Premessa
Una delle norme sullo snellimento amministrativo e, segnatamente, l’art. 17, commi 51-58, della legge n. 127 del 15 maggio 1997 – la cosiddetta “Legge Bassanini bis” – consente agli Enti locali di procedere alla trasformazione delle aziende speciali, deputate alla gestione dei servizi pubblici, in società per azioni o a responsabilità limitata con capitale misto, pubblico e privato, anche a partecipazione minoritaria.
L’istituto della trasformazione, tuttavia, non è nuovo al sistema dei servizi pubblici locali. Con la legge di riforma dell’ordinamento delle Autonomie locali – la n. 142 dell’8 Giugno 1990, recepita nell’ordinamento siciliano con la legge regionale 11 dicembre 1991 n. 48 – il Legislatore disponeva, infatti, che Comuni e Province potessero organizzare l’erogazione dei servizi pubblici locali servendosi di determinati modelli di gestione tra i quali, in particolare, elencava “l’azienda speciale, anche per la gestione di più servizi sociali di rilevanza economica ed imprenditoriale” (art. 22), dotandola, rispetto al passato, “di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto” (art. 23).
Tale previsione normativa ha fatto sì che la maggior parte dei grandi Comuni d’Italia, ivi compresi i tre principali Capoluoghi di Provincia siciliani – Palermo, Catania e Messina – si sia trovata a dover trasformare le aziende municipali già esistenti, al fine di attribuire loro siffatta nuova veste giuridica, in forza di quanto previsto dall’art. 4, comma 3, del decreto legge 31 gennaio 1995, n. 26, convertito dalla legge 29 marzo 1995, n. 95, che ha imposto agli Enti locali di adeguare l’ordinamento delle proprie aziende speciali alle disposizioni contenute nel Capo VII della legge n. 142/90.
A distanza di dieci anni dalla legge n. 142/90, ci troviamo di fronte ad una situazione ancora abbastanza diversificata, in quanto mentre in quasi tutti gli Enti locali il processo di conversione da azienda municipalizzata (o provincializzata) in azienda speciale è stato portato a termine, in altri è ancora in corso l’ulteriore trasformazione da azienda speciale in società mista e in alcuni, pochi in verità, tale operazione è stata addirittura completata.
L’esperienza del Comune di Palermo si ascrive, ad esempio, nell’ambito della prima delle situazioni delineate. Tale Amministrazione, infatti, dopo aver portato a termine il primo passaggio concernente la trasformazione delle quattro aziende municipalizzate ad essa appartenenti in aziende speciali, pur avendo avviato il procedimento relativo all’ulteriore trasformazione delle medesime in società per azioni (sia pure cominciando da una soltanto di esse, l’azienda speciale AMAP), non è ancora riuscita, tuttavia, a completare detto processo di conversione per tutte quante le aziende erogatrici di pubblici servizi.
Ebbene, dopo l’esperienza effettuata dagli Enti locali a seguito dell’emanazione della legge n. 142/90, appare, a questo punto, assai interessante interrogarsi, in particolare, sul motivo per il quale il Legislatore del ‘97 abbia scelto di insistere, al fine di porre compiutamente in essere la riforma dei servizi pubblici locali, sull’utilizzo (peraltro facoltativo) dello strumento giuridico della trasformazione e misurarne l’impatto dell’applicazione nel diritto pubblico.
Premettendo, a tale scopo, soltanto alcuni brevi cenni sull’istituto civilistico della trasformazione di società, si cercherà di focalizzare le modalità mediante le quali il Legislatore -nel 1990 prima e nel 1997 poi- è intervenuto per attuare la riorganizzazione del sistema dei servizi pubblici locali, analizzando la nozione di “servizio pubblico” desumibile dalla legiferazione più recente, nonché le varie forme di gestione di esso, con particolare riguardo all’azienda speciale, prevista dall’art. 22, comma 3, lett. c) della legge n. 142/90, alla società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, di cui alla lett.e) della medesima norma, oggi modificata dall’art.17, comma 58 della legge n. 127/97, ovvero senza partecipazione pubblica maggioritaria, a norma dell’art. 12, comma 1, della legge 23 dicembre 1992, n. 498.
Si tenterà, quindi, di evidenziare, anche alla luce dell’esperienza siciliana, le peculiarità che hanno caratterizzato l’applicazione in ambito pubblico dello strumento della trasformazione e che sono state inevitabilmente determinate dalla connotazione di soggetto pubblico, e non privato, del soggetto agente.
E proprio in considerazione del frenetico lavorìo parlamentare che si svolge in atto sui temi della riforma dei servizi pubblici locali, si reputa di notevole interesse il poter ripercorrere le fasi di un lento processo di riforma, avviatosi da un decennio a questa parte fino ad arrivare alla novella “Bassanini” del ‘97, attraverso il quale il Legislatore ha intrapreso un progetto di riorganizzazione, in chiave privatistica, degli apparati di gestione dei servizi pubblici locali, sì da improntarne l’esercizio a criteri di produttività, efficacia, efficienza ed economicità. Nell’ambito di tale ricostruzione, assume altresì rilievo l’esame dell’eventuale “impatto” dell’ingresso dello strumento societario della trasformazione nel mondo delle organizzazioni pubbliche, che si tenterà, oltretutto, di esaminare, al fine di comprendere, per tale via, le motivazioni che hanno indotto il Legislatore ad optare per l’utilizzazione di tale istituto, verificandone le conseguenze fino a questo momento percepibili.
L’istituto civilistico della trasformazione societaria
Il Codice Civile, agli artt. 2498-2500, disciplina, sia pure in maniera non del tutto esaustiva, la trasformazione delle società e la definisce letteralmente un “cambiamento del tipo di società” (art. 2437, comma 1)(1).
Il dettato normativo contenuto nei predetti articoli risulta, infatti, abbastanza scarno, in quanto regola esclusivamente la trasformazione dal genere delle società di persone (in nome collettivo o in accomandita semplice), prive, cioè, di personalità giuridica, in quello delle società di capitali, che ne sono, al contrario, dotate.
Nonostante l’art. 2498 c.c., dunque, menzioni soltanto l’ipotesi “…di trasformazione di una società in nome collettivo o in accomandita semplice in società per azioni, in accomandita per azioni o a responsabilità limitata…”, la dottrina, tuttavia, unanimemente ammette che, nonostante il tenore letterale di tale norma, possa realizzarsi anche l’ipotesi inversa (ossia da società di capitali in società di persone) nonché la trasformazione di una società semplice in società di persone o di capitali e viceversa, purché, in questo secondo caso, la società trasformata non si ritrovi, dopo tale trasformazione, ad esercitare un’attività commerciale(2).
