RECENSIONI

Lino Piscopo, La drammaturgia siciliana dalle origini alle vastasate,

 

Provincia regionale di Palermo, Assessorato alla Cultura, Palermo 2006, pp. 64.

 

Il lavoro di Lino Piscopo non è certamente - come egli stesso modestamente lo definisce - una semplice carrellata, forse noiosa, di autori e di testi, è bensì uno studio serio ed accurato del teatro siciliano dalle origini all’alba dell’Ottocento. Il teatro ha da sempre rappresentato la vera anima di ogni popolo, la sua tendenza al riso o al pianto, all’autocommiserazione o all’esaltazione; non capiremmo, infatti, l’anima del popolo greco senza le tragedie che ne indicano la propensione alla celebrazione del mito, all’esaltazione del fato, alla dolorosa constatazione delle ingiustizie che la vita riserva ai poveri ed ai potenti. Così come non comprenderemmo la propensione all’autoironia della gente veneta senza le commedie di Goldoni o la tendenza alla satira propria dei francesi senza il teatro di Moliére. Nella finzione scenica, i popoli hanno sempre trovato lo strumento più adatto per rappresentare una realtà, troppe volte ufficialmente negata o volutamente ignorata dai detentori del potere. Ecco perché il teatro ha sempre avuto nei secoli una funzione critica nei confronti del potere costituito, più o meno manifesta, a seconda delle epoche e dei regimi.

 

Anche per il popolo siciliano la trasposizione scenica della realtà quotidiana fu un modo per mettere alla berlina i ricchi e i potenti, ma anche per denunciare la miseria della povera gente che, soprattutto nelle città, viveva ai limiti delle possibilità umane, in catoi fatiscenti, al di là delle più elementari norme di igiene personale, sempre alla ricerca di cosa mettere nello stomaco per sopravvivere giorno dopo giorno. Un popolo quello siciliano, servo per millenni, oggetto e strumento di potere di re lontani e di patrizi tanto potenti quanto incapaci.

 

Il teatro, dunque, rappresenta una testimonianza anche per la storia della Sicilia e la sua fondamentale importanza per gli abitanti di questa terra si deduce anche dal gran numero di teatri che i nostri primi dominatori ci hanno lasciato come segno del loro passaggio. I teatri di Siracusa, di Taormina, di Segesta, di Tindari, sono i luoghi più frequentati dai turisti che visitano la nostra Isola.

 

Di teatro in Sicilia, intendendo, in senso vago per teatro siciliano, anche quello costituito da testi scritti da drammaturghi siciliani, pur in altre lingue, possiamo cominciare a parlare con Teocrito, esponente della classe intellettuale della Magna Grecia, siciliano di Siracusa, vissuto tra il IV e il III secolo A.C.. Amico di Callimaco, fu, forse, il maggior poeta dell’età ellenistica, famoso soprattutto per i suoi idilli, per i suoi carmi, alcuni di contenuto politico, contro la tirannia di Gerone, per le sue poesie bucoliche, ma soprattutto per i suoi epicarmi che erano delle vere e proprie rappresentazioni sceniche che si rifacevano alla vita di tutti i giorni, osservata, spesso, da una visuale nettamente umoristica. Fra le sue opere più famose ricordiamo Le Siracusane; ma anche altri due suoi concittadini, Epicarmo e Mosco, contribuirono all’evoluzione del nostro teatro, mettendo in risalto nella loro produzione, non solo la celebrazione dell’amore, spesso dell’erotismo, ma soprattutto l’uso dell’ironia. Fin da allora, proprio nel teatro, si rivela il carattere del nostro popolo che, al pessimismo dei greci, contrappone la trasposizione in senso comico, sulla scena, delle proprie miserie e delle prepotenze a cui viene sottoposto nei secoli. Un popolo che si serve dell’umorismo per nascondere il proprio fallimento, che trova nel prendere in giro chi lo domina, il solo strumento per redimersi dalla schiavitù, alla quale nella realtà si adatta opportunisticamente. L’ironia, il lato comico delle miserie umane saranno proprio le caratteristiche, poi, del maggiore dei nostri drammaturghi, quel Luigi Pirandello che nel paradosso innalzò a capolavoro il racconto del quotidiano. Fu proprio Pirandello a tradurre in siciliano e a portare sulle scene, nel lontano 1919, il poema satiresco di Euripide U Ciclopu. Sulla scia della tradizione letteraria greca, anche Lino Piscopo, ha pubblicato, nel 2003, un dramma in due atti, Ilion!...Ilion, trasposizione dell’Iliade omerica in dialetto siciliano.

