proprio nella lotta di classe:
“Il ricorso allo sciopero generale, cioè la leva in massa delle forze operaie, sia in vista di un vantaggio limitato, sia soprattutto in vista della rivolta finale, è il miglior mezzo di educazione e lo stimolo più sicuro all’organizzazione a disposizione del proletariato rivoluzionario (…) Dire che lo sciopero generale è un’utopia equivale a dire che il socialismo è irrealizzabile” (39)
E ancora:
(..) Il sindacalismo (…) è un socialismo operaio. Per la sua concezione di lotta di classe esso si oppone al corporativismo, di cui il tradunionismo inglese è il prototipo; per la preponderanza che dà alle istituzioni proletarie, si separa dal socialismo parlamentare; per la sua preoccupazione per le creazioni positive e il suo disprezzo per l’ideologia si differenzia dall’anarchismo tradizionale” (40) E’ appunto in Lagardelle che troviamo quella influenza delle idee niciane sul superuomo che saranno evidenti in Sorel, ma soprattutto nei sindacalisti rivoluzionari italiani e poi in Mussolini che qualche anno dopo avrebbe scritto:
“Tutto è nuovo dunque nel sindacalismo: idee e organizzazione. E’ il movimento ardito di una classe giovane e conquistatrice, che trae tutto da se stesso, che si afferma mediante creazioni inedite, e arreca al mondo, come dice Nietzsche, una trasvalutazione dei valori”. (..) I socialisti tendono ad una legislazione sociale che mitighi l’asprezza del dualismo capitalistico – proletario, i sindacalisti danno scarsa o nessuna importanza alla legislazione sociale quando non sia conquistata coll’azione diretta. L’etica socialista si muove in gran parte nell’orbita cristiana, anzi con un’aggiunta di utilitarismo positivista; la morale sindacalista – quale almeno va disegnandosi – tende alla creazione di nuovi caratteri, di nuovi valori, di homines novi. Il socialismo per amore del determinismo economico, aveva sottoposto l’uomo a delle leggi imperscrutabili che si possono malamente conoscere e si debbono subire; il sindacalismo ripone nella storia la volontà fattiva dell’uomo determinato e determinante a sua volta, dell’uomo che può lasciare l’impronta della sua forza modificatrice sulle cose o sulle istituzioni che lo circondano, dell’uomo che può ‘volere’ in una direzione data: il sindacalismo non rifiuta ‘la necessità economica’, ma vi aggiunge la ‘coscienza etica’ (41)
Sorel si pone anch’egli in contestazione al positivismo e all’estrema intellettualizzazione della vita, elaborata già da Saint-Simon con la sua teoria tecnocratica che sanciva la superiorità degli intellettuali all’interno della società. Appunto su tali principi la classe borghese aveva, fino a quel momento, poggiato le sue pretese di comando, basandosi perciò sull’indottrinamento delle giovani leve. Fin quando l’operaio avesse accettato tale principio – secondo Sorel – esso avrebbe acconsentito a farsi guidare dal cosiddetto proletariato intellettuale, costituito in effetti da borghesi infiltratisi nelle fila del socialismo per modellarlo secondo gli interessi della loro classe. Fin quando il proletariato avesse accettato di farsi dirigere da gente estranea alla corporazione produttiva, sarebbe rimasto incapace di governarsi e lo sfruttamento dei lavoratori sarebbe continuato ad oltranza. Per cui il proletariato per liberarsi dalle catene della schiavitù capitalista, avrebbe dovuto emanciparsi da ogni guida non espressa dal suo interno, avrebbe dovuto, cioè, restare esclusivamente operaio, ossia escludere gli intellettuali la cui presenza sarebbe sempre stata mirata a restaurare le gerarchie sociali e a dividere la categoria dei lavoratori:
“Lo sviluppo del proletariato – scrive Sorel – comporta l’affermarsi di una potente disciplina morale nei suoi membri… per riassumere tutto il mio pensiero in una formula, dirò che tutto l’avvenire del socialismo risiede nello sviluppo autonomo dei sindacati operai” (42)
Nelle sue Reflexions su la violence del 1908, Sorel mette in evidenza la differenza di strategia tra sindacalismo rivoluzionario e socialismo parlamentare. Il primo crede nello sciopero generale, considera ogni azione finalizzata a questo obiettivo, in ogni sciopero vede un’imitazione ridotta, una preparazione del grande rivolgimento finale. I socialisti parlamentari rigettano lo sciopero generale
“… essi hanno bisogno di operai elettori assai ingenui che si lascino ingannare da frasi altisonanti sul collettivismo futuro; e di apparire profondi filosofi agli stupidi borghesi che vogliono sembrare dotti in questioni sociali… Essi detestano lo sciopero generale perché ogni propaganda fatta su questo terreno, è troppo socialista per piacere ai filantropi” (43)
La distinzione del proletariato dalla classe borghese, trovava la sua ragion d’essere nella necessità di evitare che il mondo del lavoro venisse corrotto dal mondo del capitale, che i lavoratori cioè, vinti dal miraggio del benessere, si imborghesissero venendo meno alla loro missione sociale come classe:
” (..) Avendo la democrazia per proprio scopo la scomparsa dei sentimenti di classe e la mescolanza di tutti i cittadini in una società che racchiuderebbe in sé forze capaci di spingere ciascun individuo intelligente in un rango superiore a quello che egli occupava per nascita, essa avrebbe partita vinta ove i lavoratori più energici avessero per ideale di somigliare ai borghesi” (44) Per scongiurare tale pericolo era impensabile perseverare nella lotta di classe e ciò distingue soprattutto Sorel da Marx; se per quest’ultimo la lotta di classe è qualche cosa di fatalmente connaturato nella dinamica sociale, per Sorel essa deriva da una scelta volontaria a cui il popolo deve, perciò, essere educato. Esso, infatti, può scegliere tra una vita tranquilla e senza scosse, accontentandosi di quello che può ottenere dalla classe borghese detentrice del potere politico e del potere economico, e una esistenza fatta di lotte continue per strappare alla borghesia la direzione dello stato e dell’economia. La lotta di classe diventa per Sorel una esigenza inderogabile per strappare il proletariato dal fascino del riformismo che apporterebbe, di conseguenza, la degenerazione del movimento operaio e la definitiva schiavizzazione delle masse da parte della società borghese e capitalista.
Lo strumento che le masse hanno per sottrarsi al dominio borghese è quello della violenza, violenza che è per il pensatore francese un elemento naturale della vita che si presenta come una perenne lotta, poiché la società stessa è in costante stato di guerra. E’ chiara la derivazione darwinista, ma anche hegeliana e marxista di una tale teoria..
La violenza, per Sorel, oltre ad essere un dato di fatto del divenire sociale, acquista una valenza di carattere etico, diventa, cioè, un elemento indispensabile contro la corruzione. Essa rende impossibile ogni forma di compromesso o di opportunismo, riportando l’uomo alla verità e alla purezza primitive. L’isolamento che Sorel richiama per la classe operaia e il rifiuto del compromesso, avvicinano le sue teorie a quelle dei primi cristiani; anch’essi, infatti, rafforzavano la loro rilevanza sociale e la loro fermezza morale isolandosi per non contaminarsi con il materialismo pagano e anch’essi praticavano il rifiuto del compromesso a vantaggio dell’interesse personale, per affermare la priorità assoluta del trionfo della fede.
La violenza per Sorel ha, dunque, una funzione educatrice e catartica, essa è diretta soprattutto contro lo stato borghese, contro le istituzioni tiranniche e schiavistiche che opprimono il proletariato e in questa visione antistatale si percepisce l’influenza esercitata sul pensatore francese dalle dottrine anarchiche.
Ma la violenza ha anche la funzione di rendere la massa cosciente della propria forza della propria potenza fondata sul numero, ma anche sulla fede individuale e collettiva, essa dunque rende la massa pericolosa, ma rende nello stesso tempo il singolo audace. Ecco che si affacciano in queste interpretazioni della violenza quelle assonanze a Nietzsche che determineranno un progressivo avvicinamento nel futuro tra la destra nazionalista e la sinistra sindacalista rivoluzionaria. In ambedue i casi sarà il culto della violenza e della potenza, individuale, di massa, nazionale, ad accomunare due schieramenti politici che in teoria avrebbero dovuto essere antitetici.
Il punto fondamentale della teoria soreliana, ciò che in effetti la caratterizza, rimane tuttavia il mito dello sciopero generale. Anch’esso ha una funzione catartica, anch’esso accomuna il sorelismo al cristianesimo, lo sciopero generale è infatti, alla stregua del giudizio universale dei cristiani, il momento distruttore in cui si attua il trionfo del bene sul male, la vittoria dei deboli e degli sfruttati sui prepotenti e sugli usurpatori, l’evento messianico, la catastrofe finale da cui scaturisce la ricostruzione attuata sui principi della giustizia. Secondo Sorel lo sciopero generale non impedisce all’uomo di sfruttare tutte le occasioni che gli si presentano nel corso della vita e non costituisce ostacolo alle sue occupazioni normali poiché esso è un mito sociale
“… è il mito in cui viene a compendiarsi il socialismo nella sua interezza; un organismo di immagini capaci di evocare, con la forza dell’istinto, tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra, impegnata dal socialismo contro la società moderna…Noi otteniamo così quella intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva fornirci in modo perfettamente chiaro e l’otteniamo in un insieme percepito istantaneamente… I miti debbono essere presi come mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al corso della realtà è privo di significato” (45)
Lo sciopero generale è dunque un mito, qualcosa di irrazionale, di percepibile intuitivamente, ma esso costituisce per le masse quell’aspirazione, quella meta, al di fuori e al di sopra della realtà contingente che le aiuta a vivere che le spinge ad agire, che le convince a non demordere. Così come il Paradiso e il giudizio universale per i cristiani o la favola per i bambini non ancora maturi per rassegnarsi all’arido materialismo della realtà circostante e bisognosi, quindi, prima di essere pronti a vivere pienamente la vita, di un sogno, di una metafora, di qualcosa che li aiuti nel passaggio dal mondo dell’infanzia a quello della piena maturità.
E’ chiaro che tutto ciò presuppone in Sorel una sfiducia nella capacità e nella razionalità delle masse, sfiducia che in quegli anni veniva espressa in maniera diversa da vari pensatori. Pareto parlava di élites sociali, di predominio delle minoranze colte sulla maggioranza incolta, ma soprattutto furono Bergson e Le Bon a fissare più chiaramente il concetto dell’irrazionalità delle masse.
Bergson può considerarsi come la reazione più composta, con il suo intuitivismo agli eccessi del positivismo e del razionalismo materialista. Nel 1889 nella sua opera Essai sur les données immediates de la coscience, aveva messo in evidenza l’esistenza di elementi irrazionali nell’uomo che, tuttavia, finivano per influenzare o addirittura determinare la storia, impedendo ogni logica previsione sul futuro. Si trattava dunque di un netto capovolgimento delle teorie sociologiche e positiviste di Comte, fondate su un determinismo che faceva della scienza storica e sociologica quasi una scienza esatta. Nel 1895, un altro pensatore francese Gustave Le Bon, rafforzando le teorie di Bergson, aveva pubblicato un saggio sulla psicologia delle folle in cui sosteneva che ciò che muove la folla nelle insurrezioni, nelle guerre, non è l’interesse personale, ma una serie di immagini ideali che costituiscono un immaginario collettivo, una specie di allucinazione collettiva. Un altro colpo, dunque, al razionalismo e al determinismo che costituiva anche il caposaldo delle teorie marxiste . Tuttavia Sorel riteneva che la coscienza dell’esistenza dell’elemento irrazionale non comportava la rinunzia totale, per lo studioso, a tracciare un diagramma della dinamica sociale. Dall’osservazione del passato e dell’operare di elementi irrazionali a circostanze riferibili a quelle presenti, l’uomo sarebbe stato, comunque, in grado di ricavare una scienza sociale. Lo strumento che il sociologo avrebbe fornito a chi intendesse svolgere un’azione politica imperniata sul comportamento delle masse sarebbe stata la cosiddetta filosofia di delucidazione. Essa più che indicarci l’adattabilità di determinate riforme sociali allo scopo da conseguire, avrebbe permesso di costruire quelle poesie sociali senza di cui ogni movimento popolare sarebbe risultato comunque impotente. E’ questo il mito che costituisce l’impulso che ha sempre dato agli uomini la volontà e la forza di sovvertire il sistema, alimentato da una fede carica di promesse. La terra promessa e la venuta del Messia per gli ebrei, il giudizio universale per i cristiani, l’avvento di una società di uomini liberi per i giacobini francesi, sono tutte per Sorel immagini irrazionali che agiscono sul sentimento degli uomini, muovendoli alla ribellione. Il mito dello sciopero generale, alimentato dal sindacalismo rivoluzionario, dunque, contribuisce più che le astratte teorie marxiste a tenere le masse in uno stato di continua aspettativa rivoluzionaria:
” … Si può parlare all’infinito di rivolte senza mai provocare un movimento rivoluzionario, fin tanto che non ci sono miti accettati dalle masse” (46)
Sulla scia di Bergson, Sorel nel 1898 scriveva un saggio La necessità e il fatalismo nel marxismo, in cui rivendicava, contro il determinismo, l’azione volontaria e creatrice dell’uomo dettata dalle contingenze. Si trattava, tutto sommata, della vecchia diatriba tra i sostenitori del materialismo storico e gli assertori della funzione insostituibile del pensiero umano sulla dinamica storica e sociale. Ecco il motivo per il quale Bergson veniva considerato dai socialisti come un loro nemico, non tenendo conto che alle nuove generazioni non bastava più un mondo dominato inesorabilmente dalle leggi della scienza in cui l’uomo diventava uno spettatore passivo. L’uomo doveva tornare ad essere, come nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento il protagonista della storia e della vita. E ciò non era considerato dai giovani socialisti un’eresia, ma una dovuta revisione del pensiero marxista.:
” Noi giovani – scriveva Mussolini nel 1914 – abbiamo respirato e respiriamo in una diversa atmosfera. Non per nulla mi si è quasi rimproverato sulla ” Neue Zeit” di essere un ” bergsoniano”. Veramente. Non ho trovato ancora una diretta incompatibilità tra Bergson e il socialismo. Noi giovani abbiamo oggi una mentalità completamente diversa. Il mondo è cambiato. Le tavole della legge del 1892 devono essere rivedute ed adattate alla nuova realtà maturata durante questo tormentato ventennio. Il prossimo Congresso socialista affronterà i problemi della dottrina” (47)
I limiti del pensiero di Sorel stanno nel fatto che egli, tutto sommato, non si preoccupa minimamente delle conseguenze della realizzazione pratica delle sue teorie, gli interessa distruggere e non si preoccupa di riedificare. Abbasso la pace sociale, viva la violenza come strumento catartico, capace di spazzare via le aride teorie razionaliste fondate sull’utilitarismo e quindi sulla decadenza morale. E’ il mito che spinge le masse, per le quali nutre un profondo disprezzo, a scrollarsi dall’immobilità e che permette, tuttavia, nel rivolgimento conseguente, l’emergere di uomini guida, che non sono altro che i creatori del mito, con un termine dispregiativo gli imbonitori della folla. Dunque, quella di Sorel è una storia di individui e non una storia di masse, una storia che privilegia il ruolo dell’uomo capace di emergere sulla massa amorfa, di guidarla, di strapparla dalla palude dell’inerzia, dalla corruzione del materialismo: è la storia dell’homo novus di cui sarà costantemente alla ricerca Mussolini, l’uomo profeta, l’uomo messia capace di edificare l’ordine nuovo. Ciò lo pone oltre il marxismo, ma anche oltre la democrazia, avvicinandolo all’estrema destra.
Chiaro che queste teorie riabilitano il ruolo e la funzione del sindacato, fino a quel momento costretto dal socialismo riformista ai margini della lotta sociale e politica. (48)
. Ma cos’era Sorel se non un intellettuale borghese, ansioso di andare oltre Marx, oltre Bakunin, oltre Bernstein per elaborare una teoria che servisse ad affrancare il proletariato, ma che, a differenza delle premesse, finiva per renderlo strumento di una sua aristocrazia intellettuale che nulla aveva di diverso dalla intellettualità borghese detentrice del potere?
Sorel, conoscitore di Croce e dell’anarchico Merlino, fu molto vicino al movimento socialista italiano. Senza la diffusione delle sue teorie non sarebbe mai nato nel 1912 l’USI, sindacato ispirato al mito dello sciopero generale e costituito in antitesi alla CGL, riformatrice e strumento del partito.
Sorel collaborò anche ad alcune riviste fra le più diffuse dell’epoca come La Riforma sociale, la Rivista popolare di Colaianni, il Giornale degli economisti, La Critica di Croce, La Voce di Prezzolini a cui si avvicinò insieme a Bergson. (49) Per tali motivi in Italia il dibattito su Sorel fu particolarmente vivace e il pensatore francese riuscì a fare molti seguaci soprattutto fra i giovani socialisti delusi dal gradualismo e dal parlamentarismo di Turati, dall’imborghesimento dei capi del movimento e dal venir meno di quello spirito rivoluzionario che aveva instillato in loro la fede ardente nel cambiamento totale e nella costituzione di un ordine giusto.
Arturo Labriola fu uno dei suoi maggiori estimatori e teorici del sindacalismo rivoluzionario italiano che considerava l’essenza stessa dello spirito marxista e che giudicava in perfetta antitesi col riformismo da lui ritenuto eretico:
” La sostituzione della fabbrica socialista alla fabbrica capitalista – sosteneva – non si può compiere per gradi, ma di colpo. Qualunque grado intermedio (per esempio la comproprietà degli operai e del capitalista) è una cosa diversa e però ugualmente distante dalla fabbrica socialista. La monarchia non diventa repubblica per attenuazioni successive della potestà regia….. Tale passaggio è un vero hyatus, implicante soluzione di continuità, , cioè rivoluzione” (50).
Al contrario di Sorel, tuttavia, Arturo Labriola non condanna a priori il parlamentarismo, ritenendolo, invece, uno strumento idoneo per consentire al proletariato operaio di arrivare alla gestione della produzione. Egli condanna il parlamentarismo gestito dai riformisti, possibilisti e pronti al compromesso con il capitale. Labriola auspica, alla maniera di Proudhon, la costituzione di una federazione di sindacati, organizzati in senso orizzontale, in grado di assorbire le strutture statuali. Egli vede nel sindacato operaio il centro e il cuore del nuovo sistema da realizzare con lo sciopero generale cioè con la rivoluzione della classe operaia. Esiste una notevole differenza tra la sua posizione e quella del massimalista Enrico Ferri ; mentre per quest’ultimo il cambiamento della società deve avvenire, né per effetto di riforme, né come conseguenza della insurrezione violenta, bensì per un atto di fede, cioè per effetto della coscienza socialista che nelle masse può formarsi solo tramite la predicazione, per Arturo Labriola solo un atto risolutivo, scaturente dalla violenza rivoluzionaria può instaurare l’ordine nuovo. (51)
Enrico Leone considera lo sciopero generale non tanto come una manifestazione di forza attraverso la violenza, ma come una manifestazione di potenza economica:
“L’inattuabilità pratica dello sciopero generale – scrive – è invece la riconferma della sua potenza creatrice. Quando la forza di rivolta economica ha conquistato tutto il mondo operaio lo sciopero generale diviene la via rapida attraverso la quale questa forza sbocca al suo fine. Questo fine è nell’atto stesso dello sciopero: l’annichilimento del capitale… Lo sciopero cessa di essere atto cieco, per diventare effetto voluto, consapevolmente indirizzato al proprio fine. Lo sciopero generale perciò non cessa di essere attuabile come elemento decisivo del trapasso sociale. Esso non è un simbolo irreale, ma un’espressione abbreviata e culminante di un processo di formazione della forza operaia.. Lo sciopero è la manifestazione della forza e della capacità del proletariato formatosi e svoltosi negli appropriati istituti sindacali…è manifestazione di disciplinata volontà degli organizzati. (52)
Per Leone dunque alla base della rivoluzione c’è l’organizzazione sindacale. Il proletariato prima di rivoltarsi e distruggere il sistema costituito, deve avere la coscienza dei suoi atti; è tale coscienza, che fa della rivoluzione un atto non inconsulto e istintivo ma consapevole e volontario, è data dalla formazione e dall’indottrinamento in seno al sindacato. Alla teoria soreliana, pone, tuttavia, dei paletti; egli abiura lo sciopero di massa come sconvolgimento spontaneo fondato sulla violenza e auspica uno sciopero basato sull’organizzazione ed esente dalla violenza fisica. Egli considera lo sciopero un fenomeno con scopi esclusivamente economici, mentre
“…l’insurrezione violenta è propria dei periodi delle rivoluzioni governative. Il fenomeno della violenza era preminente nelle passate trasformazioni politiche, soprattutto perché erano rivoluzioni di minoranze… Lo sciopero per se stesso non è atto di violenza: è l’uso di un diritto legittimo alla disponibilità del proprio lavoro: esso è piuttosto l’eliminazione della violenza che codesto diritto sopporta nella società divisa in classi”.
Leone rigetta il principio dell’uso della violenza nell’ottica dell’ortodossia marxista e giustifica il ricorso alla stessa fatto da Sorel con la necessità di difendere, in un periodo particolarmente difficile, il socialismo minacciato di essere travolto dal pacifismo borghese. In tal caso la violenza operaia svolgerebbe la funzione di
” risospingere la borghesia.. distogliendola ai tentativi di conciliazione e di paternalismo a cui per istinto di salvezza tenta di aggrapparsi”. (53)
Anche Alceste De Ambris, fondatore dell’Usi, fu un seguace delle teorie soreliane, soprattutto in relazione allo sciopero generale che secondo la sua visione avrebbe costituito l’
” (…) unico mezzo efficace ed idoneo alla definitiva espropriazione della classe borghese”
rispetto al quale il boicottaggio o il sabotaggio, insomma le forme non violente coinvolgenti gli utenti dei servizi, quindi anche parte della classe borghese, dovessero ritenersi armi transitorie. (54)
La caratteristica comune ai seguaci italiani di Sorel, fu forse, quella di aver preso troppo alla lettera il mito dello sciopero generale, spogliandolo appunto di quell’alone utopistico di cui il pensatore francese aveva voluto rivestirlo mantenendolo, appunto, nella categoria del mito, qualcosa cioè al di là della realtà e della realizzazione contingente, ma idoneo tuttavia a agire da imput dell’azione politica e rivoluzionaria delle masse. E’ forse Mussolini quello che per primo rileva questa discrasia rimproverando a Sorel di rivelare il segreto del mito, spogliandolo così della sua funzione:
“Giorgio Sorel pensava che occorresse colpire l’immaginazione degli operai con la rappresentazione ideale di una possibile realtà futura, ma, creato questo castello incantato, ci dava le chiavi per penetrarvi e, dandoci la soluzione dell’enigma, rivelandoci l’origine teorico – intellettuale del “mito” ne disperdeva tutto l’incanto fascinatore” (55)
I sindacalisti italiani, tuttavia, si divisero vistosamente in tema di politica coloniale e l’occasione fu data dallo scoppio della guerra libica nel 1911.Se Leone, De Ambris e Mussolini si batterono strenuamente contro la guerra, il futuro duce avrebbe addirittura scontato, insieme al repubblicano Nenni, un periodo di detenzione per aver istigato alla diserzione i soldati italiani e per attività sovversiva, altri con in testa Arturo Labriola sostennero la guerra e la politica coloniale di Giolitti:
” O miei compagni, sapete voi perché il proletariato d’Italia non è buono a fare una rivoluzione? Perché appunto esso non è nemmeno buono a fare una guerra. Lasciate che la borghesia lo abitui a battersi sul serio e poi vedrete imparerà a battere la stessa borghesia!” (56)
Una visione della guerra che ci spiega quando sarebbe stato debole ed incerto il confine tra sindacalisti rivoluzionari e nazionalisti che peraltro si sarebbero schierati sullo stesso fronte dell’interventismo in occasione dello scoppio della I guerra mondiale. La concezione della guerra di Labriola è molto vicina a quella di Oriani e di Marinetti, guerra come strumento di redenzione e di risveglio, guerra con funzione educatrice e purificatrice, guerra come mezzo di sviluppo. Nel campo opposto Oriani aveva affermato che
“Il nazionalismo in Italia deve essere sovversivo o non sarà” (57)
L’affinità con i nazionalisti si nota ancor di più leggendo gli scritti di Labriola in relazione alla conquista coloniale libica che egli considera non come una impresa imperialista, bensì come un’impresa
“…volta ad assicurare ad un popolo la libertà di movimento nell’unico mezzo (il mare), che la natura gli assegnò” (58)
E’ facile notare in tali parole una prefigurazione del mito fascista del mare nostrum.
A Labriola così rispondeva De Ambris:
” Non sono lontano dall’ammettere che una guerra possa essere, qualche volta, un buon corso di pedagogia rivoluzionaria, ma a condizione che, anzitutto, sia la guerra e non una brigantesca gesta di prepotenza”. (59)
Nella posizione di De Ambris, al di là della condanna generalizzata della guerra coloniale, s’intravede già una breccia al muro, fino a quel momento saldo, dell’antimilitarismo socialista.
Il dibattito internazionale sul “mito dello sciopero generale”.
Le teorie di Sorel sullo sciopero generale, l’esaltazione della violenza, da cui implicitamente derivava un’accettazione prima pudica, ma poi piena del militarismo e in parte anche del colonialismo, costituirono in seno al socialismo internazionale oggetto di dibattiti sempre più accesi che davano ancora una volta la sensazione della profonda crisi che attraversava l’immobilismo e il determinismo del pensiero marxista nel clima caratterizzato, soprattutto, dall’ansia di rinnovamento che distinse il primo ventennio del ventesimo secolo.
Nei vari congressi di partito celebrati a cavallo tra i due secoli si denota, nei dibattiti tra opposte fazioni, la preoccupazione nei quadri del socialismo, della graduale perdita di potere del partito a favore dei sindacati con la diffusione degli scritti di Sorel, di Briand, di Friedeburg. Fino a quel momento la leadership del partito sul sindacato era stata riconosciuta come un dogma incontestabile, essendo il sindacato considerato, alla stregua degli scritti di Marx e di Engels come la cinghia di trasmissione del partito. Paradossalmente fu proprio il ruolo indipendente e preminente raggiunto dalle Trade Union, il sindacato riformista inglese, a dare l’imput a una parte dei giovani socialisti per riscattare l’azione sindacale dalla tutela politica impostale fino a quel momento dalla dirigenza socialista.
Già al Congresso di Londra del 1896 si cominciò a discutere sulla possibilità di rendere complementare la lotta sindacale e quella politica, visto che la separazione fra le due, verificatasi in quegli anni di transizione, aveva reso insufficiente sia l’una che l’altra. Si passava, dunque, dall’indiscutibile subordinazione del sindacato al partito al riconoscimento di una posizione di complementarità fra le due istituzioni.
Ma al Congresso di Amsterdam l’olandese Roland-Holst si scagliò contro il sindacalismo rivoluzionario e contro la teoria dello sciopero generale, sostenendo che esso era di impossibile applicazione e quindi essenzialmente utopico. Inoltre non aveva un fine economico, bensì politico, essendo diretto alla distruzione dello Stato borghese e capitalista. Roland Holst sosteneva che esso sarebbe stato attuabile solo nel caso in cui il proletariato si fosse presentato ben organizzato e disciplinato. Lo ammetteva, cioè, non come manifestazione spontanea e irrazionale di potenza, ma come atto di violenza consapevole. Non credeva comunque che lo sciopero generale avrebbe avuto il potere di far cessare il lavoro in tutti i settori della vita produttiva:
” (..) E neppure lo sciopero generale può essere la rivoluzione sociale. La trasformazione della società non si può fare di colpo. Essa si realizzerà ogni giorno mediante il nostro sforzo continuo”. (60)
Esattamente l’opposto, dunque, di quello che affermava Arturo Labriola.