Con la trasformazione, in altri termini, la società realizza il passaggio da un tipo societario ad un altro e viceversa, in base alla decisione di adottare un modello diverso da quello utilizzato, al fine di sottrarsi, così, alle norme che l’hanno disciplinata fino a quel momento e di assoggettarsi, per il futuro, al regime normativo proprio del nuovo tipo(3).
Dubbi sono sorti in dottrina sulla natura giuridica da attribuire alla trasformazione ma, superata definitivamente quella teoria che ricollega tale figura ad un fenomeno di tipo successorio come vicenda estintivo-costitutiva(4), prevale, ormai del tutto, l’opinione secondo cui la trasformazione viene considerata una modificazione dell’atto costitutivo societario(5). Con la trasformazione non si verifica l’estinzione di una società, seguita immediatamente dalla nascita di una diversa; la società che si trasforma continua a vivere e ad operare, resta sempre la medesima: essa cambia soltanto veste legale, ossia il suo ordinamento interno. Gli elementi fondamentali costitutivi della società (quali la sede, l’oggetto, il capitale, ecc.), vengono, pertanto, a subire un cambiamento soltanto qualora in connessione con il tipo societario che si abbandona, avendo la trasformazione la fondamentale funzione di mantenere intatti i medesimi (e, con essi, l’identità della società stessa) e non di alterarli. Nella prassi accade sovente, tuttavia, che una società adotti una delibera di trasformazione unitamente ad altre modifiche statutarie, quali, ad esempio, aumento o riduzione del capitale sociale, trasferimento della sede, cambiamento dell’oggetto societario, ecc.
La figura della trasformazione, ricostruita come semplice vicenda modificativa dell’atto costitutivo di società, appare, pertanto, un duttile strumento, offerto all’autonomia privata dal Legislatore, che consente ad una società di adattare il proprio assetto organizzativo alle nuove esigenze sopravvenute durante la vita della stessa. Esso permette ai soci di realizzare tale obiettivo, evitando loro di dover necessariamente procedere a liquidare la precedente società e a costituirne una nuova, con notevoli vantaggi anche di carattere fiscale.
La legge stabilisce, infine, che la trasformazione, alla stregua di qualsiasi modificazione dell’atto costitutivo societario, si realizzi formalmente in base ad una deliberazione dell’organo assembleare, la quale “deve risultare da atto pubblico e contenere le indicazioni prescritte dalla legge per l’atto costitutivo del tipo di società adottato” (art.2498, comma 1, c.c.). Ciò significa che la trasformazione deve essere deliberata secondo le modalità previste dalla legge per le modificazioni dell’atto costitutivo di società e con l’osservanza delle relative maggioranze(6).
Tale deliberazione ha la precipua funzione di fissare le basi organizzative della società, la quale, dotata di una nuova veste giuridica, viene fuori in forza del cambiamento del tipo societario, il cui effetto di maggior rilievo si esplica, per altro, sul regime di responsabilità dei soci.
La riforma dei servizi pubblici locali: il quadro normativo e la nozione di servizio pubblico locale
Come anticipato nella premessa, il Legislatore nazionale ha avviato un ampio processo di riorganizzazione del sistema dei servizi pubblici con la legge sul nuovo ordinamento delle Autonomie locali – la n. 142 del 1990 – la quale pone in essere i presupposti per l’attuazione della riforma del precedente regime.
Quest’ultimo, fino all’emanazione della legge n. 142/90, era fondamentalmente retto dal testo unico sulla municipalizzazione, T.U. 15 ottobre 1925, n. 2578, nonché dal relativo regolamento approvato con D.P.R. 4 ottobre 1986, n. 902. Il primo disciplinava l’intero assetto di base dei servizi locali, avendo sostanzialmente recepito la legge 29 marzo 1903, n. 103 (Legge Giolitti), che era stata la prima normativa emanata in materia di assunzione diretta di servizi pubblici locali da parte di Comuni e Province(7); il secondo, invece, costituisce un testo organico di raccolta delle innovazioni, introdotte soprattutto in materia di gestione aziendale, quali, ad esempio, l’obbligo del pareggio di bilancio (legge 27 aprile 1978, n. 143), l’introduzione dell’adozione obbligatoria da parte delle aziende di un bilancio pluriennale e di un piano di programma (legge 23 aprile 1981, n. 153), nonché quella del Collegio dei revisori dei conti (legge 26 febbraio 1982, n. 52 e legge 26 aprile 1983, n. 131).
La legge n. 142 del 1990 – che è stata recepita, come si è già detto, dalla Regione Siciliana con L.R. n. 48/91 – ha inteso favorire la spinta verso la privatizzazione della gestione dei servizi pubblici locali ed, improntando la riorganizzazione dei medesimi a criteri di efficacia, economicità, produttività e funzionalità(8), ha dedicato ai servizi pubblici locali l’intero capo VII ove, oltre ad accennarne una definizione, ne elenca le relative forme di gestione nonché le modalità di svolgimento, in associazione o in convenzione, delle quali Comuni e Province possono servirsi(9).
E’ appena il caso di osservare che tutta la legislazione sui servizi pubblici viene considerata settoriale e specifica, priva, cioé, del carattere della generalità. Come sostenuto dalla dottrina più attenta, “nel nostro ordinamento amministrativo è sempre mancata una disciplina generale dei servizi statali o nazionali, così come dei servizi regionali, perché è stata seguita la soluzione di una loro esclusiva regolamentazione di settore”(10).
Tale settorialità deriva, peraltro, dalla diversificazione per settori, tipica della normativa comunitaria, la quale, pur imponendo “comunque un approccio settoriale in ragione della propria ricaduta nell’ordinamento interno”, non “esclude però una legge generale sui servizi pubblici, che abbia un’impostazione analoga alla legge 7 agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo”(11).
Gli articoli 22 e 23 della legge n. 142/90, i quali elencano e disciplinano le diverse forme di gestione consentite in materia di servizi pubblici locali (in economia, in concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale, a mezzo di istituzione, a mezzo di società mista), sono le norme alle quali conviene anzitutto fare riferimento, al fine di evincere, se possibile, la nozione di servizio pubblico utilizzata dal Legislatore(12) nonché, in particolare, la nuova veste giuridica che con tale normativa è stata attribuita alla figura dell’azienda speciale.
Riguardo a tali disposizioni è stato, peraltro, sottolineato dalla dottrina più recente come con esse si sia voluto, in definitiva, introdurre delle norme di natura programmatica, contenenti principi innovativi in materia di servizi pubblici locali, ai quali conformarsi in sede di adozione dei propri statuti da parte di Comuni e Province, senza, tuttavia, intendere con ciò abrogare del tutto le norme del vecchio regime, onde potere ricomprendere in un unico quadro normativo tutte le disposizioni succedutesi nel tempo e garantire, per tale via, una certa “adeguatezza gestionale, efficacia ed economicità per i servizi pubblici locali”(13).
