Un Manoscritto dell’Archivio Nazionale di Parigi
La storia di molti paesi europei ed extraeuropei nel secolo XVIII è ricca di avvenimenti legati all’economia e alle relazioni commerciali. Fra questi paesi spiccano, per l’intenso e travagliato rapporto che li univa, la Francia e il regno delle Due Sicilie. Tanti sono i documenti del tempo che testimoniano le relazioni franco-napoletane.
Proprio recentemente è stato rinvenuto da Messina, autore tra l’altro di diverse pubblicazioni sul secolo XVIII, presso l’Archivio Nazionale di Parigi (sezione Affaires Etrangères ai segni B3, 407), un Mémoire sur le commerce de la France et de l’Angleterre avec le Royaume de Naples. Pur non essendo datato, é probabile che la sua redazione risalga all’anno 1743. Già il Romano(1) lo collocava intorno al 1740-41. In realtà il manoscritto stesso fornisce le indicazioni per la sua datazione, in quanto l’autore, peraltro anonimo, fa esplicito riferimento ai trascorsi anni 1741 e 1742. Il 1743 non viene citato, con ogni probabilità perché è l’anno in corso. Se, infatti, il documento fosse posteriore al 1743, essendo l’autore particolarmente diligente ed esauriente nel riportare dati e cifre, quasi certamente avrebbe fornito notizie anche su quell’anno. Invece non l’ha fatto. Per tutte queste ragioni, il 1742 può essere assunto come termine post quem e il 1743 come il probabile anno della redazione del Mémoire.
Scopo dell’autore era quello di dare un’idea generale del commercio della Francia con le Due Sicilie, confrontandolo con quello anglo-napoletano, in una fase storica in cui la rivalità tra Francia e Inghilterra era ai massimi livelli e si risolveva sul piano del grande commercio internazionale. Se questo era chiaro a tutti, allora come oggi, non erano però altrettanto evidenti le ragioni della supremazia inglese in campo economico, particolarmente nel settore industriale e in quello commerciale. L’autore del Mémoire vuole appunto far luce su questi aspetti e si concentra nella ricerca delle cause “qui nous ont privés de la vente plusieurs de nos marchandises”(2) , ponendosi ovviamente dal punto di vista francese. Ma non si limita a questo; dichiara che proporrà delle soluzioni e indicherà possibili strade da percorrere. L’obiettivo è “entrer en concurrence avec les anglois”(3).
Il Mémoire si divide in tre parti. Nella prima l’autore espone cifre e dati sia del commercio franco-napoletano che del commercio anglo-napoletano, riporta le due bilance commerciali e stabilisce un primo confronto in termini di cifre, nettamente a favore degli inglesi. La seconda parte contiene le notazioni dell’autore sui prodotti francesi inviati nelle Due Sicilie (lo zucchero e i drappi i più rilevanti) e sulle importazioni francesi dal regno (olio, grano, seta ecc..). La terza parte è dedicata al commercio inglese nel regno delle Due Sicilie.
L’interesse del manoscritto risiede non tanto e non solo nelle notizie che l’autore mette a disposizione, ma soprattutto nella modernità delle sue osservazioni, in quanto non si limita a descrivere e rapportare ma fa un’analisi approfondita del mercato napoletano. Per comprendere i motivi della decadenza del commercio francese nel regno delle Sicilie, decadenza che si fa più significativa a partire dalla seconda metà del secolo, è dal mercato che bisogna partire. E il mercato in fondo non è che un insieme di persone, coi loro gusti e necessità, inserite in una particolare situazione storica, politica ed economica, e come tale in continua evoluzione. E’ in quest’ottica che l’autore passa in rassegna i manufatti francesi, sottolineandone difetti e punti di forza che non sono tali in assoluto, ma solo in relazione al mercato. Il confronto di tali prodotti con gli equivalenti inglesi, poi, risulta quanto mai illuminante perché consente di cogliere dal vivo gli effetti di due politiche commerciali profondamente diverse.
E’ questo il cuore della questione: che cosa si deve intendere per politica commerciale? Certamente è qualcosa che oltrepassa la semplice vendita, come evidenzia l’autore. E’ piuttosto l’organizzazione delle vendite in vista di determinati obiettivi e si riflette poi su tutte le singole azioni commerciali e sui prodotti stessi. Ed è proprio nella maniera di intendere la politica commerciale come quid che sovrintende a tutte le mosse del commercio che i francesi dovrebbero imitare gl’inglesi. La necessità di una revisione degli articoli (che l’autore suggerisce) è una conseguenza di un errore di strategia da parte francese. Dalla filosofia al prodotto finale il passo non è poi tanto lungo come si crede, e la relazione di causa effetto è più pregnante che mai. Ce lo dimostrano i campioni di stoffe (francesi e inglesi) che l’autore allega al Mémoire affinché i francesi possano riprodurre gli esemplari inglesi e toccare con mano gli effetti di due modi molto diversi di porsi nei confronti degli acquirenti. Secondo l’autore del Mémoire ogni politica commerciale dovrebbe prendere le mosse dalle richieste dei clienti, sia acquisiti che potenziali. Ecco perché ancora prima di fabbricare i prodotti e di intraprendere un commercio è necessario raccogliere informazioni sulla cultura, l’economia, la storia del paese o della regione a cui tali prodotti sono destinati. Ed è esattamente ciò che facevano gl’inglesi, i quali tenevano in alta considerazione gli orientamenti, o come diremmo oggi, le esigenze del mercato. Essi recepirono questo importante concetto e, soprattutto, per primi applicarono tale filosofia commerciale. I francesi, al contrario, finivano spesso per fabbricare i prodotti e poi imporli al mercato.