In quello stesso Congresso, contro la tendenza gradualista e parlamentarista imboccata ormai dal partito, si scagliava il tedesco Friedeberg che, influenzato sicuramente dalle teorie di Le Bon, chiedeva una maggiore attenzione allo sviluppo psicologico del proletariato:
“La cattiva conseguenza dell’esistenza dello stato e in particolare l’eccessiva importanza attribuita al parlamentarismo, hanno quasi allontanato il proletariato dal terreno della lotta reale delle classi. La divisione del movimento operaio in movimento politico e sindacale e, di conseguenza, la neutralizzazione dei sindacati che si preoccupano quasi esclusivamente del contratto di lavoro, hanno dato il colpo mortale alla lotta delle classi… La vera forza del proletariato consiste nel maggior numero di personalità interamente libere, impregnate dello spirito della lotta di classe e questo non può dare il parlamentarismo basato su un sistema di rappresentanza “.Secondo Friedeberg sarebbe stata necessaria l’ “… agitazione delle masse con piena responsabilità per ciascun’individuo, scioperi, feste, 1° maggio, boicottaggi, ecc. .. queste sono le condizioni della liberazione finale del proletariato. Questa stessa liberazione, la scomparsa della dominazione delle classi, noi l’avremo con lo sciopero generale” (61)
Ritorno, dunque, all’azione diretta del proletariato senza la mediazione dei parlamentari che, pur essendo espressione delle forze popolari, finivano per inserirsi nella concezione istituzionale propria della borghesia.
Anche Rosa Luxemburg prese posizione sullo sciopero generale che apparve ai marxisti più oltranzisti la parola d’ordine da lanciare più al partito che al proletariato, perché si ritornasse al verbo rivoluzionario delle origini rinnegando la politica gradualista del compromesso che snaturava l’essenza stessa del pensiero socialista:
“Le espressioni della volontà di massa nella lotta politica… non possono essere artificiosamente mantenute alla lunga sempre allo stesso livello, incapsulate in un’unica forma. Devono intensificarsi, inasprirsi, assumere forme nuove e più efficaci. L’azione di massa una volta innescata, deve andare avanti. E se al partito che la guida manca ad un dato momento il coraggio di lanciare la parola d’ordine decisiva alla massa, è inevitabile che una certa delusione si impadronisca della massa stessa, che lo slancio scompaia e l’azione si afflosci.” (62)
La Luxemburg pareva avere compreso meglio dei compagni, che si schierarono appassionatamente a favore o contro Sorel, il carattere simbolico del suo sciopero generale, riconoscendo in esso l’elemento decisivo per tenere costantemente la massa sulla strada della sovversione, senza mai intorpidirla e scoraggiarla.
Diversamente Kautsky, strenuo difensore del riformismo, giudica lo sciopero generale una vera e propria provocazione alla borghesia tramite la violenza; provocazione peraltro inutile, poiché lo stato borghese avrebbe risposto a quella violenza con la violenza legalizzata, cioè con l’uso dell’esercito, alle sue dipendenze, che avrebbe annientato il movimento delle masse, come aveva annientato la Comune di Parigi nel ’71 e ancor prima la rivoluzione popolare scoppiata nella stessa città nel giugno del ’48, così come aveva reagito all’attentato anarchico di Chicago nel 1886. Kautsky considera tali episodi come fallimenti del proletariato nel suo percorso verso la vittoria finale, percorso che necessariamente avrebbe dovuto essere lento e faticoso, per cui egli allo sciopero generale contrapponeva la strategia di logoramento.
Berth uno dei più vicini discepoli di Sorel dava una definizione dello sciopero generale molto vicina alle teorie di Bergson e di Le Bon, dunque tipicamente antirazionalista e antipositivista:
“Lo sciopero – scriveva – è un fenomeno di vita e di psicologia collettive; qui entrano in gioco sentimenti collettivi molto potenti, molto contagiosi, quasi elettrici; che la massa resti allo stato indiviso, allo stato di massa, che conservi la sua profonda unità spirituale originaria, e ogni operaio abbia la sua volontà annegata, assorbita in questa unità… non c’è più altro che una massa elettrizzata, un solo slancio unanime e possente ai più alti vertici dell’eroismo e del sentimento del sublime” (63).
Il repubblicano Graziadei rinnega e contesta le teorie soreliane fondate sul sindacalismo rivoluzionario e, rifacendosi al tradunionismo inglese, sostiene che la contrapposizione tra riformisti e sindacalisti è una contrapposizione fasulla:
“.. Il riformismo ben inteso è la strada maestra per la quale i socialisti possono giungere al sindacalismo. Naturalmente non al sindacalismo rivoluzionario… il sindacalismo è la classe operaia che si occupa direttamente dei propri interessi, soprattutto dal punto di vista economico”. (64)
Diversa la posizione dell’anarchico italiano Malatesta che, contestando Monatte e Sorel, sostiene che il sindacalismo non basta da solo alla realizzazione della rivoluzione. Esso è uno strumento della rivoluzione sociale, ma non è la rivoluzione sociale per la quale sono necessari altri mezzi. Egli respinge la confusione tra sindacalismo ed anarchismo sottolineando che, malgrado l’uso della violenza, il primo è comunque un movimento legalitario che si inserisce nel sistema capitalistico e che mira a difendere gli interessi solo di alcune categorie (ricordiamoci che non si era parlato mai dei problemi del proletariato rurale). Secondo Malatesta il proletariato non può mai considerarsi un organismo totalmente omogeneo come auspicava Berth, poiché per la presenza della proprietà anche all’interno della classe proletaria esistevano interessi difformi. Perciò riteneva indispensabile che gli anarchici entrassero nei sindacati, introducendovi il libertarismo anarchico, la fede nella solidarietà morale fra i lavoratori, visto che la solidarietà economica sarebbe sempre risultata impossibile. Pur accettando la necessità tattica dello sciopero generale, egli non lo confonde con l’insurrezione che era ben altra cosa e contesta il principio su cui si basavano i sostenitori dello stesso. Essi affermavano che con lo sciopero generale in pochi giorni il proletariato avrebbe affamato la borghesia costringendola alla resa, senza tenere conto che i borghesi non avrebbero mai patito la fame, potendo contare sulla ricchezza e sui prodotti alimentari accumulati; sarebbero state invece le masse, che contavano solo sul loro lavoro a soccombere. L’operaio affamato sarebbe stato costretto a tornare in fabbrica a testa china e sconfitto, oppure per combattere la fame avrebbe dovuto impadronirsi con la forza dei viveri. In tal caso si sarebbe scontrato con la forza pubblica e in tale scontro sarebbe stato annientato, a meno che non fosse stato idoneamente addestrato:
” Prepariamoci dunque a questa insurrezione inevitabile – esortava – invece di limitarci ad esaltare lo sciopero generale come la panacea di tutti i mali (65)
Per Malatesta, dunque, lo sciopero generale era solo un’utopia, salvo a cambiare idea in occasione della Settimana Rossa, quando sperò fino all’ultimo, al di là della effettiva realtà, nella possibilità concreta della rivoluzione sociale.
Dunque, molti fra i socialisti avevano compreso che la politica riformista finiva per distogliere le masse dalla lotta di classe che avrebbe dovuto essere continua e in base a tale principio non si poteva respingere a priori l’uso della violenza. Tutto ciò portava implicitamente ad affrontare il problema del militarismo, e per conseguenza anche quello dell’imperialismo e del colonialismo che, come abbiamo visto, aveva finito per operare una divisione all’interno dei sindacalisti rivoluzionari italiani.
Già nel Congresso di Parigi del 1900 Rosa Luxemburg aveva sollevato il problema del militarismo e del colonialismo che erano stati giudicati all’unanimità come espressioni delle rivalità tra i paesi capitalistici e dunque come strumenti di distruzione dei sistemi capitalistici stessi. Cioè sarebbero stati gli stessi stati borghesi e capitalistici, una volta allentata la morsa popolare per le concessioni dovute alla politica riformista e per i miglioramenti delle condizioni di vita del proletariato, a distruggersi vicendevolmente per un eccesso di avidità e di ambizioni.
Al Congresso di Stoccarda del 1907 si votò una mozione rivoluzionaria con la quale si finiva per accettare il colonialismo, sia pure a carattere pacifico e umanitario, demolendo la pregiudiziale marxista pacifista e anticolonialista.
“.. Che si faccia politica coloniale – recitava la risoluzione proposta – non è necessariamente un crimine in sé. In determinate circostanze, la politica coloniale può essere un’opera di civiltà”. (66)
In quello stesso Congresso, in sostegno della risoluzione proposta, l’olandese Van Kol contestava la posizione anticolonialista del socialdemocratico Ledebauer affermando: ” Mi limito a chiedere a Ledebauer se… ha il coraggio di rinunziare alle colonie. Egli mi dirà allora che cosa farà della sovrappopolazione dell’Europa, in quale paese le persone che vogliono emigrare possono trovare di che vivete se non nelle colonie? Che farà Ledebauer del prodotto crescente dell’industria europea, se non vuole trovare nuovi sbocchi nelle colonie? E in quanto socialdemocratico vuol forse rinunciare al dovere di lavorare per la cultura dei popoli arretrati ?” (67)
Bernstein pur condannando il colonialismo votava la risoluzione di maggioranza proposta da Van Kol sostenendo che le colonie erano ormai un dato di fatto che il socialismo non poteva ignorare e conveniva dunque proporre una politica coloniale socialista, cosa che Kautsky considerava un non senso.
Nello stesso Congresso si affrontò il problema del militarismo, contro cui il francese Hervè sostenne un acceso atto di accusa. Sorprendentemente, però, fu proprio la Luxemburg, rifacendosi alla rivoluzione russa del 1905 a stemperare il dogma marxista dell’antimilitarismo:
” (…) la propaganda, in caso di guerra, non deve mirare soltanto alla fine della guerra, ma anche (…) approfittare di quel momento per affrettare la caduta della dominazione della classe capitalistica”. (68)
Posizione questa molto vicina a quella del sindacalista italiano Arturo Labriola.
Il Congresso votò una risoluzione finale che, pur condannando la guerra e ribadendo che fosse dovere della classe operaia e dei suoi rappresentanti in parlamento di impedirla con ogni sforzo, ammetteva che i socialisti nel caso in cui la guerra scoppiasse, avevano il dovere
“… di interporsi per farla cessare immediatamente e di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per mettere in agitazione gli strati popolari più profondi e precipitare la caduta della dominazione capitalistica” (69)
Anche se nel Congresso di Basilea del 1912, in piena crisi balcanica, venne ribadita la guerra alla guerra, alla luce di tali affermazioni, l’ortodossia marxista, soprattutto in uno dei suoi fondamentali dogmi, l’internazionalismo operaio e conseguentemente l’antimilitarismo e l’anticolonialismo, appariva sempre più evanescente. Il socialismo internazionale aveva ormai fatto quella sua scelta di accettazione del militarismo che lo avrebbe portato, due anni, dopo a votare i crediti di guerra e a sostenere, dunque un ruolo fondamentale nello scoppio della I guerra mondiale.
Con tali premesse – secondo Lotti, uno dei maggiori studiosi dell’evento – la Settimana Rossa
“avrebbe dovuto costituire per gli anarchici, i sindacalisti rivoluzionari e i repubblicani la grande occasione rivoluzionaria, e per Mussolini… la “giornata eroica e storica” (quale ne fosse il risultato immediato) di cui (riteneva) il proletariato italiano aveva bisogno” (70)
L’ascesa politica di Mussolini : la conquista del partito
La Settimana Rossa e con essa la ripresa dell’anarchismo italiano era stata preceduta dal ritorno in Italia, nell’agosto del 1913, di Enrico Malatesta. (71) L’espulsione di Bakunin dalla I Internazionale di Londra e l’affermarsi in tutta Europa di partiti socialisti votati al legalitarismo e al parlamentarismo riformista, avevano determinato il graduale spegnersi, quasi ovunque, dell’anarchismo. In Italia rimase accesa una fiammella nelle Marche e in Romagna, terre tradizionalmente appassionate e ribelli, per opera soprattutto di Fabbri e di Gori (72) che continuavano a pubblicare un giornaletto, Il Pensiero, di sempre minore diffusione. Lo stesso Congresso Anarchico nazionale convocato a Roma nel giugno del 1907 si era qualificato pressoché un fallimento. (73)
Tuttavia, nel 1913 la situazione appariva mutata: la delusione per lo sbocco politico conservatore della grande conquista del suffragio universale, la crisi economica con la conseguente ingente ondata migratoria, la guerra di Libia, la svolta massimalista impressa da Mussolini al partito al congresso di Reggio Emilia, facevano intuire a Malatesta che il clima fosse cambiato e potesse essere più adatto ad una ripresa del sovversivismo. Proprio in virtù di tale intuizione aveva deciso di abbandonare l’esilio di Londra e tornare in patria per proseguire la sua attività sovversiva e di proselitismo anarchico; i tempi erano favorevoli.
Peraltro, esisteva nel sottofondo l’anelito di una gioventù insoddisfatta del quietismo giolittiano, dell’Italietta incolore ritenuta ormai eccessivamente aliena da un’Europa in cui trionfava la cultura e la politica della potenza. Molti giovani demotivati e delusi erano già stati conquistati dai messaggi deliranti di Marinetti , di D’Annunzio e di Corradini e gli stessi anarchici sembravano essere attratti dall’individualismo anarchico di Stirner che si sposava alla perfezione con le teorie del super uomo e della violenza individualistica di Nietzsche. I pensatori politici non potevano che essere d’accordo sulla necessità di monopolizzare le simpatie della gioventù della cui importanza nella società futura nessuno avrebbe potuto dubitare:
“… L’avvenire della gioventù proletaria è il proletariato futuro, è il futuro del proletariato- avrebbe veementemente sostenuto Liebknecht – Chi ha la gioventù ha il futuro” (74)
La necessità di approfittare del risveglio della gioventù internazionale, per raggiungere le condizioni adatte al raggiungimento della meta rivoluzionaria, non sfuggiva neanche al Malatesta che nel 1913 così scriveva:
” Mi è parso che il proletariato d’Italia è in marcia verso la rivoluzione. Noi che siamo gli antesignani della rivoluzione nuova, della rivoluzione veramente emancipatrice, dobbiamo trovarci all’altezza degli avvenimenti che si preparano” (75)
Il ritorno di Malatesta, in coincidenza con le contingenze sopraelencate, determinò un netto risveglio del movimento anarchico che vide sorgere nel suo seno 49 nuove associazioni in solo diciotto mesi. Ma assieme al risveglio anarchico si registrò, in tale periodo, un ancor maggiore risveglio socialista e repubblicano; i due movimenti conseguirono, rispettivamente, un aumento di mezzo milione l’uno e di circa 21.500 soci l’altro. Aumentarono anche i giornali anarchici, ma ancor di più, quelli socialisti e quelli repubblicani (76) e soprattutto si ebbe un incredibile incremento nelle tirature dell’Avanti! dopo l’assunzione della direzione da parte di Mussolini (77) che aveva ottenuto tali risultati non solo perché capace, col suo personalissimo stile, di dare una particolare impronta al quotidiano socialista, ma perché, soprattutto aveva compreso che il suo giornale avrebbe dovuto adeguarsi al ribellismo novecentista. Certo di tale necessità, aveva liquidato i collaboratori di tendenza riformista, aveva dato più spazio ai più intransigenti e aveva reclutato anche firme al di fuori del partito, Pannunzio, Arturo Labriola, Leone, Olivetti, che rappresentassero le minoranze audaci, i vessilliferi delle correnti culturali innovatrici. (78)
Tutto ciò, assieme al risveglio della cultura, della stampa e dell’associazionismo cattolico, dimostrava che l’atteggiamento delle nuove generazioni era di netta contrapposizione ad un sistema considerato ormai obsoleto e soprattutto non più adatto al formarsi di quella società di massa che era ormai in Italia un fenomeno acclarato.
Il mito soreliano dello sciopero generale, dunque, si faceva strada sempre più all’interno delle giovani generazioni socialiste, a dispetto della politica sempre più moderata e gradualista della Camera del Lavoro, costituitasi nel 1907 con lo scopo precipuo di staccare il movimento sindacalista dalla strategia politica portata avanti dal PSI a livello parlamentare.(79) Perciò apparve come uno sbocco naturale all’evolversi degli eventi la costituzione, nel novembre del 1912, di un nuovo sindacato di tendenze più rivoluzionarie: l’Unione Sindacale Italiana che, da allora in avanti sarebbe diventata la vera rappresentante del movimento sindacalista rivoluzionario e di cui i leaders storici sarebbero stati Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris, Arturo Labriola. Mussolini si schierò, all’inizio, sul fronte opposto perché preoccupato che la nascita del nuovo organismo potesse dividere ed indebolire il movimento sindacale italiano.
La creazione dell’Usi aveva peraltro preceduto di pochi mesi la svolta a sinistra che il partito si sarebbe impresso nel Congresso di Reggio Emilia.(80) Il nuovo sindacato esprimeva ” il rifiuto di riconoscere lo Stato borghese nella sua dinamica politica parlamentare” e il riconoscimento dello sciopero generale come “l’unico mezzo efficace ed idoneo alla definitiva espropriazione della classe borghese”(81). Il nuovo sindacato si muoveva in senso antitetico rispetto alla Confederazione del Lavoro che puntava ad una graduale estensione del ruolo dello Stato nell’economia a tutela delle classi lavoratrici; esso, opponendosi a quella politica riformista e statolatra, cioè tendente a fare dello Stato il perno di tutta la vita economica e sociale, auspicava, al contrario, la conquista da parte dei lavoratori di una completa autonomia dai gruppi capitalisti industriali, dalle manovre parlamentari e soprattutto dallo stato, di cui temeva l’estendersi della presenza oppressiva.(82) Il nuovo sindacato mirava a fare proseliti soprattutto negli ambienti più trascurati dal partito e dalla Confederazione, cioè a dire, fra i lavoratori della campagna siciliana, pugliese, veneta e romagnola, rivelando così le sue connotazioni di radice bakuniniana.
Il primo anno di vita aveva dato risultati pressoché deludenti quanto ad entità di penetrazione e proselitismo, tuttavia l’USI era riuscita ad attrarre dalla sua parte il potente sindacato dei ferrovieri, aveva dato vita ad un proprio organo di stampa a diffusione nazionale, l’Internazionale di Parma, e, uscendo dall’ambiente bracciantile romagnolo, era penetrata all’interno del sindacalismo industriale, presente in tutte le maggiori manifestazioni operaie degli ultimi mesi, tentando sempre, se pur con scarsi risultati, di fare accettare l’arma dello sciopero generale.
Durante il grande sciopero di Milano del 1913, Mussolini, già direttore de L’Avanti, si era schierato più con l’USI che con la CGL e, all’inizio dello stesso anno, dopo l’eccidio di Rocca Gorga, aveva costretto la Confederazione ad impegnarsi a proclamare uno sciopero generale di almeno 48 ore in caso di un ulteriore eccidio proletario.
Il 6 gennaio di quell’anno le forze di polizia avevano caricato inermi dimostranti a Baganzolo di Parma, a Rocca Gorda in provincia di Frosinone e a Comiso nel ragusano, con un risultato complessivo di 8 morti e 50 feriti, oltre ad un centinaio di arrestati. Particolare sensazione avevano fatto gli scontri di Rocca Gorda tra la polizia e i cittadini dimostranti contro l’inerzia dell’amministrazione comunale che negava loro le fogne, l’acqua, l’assistenza medica. Anche questa volta Giolitti aveva mostrato il suo vero volto di politico abile ma cinico, usando pazienza e accondiscendenza negli scioperi operai del nord, certo così di attirarsi la benevolenza del partito socialista, ma pugno di ferro contro gli inermi contadini del sud e del centro Italia, – come aveva fatto nel 1901 a Berra, Candela e Giarratana, – molto più bisognosi dell’assistenza e della comprensione governativa, ma trascurati, di fatto, dal sindacato e dalla direzione del partito:
” (…) A Baganzola di Parma, A Rocca Gorda nel Lazio e a Comiso in Sicilia, quasi contemporaneamente una dozzina di lavoratori fra morti e feriti, è stata immolata all’’austero’ principio di autorità e alle ‘supreme’ ragioni dell’ordine pubblico. Qualche giornale ufficioso ha già detto, pur confessando di ignorare ancora i particolari dei sanguinosi episodi, che questi eccidi devono considerarsi…fortuiti.
Eh si! Ormai i fucili degli agenti dell’ordine sparano da loro appena le bocche sono abbassate verso un agglomerato di lavoratori armati soltanto dalla esasperazione delle loro sofferenze servili. Si è stabilito, infatti, una specie di automatismo nell’eccidio proletario, dal giorno nel quale l’on. Giolitti (..) fece sapere ai suoi sbirri che essi avevano, ormai, il compito di rimediare ad una lacuna del nostro codice penale, coll’emanare ed eseguire spontaneamente la pena di morte contro la folla inerme.”(83)
In quei mesi cruciali per l’avvenire del Partito socialista, Mussolini si era reso conto, che il sindacato doveva svolgere una funzione ben distinta da quella del Partito o del gruppo parlamentare; doveva svolgere una funzione di supporto e il miglior supporto al partito, in quel particolare momento storico, non poteva che essere un’azione rivoluzionaria che bilanciasse il legaritarismo socialista a livello parlamentare.(84) Era perfettamente conscio che la rivoluzione sarebbe stata frutto dell’opera di una minoranza e avvicinandosi pericolosamente alle teorie di Bergson, di Le Bon e di Pareto scriveva:
” Aspettare per fare la rivoluzione di avere la maggioranza assoluta è assurdo, prima di tutto perché la massa è quantità, è inerzia. La massa è statica ,le minoranze sono dinamiche”(85)
Il gruppo parlamentare socialista si dichiarava contrario in assoluto allo sciopero generale di protesta, definito da Turati un fantasma fosco il cui successo avrebbe presupposto una grande maturità di coscienza e di forze nel proletariato. Egli sosteneva, peraltro, cadendo in un vero e proprio sofisma, che quando il proletariato raggiunge tale grado di maturità, lo sciopero generale finisce per risultare inutile. Mussolini intuiva che l’avversione dei riformisti italiani per lo sciopero generale non era di origine teorica, ma aveva una motivazione di carattere elettorale. Memori della reazione governativa e della paura suscitata nella borghesia progressista dallo sciopero generale di Milano del 1904, che aveva, peraltro, determinato un cambiamento della politica giolittiana di 180 gradi, con l’abbandono del feeling con il partito socialista e l’avvicinamento ai cattolici, temevano di perdere ogni ascendente sulla piccola e media borghesia.(86) Tutto ciò, tuttavia, finiva per trasformare il partito socialista in un espressione della borghesia avanzata, in un partito di avvocati, che predicavano, ad ogni piè sospinto, un socialismo di collaborazione e di penetrazione pacifica:
” (…) grazie alle lusinghe delle classi conservatrici – scriveva Mussolini – il partito socialista non è più l’avanguardia vigile del proletariato, ma un’eterogenea accolta di malcontenti, una rappresentanza di tutti gli interessi, un vasto movimento pietista (..) Qual senso di profondo sconforto pervade l’anima, ripensando quale fu l’idea madre del Socialismo e a quale degenerazione l’hanno condotta i fuorusciti della borghesia infiltratisi nel movimento per corromperlo e ritardarlo!”(87)
Gli interessi elettorali non avrebbero dovuto far perdere di vista gli interessi e le esigenze del
“(…) proletariato delle officine, delle miniere, dei campi, (che) ha ormai ben chiara la nozione di trovarsi in stato di guerra guerreggiata contro la società borghese..(..) Si ingannano e cercano di ingannare coloro che si promettono altre cose colla loro presenza a Montecitorio. Solo la folla può ed io intendo restare colla folla, poiché la prossima rivoluzione italiana sarà compita dalla folla esasperata delle città e delle campagne.”(88)
Ciò non significa che Mussolini fosse sempre d’accordo con i sindacalisti rivoluzionari, anzi proprio a proposito di sciopero generale si evidenziarono i maggiori contrasti fra loro, così come avvenne dopo il fallimento dello sciopero promosso dall’USI alle officine Miani e Silvestri di Milano:
“Noi siamo favorevoli allo sciopero generale – scriveva Mussolini – Ma appunto per ciò protestiamo e insorgiamo tutte le volte che lo si vuole proclamare a sproposito condannandolo all’insuccesso e al ridicolo. In Italia i sindacalisti parlano di sciopero generale ad ogni momento e per ogni motivo. Pare uno sport”(89)
Con tali parole dimostrava di aver perfettamente afferrato la valenza idealista del mito di Sorel e che, essendo appunto uno strumento di palingenesi sociale e di suprema unione del proletariato, non era adatto per essere usato allo scopo di risolvere controversie riguardanti le singole categorie operaie. Non si trattava, insomma, di un mezzo di protesta economica, bensì di protesta politica ed ideale.
Contemporaneamente, assieme all’intempestività dei socialisti rivoluzionari, condannava anche la CGL per non aver prestato alcun sostegno agli scioperanti guidati dall’USI. Questo attacco gli aveva causato l’avversione concentrica sia dei Confederali che dei sindacalisti rivoluzionari, ma il successivo arresto di Corridoni, condannato per essere stato il promotore dello sciopero dei metallurgici milanesi, lo aveva portato a prendere inaspettatamente e ufficialmente, dalle pagine dell’organo di stampa del partito, le difese dell’USI e a scagliarsi contro la passività della CGL che aveva così favorito quello scandaloso arresto che egli definiva una vendetta nazionale del capitalismo.(90)
Che alla direzione dell’Avanti! fosse andato un vero rivoluzionario, apparve a tutti chiaro dopo l’eccidio proletario di Rocca Gorda, quando Mussolini fece del giornale lo strumento di una sua personalissima e violenta campagna contro le stragi proletarie, definendo il luttuoso episodio come un assassinio di stato. La campagna di stampa portata avanti in tale occasione, con istigazioni alla violenza, celebrazione dello sciopero generale, campagna che mirava soprattutto a far capire ai notabili del partito quanto si fossero allontanati, con la loro politica fondata sul gradualismo parlamentare, dai reali bisogni delle masse indigenti, mirava a scuotere la massa inerte socialista, ad allontanare sempre più il partito da ogni connivenza con la politica della borghesia decadente del periodo giolittiano:
“(..) Rivendichiamo il diritto alla strada e alla piazza, e subito.(…) Mi si dirà che lo sciopero generale è lo strangolatore dei servizi civili.. Di grazia di quale civiltà voi parlate? Di questa civiltà borghese che miete vittime durante gli scioperi, che vittime vuole durante la guerra?(…) La borghesia, la nostra nemica, si difende come meglio può. Noi stiamo contro di essa in atteggiamento di guerrieri non di pitocchi.(…) E’ ora di tornare al libero sole e con il grido che riassume tutte le nostre speranze, tutti i nostri odi, tutti i nostri amori. Viva lo sciopero generale!” E ancora, ribattendo a chi lo accusava di aizzare le folle alla violenza: “(…)Lo sciopero generale deve essere… generale( Qui si ruba l’onesto mestiere a La Palisse). E se per far raggiungere allo sciopero questa sua necessaria universalità occorre uscire dal confine della legalità, bisogna uscirne, coraggiosamente, audacemente, poiché non si concepisce uno sciopero generale bon enfant con comizi ‘privati’ e biglietti di invito(…) Ma nessuno di noi ha mai parlato di sciopero generale ‘feticcio, mito, consuetudine…’E’ un assurdo in termini. Lo sciopero generale – consuetudine è ..impossibile. Una società umana non può vivere eternamente in crisi. O la supera o perisce”(91)
Tale presa di posizione fu oggetto di violente reazioni non solo da parte della stampa conservatrice e da parte dei riformisti, ma anche da parte di alcuni esponenti del PSI come Turati e Serrati, il quale invitava Mussolini a scendere sul terreno del concretismo. In effetti i socialisti turatiani temevano gli effetti nefasti che uno sciopero generale avrebbe determinato sullo sviluppo del partito, traendo insegnamento da ciò che era avvenuto nel 1904 a Milano.