Quanto, poi, alla nozione di “servizio pubblico locale”, di essa non è stata mai fornita dal Legislatore una definizione chiara ed unitaria.
Un primo riferimento normativo si ritrova, anzitutto, nell’art. 43 della Costituzione ove si parla – pur senza ricavarne una definizione diretta – di “servizi pubblici essenziali”, che la dottrina non ha esitato a definire quali “attività economiche che incidono direttamente sulla collettività e che, per questa loro caratteristica, possono essere esercitate dallo Stato e dagli enti pubblici”(14).
L’art. 22 della legge n. 142/90, d’altra parte, non fornisce alcuna indicazione su che cosa si debba intendere per servizio pubblico, limitandosi soltanto a menzionarne l’oggetto, ossia la produzione del bene, nonché lo svolgimento dell’attività rivolta a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile della comunità locale(15).
La circostanza, dunque, che neanche dalla legislazione ordinaria sui servizi pubblici sia possibile evincere una nozione in positivo dei medesimi ha indotto la dottrina a supporre “che il legislatore si sia ben poco preoccupato di delimitare il campo” ad essi relativo, reputando assai arduo addivenire ad una definizione unitaria di “servizio pubblico”(16).
Indubbiamente notevoli, infatti, sono stati gli sforzi posti in essere dalla dottrina al fine di elaborare una nozione precisa ed esaustiva di “servizio pubblico locale”, che fosse valevole universalmente(17).
A tale scopo sono state, di volta in volta, formulate diverse teorizzazioni sul concetto di servizio pubblico(18), che ne hanno, di volta in volta, messo in luce ora l’aspetto soggettivo ora quello oggettivo.
Secondo la teoria soggettiva, per “servizio pubblico” deve intendersi quella attività che viene svolta da un Ente pubblico ovvero da un soggetto privato che sia legato, però, funzionalmente con la P.A. che ha disposto l’erogazione del servizio. Si tratta di una nozione che si fonda sulla natura del soggetto gestore e, come tale, contestata dai sostenitori della teoria oggettiva di servizio pubblico(19), la quale fa leva, viceversa, sulla destinazione del servizio ad una pluralità non ristretta di soggetti(20).
La dottrina più recente(21) propende, tuttavia, per un terzo orientamento intermedio che individua nel servizio pubblico una “attività di facere (con eventuale dare strumentale al facere stesso) non autoritativa, o limitatamente autoritativa, svolta da un Ente pubblico … attraverso un modello di organizzazione tipizzato e finalizzato al perseguimento di un fine sociale”, quale bisogno fondamentale della collettività che l’Ente medesimo riconosce attraverso un proprio atto unilaterale.
Alla nozione di servizio pubblico, in definitiva, non è stata mai attribuita da dottrina e giurisprudenza una connotazione univoca e ben precisa, sicché, alla stato attuale, può convenirsi con l’opinione secondo la quale tale nozione si riferirebbe “ad un fenomeno i cui indici di esistenza saranno individuati, a seconda dei casi, dal Legislatore o dall’Ente locale territoriale e infine riesaminati, sotto il profilo della ragionevolezza, dal giudice costituzionale o dal giudice amministrativo”(22).
E’ auspicabile, ad ogni modo, che il Legislatore possa risolvere questo nodo dogmatico con l’attuazione della riforma, prossima ad essere varata, sui servizi pubblici locali, il cui disegno di legge si trova in discussione (e, si spera, ancora per poco) attualmente in Parlamento.
Le forme di gestione
Si è già accennato in premessa come il Legislatore del ‘97, con la legge “Bassanini bis”, prevedendo per gli Enti locali la facoltà di procedere alla trasformazione delle proprie aziende di gestione ed erogazione dei servizi pubblici locali in società per azioni, o anche a responsabilità limitata, abbia chiaramente dimostrato di preferire, a questi fini, il modello societario.
Già sette anni prima, tuttavia, aveva manifestato tale preferenza e, precisamente, con la legge n. 142/90, ove, elencando all’art. 22 le possibili forme di gestione dei servizi pubblici locali da parte degli Enti pubblici territoriali, alla lett. e) del comma terzo faceva menzione della “società per azioni a prevalente capitale pubblico locale”, quale tipo societario da utilizzare “qualora si renda opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati”.
L’art. 22 dispone, segnatamente, che i “comuni e le province, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”, indicando, così, i presupposti in base ai quali l’assunzione di un servizio pubblico debba essere giustificata(23). Stabilisce, inoltre, che dette attività possono essere esercitate secondo alcune forme di gestione dei servizi che vengono, dal medesimo art. 22, tassativamente individuate come segue: 1) in economia; 2) in concessione a terzi; 3) a mezzo di azienda speciale; 4) a mezzo di istituzione; 5) a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico.
La legge n. 142/90 ha formulato, in altri termini, una tipizzazione di alcuni modelli organizzativi attraverso i quali conseguire determinati fini sociali, nella cui attività l’art. 22 individua l’oggetto dei servizi pubblici(24).
L’art. 22, comma 2, dispone inoltre che è la legge a stabilire quali servizi debbano essere “riservati in via esclusiva ai comuni e alle province”, operando, in sostanza, una vera e propria riserva di legge.
Dovendo, pertanto, essere soltanto la legge a prevedere il modello di gestione di un servizio pubblico, istituendolo direttamente o prevedendone le modalità di istituzione da parte della P.A. (in regime di monopolio o in regime di concorrenza), si può quindi affermare, con la migliore dottrina, che anche a livello locale “la natura pubblica del servizio trova riscontro nella previsione normativa della modalità di gestione, in quanto occorre garantire la relativa conduzione in termini rispondenti alle finalità per cui è stato istituito”. Ne deriva, pertanto, “che ogni servizio pubblico, e segnatamente quello locale, non può essere organizzato in forma libera, ma secondo i tipi previsti dall’ordinamento”(25). Nel settore degli Enti territoriali, peraltro, proprio in forza dell’autonomia costituzionalmente garantita di cui essi godono, la legge ha sempre lasciato alle Amministrazioni locali ampia facoltà di scegliere discrezionalmente il modello gestorio ritenuto più rispondente alle esigenze delle relative comunità(26).
Il primo degli strumenti che la legge n. 142/90 mette a disposizione degli Enti locali per l’esercizio dei servizi pubblici è quello della cosiddetta “gestione in economia”, previsto dalla lett. a) del comma terzo dell’art. 22, a norma del quale essa riguarda servizi di modesta dimensione od aventi caratteristiche tali per cui “non sia opportuno costituire un’istituzione o una azienda”, di cui alle rispettive lett. d) e c) della medesima disposizione. Da tale configurazione deriva, anzitutto, che la gestione in economia non comporta la creazione di un’organizzazione differenziata dall’Ente locale di riferimento, rispetto al quale, peraltro, non vi è separazione dal punto di vista contabile. Al contrario, l’attività effettuata attraverso la forma della gestione in economia viene inglobata nel bilancio generale dell’Ente, con la conseguenza che ne risultano difficilmente verificabili i relativi risultati nonché la rispondenza di tale strumento ai criteri di economicità ed efficienza di gestione, ai quali il Legislatore ha ispirato il proprio intervento normativo di riforma. Sono questi i motivi, peraltro, che inducono la dottrina a considerare quella “in economia” una forma residuale di gestione dei servizi pubblici(27), da utilizzare cioè quando, per dimensioni o caratteristiche del servizio, non sia opportuna l’adozione di un altro modello gestorio, tra quelli che sono elencati dall’art. 22 della legge n. 142/90.
Un altro strumento, offerto dalla vigente legislazione, è quello della “concessione a terzi” (art. 22, comma 3, lett. b), che può essere utilizzato “quando sussistano ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale” e solo laddove il servizio concesso sia riservato in via esclusiva all’Ente locale concedente. Tale forma di gestione implica che il servizio pubblico venga svolto da un soggetto diverso dall’Ente concedente. Il rapporto tra quest’ultimo e il concessionario viene regolato da una concessione-contratto oppure da una convenzione, in cui siano indicate le modalità di gestione del servizio(28).
Il terzo modello gestorio che l’art. 22 della legge n. 142/90 menziona è quello dell’azienda speciale(29), previsto “anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale” (comma 3, lett. c). E’ questa una forma di gestione già prevista nel nostro ordinamento dal R.D. n. 2578 del 1925 e profondamente innovata dalla legge n. 142/90, la quale ha attribuito all’azienda speciale un diverso regime consistente nel conferimento “di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto” (art. 23)(30). Conseguenza immediata di tale innovazione è stata la configurabilità dell’azienda speciale quale organismo autonomo e distinto dall’Ente locale, dotato di autonomia nella gestione del servizio, attività che deve essere informata a criteri di “efficacia, efficienza ed economicità” con obbligo “del pareggio di bilancio da perseguire attraverso l’equilibrio dei costi e dei ricavi, compresi i trasferimenti” (art. 23, comma 4)(31).
Scopo di siffatta previsione, almeno nelle intenzioni del Legislatore, è quella di consentire alle aziende speciali (come all’altra figura della “istituzione”) di non accumulare più quelle passività di gestione che in passato avevano considerevolmente compromesso gli equilibri di bilancio degli Enti locali, loro promotori.
Un modello gestorio di nuova introduzione è, invece, quello della cosiddetta “istituzione”, previsto dalla lett. d) del terzo comma dell’art. 22 della legge n. 142/90 “per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale” e di dimensione non modesta(32). L’istituzione, come l’azienda speciale, viene dalla legge definita “organismo strumentale dell’ente locale … dotato di autonomia gestionale” (art. 23, comma 2), differisce, tuttavia, dall’azienda speciale per il fatto di non essere dotata di personalità giuridica. Per tale ragione, mentre “l’ordinamento ed il funzionamento delle aziende speciali sono disciplinati dal proprio statuto e dai regolamenti”, l’organizzazione, l’ordinamento interno ed il funzionamento delle istituzioni “sono disciplinati dallo statuto e dai regolamenti dell’ente locale da cui dipendono” (art. 23, comma 5)(33).
Con riferimento alla quinta ed ultima forma di gestione, la lett. e) del terzo comma dell’art. 22 della legge n. 142/90 menzionava la “società per azioni a prevalente capitale pubblico locale”, da utilizzare qualora si rendesse “opportuna, in relazione al servizio da erogare la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati”(34). Detta disposizione è stata recentemente modificata dall’art. 17, comma 58 della legge n. 127/97, il quale, accanto alla S.p.a., ha introdotto, quale altra possibile forma di gestione dei servizi pubblici locali, la società a responsabilità limitata, sempre “a prevalente capitale pubblico locale”. Entrambe le forme societarie vanno costituite o partecipate dall’Ente “titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o all’ambito territoriale la partecipazione di più soggetti pubblici o privati”.
Dottrina e giurisprudenza, tuttavia, già prima di tale ultima novella propendevano per un’ampia interpretazione dell’art. 22, comma terzo, lett. e), secondo la quale l’espressione “società per azioni” venisse riferita al genere “società di capitali”, fra cui rientra anche il tipo societario della S.r.l., dal momento che “non si ravvisa alcuna diversità apprezzabile … tra la formula della S.p.a. e quella della S.r.l.”(35).
Occorre, ancora, precisare che la figura della società mista è stata ulteriormente definita dall’art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, con il quale il Legislatore ha concesso a Comuni e Province la possibilità di costituire “apposite società per azioni … senza il vincolo della proprietà maggioritaria”, di cui alla lett. e), comma 3, dell’art. 22 della legge n. 142/90, per l’esercizio dei servizi pubblici e per la realizzazione delle infrastrutture e delle opere necessarie al corretto svolgimento dei medesimi.
A fronte, poi, della pluralità degli strumenti appena descritti, predisposti per l’esercizio dei servizi pubblici locali, si pone, per le Amministrazioni comunali e provinciali, il problema della scelta della forma di gestione economicamente e funzionalmente più vantaggiosa, da effettuare conformemente ai criteri stabiliti dalla legge e dai rispettivi statuti.
Con riferimento, in particolare, all’esercizio dell’attività economica in forma imprenditoriale da parte dello Stato e degli Enti pubblici territoriali, nel nostro ordinamento giuridico è consentito alle imprese pubbliche di operare “prevalentemente attraverso l’utilizzazione degli schemi privatistici, in particolare di quello della società per azioni”(36).
Tale modello societario, la cui utilizzazione è stata prevista, come accennato, dapprima con la formula di partecipazione “a prevalente capitale pubblico locale” (art. 22, comma 3, lett. e) della legge n. 142/90) e, successivamente, “senza il vincolo della proprietà mggioritaria di cui al comma 3, lettera e) dell’articolo 22 della legge 8 giugno 1990” (art. 12, comma 1, della legge n. 498/92), si pone in entrambe le suddette forme di partecipazione come la struttura organizzativa più diffusa per lo svolgimento dell’attività d’impresa, anche nell’ambito dell’iniziativa pubblica in campo economico.
