Francesco Orestano, Accademico d’Italia e fondatore del Realismo critico, nacque ad Alia (Palermo) nel 1873, e morì a Roma nel 1945. Si laureò in Giurisprudenza presso l’Università di Palermo nel 1896. Successivamente si recò in Germania, presso l’Università di Lipsia, dove conseguì la laurea in filosofia. Ritornato in Italia, conseguì la libera docenza in Filosofia Morale; si trasferì quindi all’Università di Roma, ove tenne corsi fino al 1907, anno in cui ritornò a Palermo. Nel 1924, abbandonata la cattedra, si ritirò a Roma per dedicarsi alla redazione della sua opera fondamentale Nuovi Principi. Numerosi furono i Congressi cui partecipò in Italia, banditore d’idee nuove, e all’estero, buon difensore della nazione italiana.
Orestano fu un uomo dalla profonda umanità, sempre spinto alla ricerca del bene, profondamente religioso e nobile nei sentimenti. Fu abile organizzatore in campi diversi e non gli mancarono ampi riconoscimenti. Fu uomo di vastissima cultura, grande studioso dell’intero ambito della storia della filosofia, brillante conoscitore delle principali lingue straniere, fondatore del Realismo critico, in altre parole di quel realismo oggettivistico e spiritualistico, che costituisce una delle più importanti correnti del pensiero contemporaneo.
Tutti i suoi scritti, editi ed inediti, sono stati raccolti in un’Opera Omnia, che è divisa in cinque gruppi. Il primo gruppo contiene le Opere Teoretiche; il secondo le Opere Morali; il terzo gruppo le Opere Giuridico- politiche; il quarto si intitola Opere Varie; il quinto, infine, riunisce le Opere Inedite.
Il rapporto tra Stato e Chiesa
Orestano, attento osservatore della realtà e della società, non poteva non soffermarsi su un problema che dai contemporanei era visto come urgente e scottante: il rapporto tra Stato e Chiesa. La soluzione del problema dei rapporti tra Stato e Chiesa era un obiettivo sempre tenuto presente dai grandi politici della storia d’Italia. La situazione particolarissima che si era venuta a creare nella nostra penisola a seguito dell’Unità, aveva spaccato in due il Paese, diviso tra coloro che erano favorevoli al Papato, e quelli che, invece, volevano a tutti i costi tutelare la ragion di Stato. Particolarmente imbarazzante era in questo contesto la situazione dei cattolici, i quali subivano il cosiddetto “squarcio della coscienza”, ogni qual volta dovevano decidere se prendere parte alla vita politica dello Stato italiano, e così subire le scomuniche papali, in altre parole astenersi da qualsiasi forma di partecipazione, ed essere sostanzialmente stranieri nel proprio Paese.
Orestano interviene più volte su questo tema, e lo fa con il solito acume e l’originalità che caratterizza il suo pensiero e le sue considerazioni. In questo lavoro sono analizzati, da un punto di vista cronologico, gli articoli e le monografie che egli dedica a tale tema. A cominciare dal 1905, appare un articolo che commenta, in maniera un po’ polemica, un intervento sul rapporto tra Stato e Chiesa dell’onorevole Luigi Luzzatti, di cui Orestano non è, sicuramente, un estimatore.
Nel 1915, il filosofo aliese scrive un articolo, intitolato La Questione Romana, pubblicato su L’Ora di Palermo. Qui egli critica la politica ecclesiastica italiana, e propone di affidare la soluzione del dissidio tra Stato e Chiesa ad un trattato o ad un concordato. Il suo pensiero precorreva i tempi, ed egli si rende conto che il suo articolo è troppo prematuro.
Il filosofo ritorna alla questione nel 1924 con una monografia, in cui ribadisce la necessità di un accordo, per chiudere la “questione romana”. Egli attacca la Legge delle Guarentigie e la superficialità con cui lo Stato italiano ha legiferato nei confronti del Papato. Ne mette in evidenza tutti gli errori, analizzando la legge del 1871 nei minimi particolari. Orestano resta convinto che l’unica soluzione possibile sia la trattativa diretta tra Santa Sede e Stato, considerate due potenze, che possono, attraverso un concordato, esprimere la propria sovranità e dirimere la questione.
Nel 1927, è pubblicato un altro articolo su “Nuova Antologia”, dal titolo La Chiesa cattolica nello Stato italiano e nel mondo. In esso sono ribaditi gli errori della Legge delle Guarentigie, e si guarda con particolare favore al periodo storico che, forse, si presta ad un mutamento radicale. Il 16 febbraio del 1929 appare su Nuova Antologia l’articolo che viene scritto in base agli elementi forniti dal comunicato ufficiale del 12 febbraio intorno ai Patti Lateranensi. Orestano illustra il Trattato e il Concordato, firmati da Chiesa e Stato, e si compiace di tale accordo, che chiude definitivamente la “questione romana”, e che rappresenta un evento grandioso per l’Italia e per il mondo.
Ma andiamo con ordine.
Il rapporto tra Stato e Chiesa nel pensiero del filosofo prende le mosse, come ho accennato, già nel 1905 in un articolo apparso sulla Rivista di Roma dal titolo Rapporti tra Stato e Chiesa nella mente di Luigi Luzzatti. L’On. Luzzatti, titolare della cattedra di diritto costituzionale a Roma, si era proposto di trattare un corso di lezioni dal titolo Fatti nuovi e dottrine rettificate nelle relazioni costituzionali degli Stati colle Chiese. Egli, nel tracciare il programma del corso, aveva dato dei cenni sul suo pensiero e sulla possibile soluzione dei problemi di diritto pubblico ecclesiastico. Orestano, nel volere commentare tali “insegnamenti”, confessa innanzi tutto di aver dovuto leggere due volte lo “smagliante discorso” di Luzzatti per riuscire a comprenderlo. Non nasconde inoltre la propria antipatia nei confronti dell’onorevole che appare già dalle prime battute una persona presuntuosa e saccente e dal pensiero a volte sconnesso. Luzzatti parte dalla considerazione che la libertà religiosa proclamata negli Stati Uniti d’America è realizzata in modo perfetto, perché lo Stato non interviene nei rapporti delle Chiese tra loro e i fedeli e realizza la libertà in senso più alto.
Orestano ribatte che la libertà di religione, secondo quanto era stato interpretato da alcune sentenze delle Alte Corti di Giustizia americane, significa libertà di adorare qualunque Dio, ma non quella di essere ateo. Così stando le cose, afferma Orestano, la situazione prospettata dall’onorevole sull’America, non è così florida come ce la mostra e che anzi possiamo fare molte riserve sull’umanità del cittadino americano, che è anche “il più spietato affarista al cospetto del sole”(1). A dispetto di ciò Orestano, per fare un po’ di chiarezza nel discorso, accetta come principio che le istituzioni americane rappresentano la perfezione costituzionale. Luzzatti, proseguendo nel discorso, mostra la situazione in Francia, dove era stata in vigore una legge con la quale lo Stato soccorreva tutte le Chiese e tutti i culti, di contro ad un’altra più recente che interrompeva ogni rapporto tra Stato e Chiesa e cancella dai bilanci dello Stato tutte le spese che prima si erogavano per il mantenimento dei culti. Probabilmente l’onorevole vede lontano nella pratica applicazione della legge e avvisandone i pericoli, suggerisce di adottare il sistema più prudente della Legge delle Guarentigie, per la quale lo Stato italiano, pur separandosi dalla Chiesa e sciogliendo ogni vincolo nei confronti dell’autorità politica, si riserva l’investitura dei prelati nei benefici maggiori e minori. Dopo aver affermato ciò, l’onorevole ritorna al suo primo amore cioè l’America, e augura alla Francia di essere il primo stato europeo a sperimentare le istituzioni degli Stati Uniti.
Orestano allora cerca di mettere un po’ d’ordine nel complicato pensiero di Luzzatti, chiarendo che la Francia cerca di separare lo Stato dalla Chiesa, non avendo sicuramente come punto di riferimento la Legge italiana delle Guarentigie, che, secondo Luzzatti avrebbe creato uno stato di cose transitorio, tenendo conto della relatività storica, ed evitando conflitti in materia di beni economici. Pur tuttavia, a suo giudizio, le istituzioni americane apparivano mirabili perché rappresentano la perfezione ideale per dare un assetto definitivo ai rapporti tra Stato e Chiesa. Egli, fra l’altro, prendeva a modello la Chiesa di Scozia all’interno della quale vi era stata una lite clamorosa che aveva preteso l’intervento della Camera dei Lord, come suprema Corte di Giustizia.