Oggi, alla luce delle teorie del marketing, è naturale affermare che ogni politica commerciale debba originarsi da un’attenta analisi di mercato che preceda il lancio di ogni prodotto. Nel XVIII secolo invece non era altrettanto scontato parlare di soddisfazione del mercato, come fa l’autore del Mémoire, le cui osservazioni si rivelano di una modernità straordinaria.
Una delle dirette conseguenze della sua analisi del mercato napoletano è l’individuazione dei settori che i francesi dovrebbero incentivare per avere maggior presa sul regno delle Due Sicilie. Per esempio perfezionare alcune stoffe, come le Calmandes de l’Isle, significherebbe entrare in un giro d’affari dove gl’inglesi sono finora i soli e ne traggono tutti i vantaggi. L’autore sottolinea con acutezza quelli che sono i settori da prendere in considerazione: sa che quando vi è molta richiesta di un articolo e questo è fornito da una sola nazione, è facile per un secondo paese produttore inserirsi nel mercato, purché lo faccia con un prodotto buono e a prezzi ragionevoli.
Oltre a queste considerazioni, egli sottolinea altri due aspetti innovativi. Il primo consiste nell’importanza di dare ai prodotti “un air de nouveuté” (4) e rinvia al moderno concetto di immagine di marca. Non è forse quello che fanno oggi le aziende più all’avanguardia quando decidono di rinnovare l’immagine di un prodotto?
Gl’inglesi da bravi psicologi, oltre che mercanti, sapevano cogliere esigenze espresse e inespresse dei loro clienti e, nel caso dei napoletani, li conquistavano con il fascino della novità e prezzi allettanti. Se, infatti, la qualità veniva ogni tanto trascurata i napoletani non se ne curavano, adescati dall’apparenza. Invece i francesi mostravano scarsa capacità di adattarsi all’esigenza psicologica del mercato italiano e di quello meridionale in particolare, che domandavano prodotti di media qualità ma di buona apparenza. Ciò che contava per loro, l’autore del Mémoire non si stanca di sottolinearlo, era l’appretto dei tessuti, non tanto la loro resistenza.
Il secondo concetto innovativo riguarda quella che ai nostri giorni viene definita la “diversificazione della produzione”. Dal momento che mercato non significa soltanto concorrenza, acquirenti, potere d’acquisto, ma coinvolge gli uomini inseriti in una situazione politica, culturale, socio-economica particolare, i mercati non sono tutti uguali, proprio come gli uomini di cui sono composti. Per questa ragione bisogna rispettare e seguire i gusti delle diverse nazioni a cui ci si rivolge, diversificando la produzione. Il nostro autore non poteva saperlo, ma è proprio in direzione della soddisfazione del mercato che si sarebbe andati. Agl’inglesi il primato, non tanto di averlo capito per primi, ma di aver saputo mettere in pratica la loro concezione di commercio. Ed essa probabilmente fu la chiave del loro successo nei traffici internazionali del Settecento. L’Inghilterra nel corso del secolo seppe sfruttare le opportunità offerte dai suoi vasti domini coloniali e trasformarle in elementi di attivazione e incentivazione del commercio sia interno che esterno.
Ritornando al nostro autore, è essenzialmente nei tre strategici concetti di studio del mercato, immagine di prodotto e diversificazione della produzione che è racchiusa tutta la forza innovativa di questo Mémoire che anticipa concetti e considerazioni che solo ai nostri giorni hanno trovato riscontro in una teorizzazione precisa, quella del marketing, come si diceva. La sua analisi è particolarmente rilevante perché, come gl’inglesi, ha capito che il punto di partenza di ogni politica commerciale sta non nei prodotti, ma nel mercato. I francesi fabbricavano gli articoli e poi li immettevano sul mercato, diciamo che il loro sforzo consisteva nel farglieli accettare e acquistare. Gl’inglesi, al contrario, prima “si creavano” il mercato, lo studiavano e lo definivano, poi fabbricavano gli articoli che esso chiedeva. Nel commercio francese nel regno delle Sicilie, quindi, non sono i prodotti in sé che non vanno, ma i prodotti rispetto a come i meridionali li vorrebbero. E’ un problema di impostazione a-priori che si riversa poi su ogni singolo articolo. Ma anche a-posteriori si può fare qualcosa. Riguardo ad alcuni generi, come ad esempio le serges à la princesse, l’autore afferma che gl’ispettori delle manifatture potrebbero consultare i negozianti e dopo essere stati da loro informati sul gusto e sugli usi delle nazioni con le quali avviene il commercio, dovrebbero obbligare i fabbricanti a conformarvisi, diversificando la produzione. Se non è una mini indagine di mercato, allora cos’è?