Riguardo, poi, alla gestione dei servizi pubblici locali, come per l’azienda speciale, anche per la S.p.a. con capitale misto, pubblico e privato, è possibile, quindi, affermare che essa costituisce il modello organizzativo “eletto” per l’esercizio in forma di impresa della relativa attività di erogazione dei medesimi.
La possibilità, concessa dal Legislatore a Comuni e Province, di utilizzare il modello societario della società per azioni implica, di per se stessa, il coinvolgimento di soggetti terzi, siano essi privati o pubblici, nel capitale di rischio della società.
La forma della società per azioni a prevalente capitale pubblico locale rappresenta uno strumento privatistico, soggetto alla disciplina delle società commerciali (inclusa quella fallimentare) prevista dal Codice Civile, che, nelle intenzioni del Legislatore, va utilizzato per l’affidamento di servizi caratterizzati da un elevato livello di imprenditorialità e suscettibili di produrre utili di gestione, sì da coinvolgere, come si è detto, l’interesse di altri soggetti pubblici e privati alla partecipazione nella formazione del capitale azionario.
Il ricorso alla società per azioni per l’esercizio di un servizio pubblico viene preferito dalla legge, in quanto modello di gestione in grado di raggiungere nel minor tempo possibile i fini pubblici per i quali un dato servizio è stato creato e dotato di una struttura snella ed elastica, capace di organizzare al proprio interno la collaborazione tra Enti locali ed altri soggetti e di consentire rapidità nelle decisioni.
Sono inoltre notevoli, come accennato, le novità introdotte in questo campo dalla legge n. 127/97 (legge “Bassanini bis”), la quale con l’art. 17, comma 58, ha riformato il tenore della norma contenuta nell’art. 22, comma 3, lett. e) della legge n. 142/90.
Viene, anzitutto, superato il limite posto da quest’ultima norma, che menziona tra i tipi di società di capitali esclusivamente la società per azioni, in quanto il Legislatore del ‘97 aggiunge a questa forma quella della società a responsabilità limitata. Tale limite, in verità, era già stato superato dalla giurisprudenza(37), la quale aveva proposto un’interpretazione non restrittiva dell’art. 22, asserendo che l’espressione “società per azioni” dovesse estensivamente intendersi come sinonimo di “società di capitali”, all’interno delle quali è annoverabile anche la società a responsabilità limitata.
Una “sorpresa” della legge n. 127/97 viene costituita dalla circostanza che la medesima ha preso in considerazione unicamente il modello societario “a prevalente capitale pubblico locale”, dimostrando in tal modo di non tenere conto della diversa ipotesi, prima nominata, della società a prevalente capitale privato, ossia a partecipazione pubblica minoritaria. Sulla base di tale rilievo, parte della dottrina sostiene che siffatta nuova formulazione, “costituendo ius superveniens rispetto all’art. 12 della legge 23 dicembre 1992, n. 498, potrebbe ingenerare seri dubbi sulla intentio legis di conservare lo strumento della società a capitale pubblico minoritario”(38).
Non vi è dubbio, tuttavia, che con l’introduzione della società per azioni, operata dalla legge n. 142/90, fra i possibili modelli organizzativi a disposizione degli Enti locali per espletare le attività necessarie al conseguimento dei loro fini sociali ed economici, sia stato affermato il potere contrattuale privato di Comuni e Province, risolvendo, in tal modo, la questione, ampiamente dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza già prima della riforma delle Autonomie locali, circa l’ammissibilità dell’autonomia privata in capo agli Enti pubblici(39).
E’ questo il motivo per il quale l’innovazione introdotta dall’art. 22, comma 3, lett. e), lungamente attesa soprattutto dagli amministratori pubblici, era stata salutata con grande favore, in quanto colmava un vuoto normativo da tempo avvertito, con la creazione di “una struttura organizzativa di diritto privato, esterna alla pubblica Amministrazione, ad essa legata da rapporti di diritto privato ma completamente autonoma e svincolata”(40).
La riforma dei servizi pubblici locali: peculiarità degli interventi legislativi
In attesa che venga emanata la nuova legge di riforma dei servizi pubblici locali, al fine di analizzare quello che si potrebbe definire “l’ingresso” nell’ambito del diritto pubblico dello strumento societario della trasformazione, finalizzato all’ottimizzazione dell’esercizio dei pubblici servizi, occorre fare riferimento ai due principali interventi normativi che hanno contrassegnato l’ormai quasi decennale processo di riforma relativo al riordino del sistema dei servizi pubblici locali nel nostro Paese: la legge n. 142/90 e la legge n. 127/97.
Con la prima normativa, che ha disciplinato il nuovo ordinamento delle Autonomie locali, al fine di affrontare il problema della diffusa inefficienza dei servizi pubblici(41), è stato dato un notevole impulso alla riorganizzazione del sistema relativo ai servizi pubblici locali. Con la legge n. 127/97, invece, sono state introdotte importanti novità nell’ambito delle forme di gestione dei predetti servizi; è stato previsto l’utilizzo (facoltativo) dello strumento civilistico della trasformazione, al fine di favorire l’adozione del modello gestorio della società per azioni a capitale misto, considerata dal Legislatore struttura organizzativa idonea, più delle altre, ad operare uno snellimento e, quindi, una maggiore velocizzazione delle attività finalizzate all’esercizio dei servizi pubblici locali nonché a conseguirne, contemporaneamente, l’ottimizzazione dei risultati di gestione.
Come si è già avuto modo di esporre, con le norme contenute nella legge n. 142/90 – gli artt. 22 e 23 – il Legislatore ha inteso rivedere l’intero sistema dei modelli di gestione dei servizi pubblici locali, introducendone dei nuovi ovvero rinnovando il regime giuridico di quelli allora già esistenti nel nostro ordinamento.
Nel caso dell’azienda speciale, il Legislatore ha proceduto, come è noto, conferendo a questa figura una nuova veste giuridica rispetto a quella delle precedenti figure dell’azienda municipalizzata o provincializzata, deputate all’esercizio di pubblici servizi nell’ambito delle rispettive comunità.
La predetta normativa, però, non ha innovato automaticamente il regime delle predette aziende, facendo piuttosto ricadere sugli Enti locali l’obbligo di provvedere alla conversione di esse secondo il nuovo modello giuridico.
Con l’art. 4, comma 3, del D.L. n. 26/95, convertito con legge n. 95/95, infatti, era stato fissato il termine del 30 settembre 1995 entro il quale ciascun Ente locale avrebbe dovuto provvedere a conformare l’ordinamento delle proprie aziende speciali ai dettami dell’art.23 della legge n. 142/90, procedendo entro i successivi novanta giorni ad iscriverle nel registro delle imprese.
Si può affermare, anzitutto, che ormai quasi tutti i Comuni, grandi e medio-grandi, del Paese hanno provveduto in tal senso, sia pure andando oltre il predetto termine(42).
Si deve considerare, in particolare, che l’art. 4 del citato decreto-legge convertito, nell’imporre a Comuni e Province il descritto adempimento, non si esprime in termini di trasformazione dell’ente-azienda ma letteralmente dispone: “Gli enti locali adeguano l’ordinamento delle aziende speciali alle disposizioni dell’art. 23, L. 8 giugno 1990, n. 142…”
E’ prevalso, tuttavia, sia in dottrina che nell’ambito delle Amministrazioni pubbliche, il convincimento che tale adeguamento dovesse essere operativamente attuato mediante un atto di trasformazione, il cui procedimento amministrativo viene a caratterizzarsi per la peculiarità della natura del soggetto agente, che, trattandosi nella fattispecie di un Ente locale, è una persona giuridica pubblica e non privata.
In base a quanto operato da parte della quasi totalità dei Comuni, si può, infatti, senza dubbio affermare che il processo di conversione delle aziende municipalizzate in aziende speciali sia stato tecnicamente realizzato intendendo il medesimo alla stregua di un vero e proprio procedimento di trasformazione.
Nel momento attuale, a conclusione della fase del passaggio al nuovo regime delle aziende speciali, non manca, comunque, in dottrina chi sostiene che si sarebbe dovuto considerare e definire tale operazione piuttosto come un procedimento di conversione o di adeguamento, integrando la medesima, nella sostanza, un semplice cambiamento di veste giuridica.
Si potrebbe, infatti, addurre che neanche le norme contenute nella legge n. 142/90 forniscono indicazioni utili al fine di definire necessariamente come una trasformazione tout court, intesa in senso privatistico, il procedimento per la conversione delle aziende erogatrici dei servizi pubblici locali in aziende speciali, costituendo, quest’ultimo, piuttosto un procedimento di diversa natura, che solo impropriamente viene definito “trasformazione”.
A tale affermazione è possibile opporre, tuttavia, che, nonostante il Legislatore, del ‘90 e del ‘95, non abbia mai espressamente fatto menzione dell’istituto della trasformazione, la ratio legis dei predetti interventi normativi sia stata pur sempre quella di conferire alle aziende speciali preesistenti, come si è visto, una nuova veste giuridica, la quale circostanza, soprattutto in considerazione del conferimento ad esse della personalità giuridica, ha posto questi Enti, né più né meno, sullo stesso piano di quelle società di persone, le quali, trovandosi sfornite di tale speciale attribuzione, decidano di procedere al cambiamento del proprio tipo societario.
Tale opinione viene ulteriormente confermata dalle indicazioni procedurali che il Legislatore, sia pure laconicamente, ha dettato per la regolamentazione di tale fattispecie. Egli, infatti, alla stregua di qualunque costituzione di società che debba acquistare la personalità giuridica ovvero di qualsivoglia modificazione dell’atto costitutivo di società di capitali, impone l’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese, aggiungendo “per gli effetti di cui al primo comma dell’articolo 2331 del codice civile”(43).
Si deve, pertanto, asserire quanto affermato dal Consiglio di Stato nel parere n. 405 del 18 maggio 1993, e cioè che la legge n.142/90 “non ha trasformato ex lege le aziende municipalizzate in aziende speciali a carattere imprenditoriale” e dotate di personalità giuridica, che acquistano dal momento della loro effettiva costituzione, cui si correlano l’approvazione del relativo statuto e l’iscrizione nel registro delle imprese. Se, infatti, l’art. 22 si è limitato ad indicare “soltanto i possibili modi di gestione dei servizi pubblici”, l’art. 23 ha “definito i caratteri e la natura delle aziende speciali, senza per questo ovviamente contraddire l’articolo precedente nel senso di stabilire la sostituzione delle nuove figure soggettive alle preesistenti aziende”.
L’espressione usata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, alludendo chiaramente alla figura della trasformazione, costituisce ancora una conferma di quale sia stata la natura giuridica unanimemente attribuita al procedimento di adeguamento “delle aziende speciali alle disposizioni dell’art. 23, L. 8 giugno 1990, n. 142”, imposto dalla legge a Comuni e Province.
Non alla stessa maniera si è comportato il Legislatore del ‘97, invece, con riguardo al passaggio degli enti strumentali per l’erogazione dei servizi pubblici dalla forma di azienda speciale al modello di società per azioni, avendo scelto, questa volta – e probabilmente sulla scorta della precedente esperienza – di definire tecnicamente come “trasformazione” il relativo procedimento.
Con riguardo, poi, alle modalità operative mediante le quali tutti gli Enti locali, e soprattutto i Comuni – compresi quelli siciliani(44) -, si sono trovati a dover procedere alla trasformazione delle proprie aziende secondo il nuovo assetto giuridico a queste ultime conferito dalla legge, bisogna, da ultimo, segnalare come essi abbiano dovuto risolvere molteplici complesse questioni, prima di avviare il procedimento amministrativo per l’attuazione della trasformazione delle aziende municipalizzate in aziende speciali.
Quanto, invece, alla trasformazione delle aziende speciali in società per azioni, essa, come già detto, è stata regolamentata dall’art. 17, commi 51-57, della legge n. 127/97, che detta, a tal fine, una procedura semplificata.
Peculiarità dell’applicazione dello strumento societario della trasformazione alle aziende pubbliche
Con riguardo, ancora, alle modalità operative attraverso cui le aziende esercenti pubblici servizi, municipalizzate o provincializzate, si trasformano in aziende speciali e da queste in società per azioni, appare interessante tentare di analizzare in quale modo lo strumento societario della trasformazione sia stato applicato nei confronti di tali organizzazioni pubbliche, al fine di verificare se l’utilizzazione, consentita dal Legislatore in tale ambito, non abbia, eventualmente, presentato qualche peculiarità rispetto al settore privatistico.
La legge, anzitutto, fa consistere la deliberazione assembleare di trasformazione societaria in un verbale d’assemblea straordinaria, redatto per atto pubblico notarile, per mezzo del quale viene manifestata all’esterno la volontà dei soci di trasformare la loro società.
Il verbale di assemblea costituisce, dunque, un atto documentale con funzione di conferire alla predetta volontà un rivestimento giuridico-formale in grado di dare certezza delle dichiarazioni ivi contenute e della provenienza delle medesime da un soggetto, nella fattispecie, persona giuridica privata: la società.