In verità la polemica apertasi all’interno del partito era strumentale sia da parte di Mussolini che, cavalcando il cavallo dell’intransigenza mirava, tramite l’appoggio delle nuove generazioni e dei socialisti eretici di conquistare nuovi spazi all’interno del partito, sia da parte di coloro che più avevano ostacolato il suo approdo alla direzione dell’Avanti!, timorosi del ciclonismo mussoliniano, di un parvenu della politica ,come egli appariva agli occhi di quella che ormai era diventata l’aristocrazia del partito, ai vari Turati, Treves, Zibordi che lo aveva definito un villico che si inurba Kuliscioff che aveva sprezzantemente liquidato la sua complessa e originale formazione culturale con una frase che avrebbe avuto nel tempo notevole quanto immeritato successo: lo aveva definito un poetino che ha letto Nietzsche.(92) I capi storici del socialismo italiano, coloro che si ritenevano dei marxisti ortodossi, anche se avevano rilegato Marx in soffitta e se si adeguavano alla politica riformista del socialismo europeo, mal sopportavano che il loro partito cadesse in mano ad un arrivista, ad un autodidatta venuto dalle campagne, il quale avrebbe potuto contaminare la purezza del programma socialista, inserendovi, per esempio, le lotte rurali che non si confacevano con l’indirizzo eminentemente operaista fino ad allora tenuto dal socialismo italiano. D’altra parte lo stesso Mussolini mirava a smorzare le polemiche che dividevano il partito scrivendo che
:”Nel marxismo che può essere considerato come il sistema più organico delle dottrine socialiste, tutto è controverso ma niente è fallito… La realtà è una sola per tutti: sono le interpretazioni che hanno diviso i socialisti in varie scuole”(93)
E ancora:
” (..) Nel 1848 esce il manifesto dei comunisti. E’ un vangelo che non è niente affatto invecchiato. Oh! Certo nel marxismo qualcosa è caduto: non tutte le verità di Marx sono verità vive al giorno di oggi e si capisce. Marx stesso lo diceva, volendosi premunire dai pericoli della ‘scuola’, io non sono marxista! Egli voleva difendersi dai discepoli troppo discepoli. Il buon discepolo deve superare il maestro e in un certo senso rinnegarlo”(94)
Ma se i quadri del partito ingaggiavano una polemica tendente ad isolarlo progressivamente, egli sentiva di seguire la strada giusta sia per l’appoggio di intellettuali che rappresentavano la parte più progressista della cultura nazionale, Salvemini , Prezzolini, Papini, sia per il consenso che suscitava fra le masse. Si rendeva conto che la crisi del riformismo gradualista rientrava nella più vasta crisi dello stato liberale giolittiano e al richiamo di Serrati verso l’elaborazione di un programma concreto, rispondeva sicuro:
“Il partito socialista italiano o concreterà se stesso e si rinnoverà con l’assorbire nei suoi quadri le masse o si esaurirà nello sforzo delle piccole realizzazioni”.(95)
E a Bissolati che lo accusava di creare smarrimento fra i socialisti e di predicare pericolosamente la violenza:
” Non è il vostro riformismo accattone che ha snervato i socialisti italiani?”- e ancora – “Invece di illudere il proletariato sulla possibilità di eliminare tutte le cause degli eccidi, vogliamo invece prepararlo ed agguerrirlo per il giorno del ” più grande eccidio” quando le due classi nemiche si urteranno nel cimento supremo”.(96)
E ancora, commentando positivamente un articolo apparso sull’Humanité a firma di Jaurès, che malgrado fosse un apostolo del riformismo ed avesse accettato la collaborazione dei socialisti francesi con un governo borghese, sostenendo contro Guesde la nomina a ministro di Millerand nel governo Rousseau,(97) riconosceva la necessità che i socialisti rileggessero Bakunin, per ritrovare l’ardore rivoluzionario, scriveva:
“Sta per sorgere quel socialismo – il nostro socialismo – fatto di fede, di audacie e di sacrifici, inteso a preparare la rivoluzione, una rivoluzione; il socialismo che i pratici e i pusillanimi credevano di aver sepolto per sempre”.(98)
Rivelava poi quanto fosse importante per l’avvenire del partito spingere la massa verso una azione storica e nello stesso tempo violenta polemizzando così con Zibordi:
“Il socialismo italiano che non ha dietro di sé la Comune, come il socialismo francese, né tredici anni di leggi eccezionali, come quello tedesco, ha bisogno di vivere una giornata eroica e storica, ha bisogno di urtarsi in blocco, contro al blocco borghese”(99).
E giustificando la linea del suo giornale che, anche andando contro alla CGL aveva sempre favorito gli scioperi scoppiati a Milano nel corso del 1913, dichiarava:
“(..) I grandi scioperi! Quattro scioperi generali in due mesi a Milano! Un vero record! Io non ho voluto abbandonare la massa: non lo potevo: il giornale si sarebbe suicidato. Si dirà gli scioperi sono guidati dai sindacalisti. Verissimo: erano guidati da sindacalisti. E perché? Perché i socialisti durante parecchi anni a Milano non hanno fatto quello che dovevano fare. Il proletariato milanese, il proletariato, specie perché è un proletariato in formazione, un proletariato che sta subendo il fenomeno dell’urbanesimo, dopo sei o sette anni di pacifismo, sentiva quasi il bisogno fisico, oltre che morale, di scendere in piazza: noi ne potevamo approfittare e sentire quello che c’era nell’anima proletaria. Tanto peggio per noi: lo hanno fatto gli altri!”(100)
Sostiene Lotti che, malgrado questa posizione di Mussolini incontrasse il più netto rifiuto da parte dei notabili del partito, questi
“rimasero paralizzati da quel contatto diretto e personale che si stava creando fra Mussolini e la base”.(101)
Il congresso socialista di Ancona
Il Congresso socialista di Ancona dell’aprile 1914, approvando la pregiudiziale antimassonica e antimilitarista, permise a Mussolini e alla corrente rivoluzionaria di Labriola e Corridoni, di isolare ulteriormente il partito socialista dalla sinistra costituzionale monarchica, rompendo ogni legame tra socialismo e borghesia. Se era apparso logico durante la crisi del ’98 che socialisti, radicali, repubblicani e giolittiani di sinistra si muovessero all’unisono in parlamento per combattere la politica liberticida di fine secolo, l’avvento di Giolitti con la sua politica di riforme , con il suo atteggiamento di neutralità di fronte ai conflitti sociali, con il varo, infine, della tanto attesa riforma elettorale, aveva diviso la sinistra. Ormai non si trattava più di lottare insieme per difendere la libertà e i diritti fondamentali del cittadino, oggetto di disputa era, ora, il conflitto di classe fra proletariato e capitale. I radicali, i repubblicani, in gran parte, i riformisti, i giolittiani, pur essendo favorevoli ad un’estensione del sistema democratico, non potevano appoggiare i socialisti sul terreno della lotta di classe, poiché appartenevano proprio a quella classe che il socialismo combatteva. Anche Jaurès si era reso conto che i temi della lotta sociale e della proprietà privata rischiavano di isolare definitivamente ed eternamente il movimento socialista sulla sponda della sterile ed eterna opposizione.
Due strade, dunque, si aprivano ai socialisti italiani: combattere assieme al resto della sinistra costituzionale sulla base di una politica di riforme che lasciasse indiscussa l’impalcatura borghese del regime, o imboccare la strada dell’isolamento e della lotta contro la classe detentrice del potere politico economico per realizzare la società socialista. Democratici e socialisti erano ormai inevitabilmente divisi dalla lotta di classe e dalla questione della proprietà privata. Lo aveva intuito Millerand che, presentandosi come mediatore tra proletariato e stato e temendo che l’opposizione della borghesia ad un programma massimalista socialista avrebbe rallentato le riforme sociali a discapito del proletariato, aveva compiuto il grande passo della partecipazione ad un governo borghese.
Mussolini nei sei mesi precedenti al Congresso di Ancona, spende ogni sua energia per portare alla guida del socialismo italiano il gruppo rivoluzionario intransigente facente capo a Costantino Lazzari,(102) trascinando il partito contro la borghesia e contro i feudali e i preti e respingendo ogni tipo di alleanza strategica che, come affermava Guesde, avrebbe finito per fare dei socialisti gli ostaggi della borghesia:
” Noi non siamo per il negoziato: la lotta di classe proibisce il commercio di classe”(103)
Tale è il senso della lotta condotta da lui contro le gerarchie del partito per imporre la candidatura di Cipriani al collegio di Milano, nelle elezioni politiche dl febbraio 1914. Cipriani, il rivoluzionario per antonomasia, il comunardo, avrebbe rappresentato una provocazione per il riformismo socialista, ma la sua certa elezione, perché anche i più moderati non si sarebbero potuti rifiutare di appoggiare un personaggio che era, comunque, uno dei simboli del socialismo europeo, avrebbe consentito a Mussolini di avere l’assoluto controllo del partito nella più socialista delle città italiane.(104)
La stessa pregiudiziale antimassonica voleva essere una esclusione della classe borghese, un principio di rigida intransigenza classista:
“(..)La questione massonica è stata posta la prima volta nel 1905. (…) Oggi è venuto il momento di risolvere definitivamente questa questione. E’ un momento solenne, è un’altra svolta nella storia del Partito Socialista Italiano. La decisione deve essere presa con grande sincerità, senza preoccupazioni, in modo che i signori avversari di tutti i colori sappiano una buona volta per sempre che il Partito Socialista Italiano intende rinnovarsi anche se ciò gli costerà il più amaro dei dolori. Il compagno Poggi è venuto qui a prospettarvi, più che a dimostrarvi, una pretesa affinità filosofica fra la massoneria e il socialismo. Ammetto che un secolo fa, quando il movimento socialista si muoveva ancora sul terreno dell’indistinto, quando le classi non erano divise,, non c’erano proletariato e borghesia, ma poveri e ricchi, secondo la terminologia premarxiana, ammetto che allora si potesse trovare un’affinità più profonda tra la massoneria e il socialismo di quello che non risulti oggi. Ma a questa stessa stregua si possono citare fra i precursori del socialismo (..) Platone e Cristo, se è esistito, ed i filosofi dell’umanesimo, tutti hanno avuto più o meno vaghe concezioni socialiste. In tutti i socialisti dell’utopismo, (…) le parole di filantropia, di umanità, di equità, di pietà, vi battono assiduamente i cervelli. Può darsi che il massonismo tenda all’umanitarismo. Ma è tempo di agire contro questa infiltrazione di umanitarismo nel socialismo. Il socialismo è un problema di classe. Anzi è il solo unico problema di un’unica e sola classe: la classe proletaria.(…) Tutti i partiti borghesi, del resto, guardano a questa nostra assise con un senso legittimo di curiosità; essi dicono: saranno i socialisti capaci una buona volta di liberarsi della questione massonica?(…) Ebbene, il Partito saprà risolverla, perché il Partito è un’organizzazione di soldati, di guerrieri, non di filosofi e di ideologi, e quindi come guerrieri non si può marciare in un esercito e contemporaneamente in un altro del quale siamo avversari.”(105)
Così come il problema del diritto di proprietà e la lotta di classe erano i temi che dividevano i socialisti dalla sinistra costituzionale,
“(..) Il socialismo italiano – dichiarò Mussolini alla fine del Congresso, per riassumere in una sola frase il significato ultimo delle deliberazioni dello stesso – diventa sempre più proletario e sempre meno popolo; sempre più classe e sempre meno democrazia”(106)
Vi era, di contro, un principio che unificava tutti i partiti sovversivi, dai socialisti, ai sindacalisti rivoluzionari, agli anarchici : tale principio comune era l’antimilitarismo e su questo soprattutto fece leva Mussolini ad Ancona per assicurarsi la creazione di un blocco rosso da scatenare contro il blocco borghese – capitalista.
D’altra parte il 1913 era stato appunto l’anno del trionfo del militarismo in Europa. La Francia, che nel 1905 aveva ridotto la ferma a tre anni, e che pareva avviarsi al sistema fondato sulla milizia nazionale tanto auspicato da Jaurés, nel 1913 tornò alla leva triennale. La Germania aveva portato il suo esercito ad un organico di ottocentomila uomini e votato, con lo scandaloso avallo dei socialisti, crediti militari per quasi un miliardo. La Russia aveva tenuto il suo esercito, per tutto l’anno, in istato di premobilitazione generale. L’Inghilterra aveva varato un programma di potenziamento della flotta per controbattere lo sviluppo degli armamenti marittimi tedeschi . L’Austria – Ungheria, in base alla denunzia del socialista austriaco Otto Bauer stava svenandosi, per potenziare, dopo la guerra balcanica, il suo potenziale militare in vista di un futuro probabile scontro con la Serbia e la Russia. Anche l’Italia, nel suo piccolo, stava organizzandosi per incentivare le spese militari:
“(…) Di fronte al militarismo, onnipresente e minaccioso, – scriveva Mussolini – l’unica forza di negazione è il socialismo. In tutti i paesi d’Europa i socialisti tentano di sbarrare il passo al militarismo, ma le forze di cui dispongono non bastano all’opera immane. (..) Capitalismo e militarismo sono due modi dello stesso fenomeno: si condizionano a vicenda. L’uno non è pensabile senza l’altro. Non appena il capitalismo esce dalla sua fase primitiva di formazione, esprime dalle sue viscere il militarismo. Colpire questo è colpire il capitalismo(..)”(107)
Lo aveva compreso anche Malatesta che, nella primavera del 1914 incentrò la sua propaganda sovversiva, prima e dopo il Congresso di Ancona, proprio sul militarismo, assumendo come bandiera della sua campagna i clamorosi casi di Augusto Masetti e di Antonio Moroni. Il primo, muratore anarchico emiliano, il 30 ottobre 1911, giorno in cui avrebbe dovuto partire per la guerra di Libia, aveva sparato al suo comandante ferendolo ad una spalla. L’episodio aveva suscitato l’esecrazione di tutti, compresi i socialisti, ma gli unici che si erano schierati a fianco del muratore ribelle erano stati gli anarchici e i socialisti sindacalisti. L’anarchico, deferito al tribunale militare di Venezia, era stato giudicato pazzo, per evitare che una sentenza esemplare facesse di lui un martire, ed era stato rinchiuso nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Nell’autunno del ’13 il caso venne riaperto ad opera della Gioventù socialista, organo della Federazione giovanile socialista, di tendenze sindacaliste rivoluzionarie, poiché dall’amnistia concessa nel dicembre precedente per i reati politici inerenti alla guerra di Libia erano stati esclusi i militari, quindi anche Masetti. Ma quest’ultimo era stato ritenuto irresponsabile del reato commesso perché pazzo ed essendo poi stato giudicato guarito, aveva dunque diritto a beneficiare dell’amnistia. La campagna pro – Masetti, orchestrata soprattutto da Malatesta e dalla Rygier, ottenne, nel gennaio successivo un accettabile successo: l’anarchico fu trasferito da un manicomio criminale ad uno civile. Tale successo aveva dato vigore ad un’altra questione fino ad allora poco dibattuta, quella cioè relativa al caso di Augusto Moroni tipografo milanese in servizio militare a Napoli che, all’inizio del 1913, era stato deferito alla commissione reggimentale per l’assegnazione alle compagnie di disciplina perché sindacalista rivoluzionario. Dapprincipio, all’episodio era stato dato scarso rilievo, ma esaurita, all’inizio del ’14, la campagna pro – Masetti, a Malatesta occorreva qualcosa che la rimpiazzasse. Fu impiantata, dunque, una rumorosa campagna di stampa contro le compagnie di disciplina da parte dei giornali anarchici e soprattutto dalla Volontà. Per qualche giorno la stampa anarchica fu distratta dal braccio di ferro tra il governo Salandra e il potente Sindacato Ferrovieri, che proprio ad Ancona aveva la sua sede nazionale e che minacciava lo sciopero generale se il governo non avesse soddisfatto le sue richieste. Quando tutto finì in una bolla di sapone, Malatesta si rituffò nella campagna pro – Moroni, convincendo la Camera del Lavoro di Ancona ad organizzare per il 7 giugno , festa dello Statuto, solenni manifestazioni per reclamare la liberazione di Masetti, Moroni e di tutte le vittime del militarismo. Salandra vietò ogni pubblica manifestazione per quel giorno e del resto, la deliberazione della Camera del lavoro di Ancona aveva avuto una scarsa eco anche sull’Avanti!, impegnato sul campo delle elezioni amministrative, le prima a suffragio universale, che avrebbero dovuto svolgersi il 14 dello stesso mese . Furono pochi i comizi celebrati in forma privata in quel 7 giugno, ma alla fine di uno di questi, ad Ancona, si verificarono quei tragici fatti che avrebbero dato il via alla Settimana Rossa.(108)
Quel fatale 7 giugno 1914
Quel giorno la pioggia aveva impedito ogni celebrazione ufficiale della festa dello Statuto; la polizia, comunque, era all’erta e teneva sotto controllo soprattutto Malatesta che alle 9,30 di quella mattina era stato condotto in questura a scopo cautelare. Ma fu proprio quel fermo, peraltro poche ore dopo annullato, a favorire il sorgere della protesta. Un comizio fu organizzato per il pomeriggio alle 17 nella sede repubblicana, la cosiddetta Villa Rossa e la polizia fu allertata per evitare che i dimostranti defluissero, alla fine della manifestazione, verso la sottostante piazza Roma dove era previsto un concerto della banda del Buon pastore e uno di quella militare. La manifestazione a cui partecipò anche Nenni si concluse pacificamente, ma quando i partecipanti parvero volersi dirigere verso la piazza, la polizia pensò bene di sbarrare loro la strada. Essendo la via che conduceva alla piazza stretta ed erta, i dimostranti pensarono erroneamente di essere stati imbottigliati e furono presi dal panico e dall’ira; la polizia tentò di disperderli per la campagna e non ci riuscì perché quelli, convinti che la strada fosse bloccata anche in alto pensarono di ritornare alla Villa Rossa, sotto le cui finestra trovarono i carabinieri. Fu un attimo: cominciarono a essere lanciati sassi e qualsiasi cosa capitasse loro tra le mani contro la forza pubblica. Mentre i carabinieri si sbandavano sentirono esplodere dei colpi di rivoltella dalla Villa, pensando di esserne il bersaglio spararono a loro volta. Pare che i colpi non fossero stati esplosi dai dimostranti, ma da una guardia di pubblica sicurezza, tuttavia l’inizio della sparatoria esagitò ancor di più gli animi e determinò ulteriori scontri che lasciarono sul campo due morti e cinque feriti di cui uno in fin di vita.
La Camera del lavoro di Ancona proclamava lo sciopero generale di protesta al quale inevitabilmente avrebbe dovuto far seguito la proclamazione dello sciopero generale nazionale da parte della Confederazione del Lavoro, proclamazione inevitabile dopo le deliberazioni prese in tal senso dal direttivo della CGL e del PSI in occasione dell’eccidio di Rocca Gorga .
Apparve subito evidente come la situazione avesse preso tutti di sorpresa, visto che all’inizio nessuno, nemmeno Malatesta, nemmeno lo stesso Mussolini, che era stato colui che aveva costretto i moderati della CGL e del partito a votare la deliberazione che stabiliva la proclamazione automatica dello sciopero generale in caso di eccidi proletari, si rese conto che un episodio abbastanza circoscritto come quello avvenuto ad Ancona, avrebbe infiammato gran parte della penisola. Così come nessuno si rese conto che da quell’episodio sarebbe nata una crisi insanabile all’interno del PSI, le cui conseguenze sarebbero state immani per i destini dell’Italia.
Fin da subito fu chiaro che il socialismo italiano reagiva in maniera non omogenea; i socialisti che non erano parlamentari, come Lazzari, segretario del partito o Vella vice segretario, o Mussolini, si schierarono subito sul fronte dello sciopero ad oltranza, intuendo che l’antimilitarismo era fino a quel momento, – alcune settimane dopo non lo sarebbe più stato, – l’unico principio comune a tutta la sinistra sovversiva – socialisti, sindacalisti rivoluzionari, anarchici – e come tale doveva essere sfruttato come elemento di unione e di contrapposizione al blocco conservatore che deteneva il potere. A favore dello sciopero generale si schierarono, naturalmente, anche i sindacalisti rivoluzionari, Labriola, Corridoni e gli anarchici, mentre assumevano un atteggiamento più restio che prudente i dirigenti della CGL con a capo il segretario Rigola e tutto il gruppo parlamentare socialista.
Mussolini, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni amministrative, fu raggiunto dalla notizia dei fatti di Ancona, appena rientrato a Milano da Forlì dove aveva tenuto una conferenza su Marat. Fece appena in tempo a pubblicare sul giornale una sua nota, che pur essendo abbastanza dura non conteneva però la parola sciopero generale :
“Assassinio premeditato – scriveva – assassinio che non ha attenuanti: Da tempo bisognava punire Ancona, il “covo dei ribelli “: La lezione di sangue era nelle intenzioni, nei desideri, nella necessità di stato degli uomini dell’ordine. Malatesta, il Sindacato, la sede del Congresso socialista, i gruppi repubblicani: troppa cronaca sovversiva aveva prodotto in questi ultimi tempi la città adriatica… Domani quando la notizia sarà nota in tutti i centri d’Italia, nelle città e nelle campagne, verrà su spontanea la risposta alla provocazione. Noi non precorriamo gli eventi, né ci sentiamo autorizzati a tracciarne il corso; ma certamente, quali questi possano essere, noi avremo il dovere di secondarli e di fiancheggiarli ..L’anima popolare sarà profondamente scossa.. E speriamo che con la loro azione i lavoratori italiani sapranno dire che è venuta veramente l’ora di farla finita”(109)
Leggendo con attenzione questa breve nota, certo vergata velocemente prima che il giornale andasse in stampa, senza avere precise notizie degli avvenimenti, né delle reazioni del partito, si nota, tuttavia, che Mussolini aveva già delineata quella che sarebbe stata la sua posizione fino alla fine dei disordini. Intuitivamente aveva compreso che era giunto il momento e che il partito non poteva lasciarselo sfuggire a meno che non decidesse di abdicare definitivamente al suo originario ruolo di unico rappresentante del proletariato. In tal caso la sua posizione politica non si sarebbe più distinta da quella dei partiti borghesi.
Rigola, costretto, suo malgrado, a proclamare lo sciopero per gli impegni precedentemente presi, non volle mai parlare di sciopero ad oltranza o a tempo indeterminato, egli sarebbe rimasto sempre fermo nella convinzione che le 48 ore stabilite dal direttivo del partito e della Confederazione dopo i fatti di Rocca Gorga, fossero più che sufficienti.
L’USI proclamò immediatamente lo sciopero generale assieme al partito repubblicano, che nelle Marche e in Romagna aveva la sua roccaforte e che proprio in quei luoghi aveva mantenuto quei connotati rivoluzionari che il gruppo parlamentare, invece, aveva completamente perduto. Sorprendentemente tergiversò il potente Sindacato dei ferrovieri che proprio ad Ancona aveva la sua sede e questo fu il primo segnale della disomogeneità del fronte socialista.
Il Sindacato ferrovieri era reduce da una clamorosa protesta, svoltasi nell’aprile e nel maggio precedenti, che aveva tenuto in subbuglio il mondo sindacale e politico italiano. Il direttivo del sindacato aveva deciso di recedere dalla decisione di proclamare lo sciopero generale, sia per l’impopolarità del provvedimento, sia per le promesse ricevute da Salandra. Proclamare uno sciopero politico, proprio quando il governo stava presentando un disegno di legge contenente le richieste che i ferrovieri avevano precedentemente presentato al ministro dei LL. PP. Ferraris, appariva estremamente velleitario e pericoloso per gli interessi della categoria. Interessi di categoria appunto erano quelli che dividevano la classe proletaria, interessi scaturenti da quello che Mussolini chiamava l’homo hoeconomicus, cioè dalla natura materialista dell’uomo, che scavalcava gli ideali e impediva la nascita dell’ordine nuovo e dell’uomo nuovo. Ciò che è più grave è che il sindacato dei ferrovieri assunse un atteggiamento dilatorio ed equivoco; sapendo bene che né la Confederazione, né il Partito erano disposti a parlare di sciopero ad oltranza, dichiarò che i ferrovieri avrebbero aderito allo sciopero generale solo se la Confederazione e l’USI si fossero espressi per uno sciopero a tempo indeterminato e giustificò questa originale presa di posizione con il fatto che uno sciopero di ventiquattro o di quarantotto ore sarebbe stato troppo breve per poter mobilitare tutti i ferrovieri del Paese.
La decisione del Sindacato creò una accesa delusione in chi credeva nell’unità del proletariato come, per esempio, Malatesta o i repubblicani e un forte rammarico in chi comprendeva l’importanza strategica del blocco delle comunicazioni ferroviarie, almeno per quanto concerneva i grossi centri, nell’eventualità di un progetto rivoluzionario .
Quando arrivò il telegramma da Roma di Lazzari, telegramma non concordato né con il gruppo parlamentare, né tantomeno con la Confederazione, in cui si ribadiva la proclamazione dello sciopero ad oltranza, il Sindacato fu costretto ad aderire. Ciò ringalluzzì i promotori della ribellione con a capo Malatesta, i quali proprio ad Ancona si erano resi protagonisti di ulteriori disordini che, amplificati dall’eco della stampa, non mancarono di allarmare l’opinione pubblica e il governo. Particolarmente critico si presentava per la forza pubblica il mantenimento dell’ordine durante la celebrazione dei funerali delle vittime, tenuto conto che, malgrado le assicurazioni del Malatesta e di altri capi rivoltosi, la folla aveva saccheggiato un negozio di armi e che i tafferugli fra dimostranti e forza pubblica si moltiplicavano per tutta la città. Singolare fu l’atteggiamento di Malatesta, già profondamente deluso dalle titubanze di parte del fronte rivoluzionario, il quale il 9 giugno tenne alla folla in tumulto un discorso che voleva essere un invito alla calma , ma che poteva anche interpretarsi come una spinta verso una migliore organizzazione della lotta armata:
“Se voi saprete preparare i mezzi necessari per rispondere col piombo al piombo e con l’acciaio all’acciaio, sarete liberi di sfogare il vostro dolore e reclamare la completa libertà. Voi avete però il torto di non averci pensato prima, per cui oggi dovete restare calmi e questo vi consiglio ad evitare un nuovo eccidio… Mettetevi dunque in istato di difendere la vostra libertà e noi stessi provocheremo quel momento.”(110)
I funerali si svolsero fra incredibili tumulti per sedare i quali il viceprefetto chiese addirittura l’intervento dell’esercito, provvedimento, questo, che avrebbe messo fine alla sua carriera, non solo perché aveva deciso di rivolgersi alle autorità militari senza aspettare l’autorizzazione del ministero degli interni, ma soprattutto perché aveva contravvenuto alle disposizioni di Salandra che si era raccomandato fortemente presso le autorità locali perché non si adottassero misure eccezionali, così come era avvenuto nel ’98. Salandra ricordava che allora proprio le misure eccezionali, peraltro non necessarie, avevano determinato in parlamento il saldarsi delle opposizioni e il loro prevalere su un governo macchiatosi di provvedimenti liberticidi.
Intanto lo sciopero si estendeva, seppure con diversa intensità, in tutte le parti d’Italia. A Roma si sospese immediatamente il servizio tranviario, ma fu questo assieme ad alcuni scontri, tutti circoscritti alla zona del Foro Traiano, dove era la sede della CGL, l’unico segnale dello sciopero generale. Gli scontri di Roma, che tuttavia mantennero inalterato il ritmo di vita della città, furono artatamente gonfiati dall’Avanti!, per volere dello stesso Mussolini che si rendeva conto di quale importanza potesse avere sull’immaginario collettivo credere la capitale del Paese e la sede del governo in mano ai dimostranti.(111)
Nel meridione, eccettuato un comizio tenutosi a Marsala, solo Bari rispose allo sciopero con la chiusura di tutti i negozi e la sospensione dei trasporti pubblici. Nel centro – nord allo sciopero aderirono prevalentemente i centri industriali urbani, mentre fu scarsa la partecipazione nelle zone rurali. Le città del Veneto, per esempio, rimasero indifferenti, con l’eccezione di Rovigo, Padova e Venezia, unica città, questa, in cui si sarebbero avuti notevoli disordini, a dimostrazione della minore sensibilizzazione del proletariato rurale rispetto a quello urbano e operaio. Inoltre, a Venezia e anche a Roma la truppa chiamata per sedare i disordini venne accolta da lunghi applausi da parte della folla, cosa questa che dimostrava l’impopolarità dello sciopero presso la maggior parte dell’opinione pubblica e che dava ragione all’intuizione di Rigola e della maggior parte del gruppo parlamentare socialista, contrari allo sciopero ad oltranza .A Firenze si ebbero gravi disordini con un morto e alcuni feriti. Ma solo in Emilia Romagna lo sciopero ebbe una attuazione totale in tutti i centri piccoli e grandi a conferma della tradizione libertaria, anarchica e sovversiva di quella regione in cui mazzinianesimo, bakuninismo, sindacalismo rivoluzionario, repubblicanesimo, passionalità individuale costituivano una miscela esplosiva sommamente pericolosa.(112)
In Lombardia solo a Brescia e a Milano lo sciopero ebbe un’attuazione massiccia. A Milano dodicimila scioperanti armati di bastoni e di sassi si riunirono all’Arena per ascoltare Mussolini e Corridoni:
” E’ tempo che si ritorni al diretto contatto con le masse – asserì il primo – che ci stringiamo in un solo fascio, per colpire un unico bersaglio. Allora converrà armarci, avere la voluttà del pericolo, spingerci in guerra per vendicare le vittime di oggi e di ieri e scalzare questo regime sociale basato sull’ingiustizia e l’iniquità. Conviene che questo sciopero generale sia sentito; andiamo in piazza, ci sono i caffè aperti, le carrozze che vanno; ci sono i teatri e i caffè concerti dove la borghesia va ad abbrutirsi: Questi locali devono essere chiusi. Lavoratori! Proseguiamo nella lotta. Evviva lo sciopero generale! Evviva la rivoluzione!”(113) .
Corridoni fu ancora più incisivo cercando di motivare la folla con argomentazioni di carattere eminentemente politico:
“… non è soltanto contro la bastonatura del poliziotto che dobbiamo reagire, ma rivoltarci contro il governo e contro la monarchia. Noi diciamo forte che il proletariato di Milano e d’Italia non riprenderà il lavoro fino a quando Casa Savoia non sarà mandata in Sardegna… Noi siamo milioni e il governo non può contare che su centotrentamila soldati. Proseguiamo adunque: sarebbe un tradimento riprendere ora il lavoro”.(114)
Tale comizio di incitamento alla ribellione costò a Corridoni l’arresto, mentre Mussolini se la cavò semplicemente con un colpo di sfollagente che lo lasciò tramortito sul selciato.
Più gravi furono i disordini che si scatenarono a Torino, città di grande tradizione operaistica, appunto per la presenza delle grandi industrie, dove ben 30.000 operai, l’assembramento più numeroso di tutta la Settimana Rossa – fa notare il Lotti – si adunarono attorno alla locale Camera del Lavoro da dove sarebbe poi partito un lungo corteo che avrebbe attraversato tutto il centro cittadino, fra comizi e scontri con la forza pubblica che si sarebbero conclusi con il tragico bilancio di tre morti e cinque feriti.
Nonostante l’adesione allo sciopero del Sindacato ferrovieri, solo 20.000 di essi, cioè un quinto degli iscritti al sindacato, si astennero dal lavoro. L’astensione fu pressoché generale in Emilia Romagna, in Umbria e nelle Marche e ciò bastò perché venisse interrotta una delle tre linee che collegavano Roma all’Italia settentrionale, la linea adriatica, mentre venne fortemente intralciata la linea porrettana. Non ci fu però la paralisi totale auspicata dai promotori dello sciopero. Quella paralisi sarebbe stata provvidenziale per impedire il movimento delle truppe incaricate di sedare i disordini e per ostacolare le stesse comunicazioni fra le prefetture o fra le caserme.
Il 10 giugno lo sciopero continuava a Bari, dove i disordini avrebbero causato due morti e otto feriti,(115) estendendosi anche ad alcuni grossi centri vicini al capoluogo, come Andria e Bitonto, ma soprattutto veniva proclamato per ventiquattro ore nelle due maggiori città del Sud, Palermo e Napoli, dove, addirittura, negli scontri tra dimostranti e forza pubblica si registrò un morto ed un ferito grave.
Tuttavia fu Milano il centro politico della rivolta, sia per la consistente rappresentanza del mondo operaio e socialista, sia per la presenza fra i dimostranti dei leaders del movimento come Corridoni, De Ambris, Zanetta, Valera e soprattutto Mussolini che al contrario degli altri, che cercavano di gettare acqua sul fuoco dell’entusiasmo popolare, sostenuto dal solo De Ambris, arringava la folla affinché non venisse scoraggiata dalla presenza della truppa e continuasse nello sciopero; gli sfuggiva, tuttavia, che la stragrande maggioranza dei cittadini milanesi si erano ormai apertamente schierati contro i dimostranti tanto che, la mattina del giorno 11, due deputati socialisti Maffioli e Bernardini, avrebbero chiesto al prefetto di presidiare la sede dell’Avanti!, minacciata dai nazionalisti.(116)
Si rese, invece, perfettamente conto degli umori popolari Rigola, il quale, scadute le quarantotto ore stabilite dal Direttivo nel caso di sciopero politico conseguente ad un eccidio proletario, doveva decidere, come segretario generale della CGL, se continuare o no. La sua anima riformista e contraria ad ogni tipo di estremismo e di violenza lo avrebbe portato fin dall’inizio ad opporsi allo sciopero, constatate poi le conseguenze, – morti fra i lavoratori per l’intervento della truppa, sdegno fra l’opinione pubblica del paese, anche fra la più progressista, – non ebbe più dubbi sulla necessità di sospendere e di tornare alla normalità. Ritenne che il solo modo di salvare la faccia fosse quello di appigliarsi alle quarantotto ore previste nella deliberazione emanata dalla Camera del Lavoro Confederale e chiudere degnamente la cosa:
“Abbandonare quel limite – sostiene Lotti – quel solo appiglio valido per proclamarne la chiusura, significava inserirsi nella logica della prova di forza, e cioè della disfatta”.(117)
Più tardi, Rigola avrebbe così giustificato il suo gesto davanti al Consiglio Nazionale della Confederazione:
” Noi non potevamo, non dovevamo obbedire alla massa amorfa, ai non organizzati. Ciò non significa che io non sia per la rivoluzione e per la barricata. Ma non credo che la situazione in Italia consentisse di pensare sul serio alla rivoluzione.( ..) D’altronde chi mi sono trovato io dietro le spalle in quei giorni a Venezia? O della gente inerme o dei ” “repris de justice” dei borsaioli(…) Non nego che possano servire anche i borsaioli; ma essi andranno bene per la rivoluzione, non per gli scioperi di protesta. D’altronde i sassi contro la truppa non bastano; e predicare la rivoluzione alla gente inerme è un assassinio”(118)
Il discorso di Rigola era un capolavoro di razionalità, ma alcune frasi sfuggite al suo controllo dimostrano come il movimento sindacale e socialista fosse ormai completamente avulso dalla logica marxista e si trovasse, invece, pienamente integrato nel contesto riformista. Dimostra, peraltro, il disprezzo degli esponenti della sinistra, sulla scia tracciata da Bergson e di Le Bon, per la massa di cui si rileva soprattutto l’irrazionalità. Rigola, infatti, parla, quasi con sdegno, di massa amorfa, così come Pietro Nenni, chiamato a testimoniare nel corso del processo sulla Settimana Rossa, avrebbe parlato di allucinazione collettiva, alludendo alla ferocia di cui era stata preda la folla anconetana nel corso dei funerali delle vittime uccise il 7 giugno.(119)
Rigola prese la sua decisione senza consultare il partito i cui dirigenti non parlamentari, come Lazzari e Mussolini, non volevano nemmeno sentir parlare di conclusione dello sciopero, pensando che si fosse appena agli inizi di quella che avrebbe dovuto essere una rivoluzione. Tale comportamento era dettato da due motivi: la necessità di ribadire l’assoluta indipendenza del sindacato dal partito, indipendenza già riconosciuta e sancita al Congresso di Modena; in secondo luogo dimostrare ai massimalisti che dirigevano il partito, che senza l’appoggio della odiata riformista Confederazione, sarebbero rimasti voci clamanti nel deserto. La migliore organizzazione della CGL e delle federazioni sindacali di categoria rispetto alla segreteria del partito, spiega la prevalenza della corrente riformista anche quando dai Congressi nazionali usciva fuori una maggioranza massimalista, così come era avvenuto nell’aprile precedente, ad Ancona.(120)
Per i dirigenti del partito, viceversa, dopo mesi di martellante campagna rivoluzionaria lo sciopero avrebbe dovuto dimostrare, soprattutto alle nuove generazioni , le potenzialità rivoluzionarie del partito, perciò avrebbe dovuto essere – come scriveva Mussolini sulle pagine dell’Avanti! – immenso, impressionante, avrebbe dovuto terrorizzare la borghesia:
“(..) Dalle fabbriche ergastolari dove gli operai sacrificano al dio capitale le energie e – spesso – la vita; dai campi dove comincia a biondeggiare la messe che altri raccoglierà; dalle miniere profonde che gettano alla luce ricchezze immani, e chiudono nel seno ecatombi d’Eroi, da tutti i luoghi, insomma, dove il lavoro è sfruttato, uscirà oggi l’esercito innumere, anonimo e oscuro che, quando vuole, sa imporre la sua volontà decisa alle forze della conservazione e della reazione.”(121)
Di tale impressione sulla società e sul governo borghese avrebbe dovuto servirsi il gruppo parlamentare socialista, inserendo tale protesta popolare nella lotta parlamentare e provocando la caduta del governo Salandra. Ma Lazzari e Vella, estranei com’erano alle manovre parlamentari, non si rendevano conto che il loro progetto non era facilmente realizzabile. Per far cadere il governo si sarebbe dovuta ricompattare tutta la sinistra, la socialista con la costituzionale, così come era avvenuto durante la crisi di fine secolo. Ma allora, l’omogeneità di comportamento della Sinistra, dalla estrema alla più moderata, era stato determinata dalla reazione sproporzionata del governo che era apparsa, quasi, una provocazione al sistema di libertà individuali previste dallo Statuto. Nel 1914 la situazione era esattamente opposta; il governo intelligentemente aveva evitato ogni manifestazione di forza, limitandosi a mantenere, con le leggi ordinarie, l’ordine pubblico; i pochi morti e feriti erano stati causati dall’intemperanza della folla che in molti casi, aveva sparato prima della forza pubblica o che comunque aveva provocato l’intervento armato di quest’ultima per il suo comportamento eccessivamente facinoroso e spesso molto violento. A riprova di ciò vi erano le manifestazioni di simpatia della gente alla truppa, ai carabinieri o alla polizia. Insomma, il governo aveva dimostrato solamente di volersi difendere e di voler difendere i cittadini dalle violenze di pochi fanatici. In tali condizioni la sinistra costituzionale, non solo non si sarebbe mai accordata con i socialisti ma si sarebbe stretta ancor di più attorno al governo.
Malgrado la proclamazione della cessazione dello sciopero fatta dalla CGL, in Romagna e nelle Marche, le manifestazioni di protesta continuarono, anzi si acutizzarono, tanto che ad Ancona , Malatesta, senza attendere informazioni più precise su quando stesse avvenendo nel resto del Paese, inneggiava al successo della rivoluzione dalle pagine della Volontà:
“Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme; in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari, il Quirinale è sfuggito per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato. A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazioni e conflitti. E da tutte le parti giungono notizie incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti e anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto… Poiché lo sciopero di protesta si è sviluppato in rivoluzione, bisogna provvedere alle due prime necessità della rivoluzione: la difesa armata e l’alimentazione del popolo”- quanto alla notizia secondo cui la Confederazione avrebbe proclamato la cessazione dello sciopero: “La notizia manca di ogni prova ed è probabile che sia stata inventata e propagata dal governo allo scopo di gettare il dubbio in mezzo ai lavoratori ed arrestarne lo slancio magnifico. Ma fosse anche vera , essa non servirebbe che a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La Confederazione del Lavoro non sarebbe ubbidita… E poi, ora non si tratta più di sciopero, ma di rivoluzione. Il movimento comincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione !”.(122)
Probabilmente Malatesta era convinto di ciò che scriveva o voleva convincersi che fosse vero, anche se indubbiamente cercò volutamente di esagerare la situazione, visto che nessuna notizia era mai giunta da Roma, relativamente alla situazione di estremo caos che prospettava l’anarchico. Era necessario, tuttavia, caricare la folla dei dimostranti per spingerli a resistere, per convincerli che il loro movimento non era stato vano, ma anzi aveva determinato addirittura la crisi delle istituzioni. Per un giorno Ancona si presentò come una repubblica rivoluzionaria, quasi una Comune, con una camera del lavoro che si apprestava ad eseguire le istruzione di Malatesta, razionando gli alimenti, soprattutto la carne e il latte, e iniziando le requisizioni presso i ricchi possidenti, – anche se l’agitatore aveva proclamato che per il momento non avrebbe abolito la proprietà privata. La festa durò fino a sera, quando giunsero le prime notizie dal resto del Paese, notizie che, al contrario delle speranze degli agitatori, dicevano che solo Ancona e qualche parte della Romagna rimanevano in istato di agitazione; in tutto il resto d’Italia lo sciopero era finito, non tanto per repressione governativa, ma per decisione del massimo sindacato dei lavoratori, a cui il partito socialista non si era opposto. A tale notizia il Sindacato Ferrovieri decretò l’immediata ripresa del lavoro e in un’ultima accorata assemblea nella Casa del Proletariato, tutti, compreso Malatesta, furono costretti ad accettare, arrendendosi all’evidenza dei fatti, l’ordine del giorno Nenni sulla cessazione dello sciopero, malgrado Mussolini continuasse ad arringare le folle dalle colonne del suo giornale:
“(..) La parola d’ordine è questa: lo sciopero deve continuare e si deve riprendere la propaganda antimilitarista per fare in modo che le baionette si alzino quando vogliamo noi. Dobbiamo far sì che il ‘soldo del soldato’ sia presto un fatto compiuto. La nostra propaganda deve penetrare nelle caserme dove ai figli del popolo si insegna ad uccidere i propri fratelli”(123)
Il 13 giugno anche ad Ancona era tutto finito
Il fallimento dello sciopero generale attirò sulla Confederazione del Lavoro e su Rigola gli strali di tutti i socialisti massimalisti, ma soprattutto dei sindacalisti rivoluzionari che ne approfittarono per dimostrare ai lavoratori che ormai l’unico sindacato degno di tale nome, di rappresentare le loro esigenze, fosse l’USI essendosi la CGL rivelata il miglior poliziotto del governo – come la definì Ercoli – o l’anticamera della prefettura e del governo, secondo Zocchi. Amilcare de Ambris arringò gli ultimi dimostranti convenuti all’Arena di Milano, dopo la proclamazione della cessazione dello sciopero dicendo:
“E voi sindacalisti e libertari ritornate pure domani al lavoro, ma ricordate che dovete usare le armi non solo contro i poliziotti, ma contro i vostri traditori.”(124)
Anche Mussolini accusò di fellonia la CGL e si dissociò dalla direzione del partito che aveva accettato supinamente la decisione di Rigola, ma concluse il suo intervento invitando i lavoratori ad astenersi da polemiche fratricide e inneggiando alla sciopero generale:
“(..) Vi dico con sincerità che se lo sciopero è precipitato, ciò lo si deve al deliberato – che non esito a definire una vera fellonia – della Confederazione del Lavoro(..) Io cittadino Mussolini, vi dico che discuterò anche il deliberato della Direzione del Partito. Difenderò strenuamente l’autonomia del Partito rispetto a qualsiasi organizzazione (Applausi). In Italia non vi sono soltanto i trecentomila organizzati della Confederazione del Lavoro e i centomila dell’Unione sindacale, ma vi sono anche i sette milioni di proletari organizzabili, il Partito dei Lavoratori, il proletariato tutto nelle sua complessità( Unanimi applausi) Con la stessa franchezza con cui vi ho parlato in merito alla Confederazione del Lavoro, non esito a dirvi che anche l’atteggiamento del Comitato dei ferrovieri non è stato all’altezza della situazione.(…) Non dovevano aspettare tre giorni per deliberare lo sciopero di solidarietà. Durante questi tre giorni i treni hanno continuato a correre; e se in qualche parte è avvenuta la sospensione del servizio, ciò lo si deve non all’iniziativa dei ferrovieri, ma perché gli operai appartenenti all’industria libera hanno divelto i binari(..) Ed ora, o amici, o proletari, ora che abbiamo detto tutta la verità, aggiungiamo che non occorre – specialmente in questo momento in cui, al di là degli spalti che ci circondano, la borghesia sta in agguato e ci ascolta e ci sorveglia – insistere in polemiche fratricide(…) abbiamo cominciato la nostra manifestazione col grido di : ‘Viva lo sciopero generale!’; chiudiamola, o compagni, o lavoratori, ancora col grido di: ‘Viva lo sciopero generale!’.(125)
Il comizio si sarebbe concluso fra gravissimi incidenti che avrebbero causato il sedicesimo morto della violenta settimana, il cui bilancio definitivo fu: 16 morti e seicento feriti fra gli scioperanti; due morti e 408 feriti fra le forze dell’ordine.(126)
Per molti giorni Rigola e i confederali furono bersaglio del sarcasmo e delle più pesanti accuse di tradimento da parte della maggioranza di coloro che avevano aderito allo sciopero. Salvemini dalle pagine dell’Unità, stigmatizzò il comportamento tenuto dal sindacato e dalla direzione del partito. Condannava anche i rivoluzionari accusandoli di non aver presentato ai dimostranti una meta concreta a cui aspirare, come, per esempio, la lotta contro il dazio del grano, invece di distogliere, come sistematicamente avevano fatto per anni, i proletari dai problemi concreti della vita nazionale:
“(…) Le folle inquiete che dovevano prorompere prima o poi, e prima o poi ritorneranno a prorompere sotto l’aculeo di un disagio economico e soprattutto morale che è il frutto di dieci e più anni di giolittismo, avrebbero avuto durante i tumulti un bersaglio preciso contro cui mirare, un interesse generale ben definito da rivendicare, una iniziativa immediata da imporre agli uomini di governo”(127)
Posizione questa che era in netta antitesi con quella di Mussolini che aveva sempre inteso lo sciopero generale non come un’arma di lotta economica, ma come un’arma di lotta politica ideale, senza rendersi conto, al contrario del maturo Salvemini, che le masse italiane non era pronte, e forse non lo sarebbero mai state a lottare per un’idea, per quanto fascinatrice potesse essere. Del resto lo stesso concetto era già stato precedentemente espresso da Ivanoe Bonomi:
“(…) Le masse operaie sono per istinto e per bisogno le più inclini ad una politica di riforme. Non avvezze, per la scarsezza della loro cultura, alle astrazioni intellettuali, esse conservano, sotto lo stimolo delle necessità quotidiane, il senso realistico delle cose, e richiedono che il loro movimento sia contrassegnato da una serie di risultati tangibili. Ora, un partito, o una sua frazione, se volesse prescindere da questa psicologia delle masse e pretendesse legarle a sé con la pura predicazione di un futuro lontano, rischierebbe di perdere ogni seguito ed ogni effettiva influenze. E questa non è affatto l’intenzione dei nostri rivoluzionari.(..)(128)
Perfetta concordanza, dunque, con la tesi che avrebbe manifestato, nel 1914, Salvemini, che tuttavia dalla condanna che riservava all’ala rivoluzionaria del partito, escludeva il solo Mussolini per il quale continuava ad avere parole di stima e di ammirazione e che poneva su un piano diverso rispetto agli altri protagonisti della Settimana Rossa. Lo giudicava, infatti, uno di quei capi socialisti rivoluzionari ” che sono rivoluzionari sul serio, e parlano come pensano, e operano come parlano, e perciò portano in sé tanta parte dei futuri destini d’Italia”(129)
Pochi giorni dopo, passata l’emozione del momento, tutti, eccetto gli anarchici e i repubblicani romagnoli, si convinsero che non era giusto addebitare alla CGL il fallimento dello sciopero. Rigola aveva agito, per di più pressato dalle Camere del lavoro di tutta Italia, quando già lo sciopero si avviava al fallimento per autoestinzione e si era limitato, dunque, ad ufficializzare una situazione di fatto. Lo stesso Mussolini pochi giorni dopo, su Utopia ritirò le accuse di fellonia che aveva lanciato alla CGL:
“Quello della Confederazione – scrisse – può essere stato un errore e una debolezza; non un tradimento”(130)
Esauritasi la polemica contro la CGL, se ne aprì una ancor più violenta tra il direttore dell’Avanti! e il gruppo parlamentare del partito, che, il 20 giugno, con un perentorio ordine del giorno, dove non si faceva mai menzione dello sciopero generale, condannava inappellabilmente il comportamento assunto dal proletariato organizzato durante la settimana Rossa, ribadendo il concetto fondamentale del socialismo internazionale moderno
“giusta il quale le grandi trasformazioni civili e sociali, ed in particolare l’emancipazione del proletariato dal servaggio capitalistico non si conseguono mercé scatti di folle disorganizzate il cui insuccesso risuscita e riattizza le più malvagie e stupide correnti del reazionarismo interiore”
e insistendo sulla necessità di persistere nella lotta
“sul terreno parlamentare e nella propaganda fra le masse nella più decisa opposizione a tutti gli indirizzi di governo militaristi, fiscali, protezionisti e di vigilare per la difesa ad oltranza, a qualunque costo delle insidiate pubbliche libertà, intensificando al tempo stesso l’opera assidua e paziente, la sola veramente e profondamente rivoluzionaria, di organizzazione, di educazione, di intellettualizzazione del movimento proletario”.(131)
Il fallimento dello sciopero aveva rialzato il morale dell’ala riformista del partito, sconfitta nel congresso di Ancona dell’aprile precedente, e dei confederali che nel Consiglio nazionale della CGL del 16 giugno avevano votato un ordine del giorno con cui si condannava il socialismo catastrofico e non gradualistico.
Zibordi in un suo articolo pubblicato su Critica Sociale, dimostrava sinceramente tutta la preoccupazione che tormentava la leadership socialista moderata in relazione ai futuri imprevedibili passi del focoso romagnolo, il cui ascendente sulle folle era innegabile:
“(…)Col prestigio irresistibile della sua combattività aspra, ma elevata, che trascina le folle senza essere – in barba alla etimologia – volgarmente demagogica; con alcune doti personali di credente e di milite, egli fa ingoiare alle masse tutto quello che vuole(..)
ma
“(..)la direzione del partito, se dovesse pronunciarsi per appello nominale… sulle idee di Mussolini(…) direbbe certo una parola che non è quella di Mussolini: Non quella delle sue esplosioni passionali, e non quella delle meditate elucubrazioni dottrinali, con cui tenta di suffragare le prime(…)” (132)
Tuttavia, Mussolini preferì non replicare aspettando prudentemente la riunione della Direzione del partito in programma a Roma per il 26 e il 27 giugno. In quell’occasione tutto si appianò, non ci furono né assoluzioni né condanne, poiché tutti capirono che non conveniva a nessuno dare del partito una immagine di divisione e di disomogeneità interna. D’altra parte la maggioranza massimalista non poteva abbandonare alla vendetta dei riformisti il direttore dell’Avanti! che da due anni incarnava il rivoluzionarismo del partito, quel rivoluzionarismo a cui guardavano i giovani e in genere gli sfruttati in quel periodo di transizione verso la società di massa. Inoltre, anche quelli fra i socialisti che avevano auspicato la cessazione immediata dello sciopero, come per esempio Serrati, si guardavano bene dal rinunciare al rivoluzionarismo per un parlamentarismo che, temevano, avrebbe finito per impantanare il partito nella palude di uno sterile ed inopportuno trasformismo :
“(..) il parlamentarismo contorce e svisa ogni nostra azione; – avrebbe scritto Serrati il 13 giugno su Il Secolo nuovo – conturba e corrompe ogni movimento del partito socialista(…) La borghesia monarchica italiana ha deluso il sogno di coloro che speravano in un dolce, roseo tramonto. Il suo riformismo ha fatto cilecca. S’è mostrato come la maschera con cui essa ha coperto la reazione, il militarismo ,l’affarismo. La borghesia non può essere che borghese(Sorel), vale a dire avida di dominio, cieca e violenta. Contro la sua violenza noi dobbiamo preparare la nostra. Pensiamoci e prepariamoci”
Dalle pagine dell’Avanti!, Mussolini mostra un ottimismo e una soddisfazione, se pur non scevra di frecciate polemiche alla CGL e alla Direzione del partito, per i risultati dello sciopero generale, che di fatto non corrispondono ai suoi veri sentimenti. Egli capisce, ma non può apertamente dirlo ai fedeli lettori socialisti che ne sarebbero rimasti quantomeno confusi, che il fallimento dello sciopero generale ha segnato la fine della speranza in un socialismo rivoluzionario, capace di contare sulla classe e sulle sue lotte, non per un fine economico, ma per far trionfare l’idea di un ordine nuovo fondato sulla giustizia sociale. Così, pur esaltando la partecipazione numerica allo sciopero – secondo le stime ufficiali circa un milione di dimostranti -, la sua diffusione dal nord, al sud, dai piccoli centri rurali alle grandi città industriali, non può nascondere la delusione per la defezione del potente sindacato dei ferrovieri, la cui adesione allo sciopero sarebbe stata determinante, soprattutto in relazione alla paralisi del traffico ferroviario e per la decisione della CGL, che aveva unilateralmente decretato la fine dello sciopero, allo scadere delle 48 ore, preoccupata, insieme al gruppo parlamentare socialista, di porre fine, con una tale azione di forza, alla collaborazione politica con la borghesia progressista per il raggiungimento di mete economiche vantaggiose per il proletariato:
“(..) Una politica di realizzazioni riformiste – quale viene sognata dai nuovi e vecchi postulanti al potere – scriveva il futuro duce all’indomani della fine di quello sfortunato esperimento rivoluzionario – sarebbe impotente, anche ammettendo che si svolgesse in condizioni favorevoli ad attenuare gli antagonismi di classe, perché nostra funzione e nostro scopo è appunto quello di accelerare fino al possibile il ritmo di questi antagonismi, di esasperarli, sino a che l’antitesi fondamentale della società borghese si risolva, attraverso l’atto fatalmente rivoluzionario, nella sintesi liberatrice del socialismo. Se – puta caso – invece dell’on. Salandra, ci fosse stato l’on. Bissolati alla Presidenza del Consiglio, noi avremmo cercato che lo sciopero generale di protesta fosse stato ancor più violento e decisamente insurrezionale”(133)
Che la Settimana Rossa avesse provocato la crisi del partito è confermato non solo dall’atteggiamento di Mussolini, dalla maturazione del suo pensiero politico verso il concetto di Nazione , – che già nel 1913 era per lui costituita dal proletariato e dal popolo (134)- ma anche dalla reazione, registrata dai maggiori quotidiani del tempo, della stragrande maggioranza dei giovani socialisti italiani, come per esempio Pastore che confermerà in un suo articolo che
“..La settimana Rossa fu per noi, giovani socialisti rivoluzionari, una delle cause principali che ci spinsero a riesaminare tutto: teoria e pratica”(135)
Sull’altro fronte, quello dei conservatori, la Settimana Rossa ebbe il merito di ricompattarli tutti attorno al governo. Non solo giornali tradizionalmente conservatori, come La Stampa o Il Corriere della Sera, condannarono perentoriamente la violenza delle manifestazioni di protesta socialiste, invocando un governo più forte e capace, ma anche Il Secolo, portavoce del radicalismo, si scagliò decisamente contro lo sciopero generale e i suoi sostenitori, accusandoli di seminare solo violenza e vittime e di spingere verso la reazione anche i liberali di sinistra. I nazionalisti, poi, approfittarono della situazione per scagliarsi contro la debolezza e l’inettitudine di un governo che dava l’impressione
” di impetrare quotidianamente ed umilissimamente dalla longanime tolleranza di lor signori sovversivi, il (..) diritto all’esistenza”(136)
Andò, addirittura, oltre Enrico Corradini su Il Dovere Nazionale del 13 giugno dichiarando che
“(..) Ed è tempo ormai che la nazione si desti e faccia essa la sua rivoluzione; non la rivoluzione da commedia della demagogia sua padrona ,ma quella del popolo contro la demagogia per redimere finalmente la nazione dalla servitù e dalla vergogna”.
La divisione del proletariato su interessi di categoria portava Corradini ad indicare la Nazione come espressione vera di unità popolare e la difesa di essa come primaria rispetto al problema sociale; stranamente, pochi mesi dopo, anche Mussolini avrebbe parlato, lo stesso linguaggio, convintosi che nel crogiolo dell’idea nazionale potessero annullarsi le differenze di classe, con la conseguente soluzione del problema sociale.
I giornali cattolici, in genere, condannarono la protesta popolare e alcuni di essi accusarono anche il governo e il Parlamento di eccessiva inerzia, approfittando dell’accaduto per spingere gli elettori, nelle prossime elezioni amministrative a sostenere appunto i cattolici, che pur astenendosi dagli estremismi socialisti, avrebbero garantito la protezione ai più deboli(137)
Al di là delle polemiche e delle accuse incrociate di responsabilità e di fellonia, il dato di fatto inconfutabile rimaneva il fallimento dello sciopero generale. Occorreva, dunque, analizzarne i motivi; lo fecero gli anarchici, i socialisti, Mussolini, i sindacalisti rivoluzionari come De Ambris. Quest’ultimo ebbe il coraggio di ammettere che la rivoluzione era fallita, perché nessuno, ad eccezione di Malatesta, credeva in essa:
” Noi che sentiamo la fatale necessità della violenza per la soluzione dei conflitti sociali – scriveva De Ambris – ci dibattiamo continuamente in una tragica contraddizione. Tutto l’anno si predica il dovere dell’azione eroica e della consapevole non metaforica rivolta; ma poi quando il momento auspicato del risveglio proletario viene e la massa cessa d’esser prona e si leva negli impeti sublimi del più puro ardore di sacrifizio, siamo ancora noi che accorriamo per contenere lo slancio superbo, per quetarne la tempesta di sdegno. Così neghiamo in un giorno la propaganda fatta durante mesi. La massa ci guarda sorpresa e disorientata.”(138)
Lo stesso Mussolini che un anno prima in occasione del grande sciopero di Milano aveva dissuaso la folla dal continuare nella protesta, riconoscendo che senza l’appoggio di una parte dell’esercito la rivoluzione non sarebbe mai scoppiata, un anno dopo, tutto sommato, pur incoraggiando i rivoltosi dalle pagine dell’Avanti! e pur augurandosi il successo dello sciopero generale, era della stessa opinione. Secondo la testimonianza dell’amico Torquato Nanni, non solo i fatti di Ancona lo avevano preso alla sprovvista, ma anche nel momento di maggiore entusiasmo egli fu sempre scettico sui risultati della manifestazione che, tuttavia, ai suoi occhi, avrebbe dovuto avere un carattere quasi pedagogico, nei confronti delle masse, convincerle cioè a sfruttare la forza del numero, la violenza insita nelle loro rivendicazioni, per spaventare la classe borghese, per affermare la propria potenza. Puntava, dunque, su una giornata storica, su una scossa da impartire e alle masse e al quietismo dei dirigenti socialisti.(139) A chi gli faceva notare che continuare nella prova di forza avrebbe significato provocare altre vittime rispondeva, in un famoso articolo su Utopia, con parole di Turati, dietro cui però appariva l’afflato passionale e idealistico di Mazzini:
“..Ma che importano dieci o cento morti? Tutti i giorni il proletariato lascia migliaia dei suoi lungo il calvario della sua fatica. Non disse una volta l’on. Turati che i ” cadaveri sono le pietre miliari dell’ascensione proletaria?”
Passata la bufera all’interno del partito, Mussolini abbandonò la prudenza che lo aveva distinto in quei giorni e incominciò a confutare le posizioni dei suoi avversari riformisti, si badi bene, non dalle pagine dell’Avanti! che come organo ufficiale del partito doveva essere tenuto fuori dalle polemiche interne per dare del movimento socialista italiana un’immagine compatta, bensì dalle colonne di una rivista che egli stesso aveva fondato e che sarebbe stata la palestra principale della sua evoluzione politica: parliamo di Utopia. Da lì egli aveva già cominciato, fin dal primo numero, la confutazione della dogmatica marxista e soprattutto del revisionismo riformista, primo passo, questo, verso l’abbandono del partito che si sarebbe attuato da lì a pochi mesi:
“… è possibile dopo la revisione riformista, una revisione rivoluzionaria del socialismo ? E’ possibile. E’ urgente. Una revisione del socialismo dal punto di vista rivoluzionario, si giova, in questo momento di un complesso di fattori, tra i quali due sono, a parer nostro, preminenti: il fallimento del riformismo politico, la crisi dei sistemi filosofici positivisti.”(140)
All’indomani della fine dello sciopero e dell’onesto riconoscimento del suo fallimento, sempre dalle pagine di Utopia, Mussolini esprime il suo sfogo sincero, privo dai condizionamenti, che, comunque, gli imponeva la linea politica da rispettare sul giornale di partito, in relazione a ciò che lo sciopero avrebbe potuto significare per la storia del proletariato italiano e del socialismo, se il gruppo parlamentare socialista e la CGL, ispirati al gradualismo riformistico, non gli avessero tarpato le ali:
“(..) Il movimento del giugno non è stato soltanto uno sciopero generale, ma qualche cosa di più e di meglio; non è stato una sommossa cieca, ma un’insurrezione con obiettivi abbastanza precisi: se è mancato lo stato di fatto rivoluzionario, c’era però diffuso lo ‘stato d’animo’ rivoluzionario: il desiderio, l’aspettazione di qualche cosa di nuovo; quell’aspettazione ardente che Joung, viaggiando in Francia prima della Rivoluzione, riscontrava nei contadini oppressi dal giogo feudale: (…) qualche cosa si è decomposta; una sfiducia antica ha dato luogo ad una speranza nuova; la impossibilità è divenuta possibilità,; l’eventualità lontana, attuosità vicina; il problema della rivoluzione ( parola sublime!) di ‘una’ rivoluzione è posto finalmente sul tappeto: non si tratta ormai che di mobilitare e di scatenare le forze contro le istituzioni che ci reggono e la cui fragilità è .. cristallina (..) Il movimento, ad ogni modo, ha varcato i confini della cronaca ed è già consegnato alla storia. Cominciato bene, non è finito troppo bene.(..) Ma il documento ufficiale del dissenso dei riformisti è l’ordine del giorno votato dal Gruppo parlamentare socialista(141). Non ritornerò sul ‘modo’ e sui ‘precedenti’ di quell’ordine del giorno. Non chiederò ancora una volta – sarebbe inutile ormai! – da chi e da quanti fu votato. E’ un segreto di stato, fors’anco .. di Pulcinella. Mi limiterò a criticarlo(…) Quell’ordine del giorno è infelice. Infelice come la fine dell’ostruzionismo col quale i deputati socialisti hanno cercato di turlupinare la platea con atteggiamenti di maniera. Ho torto anch’io: quello di aver taciuto per carità di partito. Carità che altri non sente. La conclusione è che il riformismo ha rivelato ancora una volta la sua anima conservatrice. Una cosa intanto è chiara: in Italia esiste uno stato d’animo rivoluzionario. I moti di giugno lo hanno dimostrato. L’impalcatura sociale scricchiola paurosamente (..) Il pericolo è che la rivoluzione ci sorprenda troppo presto, che ‘precipiti’ per forza d’eventi più ancora che per volontà di uomini. Ma la rivoluzione sarà. Invano la deprecano i riformisti d tutte le scuole. Si capisce! Ciò li turberà un poco. Essi si preoccupano della ‘pelle’ del proletariato, ma è della loro che sono, in realtà, ‘preoccupati’. Conosciamo il loro ‘pacifismo’. Non sarà la rivoluzione sociale? Che importa! Ogni rivoluzione politica, diceva Carlo Marx, è anche sociale(..) L’Italia ha bisogno di una rivoluzione e l’avrà.”
Contestava anche il dogma dell’esistenza di un socialismo unico per tutte le nazioni che non tenesse conto delle peculiarità dei vari popoli:
“(…)Il socialismo internazionale ‘moderno’ è una frase priva di senso. Non c’è un vangelo unico di socialismo per tutte le nazioni, nel quale tutti si debba giurare, per la scomunica maggiore. Ogni nazione si è foggiata il ‘suo’ socialismo. Il periodo dell’egemonia tedesca nel socialismo internazionale sta per tramontare”(142)
La settimana Rossa creò un forte travaglio nell’animo di Mussolini, non solo per il rude scontro tra la realtà e il sogno, – una massa senza armi non avrebbe mai potuto aver la meglio su un esercito organizzato – , ma soprattutto perché nacque in lui il sospetto che lo slancio rivoluzionario fosse mancato non solo al partito e al sindacato, ma soprattutto al proletariato. Quella sfiducia nella massa amorfa che si era fatta strada in lui dopo le letture di Sorel, di Bergson, di Le Bon, di Pareto, aumentava suo malgrado e lo portava a pessimistiche conclusioni. Alle stesse conclusioni era giunto anche Prezzolini
“Non c’è in Italia nei partiti avanzati la sufficienza intellettuale, morale e pratica per un nuovo governo. Non c’è la “capacità delle classi proletarie”.. Di queste cose i migliori dei partiti socialista e repubblicano sono convinti quanto me”(143);
mentre Papini si rammaricava non solo perché il sistema borghese non aveva fatto niente per alleviare i disagi delle classi popolari, ma soprattutto perché i partiti rivoluzionari
“.. non avevano fatto quello che bisognava fare per far riuscire la loro rivoluzione e per impedire sacrifici inutili di sangue, di tempo e di quattrini”
e concludeva chiedendosi amaramente se
“.. oggi i partiti nuovi hanno tanti uomini nuovi che farebbero meglio messi al posto dei vecchi”(144) E Salvemini su l Unità:
“..I tumulti dei giorni scorsi non sarebbero avvenuti invano se i condottieri dei partiti democratici non avessero dedicato tanti anni della loro attività e delle loro scaltrezze a vuotare di ogni contenuto specifico l’azione dei loro partiti, distraendoli sistematicamente da tutti i problemi concreti della vita nazionale, esaurendoli nell’anticlericalismo commediante e nella conquista di microscopiche leggine sociali o nell’accattonaggio di lavori pubblici per i cooperatori disoccupati”(145)
Le opinioni espresse da questi uomini ci dimostrano che non fu casuale il loro appoggio al primo Mussolini.
Anche Prampolini aveva interpretato magistralmente la tempesta che scuoteva l’animo del futuro duce:
“… vide che nulla di concreto – nel senso che egli sognava – rimaneva di quell’incendio, e tentò confortar sé stesso e il proletariato, dando dignità di dottrina al moto popolare… Tentò di teorizzare anche l’inteorizzabile,.. ci vide l’atto di un dramma, e scrisse che con altri atti successivi e più vasti, il dramma arriverebbe all’epilogo” (146)
Dal socialismo al fascismo
Pochi si sono preoccupati – come sostiene Nolte – di indagare il passaggio di Mussolini dal socialismo, all’interventismo e poi al fascismo. Anzi ha fatto comodo alla storiografia di sinistra mettere in ombra il ruolo che egli svolse all’interno del socialismo italiano fino alla svolta del 1914:
“Alla vigilia della guerra mondiale, dopo la sua rapida ascesa , egli non è certo il Duce del socialismo italiano, ma tuttavia è la personalità più colorita, più affascinante e più ricca di forza espressiva del suo partito, un politico di importanza europea”.(147)
Se si è parlato di salto della quaglia, di tradimento, di opportunismo politico, ma si è poco messo in rilievo come il passaggio dal socialismo al fascismo, che non può non essere ricollegato ai fatti di Ancona e all’adesione alla logica militarista degli altri partiti socialisti europei, fosse una evoluzione del pensiero politico mussoliniano che non poteva, tuttavia, prescindere dalla sua formazione anarchico-marxista.
Secondo Nolte l’evoluzione del pensiero mussoliniano sarebbe il logico prodotto del rapporto tra i due pensatori – Marx e Bakunin – che influenzarono particolarmente il pensiero del futuro duce, rapporto che fino ad ora è sempre stato negato e che invece esiste..
Mussolini si professò sempre marxista ortodosso, anche se in effetti il suo rifiuto dei dogmi, non aveva nullo di ortodosso; si dichiarò, tuttavia, sempre contrario all’idolatria di Marx, sforzandosi di comparare e integrare quella dottrina con le nuove correnti di pensiero che avevano i loro caposcuola in Bergson, Pareto, Sorel e anche Nietzsche. Accetta il confronto non solo con altri pensatori, alcuni dei quali ritenuti antitetici a Marx, ma anche con gli avversari politici, con chi, come Prezzolini sostiene che la dottrina marxista non è universale, poiché essa era adattabile solo a quel particolare sistema industriale e sociale esistente in Inghilterra nella prima metà dell’ottocento. Il suo marxismo, dunque, non è impermeabile alle nuove idee frutto dei mutati tempi, né è così ortodosso da impedirgli il sorgere di dubbi come avviene dopo l’approfondito studio di Sorel e del suo mito dello sciopero generale che gli farà capire la perdita da parte del partito dello spirito rivoluzionario e violento. Nega e respinge il parlamentarismo, poiché ritiene che il partito debba agire non integrandosi nello Stato, con l’accettazione del suo sistema istituzionale e quindi con la lotta all’interno di esso, ma al di fuori dello Stato che deve essere abbattuto mediante la rivoluzione, poiché è proprio lo Stato con i suoi mezzi oppressivi, primo fra tutti l’esercito, il vero nemico del proletariato. Perciò il socialismo non può non essere antimilitarista. Ma lo Stato che Mussolini mira a stravolgere è lo Stato borghese, non lo Stato in genere che egli non considera alla maniera marxista una infrastruttura, bensì alla maniera hegeliana come l’organismo regolatore della società, il cui compito naturale è quello di difendere i più deboli e non di fare da scudo alla classe borghese. La prova si avrà al momento in cui raggiunge il vertice del potere e abbandona la rivoluzione fascista per difendere ed esaltare il concetto di Stato.
Si è detto che Mussolini avesse recepito il concetto di violenza dallo studio di Sorel. Ma un marxista ha forse bisogno di Sorel per credere nella violenza che è insita nel pensiero di Marx, grande esaltatore del vandalismo della Comune?(148)
La violenza ha per Marx una funzione ostetrica, dar vita ad una società nuova, essa è universale, ma transitoria. Per Sorel invece la violenza deve essere perpetua, perché essa rappresenta la dialettica sociale, lo scontro di classe, che è una precondizione dell’umanità e perché solo attraverso la violenza le masse, gli oppressi, vengono sensibilizzati alla ricerca e alla costruzione di un mondo nuovo.
Secondo Nolte, il concetto di violenza in Mussolini è tratto dalla logica marxista: la violenza è vista come mezzo risolutore dei mali della società. Perciò egli giudica espressione di decadenza del socialismo il riformismo, il socialismo parlamentare, il socialismo degli avvocati, che prescindono dalla violenza e spingono invece alla collaborazione innaturale con una classe con cui è invece indispensabile lo scontro.
“Gli interessi del proletariato sono antagonisti a quelli della borghesia. Fra queste due classi nessun accordo è possibile. Una di esse deve sparire… La lotta finale – scriveva – sarà violenta catastrofica, poiché i capitalisti non rinunceranno volontariamente al loro potere economico e politico”.(149)
Con il termine socialismo degli avvocati, Mussolini vuole combattere la tradizione socialista italiana che è una tradizione borghese; il socialismo italiano fu voluto dagli intellettuali e non dagli operai. Come Lenin punta su una netta divisione delle classi e in ciò richiama anche Sorel che diffida della dirigenza dei partiti socialisti, composta da borghesi che guidano proletari.(150)
Un altro contrasto con l’ortodossia marxista è costituito dall’attenzione quasi esclusiva che essa riserva al proletariato operaio, ignorando quello contadino. Marx, peraltro, immaginava uno specifico teatro per la rivoluzione operaia: una società industrializzata in cui la classe detentrice dei capitali e dei mezzi di produzione avesse ottenuto il massimo sfruttamento del proletariato operaio. Quando l’immiserimento di quest’ultimo fosse arrivato all’apice, sarebbe automaticamente scoppiata la rivoluzione sociale con la conseguente abolizione della proprietà privata, delle classi sociali e dello stato. Questa visione limitativa della società portava Mussolini a pensare che Marx nell’elaborare la sua dottrina avesse tenuto conto unicamente della società industriale inglese, in cui viveva, senza tener conto delle condizioni sociali ed economiche proprie del resto d’Europa. In verità Marx stesso aveva compreso i limiti della sua dottrina e nel 1856, in una lettera ad Engels, aveva riconosciuto che senza l’apporto contadino l’azione del proletariato industriale sarebbe stata destinata al fallimento. Preannunciava, cioè, quella alleanza tra contadini e operai che sarebbe stata la parola d’ordine di Lenin, ma che non fu mai elaborata da Marx e dai suoi seguaci a livello di teoria.(151) Mussolini si rendeva, dunque, conto che in un’Italia rurale come era quella dell’inizio del secolo, nonostante il boom industriale di quegli anni, la teoria di Marx era inapplicabile. Il non tenere in conto il proletariato contadino, che costituiva la colonna portante dell’economia italiana e di quella della maggior parte dei paesi europei, era particolarmente grave per un uomo come lui che veniva dagli ambienti contadini della Romagna, dove aveva avuto più successo la predicazione anarchica, perché ai contadini si rivolgeva.
Seppure la sua formazione culturale e politica era avvenuta prevalentemente fra gli ambienti operai degli emigrati in Svizzera o degli irredenti trentini, le sue prime esperienze politiche e sindacali furono fatte fra i contadini della sua Romagna, allo scopo di eliminare la mezzadria e ridurre lo scontro alle due sole classi dei proprietari terrieri e dei braccianti nullatenenti. Per questi ultimi egli rivendicava la proprietà delle trebbiatrici attraverso la costituzione di cooperative sociali in cui, il bracciante incolto potesse imparare a sfruttare la forza del numero per il conseguimento di interessi collettivi. L’eliminazione della mezzadria aveva una sua logica tipicamente marxista, condurre cioè alla radicalizzazione della lotta di classe, senza la quale sarebbe stata impossibile la rivoluzione.
L’ambiente contadino sarà sempre presente in lui, anche quando è costretto a trasferirsi nella più industriale città italiana; l’educazione impartitagli dal padre anarchico, non verrà mai accantonata, anche perché egli comprenderà col passar del tempo che l’autentica realtà italiana è proprio quella che proviene dalla campagna , dalle lotte, ma anche dalle tradizioni del mondo contadino.
Mussolini si dimostra marxista anche quando ostenta il suo disprezzo per la massa amorfa. Quando parla di minoranze e di élite usa solo dei termini diversi rispetto a Marx, che non nasconde il suo disprezzo per il sottoproletariato e a Lenin che parla invece di aristocrazie operaie, di avanguardia dura come l’acciaio, temprata nell’acciaio.(152) Egli si considera marxista ortodosso, pur giudicando la teoria di Pareto, il cui corso di lezioni frequentava con curiosità all’università di Zurigo, come
” la più geniale concezione sociologica dei tempi moderni. La storia non è che una successione di élite dominanti. Come la borghesia si è sostituita al clero e alla nobiltà nel possesso della ricchezza e del dominio politico, così la borghesia sarà sostituita dal proletariato, la nuova élite sociale che sta formando oggi nei suoi sindacati, nelle sue leghe, nelle sue camere del lavoro i nuclei della futura organizzazione economica a basi comuniste”(153)
Egli dunque applica al principio della dialettica storica di Marx la teoria delle élite paretiane che egli chiama élite proletarie, rimarcando, comunque, uno scetticismo e una sfiducia generica nei confronti delle maggioranze, quindi nella democrazia parlamentare. Questa sua sfiducia è tutto sommato presente in Marx , in Lenin, in Pareto, in Bergson, in Le Bon, in Sorel , ma anche in Nietzsche. Il concetto di minoranza come gruppo di forti è propria del darwinismo sociale di Spencer, ma si avvicina pericolosamente al concetto di superuomo di Nietzsche.
Tale crogiolo culturale è proprio di un periodo di transizione, quale era quello che si viveva alla vigilia della guerra mondiale che avrebbe cambiato il volto geografico, ma anche sociale ed ideologico dell’Europa intera, è proprio di una generazione che aspira al cambiamento e che, in vista di tale cambiamento trova un unione ideale che supera le differenze ideologiche. E’ per questo che il giovane Mussolini cerca gli strumenti per realizzare il mondo nuovo indifferentemente da Marx, da Pareto o da Nietzsche che apparentemente non avrebbero nulla in comune. Nolte sostiene, anzi, che il rapporto tra Marx e Nietzsche sia l’intuizione più valida di Mussolini.
Il rifiuto del pacifismo riformista da parte di Mussolini, l’esaltazione della rivoluzione, del ricorso alla violenza, solo mezzo per forgiare e distinguere il gruppo dei forti e degli eroi, è proprio del marxismo , ma si avvicina molto anche alle teorie di Nietzsche. Nel commentare una conferenza di Treves su Nietzsche, alla base del cui pensiero sta la volontà di potenza, la filosofia della forza, Mussolini, senza volerlo, mette in evidenza i punti di collegamento tra l’autore di Così parlò Zarathustra e Marx. Sottolinea, infatti, l’antigermanesimo di Nietzsche, il disprezzo per la mentalità feudale e mercantile della Germania, contro cui quegli teorizza la rivolta degli schiavi. Nietzsche è dunque anticapitalista come Marx, ma come quest’ultimo è anche anticristiano, poiché si scaglia contro una religione che esalta la valle di lacrime terrena, che enfatizza il concetto di rassegnazione, togliendo all’uomo ogni stimolo, ogni enfasi e facendone lo schiavo dei più forti. Ed è infine antiborghese. Il superuomo è il prodotto della follia che si scaglia contro il buon senso borghese, è per Mussolini colui che incarna la forza della volontà, volontà con cui l’uomo afferma la sua potenza sulle leggi della natura e con cui si erge ribelle per distruggere il mondo esistente e per forgiare l’ordine nuovo e l’uomo nuovo. Egli si sforza di interpretare il pensatore tedesco, bersaglio favorito dei marxisti, in veste socialisteggiante e rifiuta di scendere nei particolari, quando la sua difesa di Nietzsche si scontra con principi che sono all’antitesi del socialismo. Così quando afferma che i nemici di Nietzsche sono Dio e la plebe, cerca di convincersi e di convincere i lettori che la plebe per il pensatore tedesco non ha un significato classista, egli piuttosto si rivolge alla massa amorfa schiava della morale cristiana, incapace di ribellarsi e di cambiare il mondo. Nietzsche per Mussolini incarna quell’idealismo, quella passionalità, quella cultura dell’eroismo, il sogno della giovinezza che egli non trova negli scritti di Marx.
Se Mussolini indebolisce il concetto marxista della rivoluzione fondata sulla legge naturale, sostituendolo con quello dell’ideale che deve sempre stare alla base dell’azione del proletariato, ciò – secondo Nolte – non è riconducibile tanto alla diversa personalità fra i due personaggi che gli furono guida, appunto Marx e Nietzsche, quanto alla differenza dei tempi in cui vissero. Il futuro duce vive in pieno gli anni ruggenti del primo novecento, quando, se da un lato l’uomo tende ad esaltare le conquiste della scienza e della tecnica, come una definitiva vittoria sulla natura, dall’altro si sente stanco di un’epoca in cui il positivismo è stato portato alle conseguenze più estreme, annullando la passionalità, il sentimento, l’idealismo, l’individualità insomma. Cresciuto all’ombra di Costa, nutrito dalle letture paterne di Bakunin, educato dalla conoscenza del pensiero di Kropotknin, di cui fu negli anni dell’esilio in Svizzera il primo traduttore in italiano, non può rinnegare quegli ideali libertari che si alimentano di passioni e di sentimento e rifiutano i freddi schematismi del naturalismo e del determinismo:
” … Noi attraversiamo un periodo di praticismo e tecnicismo che ci soffoca. Non si vuol sentire parlare di ideali remoti. La parola è alle cifre, ai mastri, ai bilanci. Dovunque si grida: praticità, tecnicità, gradualità. Andiamo verso un’umanità meccanica e meccanizzata, raziocinante fino all’esasperazione, fino all’eliminazione dei valori sentimentali che pure hanno avuto tanta importanza nella storia (..) e ancora: (..). l’umanità ha bisogno di un credo. E’ la fede che muove le montagne, perché dà l’illusione che le montagne si muovano. L’illusione è, forse l’unica realtà della vita.”(154)
In questa affermazione è facile trovare Sorel e la sua teoria del mito. D’altra parte questa contestazione di Mussolini del materialismo marxista, che lo porterà, dopo la guerra, ad approdare al concetto di nazione, è condiviso da uno dei suoi più grandi avversari Carlo Rosselli:
“… al di sotto della realtà delle classi c’è un’altra realtà più profonda, che il comunismo ha ignorato, la realtà della nazione… La realtà della nazione, come rapporto dell’uomo alla sua tradizione e alla sua storia, non può venir dedotta dall’economico, come rapporto tra l’uomo e la natura”,(155)
La crisi dell’internazionalismo e il passaggio dalla neutralità all’interventismo
Il giovane Mussolini, che vede nel progresso della scienza e della tecnica il mezzo principale per l’abbattimento delle frontiere e che crede nella solidarietà delle classi proletarie di tutto il mondo, non può che essere internazionalista, e non può non vedere nel culto della nazione un segno della decadenza della classe borghese, un residuo storico del romanticismo, ormai non più adatto al ruggente nuovo secolo, un attributo proprio della reazione e del militarismo. Ma il suo pacifismo subisce, a sua insaputa, il primo scossone quando comincia a parlare di guerra civile, guerra interna fra le classi – e un tentativo in tal senso fu da lui fatto in Romagna in occasione dell’impresa libica – e quando ipotizza l’internazionalizzazione della rivoluzione socialista. Il motto marxista che Mussolini fa suo, Proletari di tutto il mondo unitevi, accanto all’anti patriottismo, nasconde i germi del militarismo, poiché presuppone la necessità fatale di una conflagrazione generale che abbia la funzione catartica e ostetrica dello sciopero generale soreliano. La stessa sua azione di fiancheggiamento degli irredentisti trentini, durante il suo soggiorno a Trento, è vista da Nolte non come un presagio del suo futuro nazionalismo, bensì come un atto di giustizia nei confronti dell’italianità che veniva soffocata e oppressa dall’autoritarismo asburgico col sostegno del clero; in tal caso il suo credo socialista e il suo profondo anticlericalismo non potevano non fargli appoggiare la lotta irredentista.
D’altra parte gli stessi Marx ed Engels erano convinti che le nazioni grandi e progredite avessero più diritti delle piccole nazioni, la cui lunga oppressione dimostrava la mancanza in loro di capacità vitale. Tale concetto appare antitetico a quello di fratellanza fra i popoli. Tale aggressività mancava nella versione più moderata del marxismo, il riformismo che aveva avuto grande diffusione, con il suo gradualismo e con il suo pacifismo, in tutta Europa. Appunto perché moderato, perché portato all’immobilismo, all’attesa fatale di una rivoluzione per la cui realizzazione la volontà dell’uomo appariva assorbita dal determinismo storico, non poteva affascinare i giovani ribelli che vedevano nel nuovo secolo un’epopea di cambiamenti, rispetto ai quali l’uomo, con le sue capacità e la sua volontà di potenza, sarebbe stato il principale fattore nella realizzazione dell’ordine nuovo. Tanto meno il minimalismo marxista poteva conquistare uno spirito irrequieto come quello del trentenne Mussolini che lo considerava, anzi, la negazione del marxismo:
“( …) Ora il buon senso minaccia di sifilizzare anche l’idea di rivoluzione.- scriveva Mussolini – Non ne vedete i sintomi? Una volta il socialismo era degli ‘scamiciati’, dei ‘malfattori’, della ‘canaglia’; oggi è già poli, policé, anzi. E’ colto, ci tiene a mostrare di essere ragionevole, tanto sentimentale che piange e fa piangere, ha un sacro orrore del sangue, detesta l’avventura. Vuol essere sicuro, metodico, cautelato, previdente. Il linguaggio dei socialisti non è più sbracato, come quello di un tempo. E’ manierato, lezioso, piano, pedestre, senza spigoli, pieno di eufemismi, ufficioso, ufficiale, grigio, ‘temperato’, tollerante. Confrontate una pagina di Marx con una di Bonomi o di Turati. Scorgerete l’abisso… Chi ascolta la voce insidiosa di quest’equivoco personaggio non sarà mai audace… Preferirà la palude alla vetta, il riposo alla marcia, la pace alla guerra.”(156)
Egli oltrepasserà la frontiera dell’ideologia marxista quando, alla vigilia della guerra, dopo che i socialisti di tutta Europa avevano fatto prevalere gli interessi nazionali a quelli di classe e avevano abiurato all’antimilitarismo, comprenderà che l’internazionalismo non unisce la classe proletaria mondiale; è la nazione, non la classe, l’elemento che cementa il popolo, che non è solo il proletariato. E’ l’Idea e non le conquiste economiche che, al contrario, lo dividono per la presenza dei diversi interessi di categoria, che porterà il proletariato verso la costruzione di un mondo nuovo senza classi.. Infatti, in un intervista concessa a Ludwig, quando ormai era il duce dell’Italia fascista, alla domanda su che cosa sarebbe accaduto se l’Internazionale si fosse posta unitariamente contro la guerra rispose:
“Ciò avrebbe creato una situazione del tutto diversa. Se l’avesse fatto e fosse rimasta fedele, tutto sarebbe diventato completamente diverso”(157)
Sul ” voltafaccia” di Mussolini, concretizzatosi nel suo famoso articolo del 18 ottobre 1914, che gli sarebbe costato la direzione dell’Avanti! e l’espulsione dal partito, si è molto scritto, quasi sempre, però, in termini di sarcastica condanna. Si è ipotizzato di tutto, da un suo vendersi alla Francia che, tramite l’intercessione di Naldi, direttore de Il Resto del Carlino, gli avrebbe finanziato il suo nuovo quotidiano, Il Popolo d’Italia, solleticandolo nelle sue ambizioni giornalistiche, ad una sua presunta insoddisfazione per il ruolo secondario occupato nel partito e alla sua aspirazione di raggiungere, tramite l’abbandono dello stesso, la leadership di un nuovo soggetto politico.
Sui finanziamenti al nuovo giornale di Mussolini che vide la luce incredibilmente presto, il 15 di novembre, meno di un mese dopo il famigerato articolo che gli era valso le dimissioni dall’Avanti! – a cui sarebbe seguita l’espulsione dal partito – , si è ricamato molto. I sospetti sul fatto che il futuro duce si fosse potuto vendere pur di ottenere una tribuna tutta sua da cui manifestare senza reticenze, ma soprattutto senza condizionamenti, le sue idee, sono stati alimentati proprio dalla repentinità che accompagnò il nascere del nuovo quotidiano. Anche se Naldi in un abboccamento avuto con l’ex direttore dell’Avanti! lo aveva incoraggiato a perseguire il sogno di un suo giornale sostenendo che per farlo occorreva poco, una rotativa, dei redattori e della carta, sappiamo tutti che l’elemento fondamentale era e rimane ancor oggi il denaro:
“(…) Non ci sono tipografie disponibili a Milano – avrebbe risposto Mussolini -. E poi dove trovare il denaro? Un denaro che io possa accettare?(158)
L’aiuto economico gli venne indubbiamente dal Naldi, sostenuto anche dalla federazione dei Lavoratori del mare, che aveva tutto l’interesse di potenziare la corrente interventista con l’apporto di un altro quotidiano il cui direttore, per il carisma esercitato sui lettori, sarebbe stato una pedina fondamentale per manipolare l’opinione pubblica in direzione antineutralista. Pare che Naldi fosse anche un agente governativo, precisamente del ministro degli Esteri di San Giuliano, e un rappresentante degli interessi politici francesi in Italia, nonché della grande industria, degli Agnelli, degli Ansaldo, ecc., che dall’ingresso in guerra dell’Italia si aspettava grossi profitti. Dietro le Messaggerie italiane, che avrebbero avuto il compito della distribuzione del giornale e dietro Naldi, si celavano, dunque, i capitali dei grandi industriali del nord. Per questo motivo Mussolini fu sottoposto ad un vero e proprio processo da parte di una commissione d’inchiesta presieduta dal presidente dei probiviri dell’Associazione lombarda dei giornalisti, per difendersi dall’accusa di indegnità mossagli dai suoi ex compagni di partito.
Poteva dunque Mussolini accettare quei soldi per varare il “suo” giornale?
Secondo De Felice, se tali denari potevano dirsi inaccettabili da un punto di vista socialista, lo erano invece dal punto di vista interventista, visto che i suoi finanziatori “interventisti sinceri o interventisti per interesse, sempre interventisti erano, sul piano politico concreto i loro fini erano, in pratica, gli stessi di Mussolini”(159).Né questi accettò mai contropartite o fu particolarmente benevolo con essi. Si può dunque accettare la tesi del grande biografo mussoliniano, secondo il quale, il suo passaggio dal neutralismo all’interventismo non fu certo dovuto a ragioni economiche, – d’altra parte pochi erano tanto disinteressati al denaro quanto Mussolini, se si pensa che il suo primo atto come direttore dell’Avanti! fu quello di decurtarsi lo stipendio – ma da una vera e propria crisi ideale interiore.
Pochi, tuttavia, si sono preoccupati di analizzare tale processo interiore che, tra sofferenze, incertezze, delusioni, autoflagellazioni, avrebbe traghettato questo giovane uomo di trent’anni verso una sponda politica opposta a quella che era stata, peraltro, la culla delle sua formazione culturale e spirituale.(160) Tale travaglio, perché indubbiamente di un travaglio si trattò, può cogliersi solo dalla lettura e dall’esame particolareggiato degli scritti da lui pubblicati nel periodo drammatico che va dall’attentato di Sarajevo al fatidico 18 ottobre, quando, abbandonata ogni reticenza e ogni dovere di fedeltà alla linea del partito, decise di fare l’estremo passo.
Non bisogna, tuttavia, giudicare tale scelta, al di fuori del contesto determinato dalle eresie di cui il marxismo era stato vittima, a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo, eresie che, in fondo, non erano altro che tentativi di adattare i dogmi alla realtà in continuo movimento e che scaturivano anche dal ribellismo proprio della gioventù del novecento, fatalmente influenzata dai movimenti irrazionalisti, che tutto predicavano, cadendo spesso in assurde contraddizioni, fuorché l’immobilismo e la fede nei principi irremovibili della dottrina.
Anche Mussolini, conquistato dal sorelismo che rappresentava quel movimento che ormai l’ortodossia socialista, ancorata al riformismo, negava, affascinato dall’anarchismo individualista di Stirner e dal Superuomo di Nietzsche, che davano al ruolo dell’uomo, come protagonista, e della sua volontà, molto più spazio rispetto alle teorie deterministiche marxiane, fin dal ritorno dal suo esilio in Svizzera, cominciò a sentirsi troppo costretto dai dogmi inconfutabili della dottrina che con tanto entusiasmo aveva abbracciato.
Le sue incertezze, le insoddisfazioni proprie di uno spirito che scalpitava imprigionato nelle pastoie dell’ideologia e che aspirava a forgiare una nuova Idea, capace veramente di cambiare il mondo, che, peraltro, non sarebbe mai cambiato se non si fosse modificato radicalmente l’uomo, furono per un certo periodo di tempo placate nella speranza di poter essere egli stesso l’artefice di uno svecchiamento all’interno del suo partito, da portare avanti dalle pagine dell’Avanti! che, per inciso, nel corso della sua direzione triplicò la tiratura.
Un primo tentativo di svegliare il partito dal torpore in cui era caduto nel corso della dittatura giolittiana, addomesticato dalle promesse di riforme dello statista di Dronero, fu fatto durante la fatidica Settimana Rossa.
In quell’occasione – come è stato già detto – egli aveva cercato con tutte le forze, pur scontrandosi con la riottosità del Partito e con la netta opposizione del gruppo parlamentare e della CGL, di sperimentare l’arma dello sciopero generale ad oltranza, come arma di lotta ideologica e non economica, come prova generale per la futura e imminente rivoluzione proletaria.
Era stato deluso, non solo dal comportamento degli organi istituzionali del partito e del sindacato, ma soprattutto lo aveva scoraggiato la mancanza di compattezza della classe proletaria. La posizione assunta dal potente sindacato ferrovieri, per esempio, lo aveva convinto che il proletariato non costituiva una classe unica, ma un complesso di classi divise dagli interessi di categoria, perché non più uniti dall’ideale della rigenerazione sociale, proprio quell’ideale che propugnava il mito dello sciopero generale di Sorel:
“(…) Per dieci anni dal 1900 al 1911 il marxismo è stato bandito dal socialismo italiano.- scriveva Mussolini nel luglio successivo al fallimento dei moti di Ancona – La mozione di Brescia che al marxismo si ispirava, fu qualificata ‘ anarchica’. ( già: c’è un solo socialismo autentico al mondo: quello riformista). Quanti marxisti adesso in Italia! (..) Marxisti costoro! Noi dubitiamo che in Italia ci siano o ci siano stati dei marxisti degni del nome. Certo è che i riformisti, specie quelli italiani – così accomodanti – sarebbero ripudiati da Marx. (…) Il riformismo non solo diverge, ma è ormai in antitesi ‘perfetta’ col marxismo, comunque lo si presenti: lugubre o gaio, classico o moderno. Infine, noi non contestiamo ai riformisti il diritto di ‘interpretare’ il marxismo, dopo averlo rinnegato e vituperato infinite volte. Solo, rivendichiamo per noi lo stesso diritto di interpretazione e di esegesi. Voi vedete il marxismo attraverso l’interpretazione evoluzionistica, positivistica della storia, noi lo vediamo (..) attraverso un’interpretazione idealistica, più moderna.(..) Anche nel marxismo c’è la lettera e lo spirito. E’ di questo che noi siamo imbevuti: è lo spirito del marxismo, e non tanto la dottrina marxista nella sua espressione formale e superabile, ciò che informa la nostra Weltanschauung”.(161)
Se il suo motto era stato fino a quel momento “la solidarietà della nazione cessa all’apparire della solidarietà universale della classe!”(162), avrebbe dovuto di li a poco, ricredersi, nell’apprendere che i socialisti d’oltralpe, tedeschi, austriaci, belgi, francesi, non solo avevano votato insieme alla borghesia i crediti di guerra, accantonando l’internazionalismo che era uno dei pilastri della dottrina, ma una volta scoppiata la conflagrazione europea avevano con entusiasmo imbracciato le armi, dimentichi di ogni forma di solidarietà di classe e fieri di marciare assieme alla borghesia, nell’Union sacrée, contro il proletariato delle altre nazioni. Il comportamento del socialista francese Hervé era emblematico; accanito sostenitore dell’antimilitarismo fino alla vigilia dello scoppio della guerra, si era poi arruolato volontario nell’esercito francese, divenendo un esaltatore del patriottismo e del militarismo. Prima dell’inizio delle ostilità aveva scritto, per il suo giornale l’Humanité, un articolo di fondo che avrebbe riscosso molto successo fra i socialisti italiani, in cui lanciava il grido, proprio dell’antimilitarismo socialista: A bas la guerre! Auspicando la rottura dell’alleanza tra la Francia e la Russia, pur di non seguire quest’ultima in una guerra offensiva contro l’Austria, aveva promosso, sempre dalle pagine del suo giornale, che era l’organo di stampa dei socialisti francesi, una solenne dimostrazione franco-tedesca, sui boulevards parigini, contro la guerra.
Era lo stesso uomo che si sarebbe arruolato, di li a poco, volontario per difendere il suolo francese, ma la sua scandalosa scelta sarebbe stata commentata con estrema, insolita pacatezza dal socialista Mussolini:
“(..) Hervé che definisce – come noi pure la definiamo – ‘immonda la guerra’, non è un ‘guerrafondaio’ anche se andrà alla frontiera, così come non è un delinquente il pacifico cittadino che deve d’un tratto ricorrere alla browning per difendersi dall’attacco del bandito”(163)
Un primo passo, dunque, verso l’interventismo: giustificazione della guerra come legittima difesa.
L’orgoglio e l’onore di Mussolini sarebbero stati, in seguito, solleticati dalle critiche dei socialisti europei ai socialisti italiani. Ne Il secolo del 25 settembre, su un’intervista allo stesso Hervé, campeggiava un titolo a tutta pagina: I socialisti francesi libereranno Trento e Trieste a cui erano seguiti gli inviti di Guesde e di Sembat e infine, la clamorosa dichiarazione di Vaillant:
“(..) I socialisti sinceri ed intelligenti sono i soli che contino o raccolgano qualcosa per noi. Non abbiamo né sforzi, né discorsi da fare per indurli a venire con noi”(164)
Questi fatti avrebbero portato Mussolini a dichiarare:
“(..) L’Internazionale socialista è morta.. Ma è mai vissuta? Era un’aspirazione non una realtà”(165)
I suoi biografi Pini e Susmel, sostengono che il motivo che accelerò il cambiamento di posizione di Mussolini fu l’invasione tedesca del Belgio. Da quel momento in poi noi ci troviamo di fronte due Mussolini o meglio due anime dello stesso uomo; una è l’anima ufficiale del Mussolini direttore dell’Avanti! sostenitore della neutralità assoluta deliberata dalla Direzione del partito, redattore del Manifesto del 21 settembre contro la guerra, promotore del referendum fra gli iscritti al partito, conclusosi con l’accettazione di circa 500.000 iscritti del principio della neutralità assoluta, cosa che lo aveva portato a scrivere sul suo giornale:
“(…)In ciò il proletariato italiano si è affermato meravigliosamente concorde, al di sopra dei parziali dissensi teorici e tattici. Questa unità di propositi e di forze peserà nel gioco della politica italiana.
Ora i proletari siano vigilanti.
Qualora l’Italia intendesse rompere la neutralità per aiutare gli Imperi Centrali, il dovere dei proletari italiani – lo diciamo forte in questo momento – è uno solo: insorgere” (166)
L’altra è l’anima del Mussolini eretico, scalpitante, entusiasmato dall’interventismo di Battisti che non riesce ancora a spogliarsi della maschera di neutralista, ma non riesce fino in fondo a nascondere, non solo a chi lo conosce bene, ma anche ai suoi lettori, i suoi veri sentimenti(167)
Indubbiamente l’invasione tedesca del Belgio fu un pretesto che il futuro duce afferrò al volo per giustificare la partecipazione alla guerra dei socialisti europei(168), cosa questa, che aveva effettivamente determinato in lui una profonda confusione e che aveva alimentato dubbi, già da tanto tempo emersi, nella sua fede apparentemente granitica nel verbo di Marx.
Quindi, cerca sostegno alla sua posizione, ancora latente, ma indubbiamente ormai più vicina all’intervento che alla neutralità, nell’opinione di alcuni socialisti italiani, particolarmente degni di stima, come i socialisti dell’Unità di Firenze, giornale fondato e diretto dal grande Gaetano Salvemini(169)
In un articolo dell’Unità, riportato da Mussolini sul suo quotidiano, si critica la posizione del partito socialista italiano ancorata alla neutralità assoluta, sostenendo che la guerra non sarebbe contraria ai dogmi del marxismo che, di per se stesso non è pacifista; se esso infatti esalta la violenza interna fra le classi, perché dovrebbe condannare quella esterna fra le nazioni?
Mussolini assume l’atteggiamento di chi debba riprendere i giornalisti dell’Unità, che con tale ragionamento escono decisamente fuori dal cammino marxista:
“(…) Nei rapporti interni – pontifica – la violenza è violenza di classe che si esercita da parte del proletariato contro i padroni o gli organi dello Stato: è violenza che tende ad affrettare la liberazione della classe soggetta: è violenza fatta dal proletariato per la tutela dei suoi interessi.
La violenza nei rapporti internazionali cambia totalmente carattere: in quanto si esercita fra le nazioni e non più fra le classi per motivi in antitesi cogli interessi del proletariato. Nella violenza fra le nazioni, il proletariato è uno strumento passivo nelle mani dei governi che rappresentano le classi dominanti della nazione(..). Tuttavia (…) Il proletariato può ‘subire’ questa tragica necessità finché sia impotente a liberarsene, ma non può accettarla e tanto meno esaltarla o invocarla”
Esiste ancora in lui l’ostacolo dato dallo scontro tra classe e nazione, quando sarà riuscito a superare tale dualismo e a far comprendere ai suoi compagni che è la nazione e non la classe l’elemento unificatore del popolo, allora potrà estrinsecare la sua posizione di interventista:
“(…)Ponendoci sul terreno di classe – avrebbe scritto qualche giorno dopo – noi siamo salvi da tutte le insidie ed è appunto sul terreno di classe che noi riaffermiamo la nostra implacabile opposizione alla guerra(..)(170)
Tuttavia, trova dei punti in comune con le opinioni espresse dal giornale di Salvemini, soprattutto nel passo in cui si afferma:
“(…) Solamente la neutralità o, con le necessarie garanzie, l’intervento a danno del blocco austro – germanico, risponderebbero ai nostri interessi reali. Chi non segue questa tattica condanna al disastro”
“(..) Se lo scrittore dell’Unità avesse più attentamente seguito le manifestazioni del Partito socialista – risponde Mussolini – avrebbe visto che per diverso cammino noi siamo giunti quasi alla stessa conclusione. Noi abbiamo, infatti, previsto ed escluso – pena l’insurrezione all’interno – un intervento dell’Italia a favore del blocco austro – tedesco e questa inazione dell’Italia ( ..) si risolve non certo in un vantaggio, ma in un ‘danno’ pel blocco austro – germanico, che ci auguriamo esca dalla competizione disfatto”(171)
Respinge, peraltro, l’ipotesi salveminiana di un intervento accanto all’Intesa, non solo per una questione di principi, ma anche per l’impreparazione militare dell’esercito italiano. La questione di principi, dovrebbe escludere ogni altra forma di giustificazione; il fatto è che l’homme qui cherche vuole convincere innanzi tutto se stesso e sa che i principi sono già stati da lui ampiamente superati.
Il 16 agosto lo scalpitante direttore dell’Avanti! fa ancora un passo verso quel ponte ideale che lo traghetterà sulla sponda opposta: egli pone al lettore, – rispondendo ad un articolo di Bordiga favorevole alla neutralità assoluta – una differenziazione tra la posizione ideale del socialismo e la realtà contingente che muta in continuazione:
“(..) Purtroppo la ‘posizione mentale’ del socialismo è una cosa, e la posizione storica del socialismo è un’altra. La prima è determinata dalla logica pura per cui date certe premesse dottrinali ne conseguono determinate conseguenze in un rapporto dialettico di causa e effetto; la posizione ‘storica’ del socialismo è il risultato dell’azione complessa di diversi fattori e circostanze. L’uomo non è o non è soltanto un animale raziocinante, ma è anche un essere senziente: talvolta la ragione è sopraffatta dal sentimento e la logica non resiste all’empito della passione. Non si può pensare, se non sul terreno della’ logica pura’ un socialismo totalmente estraneo e refrattario al gioco delle influenze ambientali: bisognerebbe supporlo come una creazione miracolosa de toute pièce senza radici nel passato, senza contatti colla realtà del presente,.. e con quali probabilità di vita nell’avvenire? Nessuna. Una costruzione meravigliosa, ma assurda. Anche l’assurdo può essere meraviglioso. Noi pensiamo all’”unico” di Stirner. Ora secondo l’inesorabile ‘logica’ pure dei principi, l’atteggiamento dei socialisti francesi e tedeschi sarebbe incomprensibile e ingiustificabile(..); ma se noi non ci rinchiudiamo ‘nella solitudine astratta della nostra coscienza’ come dice appunto Bordiga, il nostro giudizio dovrà necessariamente essere diverso. Bisognerà ‘comprendere’ prima di condannare”(172)
Il 9 settembre Mussolini inizia un comizio al Teatro del Popolo di Milano, durante l’assemblea della sezione socialista, con parole nuove e quasi blasfeme per un marxista, che suonano, quasi, come il preludio del suo abbandono:
“La questione dal punto di vista dei nostri principi deve essere prospettata ricordandoci di essere socialisti, e, dal punto di vista nazionale, ricordandoci di essere italiani.(..)”
E conclude:”(…) Noi non siamo né irredentisti, né patriottardi, né democratici in un certo senso, né massoni, né tanto meno bloccardi…Potremo accettare la guerra, ma patrocinarla significherebbe passare la barricata e confondersi con gli altri che intendono la guerra … igiene del mondo!
Noi siamo sulla via buona, socialisticamente; non intendiamo, con questo, di affermare che le nostre idee non potranno mutare, poiché solo i pazzi e i morti non cambiano.
Se domani si determinerà l’evento nuovo, noi decideremo!”
Il 5 ottobre Il Giornale d’Italia intervista Mussolini a proposito di alcune dichiarazioni rilasciate al suddetto quotidiano dal noto socialista catanese Lombardo – Radice, su una presunta simpatia del direttore dell’Avanti! per l’intervento dell’Italia accanto alle potenze dell’Intesa. Si trattava, in effetti di uno scambio epistolare privato fra i due dovuto alle dimissioni dal partito del socialista siciliano, per il suo dissenso dalla posizione ufficiale dei socialisti italiani in relazione al problema della guerra. Il Lombardo – Radice aveva deciso di raccontare per lettera a Mussolini i motivi che lo avevano portato alla clamorosa decisione, forse perché aveva intuito, come lo avevano intuito in molti, la sua segreta posizione riguardo al problema, per cui sperava di trovare nel giovane direttore una solidale comprensione . Alla lettera del socialista catanese Mussolini così aveva risposto:
“(..) Se l’Italia vorrà agire, essa non troverà ostacoli da parte dei socialisti,… ecc. Io sono andato più oltre e ho detto che la guerra( contro l’Austria) non solo non ci avrebbe praticamente contrari, ma piuttosto ‘simpatizzanti’
Ora solo chi non conosca i precedenti dell’atteggiamento di neutralità assunto dal Partito socialista, può stupirsi di ciò. La verità è che la neutralità socialista fu, sin dal principio e per ragioni formidabili, affetta da palese ‘parzialità’: quindi in un certo senso ‘condizionata’(…) Simpatica verso la Francia, ostile verso l’Austria(..) I socialisti dicevano al Governo: se voi andate contro la Francia, dovrete prima fiaccare un moto rivoluzionario all’interno. Ma l’atteggiamento da tenersi nell’altro caso, quello cioè di guerra all’Austria, non veniva contemplato. (..) Ho detto altrove ciò che penso dello sciopero generale, fatto per evitare la guerra. Se lo sciopero non è bilaterale fra i proletari delle nazioni in conflitto(…) il proletariato dell’unica nazione che rispondesse alla mobilitazione con lo sciopero generale avrebbe dinnanzi due eventualità egualmente tragiche: insuccesso e fallimento dello sciopero. E allora: feroce repressione all’interno, indebolimento della nazione di fronte all’esercito della nazione nemica che non ha scioperato(..)
(..) io ho scritto al Lombardo – Radice e ripeto pubblicamente qui, che in caso di guerra all’Austria – Ungheria il Partito socialista italiano non tenterà un’opposizione pratica di fatto, pur scindendo le sue dalle altrui responsabilità(..) Il socialismo non è solo dottrina, è fatto; non è solo una ‘posizione mentale’ cioè logica, ma una ‘posizione storica’ cioè pratica(..) Se nel regno della teoria c’è ‘la guerra’, nel regno della storia e della vita ci sono ‘le guerre’. Tutte le guerre hanno determinati caratteri comuni(..) ma non vi sono nella storia due guerre che siano uguali completamente l’una all’altra. (..) E – tornando al discorso di prima – una guerra contro l’Austria non è, per l’Italia, la stessa cosa di una guerra contro la Triplice Intesa(…)”(173)
Due giorni dopo, un articolo di Mussolini compariva su Il Resto del Carlino giornale apertamente interventista. Tale articolo costituiva la risposta del Direttore dell’Avanti! al giornalista Libero Tancredi che, elencando le sue contraddizioni e intuendo l’esistenza di una sua volontà segreta diversa da quella ufficiale del partito a cui il romagnolo doveva inchinarsi nelle pagine del giornale da lui diretto, per dovere d’ufficio, lo chiamava ironicamente uomo di paglia.
L’articolo di Mussolini era preceduto da un ” cappello”, firmato dalla redazione de Il Resto del Carlino, che è interessante riportare per intero per comprendere l’infuocato clima politico del momento:
“Noblesse oblige. Il Direttore dell’Avanti! domanda di rispondere a Libero Tancredi nelle sue colonne. Ecco fatto. E non polemizzeremo con l’ospite. Egli, del resto, rivendica a sé il diritto – riconosciuto all’Idea Nazionale, al Popolo Romano, al Resto del Carlino – di mutare idea. Naturalmente. Ma Mussolini ci aveva abituati a dar di ‘rinnegato’ a chi mostrava le proprie crisi spirituali. Prendiamo ora atto della ‘sua’ crisi. E osserviamo: i giornali nominati hanno chiaramente rispecchiato nelle loro colonne il mutato atteggiamento dei loro ispiratori e scrittori; perché l’Avanti! li ha beffeggiati? E infine: il Mussolini ha mutato, sta bene. O come mai l’Avanti! ha continuato a battere, imperturbabile, una monotona e sterile negazione? Ecco una differenza che il Mussolini non ha nemmeno tentato di discutere.”
L’articolo di Mussolini, chiamato dal Tancredi ” uomo di paglia” per i suoi mutamenti di opinione, è più aggressivo che difensivo, ma soprattutto appare come un sincero sfogo del travaglio interiore dell’uomo, più che del politico:
“(…) Di che mi accusa il Tancredi con l’avallo compiacente del Carlino? ‘Di non aver saputo dare al giornale che dirigo una direttiva sicura, ecc.’( ..) per dare una direttiva ‘sicura’ ad un giornale, mentre si compie colla guerra una delle più grandi liquidazioni della storia, e il ieri non è più, e il domani non ancora si delinea(…) bisogna avere o il cervello di un genio che vede e prevede tutto, o il cervello di un idiota che accetta il destino senza indagarlo.
Ma se non sono un genio, non sono nemmeno un idiota. E non mi vergogno di confessare che nel corso di questi due mesi tragici, il mio pensiero ha avuto oscillazioni, incertezze, trepidazioni. E chi dunque fra gli uomini intelligenti d’Italia e di fuori non ha subito – più o meno profondamente – il travaglio di questa crisi interiore? E dov’è il giornale che dall’inizio della guerra ad oggi abbia seguito una direttiva ‘sicura’ Chi me lo sa indicare? Forse l’Idea nazionale, triplicista agli inizi e antitriplicista oggi? Forse il Resto del Carlino? Ma se lo stesso Popolo Romano, funerario e quindi… proclive all’immobilità, è stato dapprima triplicista e poi, dopo l’intervento inglese, si è convertito alla causa della neutralità… E forse che queste mie incertezze sono rimaste custodite come un segreto o non si sono, invece, fatalmente e necessariamente riverberate sul giornale.(…) Chiunque abbia seguito l’Avanti! avrà notato il corso del mio pensiero. Sono stato francofilo – nel senso politico e sentimentale della parole – sino al giorno del Patto di Londra (..) quando poi ho saputo che nelle carceri della repubblica ci sono centinaia dei detenuti politici (…) quando ho letto gli articoli di certi giornali francesi autorevoli non sequestrati e nei quali si propugnava la ‘spartizione’ della Germania sconfitta(..)i miei entusiasmi francofili hanno subito un altro più marcato raffreddamento: allora mi sono detto e l’ho stampato(..) che la vittoria della Triplice Intesa rappresentava per l’Italia e per la causa del socialismo ‘il minor male’(..) E nel caso di guerra dell’Italia all’Austria non ho sempre detto e stampato – anche ieri – che l’atteggiamento dei socialisti italiani, o di gran parte di essi, sarà ‘praticamente’ diverso? Non ostile, ma in un certo senso simpatico? Dov’è dunque l’antitesi ‘perfetta’ di cui va cianciando l’allegro Tancredi?(…) I miei giudizi sulla neutralità ( governativa) li mantengo, ma tra quelli pubblici e privati non v’è differenza di sorta(..) E’ giudicando le cose dal punto di vista nazionale o di obiettività critica, che io ho avuto momenti di repulsione contro questa neutralità governativa, che è bassa, mercantile, non illuminata da qualche speranza, una neutralità di ripiego, degna di gente che vive alla giornata.(..) La nostra opposizione alla guerra è stato un movimento di propaganda socialista, di diffusione di principi e nulla più(..)”
Concludeva, infine, ribattendo alle accuse dei suoi detrattori che insinuavano l’esistenza di una contropartita economica alla base del suo mutamento di opposizione:
“(…) non conosco ‘adattamenti’ per amor di stipendio. Sono troppo ‘irregolare’ nella mia vita per nutrire di queste preoccupazioni(..)(174)
Vorrei sottolineare nell’articolo il passo in cui si parla di neutralità non illuminata da qualche speranza, neutralità di ripiego, degna di gente che vive alla giornata. Proprio in queste frasi si nota il pensiero più intimo dell’homme qui cherche, dell’inquieto giovane dei ruggenti anni del nuovo secolo che aborrisce la routine, l’adattamento, la politica dei piccoli passi propria dell’Italietta giolittiana, che aspira alle grandi mete, ai grandi ideali, all’affermazione dell’eroismo individuale e collettivo ad una palingenesi generale che acceleri la nascita dell’ordine nuovo.
Ormai scopertosi, Mussolini può parlare di guerra contro l’Austria come guerra nazionale per il completamento dell’unità, per il compimento di quell’epopea risorgimentale che la borghesia aveva fatto affogare nell’affarismo e nell’egoismo individuale, impedendo così che dalle rovine delle guerre d’indipendenza si ergesse un popolo nuovo, fiero del suo passato, motivato a combattere per un eroico avvenire :
“(..) La borghesia italiana ha un problema nazionale da risolvere. Certo. Lo risolva e si ‘vergogni’ di farsi sostituire dagli stranieri(..) io sono venuto a valutare l’eventualità di un intervento italiano nella conflagrazione europea da un punto di vista puramente e semplicemente nazionale. Il che non esclude che sia ‘proletario’”(175)
Infine, il 18 ottobre con l’articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, Mussolini rompe ogni indugio e passa inequivocabilmente nel campo degli interventisti a favore dell’Intesa. Giustifica in vari modi questa sua decisione, che sa bene avrebbe avuto enormi ripercussioni sul suo avvenire politico, sulla quale spera che tutto il partito lo segua:
“(…) La neutralità ‘assoluta’ doveva portarci ad assumere un atteggiamento di nirvanica impassibilità o di cinica indifferenza dinnanzi a tutti i belligeranti(..) Ma una neutralità in siffatta guisa ‘assoluta’ non è quella che il Partito Socialista ha sostenuto e patrocinato sin dagli inizi della crisi. La nostra neutralità è stata sin da allora ‘parziale’. Ha distinto. E’ stata una neutralità austrotedescofoba e, per converso. Francofila. (..) la neutralità assoluta minacciava di ‘imbottigliare’ il Partito e di togliergli ogni possibilità e libertà di movimento futuro. Accendere con una formula – che non imprigiona la storia – delle ipoteche sull’avvenire incerto, oscuro, imprevedibile, è un rischio estremo per un Partito che voglia combattere e non semplicemente e comodamente… sognare(..)
Probabilmente Mussolini, alla vigilia di un intervento italiano pressoché sicuro, al fianco dell’Intesa, aveva intuito che se il partito socialista avesse tenuto lontane le masse dagli eventi, delegando ogni onere, ma anche ogni onore alla borghesia, si sarebbe ripetuto il fallimento proprio del Risorgimento. La borghesia si sarebbe addossata l’onere della guerra, ma ne avrebbe tratto tutti i benefici, lasciando al popolo i dolori e la sua atavica miseria . Solo un proletariato combattente, motivato, cosciente del suo ruolo, avrebbe potuto rendersi protagonista degli inevitabili cambiamenti del dopoguerra. D’altra parte lo stesso Turati aveva, in un’altra occasione, riconosciuto che gli assenti hanno sempre torto.
Mussolini finalmente esterna ciò che per tanti mesi aveva covato dentro per non apparire un socialista eretico; riconosce, cioè, che i problemi nazionali esistono anche per i socialisti. E per avvalorare questa sua posizione ricorre all’aiuto dei più noti socialisti europei da Amilcare Cipriani che aveva dichiarato che ” i socialisti italiani dovrebbero ‘concedere’ all’Italia di scendere in guerra contro l’Austria Ungheria” ad Eduard Vaillant, a Hyndmann, capo dei marxisti inglesi, che aveva auspicato l’intervento dell’Italia, per salvaguardare l’indipendenza dei piccoli stati come il Belgio e il Lussemburgo, per anticipare la fine del conflitto, per ottenere l’emancipazione delle nazionalità oppresse e infine, per assicurarsi i territori a cui essa giustamente aspirava.
“(…) Tutto ciò dimostra – concludeva Mussolini – che noi non possiamo ” imbozzolarci” in una formula, se non vogliamo condannarci all’immobilità. La realtà si muove a ritmo accelerato(..) Vogliamo essere – come uomini e come socialisti – gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne – in qualche modo e in qualche senso – i protagonisti? Socialisti d’Italia badate: talvolta è accaduto che la ‘lettera’ uccidesse lo ‘spirito’. Non salviamo la ‘lettera’ del Partito se ciò significa uccidere lo ‘spirito’ del socialismo!(176)
Tale articolo determinò un vero terremoto in casa socialista; fu convocata per il 19 ottobre, a Bologna, la Direzione del Partito e in quell’occasione Mussolini subì un vero e proprio processo, durante il quale – ma lo fece anche dopo – cercò, invano, di convincere i compagni a seguirlo nel cammino intrapreso:
“(…) Vi assumereste la responsabilità, voi che dirigete il Partito, di questo massacro a scadenza illimitata quando vi fosse la certezza che un intervento italiano potrebbe determinare la fine? (..)”(177)
Comprendendo che la sua posizione non avrebbe potuto essere condivisa dal Partito, egli presentò le dimissioni rifiutando sdegnosamente una soluzione di compromesso proposta dal segretario Vella; questi gli suggeriva di chiedere un congedo di due tre mesi, ma Mussolini considerò la proposta lesiva della sua dignità:
“(…) Insisto nelle dimissioni presentatevi fino da ieri perché non voglio rinnegare i miei principi. Già troppo ho sofferto in questi giorni per seguirvi sul vostro terreno: se l’argomento non fosse stato oggi discusso, io un giorno o l’altro avrei dovuto rompere la consegna e dire francamente il mio pensiero(…)”(178)
Perché aveva aspettato tanto per uscire da una situazione ormai diventata troppo ambigua? Le ragioni sono tante; per esempio la ritrosia ad abbandonare un Partito sotto la cui ala era cresciuto e aveva forgiato il suo pensiero. Ma anche probabilmente la consapevolezza di giocarsi il suo futuro politico, proprio quando si avviava ad assumere, soprattutto dopo l’indiscutibile successo riportato al congresso di Ancona, la leadership del movimento socialista.(179) Prevalse, infine, il suo spirito d’avventura, nonché la convinzione di dover sostenere e propagandare solo gli ideali in cui effettivamente credeva.
Ormai libero dai doveri d’ufficio, che nell’ultimo periodo erano diventati troppo pesanti per il suo spirito libero, Mussolini può ormai esprimere le sue opinioni senza ritegno. Si dilunga, quindi, proprio nel corso di un’assemblea della sezione socialista milanese, su una questione che fino a quel momento aveva solo sfiorato e comunque trattato sempre secondo l’ottica marxista: il ruolo della nazione nel suo futuro politico :
“(…)Il Partito socialista Tedesco ha mancato al suo scopo per il fatto che non ha mai scisso la nazione dalle classi, vediamo, invece, se non sia possibile trovare un terreno di conciliazione fra la nazione che è una realtà storica e la classe che è una realtà vivente.
E’ certo che la nazione rappresenta una tappa nel progresso umano, la quale non è ancora superata. Lo abbiamo visto in Austria, dove vi sono otto popoli che non formano una nazione, ma uno Stato. Che cosa è avvenuto in Austria, dove, secondo si è detto, doveva farsi un primo esperimento di internazionalismo? Questo esperimento è completamente fallito, appunto per questione di nazionalismo. Il sentimento di nazionalità esiste, non lo si può negare! Il vecchio antipatriottismo è cosa tramontata e gli stessi luminari del socialismo, Marx ed Engels, hanno scritto a proposito di patriottismo pagine che vi farebbero scandalizzare!(..)
(…) Turati ha chiuso la sua conferenza in via Circo con questo grido altamente ammonitore: “Guai agli assenti!” I vinti avranno una storia: gli assenti no! Se l’Italia rimarrà assente, sarà ancora la terra dei morti, la terra dei vili! Io vi dico che il dovere del socialismo è di scuotere questa terra di preti, di triplicisti, di monarchici e concludo assicurandovi che nonostante le vostre proteste e i vostri fischi la guerra travolgerà tutti”(180)
Molti compagni lo seguirono sulla strada dell’intervento; alcuni in nome della Nazione e del completamento dell’epopea risorgimentale, altri in nome della classe, poiché solo nella guerra vedevano la possibilità di un futuro rivolgimento sociale interno, a cui, per il momento né il partito, né il sindacato, né le masse, si mostravano pronti. Lo stesso Gramsci approvò l’iniziativa mussoliniana:
“(…) Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in un’unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista. Egli vorrebbe che il proletariato avendo acquistato una chiara coscienza della sua forza di classe e della sua potenzialità rivoluzionaria, e riconoscendo per il momento la propria immaturità ad assumere il timone dello Stato (…) permettesse che nella storia fossero lasciate operare quelle forze che il proletariato, non sentendosi di sostituire ritiene più forti(..) Né la posizione mussoliniana esclude( anzi lo presuppone) che il proletariato rinunzi al suo atteggiamento antagonistico e possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa ed impadronirsi delle cose pubbliche (…)”(181)
Indubbiamente Gramsci aveva perfettamente interpretato gran parte delle motivazioni del romagnolo, non poteva, però, capire che esisteva anche una questione nazionale che era affiorata, malgrado tutto, in lui fin dai tempi lontani del soggiorno trentino. Proprio allora erano sorti i primi dubbi sulla validità del dogma marxista dell’Internazionalismo operaio, visto il comportamento dei socialisti trentini, con a capo Battisti, che accantonavano gli stessi problemi di classe, di fronte a quelli relativi all’identità nazionale. Non può nascondere a sé stesso né ai suoi lettori il disprezzo nutrito per i cattolici e i liberali del Trentino, “austriacanti”, che si vergognano di parlare italiano o per gli stessi operai, capaci di barattare la loro nazionalità con riforme sociali. E proprio a Prezzolini, congratulandosi per la nascita della Voce che vuole far conoscere l’Italia agli Italiani e creare l’animum italiano è una missione superba, confida il suo sdegno nel constatare la partecipazione di politici italiani trentini alle celebrazioni dell’eroe nazionale austriaco Andrea Hofer e gli omaggi da loro resi all’imperatore.(182). Tali rivelazioni fatte a Prezzolini porteranno quest’ultimo, nel recensire il saggio di Mussolini Il Trentino visto da un socialista, ad avanzare delle forti perplessità sulla sua ortodossia marxista:
“(…) si sente un socialista che non è tanto socialista da amare i tedeschi; che è opposto a loro come carattere; che concepisce in un modo più italiano la lotta politica; che riconosce, infine, la validità della lotta nazionale e rimprovera alla borghesia trentina di non essere irredentista sul serio(..)”(183)
Affacciandosi all’interventismo egli sposa un’idea già da tempo affiorata nella sua coscienza politica, quella del socialismo nazionale. Pur rimanendo, infatti, fortemente antiborghese, – del resto nel suo intimo lo rimarrà sempre, anche quando costretto dalla necessità di mantenere il potere si accompagnerà ai cosiddetti “poteri forti” – abbandonerà definitivamente l’internazionalismo marxista, proponendosi di condurre in porto un’azione politica capace di fare del proletariato italiano, attraverso la formazione di un’entità social – nazionale, il protagonista del completamento dell’azione risorgimentale mazziniana, nonché del futuro rinnovamento dello stato e della società. Tale interpretazione ci pare confermata dalle parole da lui pronunciate il 24 novembre, nel corso dell’assemblea della sezione socialista milanese che avrebbe votato la sua espulsione dal partito per indegnità morale:
“(…)Voi credete di perdermi. Voi vi illudete. Voi mi odiate perché mi amate ancora. Sono e rimarrò un socialista: ci sono 12 anni della mia vita di partito che sono e dovrebbero essere garanzia.
Non è possibile tramutarsi l’animo. Il socialismo entra nella carne. Ci divide una questione che turba le coscienze(…) Il tempo dirà chi avrà ragione: questa questione non si era mai affacciata al patito socialista. L’epopea napoleonica chiude un secolo. Waterloo è del 1814. Alla fine del 1914 forse qualche altra corona cadrà per terra e qualche altro albero della libertà sorgerà(…) E quando verrà l’ora, voi mi vedrete ancora, lo vogliate o no, al vostro fianco, perché non dovrete credere che la borghesia sia entusiasta del nostro intervenzionismo: ringhia, teme qualche cosa, suppone che il proletariato quando abbia le baionette possa servirsene per qualche suo scopo sociale. Non crediate che io mi separi gaiamente da questa tessera. Strappatemela pure: ma non mi impedirete di essere in prima fila per la causa del socialismo. Viva il socialismo. Viva la rivoluzione.”(184)
NOTE:
(1) -Il vertice del partito, già prima del Congresso, appariva perfettamente convinto che ad Ancona Mussolini avrebbe trionfato. Significativo a tale proposito è l’articolo scritto, alla vigilia del Congresso, da Giovanni Zibordi sulla Critica Sociale del 16-31 marzo 1914: “[…] Nei fini, nel volere, egli (Mussolini) è socialista, nella mentalità e meglio ancora nella psicologia , egli è il classico rivoluzionario italiano, romagnolo, nutritosi e rinforzatosi poi di storia francese, dall’89 alla Comune. Egli è sinceramente così, e sinceramente vive una seconda vita, quando vibra nel comizio, si esalta nell’ardore della folla, s’illude e s’inebria se vede in piazza cento persone che gridano. Allora scrive ab irato quegli articoli o quelle frasi, di cui non sembra ricordarsi in altri momenti dell’opera sua, o quando qualcuno gli chiede conto di quegli impulsi”. G. Zibordi, Quel che dovremo dire ad Ancona, in Critica Sociale, 16-31 marzo 1914.
(2) -Sui relativi vantaggi determinati dalla politica giolittiana di riforme, cfr. Leonida Bissolati, Le elezioni generali politiche e gli insegnamenti dello sciopero generale, in Critica Sociale, a cura di M. Spinella, A. Caracciolo, R. Amaduzzi, G. Petronio, Milano 1959, vol. I, pp. 222-230. Sul suffragio universale cfr., inoltre, gli scritti del discepolo di Sorel, Berth che, partendo dalle considerazioni del maestro, si dichiarava antidemocratico e antiparlamentare:”[…] Se la monarchia è il martello che scaccia il popolo, la democrazia è l’ascia che lo divide: entrambe portano ugualmente alla morte della libertˆ. Il suffragio universale[…] ateismo politico nel peggiore significato della parola. Come se dalla somma di una quantitˆ qualsiasi di suffragi potesse mai risultare un pensiero generale !.. Il modo pi sicuro per far mentire il popolo istituire il suffragio universale”(Berth, Les mŽfaits des intellectuels, Paris, 1914, p.80).
(3) -Luigi Lotti La Settimana Rossa, Firenze 1965, Premessa.
(4) -Ernst Nolte Il Giovane Mussolini, Gallarate 1993, p. 25.
(5) -J. Jaurs, Oeuvres, VI, in ” Etudes sociales”, II, 1897-1901, Paris 1933, pp. 193.
(6) -Compte rendu stenographique non officiel de la version francaise du cinquime congrs socialiste international tenu ˆ Paris du 23 au 27 septembre 1900, in “Cahiers de la Quinzaine”, S. II, XVI Cahier, Paris 1901, pp. 98- 103. Citato in AA. VV. Antologia del pensiero socialista – La seconda Internazionale, a cura di Alfredo Salsano, Bari 1981, p. 14.
(7) Ibidem, p. 15-16.
(8) -perciò considerava essenziale che anche i socialisti facessero sentire la propria opinione nei riguardi dell’affare Dreyfus che in quei momenti aveva spaccato in due la Francia: “[…] in nome della lotta di classe noi possiamo riconoscerci tra noi per le direzioni generali della battaglia da combattere; ma quando si tratterà in quale misura dobbiamo impegnarci nell’affare Dreyfus, o in quale misura i socialisti possano penetrare nei pubblici poteri, vi sarà impossibile risolvere tale questione limitandovi ad invocarne la formula generale della lotta di classe […] In ogni caso particolare dovrete esaminare l’interesse particolare del proletariato. E’ dunque una questione di tattica e noi non diciamo altro” J. Jaurs, Oeuvres, cit. p. 193.
(9) Ibidem p. 23.
(10) -Un’analoga posizione avrebbe preso Mussolini nel 1910 in un articolo, intitolato Sensibilità, pubblicato da La Lotta di Classe, n.27 del 9 luglio 1910, in cui così si esprimeva: “[…] Io trovo che molti socialisti si commuovono con troppa frequenza per le disgrazie della borghesia, e rimangono impassibili per quelle del proletariato[…] quando si tratta di qualche fottuto borghese che va repentinamente al diavolo, quando si tratta della pelle fine e profumata delle damine aristocratiche, molti socialisti spremono le loro riserve di liquido lacrimale. Diventano pietosi davanti alla tragedia borghese, mentre i borghesi non sono stati né diventeranno mai pietosi davanti alla tragedia proletaria[…]”
(11) Rosa Luxemburg, Scritti politici, a cura di L. Basso, Roma 1974, p. 416.
(12) -A. Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Roma – Bari, 1976, pp. 196-204; Luciano Cafagna, Antonio Labriola. Democrazia e socialismo in Italia, Milano 1954 e ancora, Antonio Labriola e la revisione del marxismo attraverso l’epistolario con Bernstein a cura di Giuliano Procacci in Istituto G. G. Feltrinelli, Annali, II, 1960.
(13) -B. Croce Come nacque e morì il marxismo in Italia in Antonio Labriola La concezione materialista della storia, Bari, 1945, p. 312; Cfr. Roberto Michels, Storia del marxismo in Italia, Roma 1909.
(14) -Antonio Labriola, A Proposito della crisi del marxismo, in Discorrendo di socialismo e di filosofia, Bari 1944, p. 164.
(15) Antonio Labriola, Democrazia e socialismo in Italia, Milano 1954, p. 98.
(16) -G. Tricoli, Benito Mussolini – L’uomo – Il rivoluzionario – Lo statista e la sua formazione ideologica, Roma 1996, p. 71.
(17) -Benito Mussolini, Tentativi di revisionismo, in Avanti!, n. 79, 3¡ giugno 1913, XVII.
(18) -Ibidem pp. 25 e ss.
(19) -B. Mussolini, Le eresie che risorgono e le eresie che muoiono. Nell’imminenza del Congresso nazionale del partito a Reggio Emilia, in Lotta di Classe, n. 127, 29 giugno 1912, III.
(20) -G. Tricoli, op. cit. p. 79.
(21) -E. Santarelli, La revisione del marxismo, op. cit.
(22) -C. Morandi, Per una storia del socialismo in Italia, in Belfagor, a. I, 1946, n° 2.
(23) -E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Introduzione, Milano 1962, p. 13 e, dello stesso autore, Il socialismo rivoluzionario in Italia, in Origini del fascismo, Urbino 1963; cfr. inoltre, E. Landolfi, L’idea di Nazione e la politica espansionistica in un grande interprete del marxismo: Antonio Labriola, in Rassegna Siciliana di Storia e Cultura n. 5, dicembre 1998, anno II, pp. 63-78.
(24) -A. Labriola , Democrazia e socialismo in Italia, Milano 1954, p. 111.
(25) -O. Malagodi, Imperialismo. La civiltà industriale e le sue conquiste, Milano 1901, p. 27.
(26) -F. Turati, Il partito socialista italiano e le sue pretese tendenze, Milano 1902, pp. 9-10.
(27) -Lenin invece diede un giudizio molto duro del revisionismo e dei suoi seguaci affermando che nel periodo in cui il marxismo si affermava con successo “(..) il liberalismo ritorna travestito da opportunismo socialista. Insomma la vittoria del marxismo costringe i suoi nemici a travestirsi da marxisti.” Citato in E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano 1964, p. 73.
(28) -F. Turati, Le vie maestre del socialismo, Bologna 1921.
(29) -R. Michels, Storia critica del movimento socialista italiano, Firenze 1926, p. 330.
(30) -Cfr.: Aldo Venturini e Pier Carlo Masini, La crisi del marxismo (una polemica di fine secolo); Carlo Rosselli, Il socialismo liberale, Roma – Firenze, 1945.
(31) -E. Santarelli, La revisione del marxismo, cit. p. 21.
(32) -B. Mussolini, Lo sciopero generale e la violenza, in Il Popolo, n. 2736, 23 giugno1909, X. Si tratta di un commento critico dell’opera di G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, pubblicata quello stesso anno a Bari dalla Laterza.
(33) B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1942, p. 280.
(34) -F. Pelloutier, Histoire des Bourses de travail, Paris, 1902. La diffusione delle teorie di Bernstein e l’elevamento del tenore di vita del proletariato operaio favorirono, dunque, specialmente in Francia, il fiorire della corrente gradualista e parlamentarista che sarebbe addirittura sfociata nel ministerialismo di Jaurs e Millerand. Ma il proletariato operaio si sentì presto tradito dall’alleanza tra socialisti e borghesi e grazie alla spinta di pensatori come Lagardelle e Monatte riprese l’azione diretta per la rivendicazione dei propri diritti, optando, cioè, per una revisione del marxismo non in senso conciliarista, ma in senso rivoluzionario.
(35) In Antologia del socialismo, op. cit. p.331.
(36) -H. Lagardelle, Avant -propos a Enquete sur la grve gŽnŽrale in Le mouvement socialiste, 1904, II.
(37) -Ibidem p. 135- 143. Mussolini fu particolarmente affascinato dalle teorie di Lagardelle e tra di loro nacque un’amicizia e una stima reciproca che si sarebbe protratta per sempre. In un recente libro sulla vita e il pensiero di Hubert Lagardelle, scritto da Ulderico Munzi e Marco Antonini, edito dalla Sperling & Kupfer, L’uomo che poteva salvare il Duce, si narra appunto di una delicata missione affidata dal governo francese a Lagardelle, perché si recasse a Roma e facendo leva sulla amicizia esistente tra lui e Mussolini, convincesse quest’ultimo ad avvicinarsi maggiormente alla Francia e a sottrarsi all’abbraccio con la Germania.
(38) H. Lagardelle, Le socialisme ouvrier, Paris, 1911, p. 325.
(39) -B. Mussolini, La teoria sindacalista, in Il Popolo, n. 2713, 2u7 maggio 1909, X. In tale articolo Mussolini, direttore de Il Popolo, di Trento, recensisce sul suo giornale l’ultima opera di Giuseppe Prezzolini, appunto La teoria sindacalista, in cui l’autore, pur non definendosi socialista, dimostra di disprezzare il gradualismo riformista che addormenta le masse e rende torpida la gioventù e sempre più condizionata dal materialismo: “[…] Perché un centesimo di più all’ora, se deve significare soggezione più lunga? Perché maturare nelle classi sociali gli interessi, a mo’ dei borghesi, se questo deve dare un attaccamento meschino al comodo momentaneo e legare di più, colla zavorra dell’avarizia, il proletariato alla terra dell’asservimento? Meglio una coscienza nuova, che un taschino più gonfio, una volontà più tesa, che un’assicurazione contro la vecchiaia”_(G. Prezzolini, La teoria sindacalista, Napoli, 1909, p. 58).
(40) -G. Sorel, Scritti politici e filosofici, a cura di G. Cavallari, Torino 1975 pp. 221-222. Stranamente il Sorel sindacalista rivoluzionario, teorico del mito dello sciopero generale, pervenne in seguito a posizioni revisioniste. Negli anni che precedettero la fine del secolo egli si incontrò con le teorie di Bernstein e le accettò pienamente, convinto, nel clima di benessere apportato dall’industrializzazione massiccia e dalla modernizzazione dell’agricoltura nel suo Paese, della inconsistenza dei dogmi marxisti.” Bisogna avere il coraggio di proclamare a gran voce che le basi della costruzione collettivista sono false. – avrebbe affermato in seguito -. La legge bronzea dei salari, la legge del concentramento capitalista, la legge della correlazione della potenza economica e politica, sono state tutte smentite dai fatti. Quindi il processo necessario, immanente, dell’antagonismo così spesso descritto, non esiste più e la catastrofe fatale, annunciata dall’ortodossia marxista, manca della ragione generatrice”. Cfr. G. Sorel, La crisi del socialismo scientifico, in Critica Sociale, 1¡ maggio 1898, pp. 134-138.
(41) -G. Sorel , Riflessione sulla violenza, traduzione italiana, Bari 1974, pp. 1174-180 e 182-185.
(42) -G. Sorel, Le illusioni del progresso, in Scritti politici, cit. p. 520.
(43) G. Sorel , Riflessioni, cit. pp. 182-185.
(44) Ibidem, p. 200.
(45) -B. Mussolini La Settimana Rossa, in Utopia, cit. Sull’utilità dello sciopero generale Sorel porta come prova la grande battaglia sferrata nei suoi confronti dai socialisti parlamentari che non avevano, invece, mai combattuto le innocue teorie del socialismo utopistico: ” Se per converso lottano contro l’idea dello sciopero generale ciò si deve al fatto che, nei loro giri di propaganda, s’accorgono che essa è talmente consona all’anima operaia, da essere capace di dominarla nel modo più assoluto, e da non lasciare posto alcuno ai desideri che i parlamentari possono soddisfare. Essi s’avvedono che quell’idea è talmente fattiva che, una volta entrata negli animi, questi sfuggono a qualsiasi controllo padronale, e per conseguenza il potere dei deputati si riduce a morte.” Passo riportato da Mussolini nell’articolo sopracitato.
(46)- Ne L’avenir socialiste des syndacats, pubblicato nel 1898, Sorel dˆ del sindacato un’immagine che ricorda molto quella delle associazioni di Proudhon :”… sindacato nel quale si raggruppano i lavoratori che hanno dato prova, ad un grado particolarmente elevato, di capacità produttive, di energie intellettuali e di attaccamento ai compagni, in seno al quale la libertà è in via di organizzazione e nel quale, in ragione delle necessità economiche, lo spirito di solidarietà è sempre fortemente teso”. In tale definizione è facilmente intuibile non solo la fede nella compattezza del proletariato, – è il numero che costituisce la forza e la potenza – ma anche il riconoscimento di un’élite di una aristocrazia operaia, alla maniera di Marx e di Lenin, con il ruolo di guida, tuttavia, emersa dal seno stesso del proletariato operaio e non dalla classe borghese G. Sorel, L’avenir socialiste des syndacats, Paris 1898, p. 29.
(47) G. Prezzolini, La teoria sindacalista, Napoli 1909.
(48) -Arturo Labriola, La crisi politica del partito socialista, Roma 1904, p. 254.
(49) -Ivanoe Bonomi, Riformismo socialista e riformismo rivoluzionario, in, op. cit. vol. I, pp. 208-209.
(50) -E. Leone, Prefazione a G. Sorel Lo sciopero generale e la violenza, Roma 1906, pp. III – X.
(51) -E. Leone op. cit. pp. III-X.
(52) -G. Sabatucci ( a cura di) Storia del socialismo italiano, vol. II, L’Età giolittiana. La crisi del riformismo e gli intransigenti( 1911-1914) di M. Degli Innocenti, Roma 1980, p. 411. Mussolini si espresse sempre negativamente riguardo al sabotaggio e al boicottaggio, malgrado esso fosse stato considerato dai vari congressi socialisti come arma valida di rivendicazione di classe. Proprio la serrata imposta dai padroni della ‘Miani e Silvestri’ nel gennaio – febbraio del ’14 gli diede il destro di commentare questo tipo di metodo di lotta, che in quel caso aveva determinato la netta sconfitta della classe operaia. Cfr. B. Mussolini, Gli scioperanti delle officine ‘Miani e Silvestri’ si ripresentano al lavoro; Dopo lo sciopero della ‘Miani e Silvestri’. Una Lettera dell’Unione Sindacale; Chiarimento necessario, in Avanti! del 25, 26 e 28 febbraio 1914.
(53) E. Santarelli, La revisione del marxismo, cit. p. 164.
(54) -Su Errico Malatesta cfr.:A. Borghi Errico Malatesta, Milano 1947; L. Fabbri, Malatesta, l’uomo e il pensiero, a cura di C. Zaccaria e G. Berneri, Napoli 1951. Sul suo pensiero politico cfr.: E. Malatesta, Scritti scelti, a cura di C. Zaccaria e G. Berneri, Napoli 1947-1954.
(55) -Su Luigi Fabbri e su Pietro Gori cfr.: U. Fedeli, Luigi Fabbri, Torino 1948 e P. Gori Opere, Milano, 1949.
(56) -Ibidem, pp. 3-5, Cfr. E. Santarelli, Il socialismo anarchico Milano 1959; A. Borghi Mezzo secolo di anarchia, Napoli 1954.
(57) K. Liebknecht, Scritti politici, a cura di E. Colletti, Milano 1971, p. 201.
(58) E. Malatesta in Volontà, n. 10 del 13 agosto 1913, riportato in L. Lotti, op. cit. p.8.
(59) -Oltre alla anconetana Volontà che divenne il portavoce del movimento anarchico nazionale, sorsero in quel periodo parecchi altri giornaletti anarchici fra cui il Libertario di La Spezia, il romano Pensiero Anarchico, L’Avvenire anarchico di Pisa, Gli Scamiciati di Novi Ligure, Il ’94 di Massa Carrara, La Donna Libertaria, diretto da Maria Rygier, che divenne il portavoce del movimento anarchico femminile italiano e i periodici La Scuola moderna di Clio, che si stampava a Como e l’Università Popolare di Milano. I giornali socialisti circolanti in quel periodo nel territorio nazionale erano 226 e 56 quelli repubblicani. Cfr.: L. Lotti, op. cit. pp. 9-10.
(60) -Da una media di circa 28000 copie con punte raramente pervenute a 34000, durante la gestione Treves, con l’avvento di Mussolini alla guida del giornale si assisterà ad un aumento continuo della tiratura fino ad arrivare ad una media di 60000 copie giornaliere, con punte di 100.000, nel marzo del 1914. Cfr. G. Tricoli, op. cit. p. 196; R. De Felice Mussolini giornalista, Bergamo 1995.
(61) G. Tricoli, op. cit., pp.195- 196.
(62) -Nel 1906 il sindacalismo rivoluzionario aveva recepito una forte spinta soprattutto dalla pubblicazione in Italia de Lo sciopero generale e la violenza di Sorel e de Il sindacalismo di Enrico Leone; in quello stesso anno inoltre era stato ristampato a Lugano Riforme e rivoluzione di Arturo Labriola. Sulle vicende del sindacalismo italiano a partire dal 1907 Cfr. P. Orano La vigilia sindacalista dello stato corporativo, Roma 1939; R. Michels Storia critica del movimento socialista italiano, Firenze 1926; E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano 1964.
(63) -G. Spadolini La lotta sociali in Italia, Firenze 1948; AA. VV. Sindacalisti Italiani, a cura di R. Melis; I. M. Sacco Storia del sindacalismo, Torino 1947; A. Gradilone, Storia del sindacalismo in Italia, Milano 1959; B. Uva Vita e morte del sindacalismo rivoluzionario italiano in Storia e politica, 1963, pp. 403-427.
(64) L. Lotti, op. cit. p. 24.
(65) Alceste de Ambris in L’Internazionale, n. 431, 30 novembre 1912.
(66) B. Mussolini, Assassinio di Stato, in Avanti! n. 7, 7 gennaio 1913, XVII.
(67) -Cfr.: G. Tricoli, op. cit.; E. Santarelli Socialismo rivoluzionario e ” mussolinismo” alla vigilia del primo conflitto europeo, in Rivista storica del socialismo, 1961, pp. 531-571.
(68) B. Mussolini , Avanti!, n. 46, 15 febbraio 1914.
(69) -L. Bissolati, Le elezioni generali politiche e gli insegnamenti dello sciopero generale, in Critica Sociale, op. cit. p. 227.
(70) -B. Mussolini, Le parole di un rivoltoso, in Avanguardia Socialista, n. 67, 3 aprile 1904, II.
(71) -B. Mussolini , I ‘Sinistri’ alla riscossa, in La Folla, n. 6, 9 febbraio, 1913, II, La Morta Gora (Confessioni di un deputato), in Avanguardia socialista, n.17, 11 marzo 1905, II_(2¡ serie).
(72) -B. Mussolini, Lo sciopero generale, in Avanti!, n. 157, 8 giugno 1913, XVII. Dello sciopero della Miani e Silvestri che era un’industria metallurgica milanese, il futuro duce parla in un articolo pubblicato sull’Avanti! del 30 gennaio 1914, Dalla serrata alla ‘Miani e Silvestri’ all’agitazione dei tramvieri. In tale articolo Mussolini enuncia i motivi della serrata che consistevano nel fatto che i titolari dell’impresa si rifiutavano di aprire la fabbrica, fin quando le maestranze non si impegnassero a non commettere più atti di sabotaggio.
(73) G. Tricoli, op. cit. p. 202.
(74) -Benito Mussolini, Sintesi del discorso pronunciato a Milano, nella Casa del Popolo, il 16 giugno 1913, in Avanti!, n. 166, 17 giugno 1913, XVII; sull’antiborghesismo di Mussolini, di cui i rigurgiti non mancarono di farsi sentire nemmeno nei momenti di maggior consenso della sua dittatura, quando il fascismo aveva ormai abiurato al rivoluzionarismo delle origini, cfr. A. Argenio, Mussolini, il fascismo e la polemica antiborghese, in Nuova Storia Contemporanea, luglio agosto 2001, pp. 55- 72; L’ultima parte della citazione tratta dall’articolo di Mussolini, pubblicato sull’Avanti! del 1 luglio 1913, n. 180, XVII, Dalla magia…alla nevrosi. Tale articolo fu scritto in occasione della polemica scoppiata con la Critica Sociale, sempre a proposito dello sciopero generale, e in risposta ad un altro articolo fortemente critico di Emanuele Modigliani.
(75) G. Tricoli, op. cit. p. 197.
(76) -B. Mussolini, Al largo, in Utopia, n. 1, 22 novembre 1913. Con questo numero iniziava la feconda pubblicazione della rivista Utopia, il giornale personale di Mussolini che gli permetteva – secondo ciò che scrisse Prezzolini – di sentirsi più ‘se stesso’ di completarsi. “[…] Qui posso parlare in prima persona. Altrove rappresento l’opinione collettiva di un Partito, che può essere ed è, quasi sempre, anche la mia; qui rappresento la mia opinione, la mia Welanschauung, e non mi curo di sapere se essa concorderà o no con l’opinione media del Partito. Altrove sono il soldato che ‘obbedisce’ alla consegna; qui invece sono il soldato che può anche ‘discutere’ la consegna […]”. (B. Mussolini, L’impresa disperata, in Utopia, n. 1, 15 gennaio 1914, II).
(77) -B. Mussolini, Il valore storico del socialismo, riassunto della conferenza tenuta al Politeama di Firenze, l’8 febbraio 1914, in Avanti!, n. 46, 15 febbraio 1914, XVIII.
(78) -B. Mussolini, Concretiamo il partito! Risposta a G. M. Serrati, in Avanti!, n. 47, 16 febbraio 1913, XVII.
(79) -B. Mussolini, Al “Lavoro”, in Avanti!, n. 16, 16 gennaio 1913, XVII. Si tratta di una polemica risposta ad un articolo di critica del comportamento dei socialisti rivoluzionari sul problema degli eccidi, pubblicato, giorni prima, su Il Lavoro di Genova.
(80) J. Jaurs Oeuvres, VI, in Etudes sociales, II, 1897-1902 ,Paris 1933, p. 193-194.
(81) -B. Mussolini, Il congresso di Brest e un tentativo di revisionismo socialista, in Avanti, n. 42, 11 febbraio 1913, XVII.
(82) -B. Mussolini, Per l’intransigenza del socialismo, in Avanti!, n. 36, 5 febbraio 1913, XVII.
(83) -B. Mussolini, Per l’Avanti!, Discorso pronunciato al teatro V. Emanuele di Ancona, il 26 aprile 1914, I giornata del XIV Congresso socialista Italiano. Dal Resoconto stenografico del XIV Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano, Città di Castello, 1914, p. 28.
(84) -L. Lotti, op. cit. pp. 38-39.
(85) -R. De Felice, Il Congresso di Ancona, in Mussolini il rivoluzionario (1883- 1920), Torino 1995, pp. 177-220.
(86) -Guesde in Antologia del socialismo, op. cit. p. 281.
(87) -Il 25 gennaio Cipriani fu eletto deputato, ma non arrivò mai a Montecitorio, essendosi rifiutato di prestare giuramento alla monarchia Savoia. Cfr. R. De Felice, op. cit. p 178;_C. Treves (Il Vice), L’elezione di Cipriani in Critica Sociale, 1-15 febbraio 1914.
(88) -B. Mussolini, Contro la Massoneria, discorso pronunciato al teatro Vittorio Emanuele di Ancona il 27 aprile 1914, II giornata del XIV Congresso Nazionale del Partito socialista Italiano. Dal Resoconto stenografico, op. cit., pp. 133-137.
(89) B. Mussolini, Il Congresso di Ancona, in Avanti!, 1 maggio 1914, XVIII.
(90) B. Mussolini, l’anno che è morto, in Avanti!, n.1, 1 gennaio 1914, XVIII.
(91) -Sulla campagna antimilitarista di Malatesta e sui fatti di Ancona Cfr.: L. Lotti, op. cit.; E. Santarelli Aspetti del movimento operaio nelle Marche, Milano 1958, E. Santarelli Le Marche dall’Unità al Fascismo. Democrazia repubblicana e movimento socialista, Roma 1964.
(92) -B. Mussolini, I fatti di Ancona, in Avanti!, n. 157, 8 giugno 1914, XVIII.
(93) -Articolo del Corriere della Sera dell’11 giugno 1914 riportato da L. Lotti, op. cit. p. 97.
(94) -Sui fatti di Roma cfr.: S. Bertelli, Socialismo e movimento operaio a Roma dal 1911 al 1918, in Movimento operaio, 1955 , pp. 65-90, A. Caracciolo, Roma capitale dal Risorgimento alla crisi dello stato liberale, Roma 1956.
(95) -L. Valiani, Scritti di storia. Movimento socialista e democrazia, Milano 1983, p. 300.
(96) -B. Mussolini, Per la proclamazione dello sciopero generale. Discorso pronunciato all’Arena di Milano il 9 giugno 1914, in Corriere della Sera, 11 giugno 1914, n. 159, XXXIX.
(97) Ivi; L. Lotti, op. cit. pp. 124-125.
(98) -C. Colella, Preludio della “Settimana Rossa” in terra di Bari, novembre 1913 – maggio 1914, Bari 1954.
(99) L. Lotti, op. cit. p. 152.
(100) Ibidem, p. 155.
(101) -Articolo riportato da La Confederazione del Lavoro, nn. 305-306, 15 giugno – 1 luglio 1914, p. 575, in L. Lotti, op. cit. p. 153.
(102) -Atti del Processo della Settimana Rossa, conservati nella Biblioteca Comunale di Ancona, VII, Deposizioni della Pubblica Sicurezza ed altri, p.218, riportato da L. Lotti, op. cit. p. 101.
(103) -L. Valiani, op. cit. p. 302 e seg.
(104) -B. Mussolini, Lavoratori d’Italia, scioperate! in L’Avanti! n. 158, 9 giugno 1914, XVIII.
(105) -E. Malatesta, La rivoluzione in Italia – La caduta della monarchia sabauda, in Supplemento al n. 23 della Volontà, 12 giugno 1914.
(106) -B. Mussolini, Lo sciopero deve continuare, discorso pronunciato all’Arena di Milano il 10 giugno 1914, in Corriere della Sera , n. 159, 11 giugno 1914, XXXIX e in Avanti!, n. 159, 11 giugno 1914, XVIII. Sul ” soldo del soldato” ovvero sulla necessità di far penetrare la propaganda socialista soprattutto nelle caserme, Mussolini si era già ampiamente espresso nel corso del suo discorso elettorale, tenuto al teatro Comunale di Forlì”, la sera del 18 ottobre 1913, il cui sunto è riportato nei numeri 290 e 291 dell’Avanti! dei giorni 19 e 20 ottobre 1913. In quell’occasione si era così espresso: “[…] Bisogna attaccare il militarismo come istituzione[…] Predicheremo la diserzione? La rivolta delle caserme? O ci limiteremo alla solita deprecazione o deplorazione orale? Tutte le frazioni del socialismo, dalle più rosee alle più accese, ripudiano i primi due mezzi. Io credo che il mezzo migliore di propaganda antimilitarista sia ancora la costituzione del sou du soldat. Bisogna preconizzarlo e propagandarlo senza restrizioni dovunque. (B. Mussolini,_Il programma del partito socialista).
(107) -L. Lotti, op. cit. pp. 239-240.
(108) -B. Mussolini, Per la cessazione dello sciopero generale. Discorso pronunciato all’Arena di Milano l’11 giugno 1914 e riportato dall’Avanti! del 12 giugno 1914, n. 160, XVIII.
(109) -Questi i dati riportati dall’Internazionale del 20 giugno 1914, n. 164.
(110) G. Salvemini, Una rivoluzione senza programma, in L’Unità, 19 giugno 1914.
(111) -Ivanoe Bonomi, Riformismo socialista e riformismo rivoluzionario, in Critica Sociale, op. cit. vol. I, p. 208, articolo del 1909, pubblicato nel XIV fascicolo della rivista. Anche Leonida Bissolati si era espresso sulla stessa lunghezza d’onda: “[…] lo sciopero generale, come l’insurrezione, non può essere benefico al proletariato se non a patto di raggiungere immediatamente uno scopo ben determinato e preciso. Se no, lo sciopero è una rivoluzione abortita, che serve soltanto a provocare e rinforzare la reazione […]”._L. Bissolati, Le Elezioni generali politiche e gli insegnamenti dello sciopero generale , in Critica Sociale, op. cit. p. 227.
(112) R. De Felice, Il Congresso di Ancona, op. cit. p. 209.
(113) B. Mussolini La Settimana Rossa, in Utopia, nn. 9-10, 15-31 luglio 1914.
(114) B. Mussolini, La settimana rossa, in Utopia, n. 9-10, 15-31 luglio 19154, II.
(115) -G. Zibordi, Continuando a discutere di cose interne di famiglia, in Critica Sociale, 1-15 agosto 1914. Già cinque anni prima, sulla stessa rivista, Zibordi aveva condannato il sindacalismo rivoluzionario criticando: “[…] l’inconsistenza di metodi teorici cui manc˜ troppo finora il materiale sperimentale, o una non simpatica e non educativa indifferenza intorno ai massimi problemi del divenire sociale: il quale ha bisogno, non di fedi cieche e di mentiti miraggi, ma di indirizzi consaputi e di mete su cui splenda un faro e non una lucciola […] Una visione socialista del movimento operaio, e un’azione conforme, rappresentano una guarentigia di trasformazione sociale profondamente rivoluzionaria nella meta, ma evolutiva, civile ed equa nel cammino. Essa non solo assicura una relativa ‘pace nella guerra’ rispetto al fine ultimo, ma oggi stesso, negli effetti suoi immediati, può significare un potente mezzo equilibratore dei singoli diritti e di singoli sforzi, una salvaguardia dei supremi interessi reciproci della collettività. Il socialismo, nella sua meta come nel suo cammino, è una gran legge di umana disciplina e di severa equità” (G. Zibordi, Per la difesa del socialismo. L’occhio levato alla meta, in Critica Sociale, op. cit. vol. I p.302-303, articolo pubblicato nel numero XIX del 1909.
(116) B. Mussolini, Tregua d’armi, in Avanti!, n. 160, 12 giugno, 1914, XVIII.
(117) -B. Mussolini, Dopo il fatto compiuto, in Avanti!, n.342, 10 dicembre 1912, XVI. La frase precisa, in riferimento alla politica estera del governo, decisa senza sentire la volontà della base popolare, era la seguente: “Ma la Nazione – intendiamo parlare del proletariato e del popolo – è assente”.
(118) -O. Pastore La Settimana Rossa e gli anarchici, in Rinascita, n. 9, settembre 1955.
(119) L’Idea Nazionale, n.23, 19 giugno 1914.
(120) G. Spadolini, Giolitti e i cattolici, pp. 349-351.
(121) Articolo di Alceste De Ambris in L’Internazionale, n.164, 20 giugno 1914.
(122) -T. Nanni, ,Bolscevismo e fascismo alla luce della critica marxista. Benito Mussolini, Bologna 1924, p. 177.
(123) -B. Mussolini, Al Largo, in Utopia, n.1, 22 novembre 1913.
(124) -“Il Gruppo, riunitosi per deliberare circa i risultati degli ultimi avvenimenti popolari, mentre ravvisa in essi la fatale e anche troppo preveduta conseguenza della politica delle stolte classi dirigenti italiane, la cui cieca pervicacia nel sostituire alle urgenti riforme economiche e sociali i criminosi sperperi militaristi e pseudo – colonialisti frustra l’opera educativa e disciplinatrice del Partito Socialista per la trasformazione graduale degli ordinamenti politici e sociali e riabilita nelle masse il culto della violenza, riafferma il concetto fondamentale del socialismo internazionale moderno, giusta il quale le grandi trasformazioni civili e sociali, ed in particolare la emancipazione del proletariato dal servaggio capitalistico, non si conseguono mercŽ scatti di folle organizzate, il cui insuccesso risuscita e riattizza le più malvagie e stupide correnti del reazionarismo interiore […] dichiara quindi la necessità da parte del Gruppo di persistere più che mai sul terreno parlamentare e nella propaganda fra le masse[…] intensificando, al tempo stesso l’opera assidua e paziente, la sola veramente e profondamente rivoluzionaria di organizzazione, di educazione e di intellettualizzazione del movimento proletario[…].
(125) B. Mussolini, la Settimana Rossa in Utopia, n. 9-10, 15-31 luglio 1914, II.
(126) Articolo di G. Prezzolini, in La Voce, n. 12, 28 giugno 1914.
(127) -G. Scalia (a cura di),La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, vol. IV, Lacerba. La Voce (1914-1916), Torino 1961, p. 301.
(128) -G. Salvemini, Una rivoluzione senza programma, in L’Unità del 19 giugno 1914.
(129) -Articolo di Prampolini su Giustizia, n. 3293, 19 giugno 1914.
(130) -E. Nolte, op. cit. p. 11 e 16; solo lo studioso italoamericano Gaudens Medaro, ha messo in rilievo, prima di De Felice e Tricoli, l’evoluzione politica di Mussolini durante la giovinezza, fermandosi tuttavia al 1912. Molto più completa invece l’analisi del Tricoli nella sua opera postuma già citata, analisi che viene attuata attraverso un’accurata e sterminata indagine storiografica e che ci dà un quadro, mai prima delineato, della formazione culturale e politica del giovane Mussolini.
(131) E. Nolte, op. cit. pp. 22-25.
(132) -Benito Mussolini, Karl Marx (Nel 25¡ anniversario della sua morte), in La Lotta di_classe, n. 10, 12 marzo 1910.
(133) -B. Mussolini, Il socialismo degli avvocati, in La lotta di classe, n. 25, 25 giugno 1910, I.
(134) -Ibidem p. 31.
(135) -Ibidem, p. 34.
(136) -B. Mussolini, Intermezzo polemico, in La Lima, n. 16, 25 aprile 1908, XVI.
(137) -R. De Felice, Mussolini, il Rivoluzionario, op. cit., pp. 59 e seg.
(138) -B. Mussolini, Da Guicciardini a… Sorel, in Avanti!, in. 198, 18 luglio 1912, XVI.
(139) C. Rosselli, Il problema dell’ateismo, Introduzione, p. 150.
(140) -E. Nolte, I tre volti del fascismo, Milano 1993; G. Tricoli, Benito Mussolini, op. cit. 213 e seg.
(141) B. Mussolini, Caccia al buon senso, in La folla, aprile 1913.
(142) E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano 1932, p. 89.
(143) R. De Felice, La crisi della guerra, in Mussolini il rivoluzionario, op. cit. p. 275.
(144) Ivi, p. 286.
(145) -R. De Felice, ivi, pp.271- 281. De Felice è uno dei pochi che se ne sia occupato in maniera obbiettiva, scevra da pregiudizi ideologici e soprattutto con il supporto di materiale documentario.
(146) -B. Mussolini, Intermezzo polemico. Battute di preludio in Avanti!, n. 199, 21 luglio 1914, XVIII.
(147) -B. Mussolini, Per l’Avanti! Discorso pronunciato al teatro Vittorio Emanuele di Ancona il 26 aprile 1914 prima giornata del XIV, cit.
(148) -B. Mussolini, ‘La guerra è immonda’, in Avanti!, n. 214, 5 agosto 1914, XVIII.
(149) -B. Mussolini, La lavata di capo, in Avanti!, n. 270, 30 settembre 1914, XVIII.
(150) -L’homme qui cherche (B. Mussolini), Note di guerra, in Utopia, n. 11-12, 15 agosto – 1 settembre 1914, II.
(151) -B. Mussolini, Mezzo milione di organizzati sono col partito socialista per la neutralità assoluta dell’Italia, in Avanti!, n. 215, 6 agosto 1914, XVIII.
(152) -Tre anni dopo avrebbe scritto. “[…] Fu quello un periodo assai breve del resto, in cui motivi di o3rdine politico frenarono il mio interventismo latente iniziale. Forse io avevo in animo di condurre il partito alla sua più alta manifestazione antebellica, per poi, compiuta l’affermazione di principio, scendere sul terreno della realtà”. In Edoardo e Duilio Susmel (a cura), B. Mussolini, Opera Omnia, Firenze – Roma, 1990, vol. IX, p. 91. Sull’indecisione di Mussolini in questo critico periodo della storia e della sua vita personale, segnaliamo un articolo di Azione socialista, pubblicato il 19 settembre e intitolato, appunto, I due Mussolini: “[…] Il giovane direttore dell’Avanti! s’è affinato in diplomazia. Riferiscono quelli che gli sono vicini che egli freme per via del foruncolo francese( quella specie di mal francese comune ai democratici e ai rivoluzionari di tutte le nazioni e ch’egli felicemente definì” a quel modo all’assemblea della sezione milanese), di quel foruncolo che gonfia e brucia ogni giorno di più[…] Ma il guaio è che ogni giorno che passa il gioco diplomatico diventa più difficile per Mussolini, anzi per i due Mussolini, che un bel giorno, riscaldandosi l’ambiente[…] finiranno per litigare sul serio. Chi dei due vincerà? C’è chi sente già echeggiare per la via di San Damiano l’Addio mia bella addio[…].
(153) -B. Mussolini, Il militarismo brutale inizia la sua gesta di sangue, in Avanti!, n. 214, 5 agosto 1914, XVIII.
(154) -Questi sarà il primo a congratularsi con Mussolini quando quest’ultimo deciderà di passare il Rubicone: ” Caro Mussolini, ho letto in treno il tuo magnifico articolo sulla neutralità ‘non’ assoluta. E sento il bisogno di fartene i miei rallegramenti: il tuo istinto sano e forte ti ha fatto arrivare anche questa volta alla linea buona di condotta. E non è piccolo atto di coraggio il tuo, questo di rompere la lettera per salvare lo spirito dell’internazionalismo, in questo nostro paese di sagrestani formalisti e chiacchieroni.
Tuo Gaetano Salvemini”
In Avanti!, n. 291, 21 ottobre 1914, XVIII.
(155) B. Mussolini, ciò che il socialismo può dire, in Avanti!, n.244, 4 settembre 1914, XVIII.
(156) B. Mussolini, In tema di neutralità, in Avanti!, n.. 222, 13 agosto 1914, XVIII.
(157) B. Mussolini, Al nostro posto, in Avanti!, n. 225, 11 agosto 1914, XVIII.
(158) -B. Mussolini, Neutralità e socialismo, intervista concessa a Il Giornale d’Italia, n. 275, 6 ottobre 1914, XIV.
(159) -Benito Mussolini risponde a Libero Tancredi. Fra uomini di paglia, in La patria – Il Resto del Carlino, n. 278, 8 ottobre 1914, XXX.
(160) -Benito Mussolini, Fra la paglia e il bronzo, in La Patria – Il resto del Carlino, n. 283, 13 ottobre 1914, XXX.
(161) Avanti!, n. 288, 18 ottobre 1914, XVIII.
(162) -Intervista concessa da Mussolini a Il Secolo, il 20 ottobre 1914, in Il Secolo, n. 17435, 21 ottobre 1914, XXXIX.
(163) -B. Mussolini, Opera Omnia, op. cit., vol. Vi p. 406.
(164) -In un articolo di commento al Congresso, Il Congresso di Ancona. L’apoteosi di un metodo e di due uomini, firmato Cisalpino, l’ Azione Socialista aveva avanzato l’ipotesi che, malgrado l’elezione di Lazzari alla segreteria del partito, il vero trionfatore e il futuro incontrastato leader fosse appunto Mussolini: “[…] I fedeli dell’intransigenza e della rivoluzione li amano entrambi di uguale amore, ma seguirebbero il sopraggiunto, abbandonando, senza rimpianti, il vecchio soldato, ov’essi si separassero, perché sulle masse dalla mentalità rivoluzionaria, il Mussolini, con quella figura di asceta, quella voce a mormorio di foresta, quel gesto di persona quasi agitata sempre da un incubo, esercita fatalmente una potenza fascinatrice e trascinatrice”.
(165) -Discorso pronunciato da Benito Mussolini nel Salone dell’Arte Moderna a Milano il 10 novembre 1914,durante l’assemblea della sezione socialista milanese. In Avanti!, n. 312, 11 novembre 1914, XVIII.
(166) -A. Gramsci, Neutralità attiva e operante, in Il grido del popolo, 31 ottobre 1914.
(167) -G. Tricoli, Benito Mussolini, l’uomo, il rivoluzionario, ecc. op. cit. p. 130.
(168) Ivi, p. 132.
(169) -L’intervento di Mussolini in assemblea è riportato dall’Avanti! e da Il Popolo d’Italia del 25 novembre 1914.