Nella parte finale del Mémoire l’autore ribadisce, in un ennesimo confronto tra le due produzioni, quella inglese e quella francese, i suggerimenti espressi in direzione del perfezionamento delle stoffe francesi come elemento decisivo per facilitare e accrescere le vendite. Riconosce inoltre l’abilità dei fabbricanti d’Inghilterra che con la loro arte sono capaci di fare con la lana ciò che le altre nazioni non riescono a imitare con la seta.
Ma in chiusura evidenzia anche come gl’inglesi siano avvantaggiati da una serie di condizioni favorevoli: innanzi tutto diritti di entrata delle loro merci nelle Sicilie molto più bassi rispetto ai francesi; in secondo luogo esonero dal pagamento dei diritti di uscita dall’Inghilterra; felice posizione delle loro fabbriche con conseguente agevolazione dei trasporti, e altre ancora.
Con questa rassegna conclusiva delle cause “qui nous ont privés de la vente de plusieurs de nos marchandises”(5). l’autore chiude il suo Mémoire, col quale si proponeva di dare un’idea generale del commercio della Francia e dell’Inghilterra nelle Due Sicilie, come lui stesso in apertura dichiarava. In realtà la sua analisi è andata ben oltre le intenzioni, giungendo non solo a fornire un quadro al contempo ampio e particolareggiato del suddetto commercio, ma anche a dare ai suoi contemporanei, e a noi moderni lettori, una lezione di economia e, oseremmo dire, di studio del mercato.
Il commercio della Francia nelle Due Sicilie nel secolo XVIII
Il grande avvenimento nell’ambito degli scambi commerciali del Settecento fu lo sviluppo straordinario assunto dal commercio marittimo e, soprattutto, atlantico. Il commercio transoceanico non era una novità, ma durante il secolo XVIII si fece di proporzioni gigantesche rispetto al Seicento. Non solo, ma esso alimentò vertiginosamente anche le correnti di traffico tradizionali. Le rotte europee, infatti, furono sempre più attraversate da navi cariche di prodotti coloniali. Secondo alcuni studiosi, fu proprio il commercio uno dei fattori determinanti nell’accumulo del capitale che sarebbe andato ad alimentare la nascita delle prime concentrazioni industriali. Il Sée(6), tra gli altri, afferma che “è soprattutto in vista di questo grande commercio marittimo e coloniale che furono create le prime società per azioni [..] che diedero un particolare incremento al capitalismo mettendo a sua disposizione potenti mezzi d’azione”. Il passaggio, cioè, dalla società pre-industriale a quella industriale è da ascrivere proprio alla dimensione straordinaria assunta dal commercio europeo ed extraeuropeo. Ma non è necessario arrivare alla Rivoluzione industriale per cogliere tale dimensione.
Gli inizi del Settecento si presentavano già carichi di interessanti novità e alla metà del secolo il commercio era in una fase profondamente matura. A dominare mari e oceani erano Francia, Inghilterra, Province Unite. Ma queste ultime “n’ont plus la première place”(7), come ai tempi della secentesca Compagnia Olandese delle Indie. Tuttavia mantenevano ancora un ruolo rispettabile. Negli scambi commerciali di queste tre potenze, la parte relativa alla riesportazione dei prodotti coloniali seguì un ritmo crescente nel corso del secolo: “40 % des exportations anglaises en 1750, et plus de 50 % à la fin du siècle; plus du tiers du commerce extérieur des Provinces Unies en 1776”. La Francia e l’Inghilterra erano le massime potenze mondiali.
E il Settecento le vide scontrarsi sul piano politico e commerciale. In realtà, al di là delle ragioni ufficiali, la guerra dei Sette anni, per i due paesi, non fu altro che l’occasione per misurare una rivalità che durava dal 1688, e sancire così un predominio commerciale e quindi economico. Questo, sfortunatamente per la Francia, fu inglese. E inglesi divennero infatti la ex Louisiana francese e gli ex territori francesi del Canada, nonché quelli indiani. Ma non tutto era perduto: le Antille consentirono ai francesi di detenere il monopolio mondiale dello zucchero, elemento di primo piano nella bilancia commerciale della Francia.
Non si può parlare del commercio franco-napoletano nel Settecento senza accennare alla rivalità franco-inglese, perché moltissime relazioni e documenti del periodo vi fanno continui riferimenti. In effetti il suddetto commercio traduce e svela forze e debolezze dell’una e dell’altra potenza. Non solo per quel che concerne il loro diverso approccio verso la politica commerciale, ma anche relativamente ai prodotti stessi e quindi ai sistemi manifatturieri che vi stavano dietro.
Non ci si deve lasciare ingannare di fronte a documenti come il trattato franco-inglese del 1786, perché questo non era affatto un accordo di libero scambio, ma un compromesso teso a stabilire reciproche concessioni e limitazioni. Traduceva pertanto un bisogno di fissare i confini commerciali per non creare ulteriori tensioni. Secondo il De Viguerie(8). “le traité favorisa les manufacturiers anglais dont les produits étaient moins chers que ceux des Français. Il fut également bénéfique aux grands propriétaires fonciers français, mais il eut sur l’industrie française, dans son ensemble, des effets plutot malheureux. […] Le traité […] abaisse les droits d’entrée sur les produits manufacturés anglais”.
Ciononostante la bilancia commerciale francese era sempre in attivo: le esportazioni costituivano sempre più del 50 % del commercio totale, quindi superavano le importazioni, come si addice a una grande potenza. Un posto importante era riservato alla riesportazione dei prodotti coloniali. Per esempio Bordeaux tra il 1721 e il 1778 ridistribuiva in tutta Europa il 73,8 % dello zucchero importato dalle Antille. “Toutefois, – avverte il De Viguerie – la structure du commerce français n’est pas dans sa qualité aussi moderne que celle du commerce anglais. Les besoins en produits fabriqués restent constants: 14,1 % du total en 1716 et 13,3 % en 1787, et les exportations de produits alimentaires ne descendent pas au-dessous de 50 % du total”(9).
Nel 1734, anno in cui Carlo di Borbone si insediò a Napoli, il commercio delle Due Sicilie con la Francia necessitava decisamente di essere rinverdito. La tensione nei rapporti franco-austriaci aveva influito negativamente sugli scambi del regno con la Francia. E gl’inglesi avevano colto l’occasione per organizzare basi commerciali nel Mediterraneo. All’arrivo del Borbone a Napoli, i rapporti franco-napoletani erano ridotti a ben poca cosa. Riducendosi le esportazioni francesi, si contrassero anche le importazioni dal regno perché l’acquisto dei prodotti napoletani veniva effettuato sulla base di uno scambio di merci e non sul pagamento in moneta. Dunque esportazioni e importazioni erano direttamente proporzionali le une alle altre.
La presenza del Borbone sul trono napoletano faceva ora sperare, e a ragione, che questi favorisse i rapporti con la Spagna e con la Francia. Effettivamente le cose andarono così, ma non grazie alle varie iniziative diplomatiche, editti e proclami emanati allo scopo di riprendere le relazioni commerciali con la Francia. Anche, certo. Ma la ragione essenziale sta forse nel fatto che i due regni, quello meridionale e quello francese, avevano bisogno l’uno dell’altro. Una fitta rete di interessi li univa. Il regno delle Due Sicilie aveva più seta, più lana, più olio, più grano di quanto i mercati, attraverso gli inglesi e i genovesi, potessero assorbire. Le industrie francesi aumentavano la loro produzione e quindi avevano bisogno di nuovi mercati di sbocco o che fossero ripristinati quelli vecchi. Contemporaneamente le fabbriche della Provenza e della Linguadoca e le seterie lionesi avevano bisogno di più lana e di più seta di quanta potessero procurarsene, a prezzi convenienti, su altri mercati che non quelli napoletani. Alle fabbriche di sapone di Marsiglia, per esempio, occorrevano olio e cenere di soda per sostenere il ritmo crescente della produzione. Per tutte queste ragioni era naturale che i due regni si attraessero.
Un trattato di commercio, al quale si lavorò dal 1736 fino al 1788 con sei fasi principali e che alla fine non fu stipulato, sarebbe stato quantomeno superfluo. Allora perché lo si voleva così tenacemente e perché era così difficile da raggiungere? Per un motivo molto semplice: i francesi, da buoni vecchi clienti nonché acquirenti, volevano un trattamento almeno uguale a quello ricevuto dai rivali, inglesi e genovesi. Questo in termini concreti significava: parità di pagamento di dazi per i prodotti, parità di trattamento da parte degli agenti doganali. Ma non era facile per i Napoletani comunicare, così d’un colpo, agli inglesi e ai genovesi, che acquistavano una gran quantità di prodotti, che non sarebbero più stati i privilegiati. E di fatto non lo si fece: “clienti di tal genere non è possibile alienarseli: olio, lana e grano sono prodotti che abbondano nel Mediterraneo: l’Africa del Nord, la Grecia, Corfù, la Morea, la Turchia ne hanno da vendere, cercano affannosamente degli acquirenti”(10).
Tuttavia gl’interessi reciproci franco-napoletani erano così forti che, con o senza trattato, gli scambi si svolsero e anzi ripresero vigore proprio mentre le trattative a tavolino giungevano sempre al solito punto morto. Per i francesi i diritti da pagare per commerciare con Napoli erano più forti di quelli pagati da inglesi e genovesi. E nonostante ciò c’era ancora convenienza. Ma a un certo punto i privilegi dei concorrenti inglesi non contarono più nulla perché la questione si spostò dal piano ufficiale a quello illecito: il contrabbando divenne l’elemento risolutore. Fu proprio in virtù di esso che i privilegi inglesi e genovesi persero consistenza e che le relazioni franco-napoletane si intensificarono.
I governi si rendevano conto di tutto ciò? La risposta può essere affermativa, considerato che “se nel 1736 lo scopo principale di un trattato era di creare le premesse di una attività commerciale, di dare a questa l’avvio a divenire sempre più vasta, già nel 1745 esplicitamente si dichiarava che ‘il punto più importante come il principale motivo per il quale si è desiderato un trattato’ è impedire il contrabbando”(11). Ma se davvero si fosse raggiunto l’accordo su questo punto, eliminando il contrabbando, facendo pagare tutti i diritti ai francesi, i privilegi inglesi e genovesi sarebbero risultati ingombranti e di ostacolo al commercio. L’analisi degli scambi franco-napoletani mostra, al contrario, una crescita graduale ma costante degli stessi durante il Settecento, e particolarmente a partire dall’avvento di Carlo III. Il movimento delle esportazioni e delle importazioni dei due regni non resta comunque identico durante lo scorrere degli anni.
Il Romano(12) ha individuato due fasi principali per il suddetto movimento. La prima metà del secolo, che segna anche la ripresa del commercio francese nel regno napoletano dopo la fase di crisi che durava dalla fine del secolo XVII, presenta una bilancia commerciale favorevole alla Francia. La seconda metà del XVIII secolo, invece, vede un’inversione di tendenza: a partire dagli anni 1754-55 la bilancia commerciale è favorevole a Napoli e lo resterà fino al 1815, eccezion fatta per gli anni 1811-13.
Ripercorrendo il secolo dall’inizio e seguendo il doppio movimento di esportazione e importazione delle merci in oggetto, si possono cogliere nel vivo le ragioni di questo capovolgimento. Agl’inizi del secolo il cammino tra Francia e regno di Napoli era tutto da rifare. Degli antichi traffici l’unico a resistere ancora era quello dello zucchero. Gli altri, come quelli delle drapperie e delle sete un tempo fiorenti, erano definitivamente decaduti. Dello zucchero il regno di Napoli era sempre stato un gran consumatore. Questo traffico così importante presentava un andamento discontinuo, a sbalzi. Infatti i padroni di navi francesi portavano pour leur compte le merci caricate a Marsiglia. Di conseguenza, le consegne non avvenivano con regolarità, col risultato che in alcuni momenti sul mercato napoletano vi era grande abbondanza di zucchero e ciò faceva abbassare i prezzi e riduceva i guadagni dei patrons francesi. In questa prima fase la bilancia commerciale, come si è detto, pendeva dalla parte della Francia. Le esportazioni dal regno di Napoli si limitavano a un po’ di legname per costruzione. I tradizionali invii di olio, seta e lana subivano un arresto temporaneo.
Ma già dai primi anni del regno del Borbone, la situazione mutò. Inizialmente il tipo di commercio rimase identico, ma se ne accrebbe l’entità, a tutto vantaggio della bilancia francese. Verso il 1748 la Francia iniziò finalmente a effettuare forti acquisti di seta e di olio, in coincidenza con lo sviluppo assunto dalle seterie lionesi e dalle fabbriche di sapone di Marsiglia che abbisognavano di olio. Purtroppo non disponiamo di esaurienti studi per il periodo 1748-1758. Ma dando uno sguardo ai dati del 1759 si registra un saldo positivo nella bilancia commerciale napoletana con la Francia. E non fu l’unico anno, perché da allora fino al 1815 il saldo si sarebbe fatto sempre più positivo per il regno meridionale. Questo renversement risale probabilmente agli anni 1754-55, quando inizia una fase “larvée” della guerra dei Sette anni. A causa della guerra le comparse di navi francesi nel regno di Napoli si fecero più rare, e la marina mercantile napoletana ne approfittò per fare più frequenti comparse nei porti francesi, gestendo così direttamente i traffici con la Francia. Addirittura, per alcuni generi coloniali, i napoletani si mettevano direttamente in contatto con il luogo d’origine.
Ma perché i francesi, dopo la guerra, non ripresero la loro posizione di predominio? Le ragioni sono molteplici. In primo luogo la concorrenza inglese aveva avuto modo di fortificarsi durante l’assenza dei francesi. In secondo luogo bisogna dire che, sotto l’impulso del re Carlo di Borbone, sorsero nel regno delle Due Sicilie alcune attività manifatturiere. Gl’inglesi, avendo campo libero, si affermarono definitivamente nel regno meridionale, soprattutto nel settore delle drapperie, cioè laddove i francesi avevano fallito la loro politica commerciale. Pertanto, gli italiani, pur riconoscendo la superiorità dei drappi francesi, accordarono la preferenza a quelli inglesi. Per quanto riguarda i prodotti coloniali invece (zucchero, caffé, pepe, spezie) alcune fette di mercato italiane e napoletane furono sottratte alla Francia dagli olandesi.
Riguardo alla seconda causa della decadenza del commercio francese e del suo perpetuarsi nella seconda metà del secolo, questa è da ricollegare all’opera di rinnovamento economico e industriale promossa da Carlo III. Egli fece chiamare operai dalla Francia, da Venezia, da Firenze. Purtroppo proprio quando il processo di ripresa napoletano era avviato, gl’inglesi, comprendendo gli svantaggi che ne sarebbero derivati per il loro commercio, ingaggiarono una battaglia sul piano dei prezzi che stroncò non solo l’attività napoletana ma anche quella francese.
A queste due ragioni, è da aggiungerne una terza, di carattere più generale. Le importazioni napoletane erano a carattere rigido perché riguardavano prodotti come lo zucchero, il caffè, la seta. Il che significa che, a meno di improvvisi e consistenti aumenti di popolazione o di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti, i suddetti acquisti si attestavano bene o male sugli stessi livelli quantitativi. Tutt’altro discorso va fatto per la Francia, dove l’aumento delle importazioni dal regno napoletano che si verificò a partire dalla seconda metà del secolo, era indice di sviluppo delle sue industrie perché i prodotti importati erano materie prime come l’olio, la seta, la lana, oppure generi di prima necessità come il grano.
Ed effettivamente si può notare come lo sviluppo delle saponerie marsigliesi procedesse di pari passo all’incremento delle spedizioni napoletane di olio e quello delle seterie lionesi ricalcasse l’andamento delle importazioni di seta. Lo stesso vale per la lana: alla progressiva diffusione dell’industria laniera nel sud della Francia(13), corrispondevano arrivi sempre più consistenti di lana dal Sud Italia. Dunque, proprio per il carattere intrinseco del commercio francese nel regno delle Due Sicilie, a partire dalla seconda metà del secolo, la bilancia commerciale fu sfavorevole alla Francia. All’aumento di invii dal regno di Napoli si accompagnò, infatti, una stabilizzazione o addirittura una contrazione delle spedizioni dalla Francia. Queste ultime consistevano essenzialmente in étamines du Mans, drapperie, seterie, zucchero, caffé. Le importazioni napoletane di étamines erano notevoli negli anni 1740-41, quando si aggiravano sulle 4000 pezze. Ma già nel periodo 1765-73 la media annua si dimezzò: solo 2000 pezze.
Dal 1776 al 1783, fu un continuo decrescere degli arrivi di étamines a Napoli, fino a giungere a N° 0 balle nel 1783. Il 1784 segnò una ripresa, ma le importazioni riguadagnarono presto la tendenza negativa già dall’anno successivo(14). Vicenda analoga vissero le drapperie: ritmo decrescente di spedizioni francesi a Napoli fino al 1780, poi vi furono timidi accenni di ripresa. Le seterie sembrarono resistere un po’ di più. Questo settore, che pure conobbe una decadenza in termini di importazioni napoletane fra il 1765 e il 1780, vide poi un rialzo decisivo a partire dal 1783. Negli anni successivi i quantitativi spediti dalla Francia superarono quelli degli inizi degli anni Settanta. Ma i prodotti che davvero mantennero una loro stabilità negli acquisti napoletani furono i generi coloniali: zucchero e caffè non subirono cadute, tranne per una leggera curva discendente nel triennio 1778-1780. In seguito ripresero con vigore.
La decadenza del commercio francese nel regno delle Due Sicilie nella seconda metà del Settecento ci è confermata dall’andamento del movimento delle navi francesi nei suoi porti. Mentre la marina mercantile francese perdeva terreno, quella napoletana cominciava realmente a svolgere un ruolo attivo, in barba a genovesi, inglesi, olandesi.
Esiste uno stretto parallelismo tra la situazione della bilancia commerciale e quella dei noli: “basterà pensare che proprio nel 1754 (anno in cui sembra potersi fissare il capovolgimento dell’andamento della bilancia commerciale tra i due paesi) si ha anche una contrazione del movimento della navigazione francese nel regno di Napoli”(15). A conferma di ciò vi sono i dati degli arrivi in Francia dai “ports d’Italie, d’Espagne et de Sicile” che presentano un movimento ascensionale inversamente proporzionale a quello delle navi francesi nei nostri porti. Il Sonnino(16), ha inoltre confrontato gli arrivi di navi francesi e napoletane nel porto di Livorno negli anni Settanta e Ottanta del secolo in questione. Egli ha notato che mentre i primi fanno registrare stabilità e anzi regresso, gli arrivi di navi napoletane, al contrario, seguono un aumento costante.
In conclusione, a partire orientativamente dalla metà del secolo, la marina napoletana riacquista forza e incisività, specie se paragonata alla decadenza della marina provenzale. Ripercorrendo le vicende del commercio e della navigazione franco-napoletani nel corso del Settecento, è possibile tracciare un itinerario in tre stadi. Dalla fine del secolo XVII al 1734-35, gli scambi (favorevoli alla Francia dal punto di vista della bilancia commerciale) avvenivano prevalentemente su legni napoletani e genovesi. Poi, a partire dai suddetti anni 1734-35, quando il regno delle Due Sicilie fu investito da una stagione di rinnovamento economico, i battelli francesi intervennero più attivamente in quei traffici.
Parallelamente aumentò l’entità degli scambi. L’inizio della guerra di successione austriaca diede vantaggio ai napoletani, i quali, approfittando della neutralità della loro bandiera, gestirono attivamente il trasporto dei carichi provenienti dalla Francia o ad essa destinati. Addirittura essi si inserirono nelle relazioni tra la Francia e il Levante. Naturalmente al termine della guerra, i francesi tentarono di recuperare i loro vantaggi, ma senza successo, anche perché un’altra guerra, quella dei Sette anni, sopravvenne ad aggravare le loro posizioni. Pertanto, al termine di quest’ultima guerra, il numero delle navi francesi che toccavano i porti del regno meridionale, rimase pressoché uguale a prima della guerra, mentre le spedizioni da Napoli, come si è visto, aumentavano. Non resta che ribadire quanto osservato prima: i napoletani nella seconda metà del secolo non furono più oggetto bensì soggetto delle relazioni commerciali con la Francia.
Ultimo aspetto, ma non ultimo in termini di importanza, a cui tanti documenti e Mémoires del tempo rimandano, è il contrabbando. Questo sembra essere l’elemento chiave grazie al quale i traffici franco-napoletani si moltiplicarono, nonostante i trattati ufficiali, come si è detto, attribuissero privilegi e monopoli a inglesi e genovesi. Ricostruire la storia del contrabbando purtroppo, per la sua stessa natura, non è possibile. Ma testimonianze, ufficiali e non, evidenziano che i primi tempi del regno del Borbone furono segnati da un prevalere del contrabbando francese, anche se proprio in quegli anni si cominciava ad avere un contrabbando esercitato dai napoletani. “E lentamente il gioco cambia: più che i francesi a far contrabbando d’entrata sono i napoletani che fanno contrabbando di uscita in direzione della Provenza. […] Certo si è che, solo da questo momento appaiono le prime lamentele da parte francese contro i Napoletani”(17).
Dunque le osservazioni fatte a proposito della gestione dei traffici e della marineria da parte dei napoletani nella seconda metà del secolo, le si può estendere anche alla pratica del contrabbando. Fino a quando erano i francesi a condurre il gioco, erano sempre loro i contrabbandieri. Ma scambiandosi le parti, francesi e napoletani, si dovettero necessariamente scambiare anche il commercio sotterraneo. Così, mentre i loro governi stipulavano convenzioni per ovviare al contrabbando, questo prosperava. Come? Grazie alla corruzione, a qualche mancia offerta alle guardie doganali affinché tutto alla fine si trovasse en règle.
Il contrabbando si avvaleva di vari escamotages: bandiere e passaporti falsi e false dichiarazioni di tonnellaggio dei battelli, come ha messo in risalto, tra gli altri, Dardel(18). Se poi tutto questo non fosse stato sufficiente, sarebbe venuto in soccorso l’uso della forza a “sistemare” tutto. Ora, il ricorso alle armi, non fa altro che tradurre una “metamorfosi della violazione della norma in norma”(19).
Il contrabbando veniva sentito ormai come la cosa più naturale del mondo. Perché altrimenti l’ambasciatore genovese scriveva con stile pacato e disinvolto al suo governo: “Si aspettano fra breve i bastimenti di bandiere franche con loro carichi di grano in contrabbando, e si conferma esservene più d’uno con bandiera mascherata.”?
La risposta ci viene offerta dal Galanti(20): “il contrabbando è divenuto presso di noi un commercio salutare, perché si oppone alla rovina dello Stato, alla quale sono dirette le antiche leggi che non ancora sono in tutto riformate”.
Alcune considerazioni
Le vicende di cui napoletani e siciliani, francesi e inglesi sono stati protagonisti lungo il XVIII secolo, inducono a una considerazione: il concetto di commercio non è da intendersi solo come semplice scambio di merci, ma va considerato nella pluralità delle sue manifestazioni e alla luce delle ragioni storiche e sociali in cui si inserisce. Frutto di politiche economico-sociali, potente attivatore di produzione di beni, fonte di guerre e contrasti internazionali, motivo di lunghe trattative diplomatiche, medium attraverso cui passano relazioni umane e culturali, il commercio da sempre rivela forze e debolezze di popoli e nazioni. E attraverso di esso è possibile scoprire tanti aspetti della storia di un paese, del suo approccio sia verso la politica interna che verso la politica estera, dei suoi usi e costumi, delle abitudini di vita, della mentalità dei suoi abitanti.
La ragione è semplice: le relazioni commerciali sono innanzi tutto relazioni umane. E l’uomo, questo animale sociale, da sempre crea relazioni nelle quali convergono esperienze di vita, di lavoro, di cultura. Tali relazioni sono al tempo stesso rivelatrici dell’innata tendenza dell’uomo a misurarsi col presente e a incidere sul futuro attraverso la sua capacità di fare, comprendere, progettare, programmare. Il commercio, come la storia, ha le sue strategie e risponde a delle logiche precise. Meglio: riflette la storia e ne fornisce una chiave di lettura. Così nella Francia del Sei e del Settecento il mercantilismo è la conseguenza di una politica assolutistica.
Nel regno delle Due Sicilie, sotto Carlo di Borbone, il contrabbando traduce il tentativo di superare un’empasse diplomatica oltre che economica, nella quale si sarebbero altrimenti arenati i rapporti commerciali con la Francia, i quali, invece, riprendono vigore proprio alla metà del Settecento. E questo avviene nonostante tutto: nonostante gl’inglesi, nonostante la mancanza di un trattato di commercio, nonostante i diritti esosi che i francesi dovevano pagare alla dogana di Napoli.