 

Con Federico II, all’ombra della Scuola siciliana, in un momento in cui la nostra, lingua era la più diffusa e conosciuta nella penisola, in attesa di essere soppiantata dal toscano, il teatro siciliano attraversò un momento di particolare splendore. In quel tempo, probabilmente, vennero alla luce i primi strambotti d’amore in siciliano, secondo le testimonianze di Ugo Falcando e dell’arabo Gubayr, come eredità degli antichi fescennini. In quegli anni la produzione letteraria siciliana vide come protagonisti, Iacopo da Lentini, Odo delle Colonne, Pier delle Vigne e lo stesso FedericoII, ma chi fu l’iniziatore del teatro siciliano medievale fu senz’altro Ciullo d’Alcamo con il suo Contrasto fra Amante e Madonna che fu messo in scena, nel 1948, con scene di Giorgio De Chirico e con l’interpretazione di due grandi del teatro italiano come Ivo Garrani e Laura Carli.

 

Con la fine del regno normanno-svevo, la Sicilia vede svanire il suo sogno di grandezza e riacquista il ruolo di colonia di sfruttamento nelle mani del conquistatore di turno. La lingua si evolve e si trasforma e anche il teatro assume nuovi aspetti e ricalca nuove realtà. In attesa che l’Umanesimo e poi il Rinascimento trionfino anche in questo estremo lembo d’Europa, la cultura popolare resta ancorata ai temi religiosi tanto cari alla tradizione medievale; così il primo autore che è degno di essere menzionato dopo Ciullo d’Alcamo è Marco De Grandi con la sua Resurrectio Christi, nella prima metà del 1400. E’ questa una rappresentazione teatrale di argomento religioso che riesce particolarmente suggestiva per l’uso del siciliano che rende più vicina agli ambienti popolari del tempo la narrazione della Passione. Di questo periodo è anche un contrasto amoroso fortemente manierato, di Caio Calogero Porzio, di cui non ci è pervenuto il titolo.

 

Con il Rinascimento l’argomento principe della commedia italiana è l’amore, inteso non in senso idilliaco e pastorale, ma come eros, che si esprime non solo nella scurrilità del racconto, per arrivare alla commedia boccaccesca, sulla scia della Mandragola di Machiavelli, ma anche come eterno conflitto tra giovani ed anziani. Si tratta di avventure erotiche di basso rango sempre contrastate dai vecchi, o per gelosia, o per spilorceria, o per rivalità. Protagonisti diventano, dunque, i mezzani e le mezzane, i servi complici o bugiardi ed imbroglioni, i parassiti, con un occhio rivolto alle commedie di Plauto e di Menandro.

 

La Controriforma, tuttavia, imponeva il ritorno ad un teatro didascalico a soggetto religioso e su questa traccia si muove il gesuita Ortensio Scammacca, autore di una serie di rappresentazioni proprie del teatro liturgico (S. Alessio, S. Agata, S. Rosalia, ecc.). Da questo tipo di teatro derivano quelle rappresentazioni religiose che ancor oggi vengono messe in scena in molte parti della Sicilia, per esempio i vari Mortori, nonché le processioni spettacolari, come i Misteri di Trapani o le Vare di Caltanissetta.

 

Con Ambrogio Borghese, nel 1650, spunta la maschera siciliana di Nardo Nappa, protagonista della sua commedia Ambrosia, mentre è del 1660 l’esordio di Masi, un’altra caratteristica maschera siciliana creata dal notaio catanese Giuseppe Squillaci nella commedia Masi il siciliano. Anche in Sicilia nasce, dunque, la maschera che era già nata nel teatro del resto d’Italia ed è la maschera che determina il trionfo vero della commedia dell’arte, intesa non solo come rappresentazione fatta da compagnie di comici di professione, ma anche come opera di attori, più che di autori; cioè, al canovaccio scritto si sovrappongono le improvvisazioni di chi recita.

 

È proprio su questa scia che si colloca il cosiddetto teatro dei Travaglini, sito nell’attuale Piazza Bellini, chiamato così perché il personaggio protagonista delle varie farse scollacciate che vi si rappresentavano, era appunto il buffone Travaglino. In questo teatro recitarono per la prima volta due donne che portarono notevoli turbamenti in molte agiate famiglie palermitane.

 

Nella seconda metà del Settecento nascono le vastasate palermitane, spettacoli che avevano luogo nel vasto Piano della Marina, o in casotti, più o meno grandi dove si vendeva la merce e che poi vennero costruiti apposta per le rappresentazioni sceniche. Fu sempre in quel vasto piano prospiciente il mare che avvennero le prime rappresentazioni dell’Opera dei pupi.