La lite nasceva dall’intenzione della Libera Chiesa di Scozia di fondersi con la Chiesa Presbiteriana Unita nel 1900. Tale idea non piacque ad una minoranza che chiese alla Libera Chiesa di Scozia di lasciare intatti statuti e beni, pur accordandogli l’unione. La proposta fu respinta dalla Corte di giustizia, così la minoranza si rivolse alla Camera dei Lord, che invece accolsero la proposta. Tuttavia, poiché “il summum jus della Camera dei Lord sarebbe stato summa injuria per quei bravi fedeli della maggioranza”(2), si insediò una Commissione che risolse in modo equo la questione.
Luzzatti, alla fine, considera che è necessario separare le Chiese dal Governo, ma non si possono separare interamente dallo Stato e dalle sue leggi: “La Chiesa invisibile delle anime è libera come il pensiero, ma la visibile pei suoi rapporti materiali è dominata dalle leggi civili dello Stato che il diritto pubblico deve concordare colla inviolabilità delle coscienze”(3).
Secondo Luzzatti, quindi, si devono separare le Chiese dal governo ma non si possono separare interamente dallo Stato e dalle sue leggi. E allora, si chiede Orestano, dove vanno a finire le precedenti teorie dell’onorevole, sconvolte dalla nuova affermazione che il diritto pubblico debba intervenire nelle questioni ecclesiastiche? Con tale teoria cade l’istituzione americana come prototipo in materia di politica ecclesiastica; cade il sistema della Legge delle Guarentigie, che dichiara l’incompetenza dello Stato in qualsiasi argomento religioso; e infine perde valore il consiglio dato alla Francia di provvedere ad un altro regime di diritto pubblico ecclesiastico(4).
Questo articolo, che alla fine si risolve in una critica spietata e sottile al pensiero di Luzzatti, all’Orestano rimasto peraltro oscuro, è un primo accenno ad un tema che occuperà ben ventiquattro anni di attività del filosofo. Egli segue nel suo pensiero un iter logico che matura con gli anni e con le esperienze vissute, sostenuto da profonda considerazione dello Stato ma soprattutto della Chiesa, e che alla fine approda a conclusioni sagge e ponderate.
La Questione Romana
Intorno ai rapporti tra Stato e Chiesa, il filosofo ritorna nel 1915 con un articolo apparso su L’Ora di Palermo il 12 febbraio e intitolato La Questione Romana. Vi ritorna di nuovo nel 1924, nel 1927 e nel 1929 con un articolo datato il 16 febbraio, dopo appena cinque giorni dagli Patti Lateranensi tra S. Sede e Stato Italiano che segnano la chiusura della tanto dibattuta “questione romana”.
Nell’articolo pubblicato ne L’Ora il 12 febbraio1915, Orestano analizza la situazione con intelligenza e profondo spirito critico, partendo dalla “questione romana”. Il 3 settembre del 1914 era stato eletto Benedetto XV, definito il Papa politico, che aveva messo in moto intorno al Vaticano tutto un lavorio diplomatico, per questo molti Stati come Gran Bretagna, Irlanda, Canada, Germania, Russia, Francia, e persino Turchia, fecero in modo di nominare un ambasciatore presso la Santa Sede e di catturare la benevolenza del Pontefice. Nonostante ciò, era necessario, secondo Orestano, che l’Italia vigilasse perché, il giorno in cui fosse entrata in guerra, la Legge delle Guarentigie, secondo l’articolo 11, avrebbe protetto tutti gli inviati dei governi esteri presso la S. Sede secondo il diritto internazionale(5).
Come potrà l’Italia gestire gli inviati presso il Vaticano delle potenze con le quali sarà in guerra? Violerà le prerogative del Sommo Pontefice? Si fornirà la prova che il Pontefice è ospite in casa sua? A queste domande Orestano trovava difficile dare una risposta poiché tali difetti erano il frutto di una politica ecclesiastica italiana equivoca, incerta, tortuosa, confusa, oscura, nata dalla Legge delle Guarentigie che, sebbene dichiarata monumento nazionale, di sapienza politica e giuridica, in realtà riduceva la sovranità del Pontefice a figura retorica(6).
A tal propostito scrive Orestano: “L’errore fondamentale da cui tutta la nostra politica ecclesiastica è inficiata, è quello di avere voluto risolvere con principi generali, alla francese, una soluzione contingentissima, che non si riproduce in termini analoghi in nessun Paese del mondo e in nessuna altra epoca della storia; e di aver voluto trattare alla stregua del diritto comune un istituto non soltanto religioso, ma eminentemente politico, non pure italiano, mondiale”(7).
Secondo il filosofo aliese, l’Italia possiede un privilegio fra tutti i paesi del mondo: quello di essere sede del Papato, cioè il prodotto più alto della storia civile di venti secoli, l’unica autorità che comanda alle coscienze dei popoli indipendentemente da distinzioni di razza, nazionalità, contingenze storiche, economiche(8). E tale autorità, che è “l’espressione titanica dell’imperialismo romano”(9), è diventata tale anche per il merito e l’abilità di eroi italiani, anche se non sono mancati i sacrifici politici di tutto il Paese.
Questa grande potenza spirituale ha avuto il torto di essere trattata come una qualunque associazione privata avente sede nel territorio nazionale, senza che lo Stato italiano si preoccupi di considerarla appartenente al mondo intero fuori e al di sopra di ogni singolo Stato. In realtà Orestano non condanna né accusa la politica liberale italiana. Essa è stata una necessità storica dovuta alla rigida posizione assunta dal Papato che si è rifiutato di comprendere il cambiamento causato dalla perdita del potere temporale, e che, quindi, ha indirettamente obbligato l’Italia a prendere provvedimenti unilaterali. Sicuramente, pur sforzandosi di operare il meglio, il Parlamento italiano è stato incapace di trovare una soluzione soddisfacente al difficile rapporto con la Chiesa. Scrive Orestano: “La Storia non si muta con un articolo di legge, e, se violentata, si vendica”(10).
Avendo Orestano grande considerazione del Papato, afferma prima di tutto che è necessario che nessuna delle due autorità chieda aiuto ad un Congresso di Potenze, e che il Papato, un po’ come ha fatto l’Italia, trovi in sé una possibile soluzione. E’ necessario che la “questione romana” sia risolta direttamente e liberamente dal Papato e dallo Stato, all’infuori di qualsiasi ingerenza straniera, perché, essendo due enti sovrani e liberi, si intendano, trattando da potenza a potenza(11).
I tempi sono maturi perché le relazioni fra Stato e Chiesa vengano regolate con un trattato o un concordato; è urgente che la “questione romana” sia cancellata tra le questioni internazionali ancora da risolvere. Solo così essa smetterebbe di essere un incubo per gli Italiani.
Orestano per concludere pone un’obiezione proponibile alla sua soluzione: “Perché è auspicabile un Trattato con la Santa Sede e non con i rappresentanti di tutte le altre confessioni religiose?”(12). La risposta è data dal fatto che “nessuna Chiesa al mondo ha la storia della Cattolica romana; nessun’altra confessione è un organismo, oltre che religioso, politico internazionale, e ha una così assoluta preminenza su tutte le altre chiese nella vita religiosa del popolo italiano”(13).
Sicuramente il pensiero di Orestano precorreva un po’ i tempi (egli stesso definisce l’articolo prematuro), ma fu definito da un’altissima personalità vaticana “un binario sul quale si poteva andare molto lontano”(14).
La monografia del 1924
Finita la guerra e con l’avvento del Fascismo, il filosofo ritorna sull’argomento con una monografia dal titolo Lo Stato e la Chiesa in Italia, del 1924. Orestano ribadisce ancora una volta la necessità di risolvere le relazioni tra Stato e Chiesa non solo riguardo a tutto il sistema, ma soprattutto riguardo alla “questione romana”. Da troppi anni la politica ecclesiastica italiana è imprecisa e contraddittoria, a tal punto da far apparire risolta la questione romana, dando l’impressione che lo stato di cose presente sia ideale per ragioni di convenienza internazionale.
Egli si rende conto che l’avvento del Fascismo ha portato con sé delle innovazioni, tra cui ricorda la reintroduzione del crocifisso e l’insegnamento religioso cattolico nelle scuole elementari, per cercare di venire incontro alle esigenze spirituali del popolo italiano. Inoltre il governo fascista, riaffermando che la religione cattolica, apostolica, romana è la sola religione dello Stato, secondo quanto era stato stabilito dallo Albertino Statuto, rimette in circolo grandi questioni e sollecita così quella revisione tanto agognata che non può più essere rimandata(15).
Le relazioni tra Stato e Chiesa vengono esaminate dal filosofo sotto l’aspetto dei principi. Tale scelta, che è preferita all’aspetto dell’opportunità o della convenienza, viene spiegata con le considerazioni profonde di un uomo che va cauto nel proporre soluzioni e che resta meravigliato dalla facilità con cui molta gente “in fatto di coltura spirituale si precipita franca e spedita alle soluzioni; che sa tutto, sa prevedere tutto e ha una ricetta pronta e sicura per tutto”(16).
Per Orestano, il terreno dei principi resta il più saldo ed è attraverso tale campo che cercherà di dare un contributo in un momento storico in cui non si può andare avanti, cercando continui ripieghi, ma è necessario trovare una soluzione concreta. La prima domanda che egli si pone è se sia ancora in vigore l’articolo 1 dello Statuto Albertino, poiché esso non fu abrogato, né implicitamente, né esplicitamente, da alcuna legge successiva. Soltanto la Legge delle Guarentigie del 1871 regolò in modo nuovo il titolo II sulle relazioni dello Stato con la Chiesa affermando che “cessa di avere effetto qualunque disposizione ora vigente, poiché sia contraria alla legge medesima” (17).
L’analisi di Orestano si concentra su tre punti. Il primo riguarda il significato e il valore dell’articolo 1 al tempo in cui lo Statuto Albertino venne promulgato; il secondo sullo spirito informatore della legislazione ecclesiastica consecutiva; il terzo ed ultimo riguardo al significato e valore che possa avere ancora oggi l’articolo 1. L’articolo 1 dello Statuto Albertino afferma che: “La religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato” (…) “gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”.
Il filosofo aliese, con un’analisi acuta, mette in evidenza la novità dell’articolo, che consacra un principio di tolleranza, ristretto sicuramente ma proporzionato ai tempi; esso da una parte accorda una situazione di privilegio alla religione cattolica, dall’altra accorda tolleranza agli altri culti da parte dello Stato. L’affermazione “religione dello Stato” non può essere intesa né come appartenenza della religione allo Stato, né come appartenenza dello Stato alla religione. “Ma chi vi leggesse l’affermazione di un compito essenziale dello Stato in materia religiosa, cioè il suo dovere e diritto di coltura competente, ex auctoritate propria, di quella data religione, dovrebbe fare i compiti con la Chiesa stessa, la quale vedrebbe in ogni pretesa di tutela diretta, laica e statale, risorgere con fondato sospetto il tanto deprecato giuseppinismo, leopoldismo, tanuccianismo, ancorché travestito da… nazionalismo. E chi volesse interpretare l’articolo 1 come dichiarazione di sottomissione incondizionata dello Stato all’autorità che presiede alla religione cattolica, apostolica e romana, direbbe l’unica cosa accettabile dalla Chiesa, ma risalirebbe non al Patto albertino, bensì a concezioni politiche assai più arcaiche, del più remoto Medioevo. Aggiungiamo che l’articolo 1 dello Statuto ha avuto sempre questa pacifica e costante attuazione: il rito cattolico è il solo di cui si faccia uso nelle solennità civili e ufficiali; e il culto cattolico è il solo che gravi sul bilancio dello Stato, ch’è quanto dire sulla totalità dei contribuenti, anche non cattolici. Così inteso e applicato l’articolo 1 non solo non è stato abrogato mai, ma riceve una conferma annuale con l’annua Legge del Bilancio”(18).
Secondo Orestano ogni legge assume un determinato significato e valore se posta in relazione con altre leggi, e l’interpretazione del diritto deve essere sempre attuale e complessa. Nel caso specifico l’art. 1, ancorato al sistema politico del 1848, quando lo Stato e la Chiesa operavano in stretta collaborazione, non ha più senso nel periodo in cui egli scrive, e cioè da quando lo Stato italiano ha adottato il principio della separazione. Tale separazione comporta: incompetenze dello Stato in materia religiosa; autonomia totale e reciproca delle gerarchie rispettive dello Stato e della Chiesa; affermazione indipendente delle ragioni dello Stato nella materia mista quante volte interferiscono esigenze della vita civile con interessi della vita religiosa(19).
Questi tre punti rappresentano l’evoluzione dello Stato moderno, che ha accresciuto le sue funzioni sociali oltre che quelle giuridiche e militari, e che ha revocato nel campo spirituale le sue antiche pretese d’interventi d’autorità, bloccato il proprio potere davanti alla libertà di coscienza, per tutelare il patrimonio spirituale nazionale e i diritti universali(20).
Intorno al valore dell’art. 1, Orestano mostra che, se il principio della separazione è stato a capo del profondo mutamento di spiriti che pose in essere tutto il nuovo sentimento nazionale, tale articolo non può non avere risentito della trasformazione avvenuta tra il 1848 e il 1871. La formula “religione dello Stato” ha perduto il significato di compenetrazione tra i due sistemi, quando soprattutto lo Stato professò la propria incompetenza in materia religiosa.
Proprio per questo esso assume un valore restrittivo in quel contesto compatibile anche in regime di separazione tra Stato e Chiesa, poiché il culto cattolico è l’unico culto che gravi sul bilancio dello Stato; esso è inoltre l’unico di cui si serve lo Stato nelle proprie manifestazioni di vita religiosa. Tali privilegi in realtà gli derivano dal fatto che il popolo italiano è per tradizione un popolo cattolico, e la Chiesa, istituzione mondiale, non può essere paragonata “alla più piccola conventicola di non-conformisti”(21).
Volendo ancora di più entrare nel particolare, Orestano suggerisce di lasciare che la confessione religiosa mantenga il privilegio di cui gode, e di accordarsi sulla base del principio di separazione, in modo che lo Stato mantenga la propria incompetenza in materia e lasci che l’autorità religiosa agisca secondo la propria autorità e responsabilità. Egli accusa lo Stato italiano di avere svolto la propria politica ecclesiastica in modo incerto e contraddittorio, senza avere applicato perfettamente il principio della separazione. Il filosofo chiarisce che l’errore maggiore è stato quello di avere subordinato la Chiesa allo Stato là dove andava liberata, e di averla liberata dove doveva essere subordinata. Lo Stato ha con la Legge delle Guarentigie legiferato sul Papato come se fosse un istituto particolare o un ente morale qualsiasi sottoposto al potere legislativo, avendo per converso liberato il sistema episcopale da ogni rapporto di subordinazione verso lo Stato(22).
In realtà, afferma Orestano, la “questione romana” è rimasta insoluta, e ha condotto la Santa Sede ad accettare una convivenza imposta dalla legge, senza che per questo rinunci alle sue proteste. Non è possibile illudersi di giungere ad una soluzione giusto per conciliare Re e Papa, perché sarebbe una conciliazione provvisoria. La verità è che la Santa Sede non può accettare né alcuna legge dello Stato italiano né la Legge delle Guarentigie, che rappresenta un atto sovrano unilaterale al quale Essa non ha che da uniformarsi.
Tale Legge delle Guarentigie, di cui si è voluto sostenere il carattere contrattuale, internazionale ed addirittura statutario, è esposta alle vicende della politica interna dello Stato italiano e rimane una legge come tutte le altre. La Santa Sede allora è nella ragione, secondo Orestano, quando non riconosce né come legittimo né come definitivo il modo italiano di risolvere la “questione romana”.
Non come legittimo, perché il Papato, che ha ricevuto la sua sovranità da Dio, non può tollerare che il sistema dei rapporti con lo Stato arrivi fino al trono pontificio e lo subordini. La potestà del Papato per tradizione supera qualsiasi subordinazione territoriale e politica, regolando le sue relazioni mediante concordati, che sono speciali trattati nel quale i due poteri possono intervenire per pattuire con uguale autorità e reciproca indipendenza.
Non come definitivo, perché la Legge delle Guarentigie è una legge fondamentale del Regno ed è stata dichiarata fondamentale dal consiglio di Stato in un parere del 1878. Scrive allora Orestano: “Or questi errori fondamentali costituiscono per la Santa Sede una pregiudiziale assoluta contro il nostro vigente diritto ecclesiastico; pregiudiziale che non può essere, come tutte le questioni di principio, abbandonata. Si può rinunciare, senza menomarsi, a un territorio; ad un principio non mai!”(23).
Tra gli errori che egli mette in luce molti riguardano particolarmente la Legge delle Guarentigie; essa infatti “manca di sistema”(24). Con tale affermazione Orestano apre un lungo paragrafo dove vengono spiegati tali errori che riguardano il Papato, il sistema episcopale, e singoli Istituti ecclesiastici, e dove vengono stabiliti nuovi principi direttivi, riproponendo la soluzione del concordato.
Per quanto riguarda il Papato, la legge del 1871 lo sottopone agli ordini e ai precetti del potere legislativo, avendo essa, come suo principio ispiratore, il diritto di conquista dello Stato italiano su Roma. Pur volendo concedere separazione e indipendenza allo Stato Pontificio, in realtà alla fine essa dispone come meglio crede. Si consente al Pontefice di tenere un corpo di guardie, ma se ne stabilisce il numero e i compiti; si assegna una dotazione annua alla Santa Sede, ma se ne stabilisce il bilancio di erogazione a cui il Pontefice deve attenersi; si concede al Pontefice di godere dei Sacri Palazzi Apostolici, ma gli si nega la proprietà degli stessi. A tale proposito Orestano nota che è stato accordato un diritto di godimento, cioè d’usufrutto, che secondo la legge italiana non può eccedere i trenta anni, e si è esplicitamente negata la proprietà, e quindi l’alienabilità.
Dallo studio delle altre disposizioni, Orestano considera la situazione sempre più complessa. La manutenzione ordinaria e straordinaria dei Sacri Palazzi, ad esempio, viene riservata al Pontefice, mentre gli si affida la sola manutenzione ordinaria della Biblioteca e dei musei. Ci si domanda allora chi dovrà provvedere alla manutenzione straordinaria; per il filosofo non vi sono dubbi: lo Stato italiano, che da sempre li ha considerati sua proprietà. “Tirata la somma, – scrive l’autore – si deve ritenere che di taluni beni il Pontefice ha l’usufrutto, di altri l’uso, di altri la custodia, di altri il deposito…, e tutto ciò in forza della medesima dizione ‹continua a godere…”. Miracoli di ermeneutica legale!”(25).
Egli è categorico: “la situazione da noi creata con la legge del 1871 non avrebbe potuto essere né più subordinata né più precaria! La legge delle guarentigie non merita di sopravvivere ad una critica onesta e leale. E il Pontefice non poteva, non può , non potrà mai accettarla”(26). […] “Confessiamo pure che non una sola delle disposizioni positive della legge è stata mai potuta applicare”(27).
Si era sostenuto che la Legge delle Guarentigie aveva superato la prova della guerra in modo brillante; in realtà, secondo il filosofo, con la guerra era crollato “l’unico elemento di realizzazione sin allora consolidato: la libertà delle rappresentanze diplomatiche presso la Santa Sede!”(28). E tutto ciò è frutto di una politica di “sovrapposizione” tra Stato e Papato, e non di tanto auspicata “separazione”.
Per quanto riguarda il sistema episcopale, la nostra legislazione ha separato dove era necessario congiungere; da un lato ha esentato da ogni obbligazione verso lo Stato il sistema episcopale; dall’altro ha ignorato il diritto canonico quando era necessario un suo intervento per dare riconoscimento civile agli istituti ecclesiastici. La Legge delle Guarentigie con tutte le sue innovazioni rompe ogni legame fra lo Stato e i nodi delicati e vitali della organizzazione territoriale della Chiesa. Pur tuttavia, in aperta contraddizione con tutte queste disposizioni, lo Stato attraverso regi decreti o il codice penale riconosce notevoli attribuzioni all’autorità diocesana, pone in alto grado Arcivescovi e Vescovi, punisce i reati contro di essi. Il Vescovo ha assunto una posizione talmente privilegiata, che solo l’indifferenza verso i poteri religiosi ha indotto a spogliare lo Stato da qualsiasi rapporto con l’Istituto Diocesano(29).
Riguardo ai singoli istituti ecclesiastici, i principali errori derivano dalla ignoranza del diritto canonico da parte della nostra legge civile. Questo perché sotto la denominazione generica di “istituti ecclesiastici” si comprendono sia istituti che sono organi costitutivi e permanenti della Chiesa, che non hanno bisogno di uno speciale atto di riconoscimento, sia fondazioni di carattere occasionale, il cui riconoscimento è invece di competenza del potere esecutivo. E’ inadeguato, afferma Orestano, trattare enti ecclesiastici di diversa natura alla stessa stregua, perché gli inconvenienti che possono sorgere sono innumerevoli e danno luogo a questioni controverse.
Dopo avere messo in evidenza tutti gli errori che rendono quanto mai instabile la legge del 1871, egli propone soluzioni dirette, facilmente attuabili in un momento storico che forse gli preannunciava la possibilità di un’intesa. La strada che il filosofo percorre è quella della ricerca di nuovi principi direttivi per regolare su basi più salde il sistema delle relazioni fra Stato e Chiesa: “Formule intrinsecamente giuste pacificherebbero automaticamente, meglio di un qualsiasi trattato espresso di alleanza, i loro rapporti necessari e continui, poiché il diritto è pace. Solo un giusto regime giuridico può infatti assicurare allo Stato e alla Chiesa la piena libertà , cui hanno entrambi diritto; così opererebbe davvero il principio separatista delle due distinte sovranità”(30).
Orestano è convinto che la “questione romana” non può risolversi attraverso l’intervento di altre potenze, né con impegni assunti dall’Italia verso altri Stati, e poi da questi ratificati. Lo Stato italiano non può ammettere alcun intervento straniero per regolare i suoi problemi, soprattutto quando la questione riguarda un istituto supernazionale come il Papato. La soluzione proposta dal filosofo è la trattativa diretta tra la Santa Sede e lo Stato italiano, attraverso la pratica del concordato, che, come accordo da potenza a potenza, sia conforme tanto al diritto pubblico tanto al diritto della Chiesa(31).
Da un punto di vista formale, tale accordo poteva soddisfare le due parti in quanto espressione di sovranità. Quanto al contenuto, sarebbe stato necessario, invece, salvaguardare le prerogative e gli interessi dello Stato e della Chiesa, perché in caso contrario un accordo non sarebbe stato mai raggiunto. La Santa Sede riconosceva, in quel contesto, il fatto compiuto, a condizione che si salvaguardasse la sua indipendenza, compiendo un gesto che Orestano definiva di “inestimabile pregio spirituale e storico”(32). Ma sarebbe stato necessario valutare i diritti dell’Italia su Roma dal giorno del Plebiscito del 2 ottobre, coerentemente con il processo di formazione dell’unità nazionale: “Due potestà erano invero riunite nella persona del Sommo Pontefice, diverse per origine e per natura: la spirituale e la temporale, l’una procedente da Dio, l’altra, se non direttamente dal popolo, dai suoi sovrani temporali”(33). Orestano è convinto che la crescita di una grande nuova potenza, e cattolica per giunta, intorno alla sovranità spirituale della Chiesa, ha portato alla conseguenza che un vero e proprio Stato Pontificio non è più necessario. Ciò non può attenuare la potestà del Pontefice come Capo Supremo della Chiesa Universale, né può privarlo dei diritti, che gli spettano in rappresentanza del mondo cattolico. Il Papato avrebbe bisogno di essere libero di agire secondo la sua missione per realizzare la propria sovranità spirituale. Egli auspica che il Sommo Pontefice vorrà riconoscere l’integrità nazionale del Regno d’Italia, e che lo Stato italiano rispetti l’indipendenza della Santa Sede.
Per chiarire meglio il suo pensiero Orestano fa la distinzione fra potere temporale e temporalità e afferma che in realtà il concetto di sovranità pontificia ha subìto un’evoluzione dal 1870 in poi nella mente degli stessi cattolici. Il potere temporale della Chiesa si legava ad una particolare realtà politica che, agli occhi di Orestano, appariva superata(34).
L’insistenza dei Papi a risolvere la “questione romana”, attraverso la quale reclamavano la sovranità territoriale come sostegno per giungere a quella spirituale, si poteva intendere attraverso le due accezioni di temporalità. In senso largo la Chiesa sentiva ancora il bisogno di avere un popolo da governare, ma ciò l’avrebbe riportata indietro verso lo Stato Pontificio. In un’accezione ridotta la sovranità temporale significava indipendenza territoriale, cioè esistenza al di fuori di qualsiasi territorio appartenente ad altro Stato(35).
La Santa Sede, a giudizio di Orestano, non poteva incorporarsi in un altro ente statale, e non poteva legare la propria esistenza a quella di nessuno Stato politico particolare. La sua supremazia spirituale a carattere mondiale l’obbligava a mantenersi in un isolamento politico e territoriale in cui emergeva la sua essenza supernazionale; tale isolamento era stato mantenuto nel Plebiscito che stabiliva la linea di confine fra i diritti del Regno d’Italia e quelli della Santa Sede considerati inalienabili, imprescrittibili e fondamentali per la sua missione di sovranità spirituale nel mondo(36).
Una cosa sola forse avrebbe potuto fare lo Stato, non volendo né potendo tollerare alcun’altra sovranità entro il proprio territorio: lasciare alla Santa Sede la sovranità in una porzione di territorio piccola quanto si voglia, ma sufficiente per proclamare un primato assoluto ed effettivo(37).
Tale soluzione appare già agli occhi dell’autore complicatissima se si considerano i rapporti di sudditanza verso le due sovranità, verso i due Stati: “Qui è necessario che i due Enti diano prova del più squisito senso di opportunità e di misura”(38) ed egli propone una soluzione intermedia: “Tutte le persone di nazionalità italiana domiciliate per ragioni di ufficio o di servizio, effettivamente, e non mai elettivamente, e permanentemente, e non mai a titolo precario, in territorio pontificio, mantengono un duplice rapporto di sudditanza: verso il Sommo Pontefice, quante volte dichiarino espressamente di accettarne la sovranità; e verso lo Stato italiano, in quanto operino nel Regno”(39).
Tale soluzione, si afferma nel testo, offrirebbe il duplice vantaggio di alleggerire la costituzione pontificia di un compito eterogeneo dal quale il diritto canonico è estraneo, e di conservare ai cittadini pontifici quei diritti acquisiti per la legislazione italiana. Di tali proposte i vantaggi sarebbero numerosi, perché la Chiesa manterrebbe intatta la sua figura storica di istituto universale, sovrano e supernazionale; il Sommo Pontefice sarebbe libero in ogni suo atto, e di questa libertà ne potrebbero godere la Curia Romana, i Concili, i Conclavi; libere sarebbero le relazioni diplomatiche della Santa Sede con qualsiasi potenza estera; libera l’entrata della Chiesa nella Società delle Nazioni, qualora lo richiedesse; libera, infine, la convocazione dei Concili ecumenici a Roma e in qualunque altra città del Regno.
Tutto ciò, secondo Orestano, offrirebbe al Sommo Pontefice l’opportunità di compiere dovunque tutte le funzioni del suo sacro ministero, godendo di tutte le prerogative spettanti ai sovrani esteri. Con tali proposte, si potrebbe anche procedere alla revisione di tante altre questioni minori, che riguardano sia diritti storici dello Stato – diritto di Legazia apostolica in Sicilia, il diritto di proposta o di nomina dei Vescovi – sia di vere e proprie rinunzie, all’amministrazione civile delle R. basiliche delle Puglie, al diritto sovrano sul terzo pensionabile dei benefici di r. nomina, all’amministrazione e alla sorveglianza dell’Opera di Terrasanta di Sicilia e i suoi ospizi. Del tutto, invece, dovrebbe essere regolata la materia beneficiaria. Il filosofo propone diverse soluzioni per diversi problemi.
Riguardo al conferimento di benefici maggiori e minori, lo Stato e la Chiesa potrebbero mettersi d’accordo prima della nomina, attraverso la constatazione dell’assenza di reciproche obbiezioni. Si potrebbe altresì ripristinare il giuramento di fedeltà dei Vescovi al Re, che la legge del 1871 aveva abolito.
Per quanto riguarda le disposizioni concernenti la personalità giuridica degli enti diocesani, capitolari, parrocchiali e assimilati, che, tuttavia, non possono formare oggetto di Concordato, essendo di esclusiva competenza dello Stato, Orestano auspica una soluzione. Gli inconvenienti della precedente disciplina derivano dalla mancata correlazione tra la legge italiana e il diritto canonico riguardo agli istituti ecclesiastici. Si potrebbe riordinare il riconoscimento della personalità giuridica degli enti istituzionali della Chiesa sulla base delle loro naturali gerarchie.
Ancora, riguardo all’amministrazione dei benefici vacanti, la proposta di Orestano è di lasciare la proprietà ecclesiastica nelle mani delle autorità ecclesiastiche, competenti e responsabili, che avrebbero l’interesse e anche il dovere di custodirla e adoperarla bene. Tale proposta avrebbe il fine di superare la legislazione che si basa su economati generali e subeconomati. Essi, infatti, ricevono in consegna, per inventariarli, ogni bene appartenente ad un beneficio vacante per riconsegnarlo al nuovo beneficiario eletto. Ma nel frattempo, con le rendite e gli affitti su tali beni, gli economati provvedono ai loro bisogni e alle loro spese, ed affidano al Ministero di Grazia e Giustizia ciò che rimane a disposizione, come fondo di sussidi. Con tale proposta si potrebbe porre fine alle attribuzioni degli economati generali, e fare in modo che l’Ente diocesano abbia l’amministrazione dei benefici minori che, all’interno della diocesi, restano privi di titolare(40).
Orestano esamina il riordinamento delle circoscrizioni diocesane e parrocchiali, che rientrerebbero in una materia mista in cui né la Santa Sede, né lo Stato potrebbero statuire da soli. Ogni altra materia mista dovrebbe essere disciplinata di comune accordo fra le due Potenze. Resta sempre vero e necessario il principio di separazione tra Stato e Chiesa, ma esso risulta inutile quando porterebbe ad una rottura in campi dove entrambe le Potenze di fatto si incontrano(41).
La soluzione resta il Concordato, che permetterebbe ad entrambi i poteri di agire secondo la propria competenza, stabilendo un limite necessario al proprio sviluppo.
Orestano, per concludere, si sofferma su altri due punti importanti. Il primo riguarda l’inalienabilità dei beni della Santa Sede. Il problema era già stato posto dal legislatore del 1871, che si preoccupava del rischio che i beni mobili ed immobili appartenenti alla Santa Sede fossero trasferiti, per circostanze politiche, a terzi anche stranieri, cessando di far parte del patrimonio storico ed artistico dell’Italia. La soluzione, secondo Orestano, potrebbe essere trovata, dichiarando su tali beni un diritto di prelazione a titolo oneroso per lo Stato italiano, o, in modo definitivo, dichiarandoli per sempre inalienabili.
Il secondo punto analizzato da Orestano riguarda la dotazione della Santa Sede in sostituzione del soppresso Bilancio romano. Secondo personali considerazioni di Orestano, lo Stato non può non riconoscere di essere debitore nei confronti del Papa della rendita attribuita con la Legge delle Guarentigie. Al contrario l’Italia dovrebbe stabilire in favore di essa un canone annuo maggiore di quello stabilito dalla predetta legge. Tale aumento potrebbe rappresentare un indennizzo per i danni ricevuti in tanti anni e per il maggior valore del denaro e dell’economia.
La previsione di Orestano è che la Santa Sede non accetterà denaro dallo Stato che, a sua volta, potrebbe impiegare tale somma in opere pubbliche che soddisfino, in forza del Concordato, entrambe le parti(42).
Tutto il nuovo sistema proposto da Orestano si ispira alla situazione privilegiata che la Chiesa e il Papa hanno nel mondo cattolico, ma soprattutto in Italia. Tutti i tentativi di subordinare la Chiesa sono andati falliti, ed agire secondo idee generali è un grave errore in politica, in quanto si perde il contatto con la realtà.
“L’equivoco sta nel trattare tutte le idee generali come principi sol perché tutti i principi sono idee generali; ma non è vero la reciproca. (…) La vera uguaglianza non consiste nel trattare egualmente enti diseguali, ma come insegnò già Platone, nel trattarli inegualmente”(43).
La situazione della Santa Sede interessa l’Italia in primo luogo, ma riguarda anche i Paesi stranieri, che avrebbero torto ad ostacolare il regolamento proposto. Ad essi gioverebbe una situazione giuridica netta, contrapposta a quella contingente confusa ed anormale. In questo modo il sistema papale uscirebbe dalla convenzione che trionfa solo riguardo all’Italia e al mondo, e l’Italia, dal suo canto, assumerebbe il merito e la responsabilità di fronte al mondo e alla storia. L’Italia, per Orestano, ha tutte le carte per attuare tale progetto, sviluppando la concezione politica progressista che pone lo Stato al di sopra di qualsiasi alternativa spirituale(44).
In fondo l’Italia attuerebbe nella sua politica ecclesiastica il famoso principio di separazione, poiché “separare occorreva ciò ch’era separabile, ma congiungere anche, contemplando e armonizzando ciò che, per contingenze storiche, ma ragguardevolissime, inseparabile era e rimaneva”(45).
Orestano chiude la monografia con una formula che vuole esprime il principio ispiratore della nuova legislazione ecclesiastica italiana e che modifica la famosa formula di Cavour: “Libera Chiesa e libero Stato”(46).
L’articolo su “Nuova Antologia” del 1927
Il 16 luglio 1927, a continuazione dei precedenti scritti sullo stesso tema, Orestano pubblica un articolo in ” Nuova Antologia” dal titolo La Chiesa Cattolica nello Stato italiano e nel mondo. Proprio in quel periodo le trattative tra Santa Sede e Italia si erano un po’ arenate, ma secondo l’opinione di uomini che operarono la Conciliazione, tale articolo fece in modo di rimettere in gioco tutto, incoraggiando così a proseguire in esse.
Il suo esame stavolta si limita a questioni fondamentali di diritto pubblico, prescindendo da considerazioni di ordine spirituale o di convenienza politica. L’analisi della situazione è caratterizzata non solo da considerazioni giuridiche, ma anche da un alto concetto della missione universale della Chiesa e dalla preoccupazione di togliere al suo sviluppo ostacoli estrinseci(47).
Sicuramente una situazione più chiara gioverebbe anche allo Stato italiano, dal momento che il regime di confusione tra Stato e Chiesa aggrava il malessere, l’incertezza e le incompatibilità che da sempre contraddistinguono le due Potenze: “Non vi è cerimoniale, né buona volontà, non vi sono compromessi, né concessioni particolari, per importantissime che siano, che bastino a neutralizzare un errore di principio. La Chiesa mostra su questo punto una intransigenza, la quale sorprende soltanto gl’ignari. Essa, che misura a secoli le proprie lotte col potere politico, sa aspettare. Può rinunziare, senza scapitarne, a un territorio; a un principio non mai”(48).
Egli mette in evidenza che, quando l’art. 1 dello Statuto proclama la religione cattolica la sola religione dello Stato, quando il titolo II della Legge della Guarentigie regola le relazioni dello Stato con la Chiesa, abrogando qualunque disposizione contraria, e infine quando lo Stato fascista rimette in vigore l’art.1, si tratta di provvedimenti che riguardano soltanto lo Stato italiano e la sua politica interna. La Chiesa rimane, a dispetto di tutto, una società cattolica, perfetta, suprema e indipendente, e mai l’Italia potrà declassarla a soggetto di diritto internazionale, perché essa non è meno sensibile di ogni altro ente sovrano al principio della sovranità, che riceve direttamente da Dio(49).
Riesaminata la situazione in cui è venuta a trovarsi la Chiesa cattolica con la Legge delle Guarentigie, che determinò le prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede, Orestano sostiene che il Fascismo possiede le capacità e l’autorità necessarie per risolvere la più grande questione storica che sovrasta la Chiesa e lo Stato, e che si espande sull’intero mondo cattolico.
La Chiesa non poteva accettare una soluzione emanata soltanto da una legge italiana, che, per quanto perfetta, rimane un atto sovrano unilaterale, al quale l’altra parte non ha che da uniformarsi. La verità è che la Legge delle Guarentigie è una legge come tutte le altre e, pertanto, esposta alle vicende della politica interna dello Stato italiano(50). Per tali considerazioni, egli, mettendo di nuovo da parte l’idea dell’intervento di un Congresso di Potenze, ripropone la pratica dei Trattati e dei Concordati. Tale pratica più di ogni altra si adatta al diritto pubblico e dà la possibilità ad entrambe le parti di regolare tutta la materia attraverso un atto che risulta concluso da potenza a potenza(51).
L’attenzione e il giudizio di Orestano si concentrano sulla Legge delle Guarentigie, mostrandone i difetti sia nel riguardo dei principi politici, che in quello della tecnica legislativa. Da un punto di vista politico, il filosofo ribadisce che l’errore è stato quello di avere applicato al contrario il principio della separazione tra Stato e Chiesa, subordinando la Chiesa dove andava liberata, e liberandola dove andava subordinata. Si è legiferato sul Papato e sovrapposto lo Stato alla Chiesa, e dall’altro lato si è liberato il sistema episcopale da qualsiasi rapporto di subordinazione verso lo Stato, ignorando però il diritto canonico, dove andava raccordato con la legge civile(52).
Orestano, come aveva già fatto nella monografia del 1924, mette in luce tutti gli errori riscontrabili nella Legge delle Guarentigie. Si riesaminano le prerogative accordate al Pontefice e le disposizioni alle quali Egli deve sottostare, riguardanti il corpo di guardia, la dotazione annua, i Sacri Palazzi Apostolici. Viene riproposta la questione dei Sacri Palazzi e dei luoghi riservati al Papa, nonché quella riguardante la Biblioteca e i Musei, e la loro manutenzione ordinaria e straordinaria. In conclusione Orestano scrive: “La legge del 1871, giuridicamente parlando, manca di sistema, mentre innegabilmente ha collocato il Sommo Pontefice e la Santa Sede, malgrado le asserite prerogative, in una situazione quanto mai dipendente e precaria”(53).
Una semplice critica però non soddisfa Orestano che si chiede se esistano soluzioni concrete al contrasto tra Stato e Chiesa. Esaminando a fondo la situazione, comprende che la Chiesa, libera dal potere temporale, non vuole più essere uno Stato politico, militare, giudiziario, ma tende sempre più ad imporsi come potenza suprema spirituale. Secondo Orestano è opportuno volgere lo sguardo un poco indietro e precisamente al Plebiscito del 2 ottobre, che per lo Stato è il culmine di formazione dell’unità nazionale, per la Chiesa non è motivo di menomazione. Egli insiste sulla separazione ideale e territoriale tra Stato e Chiesa, quale quella segnata appunto dal Plebiscito, e sulla quale l’Italia non avrebbe più dovuto disquisire: “Certo l’Italia, dominata dalla convinzione della propria conquista bellica, e attraversata da correnti fortemente giurisdizionalistiche e anticlericali, aveva un argomento formidabile nelle proprie mani: essere assurdo e impossibile ammettere l’esistenza di due sovranità nell’ambito di un medesimo territorio e Stato”.
Ma il problema è mal posto, ed è stata proprio “questa confusione di beni” che ha impedito di risolvere il dissidio: “La S. Sede Apostolica non può esistere entro il territorio di uno Stato qualsiasi, entro un territorio sottoposto a giurisdizione, a sovranità che non sia la propria. La S. Sede Apostolica non può accettare alcuna solidarietà politica necessaria con nessuno Stato particolare (…). Essa deve vivere in un rigoroso isolamento politico, e quindi anche territoriale, donde esprimere in modo inequivocabile la propria essenza preternazionale e supernazionale (…). Nulla, infatti, nuoce più alla Chiesa Cattolica nella considerazione del mondo, che di apparire, anche se non è, troppo commista, troppo connessa con le sorti e vicende storiche e politiche, interne ed esterne d’Italia”(54).Se si raggiungesse un simile accordo, il problema, secondo Orestano, resterebbe quello di chiarire la condizione dei cittadini italiani residenti nei luoghi della Santa Sede(55).
Per quanto riguarda le rappresentanze diplomatiche presso il Vaticano, il problema troverebbe una soluzione attraverso la “libertà geografica”, che assicurerebbe neutralità assoluta alla Santa Sede in caso di conflitto dell’Italia con altri Paesi. La soluzione di Orestano potrebbe mettere d’accordo sia la Chiesa, che avrebbe modo di essere indipendente e di uscire trionfante dalle lotte con lo Stato; sia l’Italia, che, applicando il principio di separazione, libererebbe se stessa e la Chiesa sulla base della nuova formula inaugurata da Orestano “Libera Chiesa e libero Stato”. Da tale soluzione ne trarrebbe giovamento anche il mondo cattolico, che vedrebbe finalmente il Papato rivestito di una nuova sovranità popolare e il mondo non cattolico, che non avrebbe più da diffidare di Stato e Chiesa insieme(56). Orestano auspica che Stato e Chiesa riguardino le rispettive posizioni, in un momento storico che, forse, si presta ad un mutamento radicale.
1929: La S. Sede e l’Italia negli accordi dell’11 febbraio
Il 1929 sembrò al filosofo aliese un anno di grazia, che avvalorava sicuramente le sue precedenti teorie e i suoi sforzi di trovare una soluzione al difficile problema. Il 16 febbraio, in base agli elementi forniti dal comunicato ufficiale del 12 febbraio intorno ai Patti Lateranensi, pubblica un articolo su “Nuova Antologia” dal titolo La Santa Sede e l’Italia negli accordi dell’11 febbraio. Orestano comprende la portata storica di tale accordo che “dichiara definitivamente ed irrevocabilmente eliminata la questione romana”, e che “dà una soluzione definitiva di un problema esistenziale che ha investito in pieno e travagliato l’Istituto Pontificio fin dal suo primo sorgere, ma in special modo dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente ad oggi, e dunque per circa un millennio e mezzo”(57).
Il Papato ha dovuto sempre risolvere il problema della propria esistenza ed indipendenza dal potere civile, dove esistenza voleva dire temporalità, indipendenza, sovranità territoriale. Esso ha dovuto sostenere numerose vicende politiche per affermare e salvaguardare la propria indipendenza, e costruire una storia unica al mondo, all’interno della quale “scorre il filo aureo d’una spiritualità sublime, inconfondibile con qualsiasi altro processo storico terreno”(58).
L’11 febbraio, come si è detto, vengono sottoscritti tra Santa Sede e Stato italiano un Trattato, un Concordato e una convenzione finanziaria.
E’ proprio il Trattato che risolve la “questione romana”, aperta il 20 settembre del 1870 con la conquista di Roma, che diveniva capitale d’Italia. Tale evento, che faceva perdere alla Santa Sede il potere temporale, giunge nel momento in cui essa in campo spirituale raggiungeva l’apogeo attraverso il Concilio Vaticano dell’8 dicembre 1869. In esso si proclamava il dogma dell’infallibilità del Papa e si definiva nuovamente il Primato del Vescovo di Roma. Quel dogma aveva segnato il trionfo del sistema papale sul sistema episcopale, ma la conquista di Roma sottoponeva la Santa Sede “oggetto di diritto internazionale alla legislazione italiana”(59).
Il Trattato è un accordo tra due potenze, che si trovano in situazione di parità, in materia di politica generale, e può interessare anche altre potenze. In esso, atto necessario, la Santa Sede e l’Italia si separano politicamente e territorialmente e si negano a vicenda. Il Concordato è un trattato speciale che concerne la Santa Sede e regola la materia ecclesiastica. In esso il Sommo Pontefice si trova in una posizione superiore rispetto al Trattato, e fa delle concessioni. In quanto atto volontario, fa sì che le due parti si riuniscano nelle cure della religione e nel governo delle coscienze(60).
Il problema del Trattato è quello di riconoscere al Papato una sovranità particolare, che ha bisogno di un elemento fondamentale, quale è il territorio, per potere, all’interno di esso, negare qualsiasi sovranità altrui ed affermare la propria assoluta libertà ed indipendenza. Orestano chiama tale territorio “porziuncola”, affermando che: “E non a caso diciamo porziuncola, perché ci sembra che uno spirito francescano, italianissimo perciò, in cui il giure e la santità si fanno perfetto equilibrio, ha presieduto al Trattato, con la più sottile valutazione di fattori ideali e pratici, spirituali e fisici, con una sintesi portentosa di principi formali rigorosi e di possibilità di azione illimitate, di contingenza e di storia eterna”(61).
Il Trattato riesce in tale intento, tanto da far dire al Sommo Pontefice in un discorso dell’11 febbraio: “Ci sentiamo pure in diritto di dire che quel territorio che ci siamo riservati e che ci fu riconosciuto, è bensì materialmente piccolo, ma insieme è grande, il più grande del mondo”. Orestano è convinto che tali Patti creino una situazione nuova e un diritto nuovo. La Chiesa, liberata dal passato, ristabilisce “l’asse spirituale del proprio sistema sovrano”, trovando nella separazione dallo Stato il “fulcro su cui poggiare la propria leva di braccio infinito, onde sarà dato al Sommo Pontefice di muovere il cielo e la terra”(62).
Una volta riconosciuta la giurisdizione sovrana della Santa Sede sul Vaticano, spettava solo al Sommo Pontefice di definire se stesso e il proprio Stato senza chiedere ad alcuno né assenso, né consenso, né garanzia. Qui il Sommo Pontefice ha agito non solo in conformità all’interesse italiano, riconoscendo allo Stato la capacità legale e la superiorità politica, ma ha riconosciuto anche l’autorità del Fascismo e del Duce, quale Capo del governo, a risolvere un problema che tutti i governi nel passato avevano trascurato.
E ancora il Papa, inserendo nel Trattato una dichiarazione che forma un capitolo nuovo al diritto della Chiesa, afferma che “la Santa Sede dichiara che vuole rimanere e rimarrà estranea alle competizioni temporali tra gli altri Stati ed ai Congressi internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le Parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace e riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale. In conseguenza di ciò il territorio della Città del Vaticano sarà sempre ed in ogni caso considerato territorio neutrale ed inviolabile”(63). Essa, definitivamente, si colloca al di sopra di tutte le competizioni territoriali, avendo come unico e vero alleato Dio(64).
Il Trattato crea lo “Stato della Città del Vaticano”, attribuisce al Papa il titolo di Vescovo di Roma, stabilisce franchigie per i dignitari della Chiesa e le persone appartenenti alla Corte pontificia, immunità territoriali per le Basiliche Patriarcali e per alcuni edifici situati fuori della Città. Viene stabilito anche che i tesori d’arte e di scienza, esistenti nella Città del Vaticano e nel Palazzo Lateranense, continueranno a rimanere visibili agli studiosi e ai visitatori.
Nel momento in cui scrive Orestano non si conoscono ancora i termini di alcune clausole, riguardanti, per esempio, i sudditi del nuovo Stato. Riguardo alla materia penale si stabilisce che “a richiesta della Santa Sede e per delegazione che potrà essere data nei singoli casi od in modo permanente, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che venissero commessi nella Città del Vaticano.”(65).
Per quanto riguarda il Concordato, esso fa veramente dello Stato italiano uno Stato cattolico e si occupa anche direttamente della vita e della educazione religiosa del popolo italiano. Nella dichiarazione introduttiva si stabilisce che il Governo, in considerazione del carattere sacro di Roma, farà in modo di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto con detto carattere. Si ribadisce l’articolo 1 dello Statuto e, particolarmente, il principio di tolleranza che è condizione necessaria per una pacifica convivenza. D’altra parte, in relazione alla dichiarazione preliminare del Concordato, esso è sinonimo di misura e di buon senso(66).
Viene stabilita una nuova procedura per la nomina degli Arcivescovi e dei Vescovi, secondo la quale la Santa Sede dovrà richiedere al Governo italiano se esistono obiezioni di ordine politico relativamente alla persona da scegliere. Se tali obiezioni non esistono, si provvederà subito alla nomina.
Viene ripristinato il giuramento di fedeltà dei Vescovi nelle mani del Re e si riattribuisce loro carattere di pubblico ufficiale oltre che di dignitario dello Stato italiano. Il Vescovo, secondo Orestano, ha una posizione così importante all’interno della Chiesa e della legislazione italiana, che sarebbe un controsenso escluderlo dalla disciplina statale italiana. Egli, infatti, ha facoltà di emanare atti, ai quali è riconosciuta libera circolazione nel Regno e gli viene riconosciuto il diritto di affissione nelle chiese e nelle basiliche, senza bisogno di preventivo assenso della autorità laica. Ha, inoltre, la potestà di conferire i benefici minori, senza alcun intervento dello Stato italiano, e acquista col Concordato nuovi poteri amministrativi sul patrimonio ecclesiastico della diocesi e sui benefici vacanti(67).
Assai rilevanti sono le clausole che riguardano la riforma della legislazione ecclesiastica italiana in armonia col Trattato. Quattro sono le materie che rientrano in tale riforma, analizzate singolarmente da Orestano in relazione ai vecchi ordinamenti. La riforma ha, innanzitutto, riguardato il riordinamento della personalità giuridica degli enti ecclesiastici e delle circoscrizioni diocesane e parrocchiali. Si è, inoltre, regolamentata l’amministrazione dei benefici vacanti; la personalità giuridica e il regolamento patrimoniale delle congregazioni religiose; la revisione e l’eventuale rinunzia di una serie di diritti storici e tradizionali. Secondo Orestano, assume una particolare importanza l’articolo del Concordato con il quale lo Stato riconosce al sacramento del matrimonio gli effetti civili. Tale disposizione interesserà i cattolici, a cui verranno letti, al momento della stipulazione dell’atto di matrimonio, gli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi. In tal modo il sacramento avrà validità per la Chiesa e per lo Stato.
La questione matrimoniale, tuttavia, avrebbe bisogno di una profonda analisi, sia da parte dell’autorità civile, sia di quella religiosa. Vi sono da tenere in conto numerose componenti per fare in modo che i due diritti, civile e religioso, si accordino in modo perfetto(68). Orestano, colpito dalla notizia degli accordi che avvaloravano le sue precedenti teorie sulla necessità di una riforma, non resistette alla tentazione di scrivere l’articolo menzionato, sulla base del breve comunicato ufficiale che in modo sommario delineava i tre documenti. Tuttavia, non conoscendo perfettamente tutti i termini dell’accordo, non esitò ad affermare che essi “si imprimono con caratteri di una grandiosità incomparabile nel gran libro della storia non pure d’Italia, dell’umanità”(69).
Egli elogiò Benito Mussolini che seppe preparare il terreno a questo evento storico che rialzò il prestigio dell’Italia e lo ringraziò con viva commozione in nome di tutto il mondo cattolico, per avere inaugurato per l’Italia e per il mondo un nuovo diritto e una nuova storia(70): “E noi – scrive l’autore – rimaniamo attoniti di fronte al minimo di mezzi con cui è stato operato il prodigio che conchiude energicamente una storia e ne schiude un’altra, con quella squisita misura di precisione nelle idee, della quale solo i geni politici detengono il segreto”(71).
A conclusione di questa ricerca, si può sicuramente affermare che Orestano era un pensatore acuto e sapeva guardare lontano. Le sue idee, intorno al rapporto tra Chiesa e Stato, hanno di molto anticipato l’epilogo del 1929, che chiude, in modo definitivo, la “questione romana”. Egli aveva visto giusto su un possibile accordo che, lasciando le due Potenze nella propria sovranità, dava loro la possibilità di regolarsi. Chiesa e Stato avrebbero mantenuto, in questo modo, l’indipendenza all’interno del territorio italiano. Le teorie di Orestano, che seguono gli avvenimenti storici, sono intrise di personali considerazioni politiche e religiose. Esse delineano un quadro, abbastanza chiaro, di quella che era la situazione dello Stato e della Chiesa e di ciò che sarebbe stato necessario fare per evitare ulteriori conflitti.
L’idea di Orestano, secondo cui il conflitto doveva essere risolto con un accordo tra le due Potenze, fu avvalorata con la firma dei Patti del 1929, e furono ribaditi nella carta costituzionale, ed ulteriormente con il nuovo Concordato del 1984. A questo punto si comprende in pieno l’attualità del suo pensiero. Ciò che egli scrive per la prima volta nel 1915, nell’articolo su L’Ora di Palermo, successivamente nel 1924, con la monografia, ed infine nel 1927, con un altro articolo su Nuova Antologia, sembra essere la strada battuta dal legislatore italiano del 1984 con riferimento alle cosiddette “intese concordatarie”. All’art. 13.2 dell’Accordo, infatti, si stabilisce che “ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana”.
Le intese concordatarie, per tanto, non sono che la naturale evoluzione di un pensiero, di un’idea, che ha avuto in Orestano uno dei primi sostenitori. Sembra proprio che ad esse il filosofo abbia pensato per una soluzione dei conflitti il più possibile pacifica e moderna.
NOTE:
(1) Cfr. F. ORESTANO, Rapporti fra Stato e Chiesa nella mente di Luigi Luzzatti, in Rivista di Roma, anno IX, fascicolo XXIV, 25 dicembre 1905, p.752.
(2) Ivi, p. 753.
(3) Ivi, pp.753-754.
(4) Ivi, p. 754.
(5) Cfr. F. ORESTANO, Verso la Nuova Europa, Roma, Optima, 1915, pp. 117 e ss
(6) Ivi, p. 121.
(7) Ivi, p. 122.
(8) Ivi, p. 123.
(9) Ibidem
(10) Ivi, p. 125.
(11) Ivi, p. 127.
(12) Ivi, p. 129.
(13) Ibidem.
(14) Cfr. F. ORESTANO, Dalla legge delle guarentigie alla conciliazione, in Opera Omnia, vol. III, tomo I, Padova, CEDAM, 1961, p. 230.
(15) F. ORESTANO, Lo Stato e la Chiesa in Italia, Roma, Optima, 1924, pp. 6-7.
(16) Ivi, p. 9.
(17) Ivi, pp. 10-12.
(18) Ivi, pp. 13-14.
(19) Ivi, p. 17.
(20) Ibidem.
(21) Ivi, pp. 20-21.
(22) Ivi, p. 22
(23) Ivi, p. 26.
(24) Ivi, p. 27.
(25) Ivi, p. 31.
(26) Ivi, p. 32
(27) Ibidem.
(28) Ibidem
(29) Ivi, pp. 35-36.
(30) Ivi, pp. 39-40.
(31) Ivi, p. 41.
(32) Ivi, p. 42.
(33) Ivi, p. 43.
(34) Ivi, p. 46.
(35) Ivi, p. 47.
(36) Ivi, pp. 48-49.
(37) Ivi, p. 50.
(38) Ivi, p. 51
(39) Ivi, pp. 51-52.
(40) Ivi, pp. 64-67.
(41) Ivi, p. 69.
(42) Ivi, pp. 75-77.
(43) Ivi, pp. 78-79.
(44) Ivi, p. 80.
(45) Ibidem.
(46) Ivi, p. 81.
(47) Cfr. F. ORESTANO, La Chiesa Cattolica nello Stato italiano e nel mondo, in Opera Omnia, cit., p. 231.
(48) Ivi, p. 232.
(49) Ibidem.
(50) Ivi, p. 233.
(51) Ivi, p. 234.
(52) Ibidem.
(53) Ivi, p. 236.
(54) Ivi, p. 239.
(55) Per la soluzione del problema si rimanda alla monografia Lo Stato e la Chiesa in Italia, Roma, Optima, 1924, p. 52.
(56) Cfr. F. ORESTANO, La Chiesa Cattolica nello Stato italiano e nel mondo, cit., pp. 240-241.
(57) F. ORESTANO, La Santa Sede e l’Italia negli accordi dell’11 febbraio, in Opera Omnia, cit., p. 242.
(58) Ivi, p. 243
(59) Ivi, p. 244.
(60) Ivi, p. 245.
(61) Ivi, p. 246.
(62) Ivi, pp. 246-247.
(63) Ivi, p. 248.
(64) Ibidem.
(65) Ivi, p. 250.
(66) Ivi, p. 252.
(67) Ivi, p. 253.
(68) Ivi, p. 256.
(69) Ivi, p. 257.
(70) Ibidem.
(71) Ivi, p. 245.