L’influsso esercitato da Luigi Pirandello (1867-1936) sulla cultura contemporanea, italiana, europea, mondiale, è stato talmente profondo che per limitarci al teatro, egli è uno degli autori più rappresentati in tutto il mondo, segnatamente in Francia dove, come ha scritto significativamente Alfred Mortier: “Lo si recita contemporaneamente in tre teatri, fatto senza precedenti per uno straniero, è un furore, un’infatuazione, una moda, una mania”. E Pirandello, in una lettera a Marta Abba, da Parigi, datata 02/02/1931, così si confiderà con l’amica: “D’Altronde la Società degli Autori francesi mi ha invitato a far parte, come socio effettivo, della Società, con tutti i diritti degli autori francesi: e anche questo è un atto di distinzione assolutamente unico, non concesso ancora a nessuno degli autori stranieri, che sono solo soci aderenti”.
La carriera letteraria, diciamo così, di Pirandello iniziò presto perché – dopo il ritorno dalla Germania, dove si era laureato nel 1891 – si stabilì subito a Roma dove con l’aiuto di Luigi Capuana si inserì negli ambienti culturali della capitale. Sempre quì iniziò a collaborare alle riviste del tempo – come, ad esempio, “La Nuova Antologia”, “La Tribuna”, “La fiera letteraria” ed altre – e sempre qui e in altre città cominciò a dare alle stampe le prime opere. Non è superfluo, a questo punto, ricordare che dal 1897 il giovane scrittore aveva ottenuto la cattedra di letteratura italiana presso la facoltà di Magistero femminile dell’Università di Roma e che alcuni anni prima aveva pubblicato i principali volumi di poesia come, ad esempio, “Mal giocondo” (1889), “Pasqua di Gea” (1891), “Elegia Renana” (1895), per limitarci solo ad alcuni.
La collaborazione di Pirandello alle varie riviste e giornali dell’epoca lo portò a scrivere novelle, genere nel quale era particolarmente versato e, non a caso, la critica più accreditata tende a conferire ad esse grande attenzione tant’è che, per Corrado Simioni; “le novelle conobbero un largo e incondizionato successo di pubblico” negli ultimi anni di vita dell’Autore. Ancora oggi, esse godono di notevole considerazione per il non comune realismo che, foscolianamente, “le governa” e la semplicità che le contraddistingue. Giustamente Massimo Bontempelli, uno dei maggiori rappresentanti del “realismo magico” del Novecento, ha osservato, per un verso, che Pirandello “ha messo le mani in mezzo a un groviglio di gente e ha tirato su come con le reti, uomini e donne a grappoli. Era quella la piccola borghesia di fine Ottocento, e, per l’altro, che “se voi leggete specialmente i primi volumi dei racconti, quel mondo di stanzucce, scialletti, lettini di ferro, spalle strette, finestre sul vicolo, luci stentate, anime chine, piccole croci, vi pare un mondo già pronto per l’ultimo respiro”.
Le novelle, in definitiva, raccolte in quindici volumi col suggestivo titolo, appunto, di “Novelle per un anno” costituiscono sicuramente la parte più e attuale della vasta produzione dell’Autore, anche perché dalle stesse egli ricavò i motivi fondamentali dei suoi drammi; drammi in cui la condizione umana è messa a nudo con singolare perizia, ma pure con implacabile spietatezza, sicché ha ragione il citato Bontempelli allorquando scrive che al mondo pirandelliano “senza spostare niente basti un piccolo tocco per farne un cimitero”.
Ma se le novelle hanno goduto e godono di notevole fortuna, anche i romanzi hanno avuto ed hanno grande valenza letteraria ad iniziare da “L’esclusa” (1901) – situazione in cui una donna, Marta Ajala, viene, prima, “esclusa” per una colpa non commessa e, poi, riammessa nella società dopo aver commesso il fallo – per finire a “Uno, nessuno e centomila” (1924) dove il cosiddetto ‘pirandellismo’ raggiunge il massimo dell’arte e del parossismo. Senza dimenticare, naturalmente, “Il Turno” (1902), “Il fu Mattia Pascal” (1904), “I vecchi e i giovani” (1909), e gli altri.