 

Per comprendere l’origine delle vastasate, bisogna, in un certo senso, ripercorrere la storia sociale ed urbanistica della Palermo dell’epoca; ad una nobiltà ricchissima e sfaccendata, e ad una borghesia fatta di laboriosi commercianti e di professionisti, vicini al ceto patrizio, si contrapponeva una innumerevole plebe che viveva al limite dell’umano offrendo, nelle strade inzaccherate della città, ancora sprovvista di fogne, i propri servizi ai ricchi. Tra questi servizi il più comune era quello di portarli a braccia o su portantine per evitare che sporcassero i preziosi indumenti e le scarpe di seta. Vastaso è un termine di origine greca che indica appunto colui che porta, ha tuttavia assunto, col tempo, una valenza totalmente negativa, quella di sporcaccione, volgare, maleducato, probabilmente perché la professione di portantini era esercitata dalla feccia della plebe cittadina, non caratterizzata certo, né dal rispetto per l’igiene, né per l’osservanza delle buone maniere. I vastasi, le loro maniere, le loro liti, i rapporti pittoreschi che si intrecciavano nei curtigghi palermitani, su cui si affacciavano le abitazioni dei nobili cittadini, furono il canovaccio di quelle commedie, i cui inventori furono Biagio Perez e Giuseppe Marotta, l’uno portiere, l’altro sarto, che avrebbe dato luogo alla tradizione delle vastasate. Tali farse recitate da attori presi dalla strada, tutti maschi, anche quando impersonavano personaggi femminili, con i loro vestiti sudici, e la loro parlata colorita, riscossero tanto successo che re Ferdinando I, durante la sua permanenza a Palermo, alla fine del Settecento, volle assistere ad una di queste rappresentazioni. Di esse, purtroppo, ci sono rimasti solo i titoli, ad eccezione dell’arcinota Curtigghiu di li Raunisi di cui è giunto fino a noi anche il testo completo, scritto verosimilmente da Biagio Perez. Anche in questa commedia, più volte rappresentata recentemente, i protagonisti erano quelli di tutte le altre vastasate Nofriu e Lisa; il cortile, sfondo del racconto, è realmente esistito e si trova in prossimità del Capo. Il cortile era lo stratagemma scenico che venne usato anche dagli autori di commedie del resto d’Italia, soprattutto nel ‘500, per sostituire la piazza, sfondo della commedia atellana, dove non era conveniente che apparissero le donne per bene o le fanciulle caste. La trama si snoda su una storia d’amore, interpretata in chiave estremamente comica, con tutti i risvolti popolari ad essa consueti, per esempio la fuitina. Una particolare messa in scena di tale famosa vastasata è quella curata da Ignazio Buttitta, rappresentata, nel 1973, al Teatro Biondo; per merito del Buttitta il testo, interpretato da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e ripreso dalla RAI, ha goduto di un’abile attualizzazione.

 

Un discorso a parte merita il grande Giovanni Meli, abate e medico, poeta coltissimo, gran dongiovanni, il cui unico lavoro drammatico è una farsa, alla maniera delle vecchie vastasate: Li palermitani in festa. Pri la vinuta improvvisa in Palermu di Sua Maestà Ferdinandu III che ebbe molteplici rappresentazioni, non solo a fine Settecento, ma anche ai giorni nostri. A tale testo si sono ispirati Lino Piscopo e Giuseppe Santostefano nello spettacolo teatrale Vinnu lu Re, messo in scena nel 1996 al Teatro Orione, ambientato nel classico curtigghiu palermitano, abitato dalla plebe, ma su cui si affacciano le case dei benestanti, alla vigilia dell’arrivo del Re, a cui si accompagnano speranze e delusioni.

 

Se il teatro siciliano avrà il suo momento di trionfo e di riconoscimento internazionale con Pirandello, conoscere i drammaturghi che lo precedettero e sulla scia dei quali anche il grande agrigentino si pose - pur rappresentando tempi e costumi diversi, ma sullo sfondo caratteriale identico di un popolo che esprime il suo pessimismo trasformando la realtà in paradosso - non può non considerarsi estremamente istruttivo e meritorio per chi ci dà, oggi, la possibilità di conoscere, un mondo, quello dell’antico teatro dialettale, su cui, purtroppo, per troppo tempo, è sceso un immeritato oblio.