Alquanto peculiare, invece, si presenta l’estrinsecazione della manifestazione di volontà dell’Ente locale con riguardo alle ipotesi di trasformazione di pubbliche organizzazioni, oggetto di questo lavoro.
E’ noto, anzitutto, come prevalga in dottrina la teoria della natura pubblicistica (teoria funzionale e procedimentale) e non negoziale del provvedimento amministrativo, per cui esso consiste pur sempre in una manifestazione di volontà, dal carattere imperativo, la cui emanazione può essere discrezionale o dovuta(45).
Il Legislatore, d’altra parte, volendo realizzare un cambiamento della veste giuridica delle aziende esercenti pubblici servizi al fine di razionalizzarne struttura e funzionamento, ha giustamente fatto ricorso, con le norme che qui sono state analizzate, all’introduzione dello strumento civilistico della trasformazione, non disponendo, peraltro, di analoghi istituti di diritto pubblico.
Di più: il Legislatore, sia del ‘90 che del’97, ha posto in capo all’Ente locale, Comune o Provincia, l’onere di procedere all’adozione di una delibera di trasformazione dei propri enti strumentali per l’esercizio dei servizi pubblici locali.
Non vi è alcun dubbio, per altro, che la volontà dell’Ente locale di porre in essere la trasformazione di un’organizzazione di propria appartenenza, secondo una delle due tipologie prese in considerazione, possa e debba trovare formalizzazione attraverso una deliberazione, di competenza dell’organo consiliare, la quale, una volta adottata, analogamente a quanto avviene per le persone giuridiche private, ne costituisce documentazione in forma pubblica ed ufficiale, idonea ad essere depositata, unitamente ai relativi allegati, per l’iscrizione nel registro delle imprese.
Non è tanto, quindi, l’aspetto relativo al rivestimento giuridico-formale della manifestazione dell’Ente locale di volere trasformare un’azienda per l’erogazione di pubblici servizi a costituire la peculiarità dell’applicazione dell’istituto civilistico della trasformazione in ambito pubblico, pur se, a motivo della non piena coincidenza con le situazioni tipiche del settore privatistico, qualche adattamento si è dovuto verificare giocoforza.
Nell’ambito del diritto pubblico, per esempio, la volontà di un organo collegiale, quale è quella del Consiglio comunale o provinciale, viene espressa e raccolta pubblicamente senza quella specifica “funzione di adeguamento” che viene svolta dalla figura del notaio, in veste di pubblico ufficiale, per gli atti privati, pur se le funzioni di assistenza e di verbalizzazione delle relative sedute vengano per legge garantite dalla presenza della figura del segretario comunale e provinciale.
Si può dire, in altri termini, che, sebbene entrambe le situazioni – quella di un’assemblea di una società privata e quella della seduta di un organo consiliare – presentino il carattere della solennità nell’esternazione della volontà collegiale, le modalità con le quali le volontà di un soggetto giuridico privato vengono manifestate e raccolte rivelano, tuttavia, una certa sacralità delle forme, che risulta maggiormente idonea ad offrire garanzie ai fini della certezza del diritto.
Ancora, un’altra particolarità, dovuta all’utilizzazione di uno strumento privatistico come quello della trasformazione nell’ambito del diritto pubblico, riguarda l’aspetto relativo all’adempimento della valutazione di tutti i beni, mobili ed immobili, in possesso delle singole aziende esercenti pubblici servizi fino al momento della deliberazione del loro passaggio ad altro regime giuridico.
Si tratta di un’operazione contemplata, come si è visto, anche dalla disciplina civilistica relativa alla trasformazione di enti giuridici societari (art. 2498, comma 2, c.c.).
La realizzazione di siffatto adempimento, il quale culmina nella predisposizione di una relazione di stima dei beni costituenti l’asse patrimoniale dell’ente, presuppone, peraltro, una ricognizione preliminare dei medesimi, operazione che, se nel caso di una società per azioni, pur se complessa, risulta comunque fattibile in tempi ragionevolmente brevi, nella fattispecie che vede coinvolta, invece, un’organizzazione pubblica essa si rivela un compito oltremodo difficile e duraturo.
La diversità, nelle due fattispecie, relativa ai tempi di realizzazione dell’inventario dei beni mobiliari ed immobiliari viene a determinarsi in funzione della natura del soggetto agente: laddove, infatti, si tratti di una persona giuridica privata, risulta più agevole – anche alla luce delle considerazioni appena svolte a proposito degli strumenti di garanzia della certezza del diritto- andare a ricostruire i dati relativi a quantità, natura giuridica, modalità di godimento e titolo di provenienza di ciascun bene costituente l’intero patrimonio, per l’evidente ragione che alla base della cura di tutti questi aspetti vi è un interesse privato; le medesime considerazioni non è possibile, invece, ripetere per un soggetto giuridico pubblico, nel cui ambito non vi è, sovente, chiarezza con riguardo alla titolarità di molti beni di cui dispone, la quale risulta assai difficile da rilevare, in quanto beni acquisiti, ad esempio, moltissimo tempo addietro.
Ciò che costituisce, invece, un aspetto peculiare -forse meglio definibile come un’anomalia- del fenomeno giuridico della trasformazione di organizzazioni pubbliche, qui considerato in due diverse tipologie, è il fatto che, rispetto alla fattispecie della trasformazione societaria, dove la volontà di attuare tale cambiamento è quella degli stessi soci componenti il soggetto giuridico società, in tale situazione la dichiarazione volitiva di procedere alla modificazione giuridica dell’ente gestore di un servizio pubblico non proviene da quest’ultimo bensì dall’Ente locale di riferimento della titolarità del medesimo.
E’ fin troppo ovvio che il Legislatore non abbia potuto non congegnare in questi termini tale meccanismo di funzionamento della trasformazione delle aziende esercenti pubblici servizi, proprio in considerazione della natura pur sempre strumentale di questi enti rispetto al loro Ente locale di appartenenza.
Ciò non impedisce, tuttavia, di osservare la particolarità, in ambito pubblicistico, di tale singolare fattispecie giuridica, la quale viene a caratterizzarsi, pertanto, in entrambi i passaggi dalla legge previsti, come una trasformazione che procede piuttosto “dall’alto”, ossia dall’Ente locale, anziché “dall’interno” della struttura organizzativa interessata, come avviene, invece, per tutte le società in ambito privatistico.
Questi, in definitiva, unitamente a quanto si dirà nel prossimo paragrafo, gli aspetti peculiari dell’applicazione dello strumento societario della trasformazione alle organizzazioni pubbliche, determinati fondamentalmente dal fatto che nel relativo procedimento viene ad essere coinvolto un soggetto giuridico pubblico e non privato.
Considerazioni conclusive
Il processo di riforma che, dal 1990 ad oggi, ha interessato il sistema dei servizi pubblici locali, al fine di attuarne, un po’ per volta, una globale riorganizzazione, non si è ancora concluso.
Si è cercato di delineare i tratti più significativi delle varie fasi del processo d’innovazione degli strumenti di gestione dei servizi pubblici, al fine di cogliere unitariamente la portata dei singoli interventi legislativi succedutisi nel tempo.
Si è visto come tra i modelli gestori dei servizi pubblici locali, previsti dalla legge, si sia prepotentemente imposta (già da prima, in verità, della sua introduzione) la figura della società per azioni a capitale misto e come, altresì, il Legislatore del ’97 ne abbia voluto ulteriormente favorire l’utilizzazione(46).
Con l’espressa previsione, contenuta nel comma 51 dell’art. 17 della legge n. 127/97, della facoltà per tutti gli Enti locali di procedere alla trasformazione delle proprie aziende speciali, erogatrici di servizi di pubblica utilità, in società per azioni o a responsabilità limitata a capitale misto, il Legislatore ha, infatti, inteso predisporre uno strumento per l’accelerazione del cammino intrapreso verso la privatizzazione di tali apparati pubblici.
Sembrerebbe questa la ratio giustificatrice delle norme contenute nella legge “Bassanini bis”, se si considera che, al fine di raggiungere tale obiettivo, il Legislatore avrebbe potuto comunque scegliere di imporre direttamente la costituzione di società miste per la gestione dei servizi pubblici già affidati alle aziende speciali, estinguendo contestualmente queste ultime.
Posto, infatti, che l’utilizzo della struttura societaria, come del resto anche quello dell’azienda speciale, presuppone la necessità di ottenere una gestione imprenditoriale ed economica dei servizi da erogare, con il vantaggio però, rispetto all’azienda speciale, di consentire l’ingresso anche di capitali privati, si comprende bene cosa abbia spinto il Legislatore a preferire e favorire l’utilizzazione di una struttura organizzativa, più snella ed efficiente, di tipo privatistico rispetto a quella, meno efficace e spedita nei risultati, di tipo pubblicistico.
E’ in questo contesto, dunque, che va letta la portata dell’introduzione dell’istituto societario della trasformazione, scelto dal Legislatore quale strumento per facilitare il procedimento di conversione della struttura operativa dell’azienda speciale in quella della società mista, soprattutto in un momento, come quello attuale, in cui è tempo, ormai, di consuntivi sul percorso di riforma fino ad ora effettuato.
Tutti i più importanti Comuni d’Italia, da Roma a Milano, da Venezia a Brescia, da Genova a Prato, hanno già completato l’attuazione del passaggio, suggerito dal Legislatore del ’97, da aziende speciali a società per azioni dei propri enti di gestione dei servizi pubblici locali e, nel caso di alcuni di loro, si è addirittura proceduto alla relativa quotazione in borsa.
E’ ancora lungo, tuttavia, il cammino che spetta a tanti altri Comuni, grandi e medio-grandi, per la realizzazione di tale trasformazione, che essi sono ormai costretti, in un certo qual modo, a porre in essere se non vogliono danneggiare, in termini di competitività, le aziende erogatrici di servizi pubblici di propria emanazione.
Osservando, da un punto di vista contenutistico e funzionale, la figura della trasformazione e del relativo procedimento, così come delineato dalla legge n. 127/97, non si può fare a meno, d’altra parte, di notare un’ulteriore peculiarità dell’applicazione di tale strumento, pur sempre di natura civilistica, nell’ambito del diritto pubblico.
Si è già avuto modo di affermare che l’istituto societario della trasformazione, così come previsto dalla disciplina codicistica, consente ad una società di modificare la propria struttura organizzativa, assumendone un’altra, ma pur sempre all’interno della medesima categoria giuridica di società.
Il passaggio -contemplato dalla legge n. 142/90, seguita dalla legge n. 95/95- da azienda municipalizzata o provincializzata ad azienda speciale tende, invero, a realizzare, almeno nelle intenzioni del Legislatore, una modificazione del regime giuridico di tale ente strumentale, anche a livello organizzativo e funzionale, mantenendo il medesimo, però, all’interno dello stesso genere “azienda”.
E’ questa un’altra ragione per la quale, infatti, è possibile inquadrare nell’istituto societario della trasformazione quello che il Legislatore del ’95 ha definito come “adeguamento dell’ordinamento delle aziende speciali alle disposizioni dell’art. 23, l. 8 giugno 1990, n. 142” (cfr. art. 4, comma 3, della legge n. 95/95).
La diversa possibilità, introdotta dalla legge n.127/97, di trasformare, invece, un’azienda speciale, già dotata del nuovo regime giuridico, in una società di capitali (S.p.a. ovvero S.r.l.), rispecchia, come poc’anzi anticipato, in modo ancora più incisivo e chiaro, l’intenzione del Legislatore di proseguire assai velocemente nel cammino intrapreso verso la privatizzazione degli apparati pubblici. Ne costituisce prova il fatto che il passaggio ad una struttura societaria venga prospettato, sia pure sotto forma di facoltà, a tutti gli Enti locali con la predisposizione di una procedura semplificata, al fine di consentire loro di poter agire speditamente.
La trasformazione da azienda speciale a società per azioni, così come delineata dal Legislatore del ’97, comporta, invero, il passaggio da una struttura che societaria non è ad un’altra di tipo societario, integrando, pertanto, piuttosto che una trasformazione in senso tecnico, una sorta di “trasformazione atipica”, simile a quelle ipotesi, così definite da certa dottrina civilistica, quali, ad esempio, la trasformazione di un ente associativo in società.
E’ possibile affermare, quindi, che in quest’ultima fattispecie si realizzi un passaggio tra strutture organizzative diverse, non appartenenti al medesimo genere.
Le considerazioni che precedono consentono di concludere osservando come il Legislatore della riforma sui servizi pubblici abbia provveduto ad operare una riorganizzazione dei medesimi, mediante l’introduzione dello strumento societario della trasformazione, che si è dovuto, tuttavia, adattare a delle strutture di natura pubblica, quali sono gli organismi di erogazione degli Enti locali.
Appare interessante, infine, notare come il Legislatore, con la legge n. 142/90, abbia chiamato “adeguamento” ciò che in realtà integrava tecnicamente una vera e propria trasformazione nel senso civilistico del termine mentre, al contrario, con l’altro intervento normativo del ’97, abbia espressamente definito “trasformazione” un procedimento consistente, invece, in qualcosa che, seppure assimilabile a tale fenomeno giuridico, trasformazione “tipica” non potrebbe dirsi ed, invero, in senso tecnico non è.