Per quanto riguarda “Il fu Mattia Pascal”, esso se, da una parte, rimane ancora oggi uno dei libri più venduti e letti del drammaturgo, dall’altra, al contrario, si conferma come l’opera più seducente ed inquietante insieme; anche per la presenza in esso di quei riferimenti, teosofici, filosofici ed esistenziali che in così larga misura appassionarono l’Autore. La vicenda è nota, con tutte le implicazioni grottesche in cui viene, ad un certo punto, a trovarsi Mattia Pascal – Adriano Meis il quale, dopo tante peripezie, si accorge che senza documenti – il famoso stato civile – non può né denunziare un furto subito, né innamorarsi di Adriana né, infine, prolungare la propria permanenza in una città, Roma, che pure l’ha accolto con tanta simpatia. Al protagonista non resta altro che la messinscena del suicidio, il ritorno a Miragno e, qui, la scoperta della verità con la moglie risposata e la lapide al cimitero con la scritta: ‘Mattia Pascal’. Nota, al riguardo, un esperto dell’opera pirandelliana, Giovanni Croci: “La sua esistenza rimarrà fissa all’esperienza del momento in cui egli ‘morì’, ad una sorta di lucida, emblematica, ironica, filosofica, pazzia”.
Ma se la produzione letteraria di Pirandello è notevole sul piano delle novelle e dei romanzi, non meno considerevole risulta il suo impegno nella drammaturgia; impegno che fa di lui uno dei pochi autori contemporanei che possono reggere il confronto con i sommi tragici greci. Tale confronto l’Agrigentino lo può reggere anche con la critica visti i due importanti saggi “Umorismo” ed “Arte e scienza”, entrambi del 1908.Con questi, opponendosi ai canoni della critica crociana, egli rivendica vigorosamente, in polemica con l’equazione “intuizione = espressione”, che “l’idea non può essere assente dall’opera d’arte, ma dev’essere sempre, tutt’intera in quell’emozione feconda, ond’è creata”.
La produzione teatrale di Pirandello è, com’è noto, amplissima, sicché basta solo l’analisi dei due capolavori, “I sei personaggi” (1921) e “L’Enrico IV” (1922) per avere la percezione della grandezza di Pirandello drammaturgo. La prima opera, anche ciò è notorio, non godé, all’inizio, i favori della critica – troppo innovativa ed impegnativa, chiarisce sempre Corrado Simioni, “la rottura con la forma teatrale com’era intesa tradizionalmente” – mentre la seconda si affermò subito.Anche queste due dolorisissime storie sono note. La prima, perché, rompendo, appunto, con la tradizione, sciorinava un intreccio in cui la tragedia di una famiglia – il Padre, la Madre, il Figlio – si incrociava con la situazione non meno pietosa di un’altra famiglia formata, appunto, dalla stessa Madre, dal Segretario del Padre e dai tre figli dei primi due, vale a dire la Figliastra, il Giovanotto e la Bambina, la seconda, perché il protagonista, nelle vesti di Enrico IV di Franconia, cadendo da cavallo restava “fissato” per diciotto anni nella condizione di pazzo a causa del trauma subito. “I sei personaggi” vogliono vivere e cercano un autore, mentre “Enrico IV” mette in opera una micidiale vendetta uccidendo Belcredi, il vero responsabile della caduta da cavallo dell’amico – rivale. Da qui, l’assurda e diabolica decisione di chi impersona l’imperatore, di restare per sempre “fisso” nella sedicente pazzia. In ambedue i drammi, che Pirandello chiama commedie, torna il celebre motivo della dialettica “vita – forma” con quella che rappresenta l’istintività, la schiettezza, l’autenticità e con questa che costituisce l’immobilità, la cristallizzazione, la morte.
Sintomaticamente queste parole dell’Agrigentino tratte dalla celebre Prefazione ai “Sei personaggi”: “Il conflitto immanente tra il movimento vitale e la forma è condizione inesorabile non solo dell’ordine spirituale, ma anche di quello naturale”. E più avanti, ribadendo le affermazioni precedenti: “Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e perciò stesso deve morire: tranne l’opera d’arte, che appunti vive per sempre, in quanto è forma”. Da qui, la grandezza di Pirandello, ma da qui, anche, la dimostrazione, egli resta uno dei maggiori testimoni di questo, dice Luigi Russo, “cruciato Novecento”.
Grandissimo esponente del decadentismo europeo, lo scrittore siciliano incarna – con autori del calibro di Kafka, Svevo, Schinitzler, Zweig ed altri – l’intero malessere del XX secolo anche, e soprattutto, perché la sua analisi, sempre lucide e spietate, trovano nei motivi coscienti, subcoscienti, teosofici, metafisici, mistici e simbolici, l’”humus” più fertile e fecondo. Non a caso, egli ha redatto un saggio sull’umorismo e ha scritto, sono sue parole, che “il mondo, lui (l’umorista) lo vede, se non propriamente nudo, per così dire in camicia: in camicia il re, che vi così bella impressione a vederlo composto nella maestà d’un trono con lo scettro e la corona e il manto di porpora e d’ermellino”, e, non a caso, ancora, il narratore ha definito il cosiddetto “sentimento del contrario”. Sentimento del contrario che scaturisce dall’umorismo; e questo perché, egli osserva, “l’umorismo nega il comico, lo supera attraverso il comico stesso; penetra nel suo contrario (nel contrario appunto del comico) e ne acquista tanto il sentimento, che attraverso la rappresentazione di esso comico, te lo distrugge”. Insomma, conclude lo scrittore, nell’ironia, nella satira e nell’epigramma non abbiamo il sentimento del contrario, bensì un avvertimento del contrario, vale a dire, son sue parole, “un avvertimento che non penetra fino a farti ‘sentire’ il no come il sì, per modo che tu non possa più e non sappia da parte tenere, e t’è impedito il riso come il pianto. Il sentimento del contrario è presente in molte opere pirandelliane ed ecco il classico esempio che troviamo nel libro ‘l’Umorismo: “Vedo una vecchia signora, coi i capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere (…).Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere (…)” e lo fa soltanto per ingraziarsi “l’amore del marito molto più giovane di lei (…), ecco che io non posso più riderne come prima e “da quel primo ‘avvertimento del contrario’ mi ha fatto passare a questo ‘sentimento del contrario’.
Ma Pirandello fu pure un autore espressionista visto che egli assorbì tali tematiche durante il soggiorno a Bonn dove ebbe familiarità con autori del calibro di Simmel, Dilthey, Lipps ed altri; autori, da lui, tra l’altro, citati nei due saggi critici già ricordati, ‘L’Umorismo’ ed ‘Arte e scienza’, senza dimenticare il Binet ed altri psicologi ivi compresi – innanzitutto Bergson – gli stessi psicoanalisti.I motivi di fondo sono sempre quelli esistenziali ossia la condizione dell’uomo nel mondo e il senso tragico della vita.
Condizione così efficacemente sintetizzata nel saggio postumo ‘Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra’ in cui leggiamo: “Potrà anche darsi che appena privo di sensi (…) io debba finire in aria come quell’impercettibile spruzzolino in cui d’improvviso s’estingua una bolla di sapone: luce, forma, colori: tutto, via d’un soffio come niente; e silenzio”. Altrove, in una lirica, il poeta precisò la situazione dell’individuo in questo mondo: “vado dove la mia sorte / mi conduce. /Senza luce / corro anch’io verso la morte”. Ecco perché il drammaturgo deve essere, a buon diritto, considerato la coscienza critica del Novecento per la capacità, tutta sua, di essere riuscito ad impersonare la crisi di quei valori su cui si reggeva la società tradizionale; società che Pirandello, da grande patologo dell’anima ha collocato sul tavolo anatomico ed ha ispezionaato fino alle profondità più recesse. Con l’Agrigentino deve, in ultima analisi, fare i conti chi voglia comprendere con maggiore chiarezza il dramma, prima, e la tragedia, dopo, dell’uomo contemporaneo.