 

 

 

Gabriella Portatone

 

 

 

Maria Gabriella Pasqualini, L’Esercito italiano nel Dodecaneso 1912-1943. Speranze e realtà. I documenti dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico SME, Roma 2006, pp. 560

 

Il puntualissimo studio di Maria Gabriella Pasqualini sulla presenza dell’Esercito italiano nel Dodecaneso, nel trentennio in cui le Isole Egee costituirono parte del nostro Impero coloniale, è un lavoro che merita rispetto e grande considerazione per la particolarità della ricerca e per averci dato, per la prima volta, un quadro completo dei sistemi di difesa italiani in quelle lontane isole. La ricerca si apre con un’acuta osservazione sull’obiettività dello storico professionista che sottolinea l’onestà intellettuale dell’autrice, la quale riconosce l’impossibilità dell’esistenza di una storia recuperata acriticamente dai documenti. Nel momento in cui il ricercatore sceglie i documenti, ha già fatto una valutazione critica da cui non può essere esente la componente personale, caratteriale, sentimentale e anche ideologica. Anche lo storico più onesto, dunque, non riuscirà mai a non marchiare con la sua personalità il proprio lavoro di ricerca; ma ciò che distingue lo storico onesto dal manipolatore della verità storica, spesso strumento di particolari interessi politici ed economici, è, appunto, la buona fede e lo sforzo continuo di essere indipendente nelle sue valutazioni e quanto più possibile conforme alla verità documentale.

 

Il Dodecaneso, un possedimento di 14 isole, sparse nel Mare Egeo, in prossimità della Turchia, si trovò quasi casualmente ad incrociare i destini dell’Italia quando venne occupato, come pegno per il completo sgombro, da parte delle truppe turche, della parte interna della Libia, conquistata solo parzialmente dagli italiani nel 1911. L’occupazione delle Sporadi meridionali veniva considerata dal Capo di Stato Maggiore, gen. Pollio, una manovra adeguata per ottenere dal governo della Porta la firma di un trattato di pace con l’Italia, visto che l’esercito non riusciva ad aver ragione della ribellione delle tribù interne della Cirenaica e della Tripolitania, inoltre, la presenza della flotta italiana, in quell’estremo lembo del Mediterraneo, avrebbe potuto mettere finalmente fine, al contrabbando di armi dalla Turchia alla Libia. Occupare quelle isole invece che fare un’azione di forza sui Dardanelli, appariva più conveniente sia dal punto di vista economico che da quello politico-militare. Un’azione di forza sugli Stretti, infatti, avrebbe reso la Turchia quanto mai guardinga, rinfocolando il nazionalismo arabo-turco e avrebbe insospettito e messo in allarme sia la Russia che l’Inghilterra; avrebbe, inoltre, costretto la Marina italiana ad una lotta molto dura che avrebbe sicuramente portato alla perdita di qualche nave e quindi di parecchie decine di milioni, perdita che l’Italia non poteva permettersi. Non meno pericoloso per gli equilibri internazionali sarebbe risultato un bombardamento di Salonicco o di Smirne, quest’ultima azione, inoltre, avrebbe potuto colpire più interessi italiani che turchi. Fin da allora fu chiaro ai vertici dell’esercito e della Marina che per la distanza delle Isole dall’Italia e per la loro prossimità al territorio turco, esse avrebbero dovuto essere continuamente presidiate dalla forze italiane, inoltre, per la povertà del loro territorio, sarebbero sempre dipese, per gli approviggionamenti, dalle navi italiane che avrebbero dovuto effettuare i trasporti attraverso una rotta che non sarebbe mai stata sicura. Dunque le esigenze politiche finivano per cozzare con le difficoltà di ordine militare ed economico. Non si poteva, d’altronde, non tener presente che un’eventuale occupazione italiana del Dodecaneso non sarebbe stata certamente gradita né da Vienna, né da Londra, né da Parigi, mentre le popolazioni greche delle isole, seppur stanche della dominazione turca e simpatizzanti per l’Italia, una volta liberatesi dell’odioso dominio ottomano, avrebbero difficilmente sopportato un’occupazione diversa da quella greca. Il Capo di Stato Maggiore della Marina era soprattutto preoccupato della reazione inglese all’occupazione italiana delle isole: infatti la flotta italiana avrebbe potuto più facilmente controllare il commercio del Mediterraneo orientale e, in caso di alleanza con la Turchia, favorire in funzione antinglese l’invio di truppe turche in Egitto; tuttavia il Capo di Stato Maggiore Generale, gen. Pollio, reputava i rischi meno pericolosi per l’Italia del permanere di una situazione di incertezza in Libia. Tali difficoltà rendevano tentennanti i vertici dell’Esercito, tanto più che i rischi apparivano sproporzionati a quelli che dovevano essere i vantaggi di un’occupazione destinata da essere provvisoria. