Nell’estrema provincia della Sicilia occidentale, nel 1875, nasce Giovanni Gentile astro fulgido del pensiero filosofico europeo. Il quale contribuisce fortemente a restituire all’Italia quella dignità che la sua frammentazione politica sembrava avere offuscata, sminuendone il rispetto al mondo della cultura che egli invece rinnovava con la sua originale concezione della vita che poneva il valore dell’uomo nella pienezza della sua attività spirituale. Quando egli, a Palermo, cominciò il suo magistero accademico, si trovò accanto colleghi legati ancora alle dottrine positivistiche che stancamente richiamavano formule di un illuminismo superato dagli eventi e dal pensiero dell’idealismo tedesco. Giovanni Gentile, nella sua città natia, fece presto sentire alla sua terra “della sua gran virtuale alcun conforto”, pubblicando nel 1896, ancora studente universitario, sul giornale locale “Helios” due scritti letterari che lo spunto polemico apriva già alla speculazione filosofica; e, nel 1911 su “Il risveglio” il giornale che succede a “Helios” una lettera che testimonia la sua maturazione civica quando si interessò alle vicende politiche del suo paese che voleva ispirate ai suoi interessi ideali risorgimentali nella elaborazione di un pensiero che investiva tutta quanta la sua umanità, il sentimento, l’anima, la volontà. Era già la sua vita che egli cercava di imporre ai sodali del Circolo che lo ospitavano nel loro giornale, organo che propugnava la battaglia di una esistenza cittadina “in pace, sobria e pudica”. Un sogno che non catturava il giovane se esso frenava l’esuberanza dell’età, insorgente dal suo spirito che non avvertiva il bisogno di pause borghesemente riposanti, ma si protendeva continuamente verso la scoperta della infinità del suo mondo; un sogno che, tuttavia, diventava come la siepe leopardiana che gli apriva nel pensiero “interminati spazi e sovrumani silenzi”. A Palermo doveva imbattersi in un’altra siepe più intricata e fitta di problemi nella persona di un sacerdote dimesso e modesto, padre Onofrio Trippodo con cui non cessò mai di confondersi umilmente nelle conversazioni peripatetiche che dall’università si protraevano fino alla Biblioteca Filosofica, dove assumevano il tono di una discussione più animata e scientifica. Un interlocutore, il sacerdote Onofrio Trippodo che il Gentile non seppe sostituire che nessun altro se egli si legò con tutto il sentimento umano di un affetto che valse più dei vantaggi che ne traeva il suo intelletto nel loro filosofico dialogo tanto che, nello slancio più sincero dell’uomo, egli lo indicò come il testimone inconfutabile del suo cristianesimo e del suo cattolicesimo: “Oh” La tua voce ancora non s’è spenta dentro al mio cuore; e nel riudirla mi domando se sono sempre degno di te. Tu conoscevi e riconoscevi il mio cristianesimo e il mio cattolicesimo e mi rincoravi contro i giudici malevoli o corrivi: poiché la tua affettuosa stima, la tua paterna compagnia nella via che insieme si faceva coi giovani che ci venivano intorno, mi metteva nel cuore tanta fede e tanta certezza” (La mia religione). Nella sua figura ieratica egli ritrovava sicuramente l’immagine santa di sua madre che gli aveva dato il primo cibo dell’anima quasi come il seme fecondo del suo pensiero: “Non credo di avere tradito il primo insegnamento religioso che mi venne impartito da mia madre (la cui voce ancora e sempre dentro mi suona” (Ibidem).
Affetti, sentimenti, ricordi paesani che non arrestano mai lo sviluppo del suo pensiero a raggiungere sempre nuovi e più lontani traguardi. Affetti, sentimenti e ricordi che egli coltivò sempre nel cuore come la sua stessa forza più intima che arricchiva di propaggini rigogliose il suo spirito a vincere le resistenze materiali della realtà quotidiana; la siepe più grande che, dai cespugli del paese si allungava nei tentacoli di una società che lo ghermiva in una convivenza superficiale o, quanto meno, artificiosa. Egli la scavalcava con l’impeto di un novello Ulisse che, proprio la dolcezza di figlio, “la pietà” del vecchio padre ed ogni altro “debito amore” sospingeva a salire sempre più in alto nell’esercizio di una dialettica che la stessa realtà nel suo continuo divenire identificava col suo pensiero e la parola assumeva subito al suo ritmo creativo. Era come se quel pensiero nascesse alla parola, fosse la parola stessa che in sé racchiude la verità e che il suo intelletto voleva conoscere non nei parametri fissi della sua struttura, ma nella tensione dello spirito che gliene faceva scoprire l’essenza universale. Quel pensiero conteneva già la visione di un mondo non costruito alla logica dell’intelletto, ma creato alla fruizione di una cultura che avrebbe restituito il cittadino alla sua umanità integrale.
A Palermo, Giovanni Gentile trovò nella Biblioteca Filosofica la pedana di lancio delle sue idee che dovevano dissequestrare definitivamente la cultura siciliana dal lungo isolamento cui era stata costretta durante il Regno delle due Sicilie, quasi una liberazione che fu come preludio del dissequestro che egli stesso avrebbe operato delle cultura italiana quando la scoperse sotto l’egemonia del Croce che era quella di un razionalismo a scapito del sentimento e della fantasia, privilegiando essa l’élite della intellettualità, come bandiera della opposizione del suo sostenitore carismatico a un regime, nel quel, se Gentile si integrava socraticamente il Croce si degnava di fare qualche comparsa concessiva del suo alto consiglio di saggio pontificante!
Così, tra le due culture non ci fu confronto, ma scontro, uno scontro che doveva determinare la fine di un sodalizio nella impietosa speculazione dei mestatori politici. Giovanni Gentile, invece, non tradì mai il sentimento dell’amicizia che, per il siciliano autentico, è il più sacro dopo quello per la madre, se non reagì, corrivo astioso, ai colpi duri del Croce, professandogli sempre umilmente e immutabilmente legato, ignorando ogni pregiudizio politico e le stesse divergenze teoriche. Egli lanciava agli italiani, ancora, la lezione della sua cultura con l’autorità del suo pensiero e la potenza della sua parola e la diffondeva dalla cattedra della scuola, dagli organi statali del potere politico, di cui egli gestì il dicastero più moralmente impegnato, attraverso anche i convegni degli istituti culturali fondati o patrocinati da quel regime che non riuscì a imbavagliarlo: chè dal suo insegnamento (cioè dalla sua parola sempre viva, sia quella parlata che quella scritta) egli non licenziò mai pappagalli della sua cultura, ma uomini, anzi promesse di uomini nuovi, che fossero soprattutto se stessi, cioè liberi, perché, in ogni suo atto, faceva soltanto cultura, non propaganda ideologica settaria; era egli stesso la cultura dello spirito, non dello o della ragione o della volontà, cioè di quei “distinti” crociani che frizionavano l’indivisibile come un oggetto, ma di tutto l’uomo che poteva sempre ritrovare se stesso in se stesso, come dire sentirsi veramente libero, nella tonalità e unicità della vita spirituale che il Gentile non predicò soltanto, ma praticò fino al sacrificio di sé e per il riscatto del suo popolo in una Patria grande e immortale. Postilla: A proposito della parola di Giovanni Gentile “che non fu mai per latro, se non per se stessa” e che A. Asor Rosa relegò nella morta gora del proprio paludamento accademico, abbiamo testimonianze autorevoli che lo richiamano alla sua inesausta vitalità. Ne indico soltanto tre, tre nomi che mi sono familiari e che rispondono a Pietro Mignosi, Giuseppe Maggiore e Michele Federico Sciacca, tutti siciliani che onorano, per altezza d’ingegno e profondità di pensiero la nostra terra. La virtù prima di quella parola era stata (ed è) di rendere spiritualmente libero chi l’ascoltava (o la legge) anche una sola volta! Non, infatti, il fascino dell’oratore, ma la potenza evocativa della sua parola suscitava improvvisi mutamenti interiori che svegliano la coscienza dell’uomo alla libertà dello spirito. Pietro Mignosi subì la suggestione anche del pensiero in essa avanzato e che, per un momento lo allontanò quasi dalla parola Verbo incarnato! Ma, se ne ritraesse presto cime da una eresia che gli faceva rimordere la coscienza, ma non cancellò la gratitudine per il dono che ne aveva ricevuto di una insospettata crescita, l’uomo il pensatore e il poeta! Giuseppe Maggiore fu anche catturato da quella parola e dal pensiero che la muoveva alla fruizione del mondo. Un pensiero che lo nutrì nella formazione dell’intellettuale e del cittadino come il verbo assoluto del regime dal quale si scosse quando venne trafitto dal raggio della Grande Luce evangelica che lo restituì alla sua prima libertà appresa dalla parola di colui che egli riconobbe come “l’ultimo e il più grande dei suoi maestri” (“La vita di nessuno”). Michele Federico Sciacca ascoltò una sola volta, a Roma, la parola di Giovanni Gentile e gli bastò per dichiararsi “gentiliano”, nonostante fosse stato e si fosse professato discepolo di Antonio Aliotta, il suo maestro di filosofia dell’Università di Napoli che egli preferì frequentare. La dialettica del suo pensiero, però, non ridiceva linfa nuova dalla logica lucida dell’Aliotta, ma dalla passione che nel suo spirito aveva impresso la parola del Gentile (che sempre dentro gli suonò) e che fu il seme delle originalità del suo “idealismo oggettivo”, una filosofia che celebra la dignità dell’uomo al parametro della sua origine divina. In questa chiave Giovanni Gentile si pone come la stella da cui traggono luce tanti studiosi del pensiero europeo contemporaneo.