Cosa lega i due regni, dunque? Le affinità culturali, certo. E poi? I Borbone. E ciò non è di poco conto, perché Carlo III non può che favorire le relazioni con la Francia. Ma più di tutto la liason è costituita dalla complementarità dei due paesi: l’uno ha quello che all’altro manca. Non per questo comunque i rapporti tra napoletani e francesi sono idilliaci. Specie quando tra di loro si interpongono veneziani e genovesi. C’è però la volontà degli uomini, se mancano le agevolazioni governative, a portare avanti un commercio ricco di interessanti prospettive. Le circostanze storiche hanno contribuito, è vero, a provocare la decadenza del commercio francese nel regno meridionale (guerra di successione spagnola, guerra di successione austriaca ecc..) favorendo piuttosto gl’inglesi, ma i francesi non per questo intendono rinunciare all’olio di Napoli, che così bene si adatta alla produzione del sapone marsigliese, oppure al grano della Sicilia (tanto più che quello importato dal Levante non sempre basta) o alla seta per le fabbriche di Lione. E i napoletani continuano ad acquistare molti draps francesi, nonostante quelli inglesi siano spesso meno cari. Tuttavia queste relazioni commerciali, secondo i francesi, potrebbero essere ancora più fiorenti.
L’anonimo autore del Mémoire sur le commerce de la France et de l’Angleterre avec le Royaume de Naples ha tracciato un’analisi del commercio francese nel regno meridionale e ha evidenziato come le ragioni profonde della sua decadenza siano da ricercare non tanto nei singoli prodotti oggetto di scambio ma nella politica economica e commerciale che li sottende. Prezzi, prodotti e distribuzione non sono che una conseguenza. Il diverso approccio commerciale di Francia e Inghilterra nei confronti delle Due Sicilie esemplifica questo concetto: è la filosofia commerciale a influenzare la produzione, le vendite e, infine, i rapporti tra gli attori del commercio stesso.
E’ anche vero che gli esiti diversi a cui il commercio francese e quello inglese giungono nel regno delle Due Sicilie riflette due situazioni nazionali profondamente diverse: gl’inglesi partono avvantaggiati non solo per i privilegi di cui godono da parte del re delle Sicilie, ma anche perché la politica inglese incentiva il commercio molto più di quanto non faccia la Francia e, ancora meno, il regno di Napoli.
Per non parlare di quel vasto impero coloniale, realizzato attraverso le guerre, che alimenta le attività manifatturiere e provoca l’exploit del commercio internazionale. E non è affatto escluso che quest’ultimo sia alla base della nascita del capitalismo moderno, che si avrà proprio in Inghilterra. Tutti questi aspetti certamente creano un terreno favorevole alle iniziative e ai rapporti commerciali che gl’inglesi stabiliscono, non ultimi quelli con i napoletani. Tuttavia ritengo che senza la loro filosofia commerciale e la capacità di analizzare anche da un punto di vista psicologico l’economia napoletana, gl’inglesi, con tutti i loro privilegi, non avrebbero fatto molta strada. Non si può dire che i francesi non si rendessero conto di tutto ciò, come dimostrano le considerazioni dell’autore del Mémoire, brillanti e moderne almeno quanto lo è la struttura del commercio inglese.
Ma uscire dal circolo vizioso per i francesi non è facile: tenere testa agli inglesi è possibile solo migliorando l’immagine e la fattura dei prodotti. Ma per far questo bisogna pensare in termini di esigenze del mercato, o meglio dei mercati nei quali avviene il commercio, diversificando la produzione, perché non tutti i paesi sono uguali, e a interlocutori diversi corrispondono gusti diversi, frutto di culture e mentalità che bisogna saper penetrare. Allora il punto è sempre lo stesso: innanzitutto bisogna rivedere la politica economica e commerciale. E questa risente, in fin dei conti, della volontà politica. Allora ecco che per aggirare gli ostacoli si fanno avanti contrabbando ed escamotages diversi. E la “riforma” del commercio attende. I francesi non si accorgono che questo circolo vizioso può precludere le future esportazioni nelle Sicilie.
Ad ogni modo, i rapporti franco-napoletani continuano e anzi si intensificano, ma grazie al nuovo corso della politica inaugurata da Carlo III, la bilancia commerciale si fa sempre più favorevole al regno delle Due Sicilie. I napoletani cominciano, infatti, a gestire direttamente i rapporti con la Francia perché le migliorate condizioni economiche del regno incentivano la produzione. E allora entra in funzione quel meccanismo per cui produzione e commercio si spronano a vicenda e l’uno agisce da volano per l’altro. Se i napoletani e i siciliani non avessero approfittato della favorevole congiuntura politico-economica degli anni di Carlo di Borbone, probabilmente nulla sarebbe cambiato nella bilancia commerciale franco-napoletana, e in più i genovesi e i veneziani avrebbero continuato a gestire la maggior parte dei loro traffici. Tuttavia così non fu. Per questo, a mio avviso, le relazioni commerciali sono innanzitutto relazioni tra uomini. Uomini che determinano la qualità delle relazioni stesse e che, nel loro agire, si misurano con un complesso di variabili storico-culturali.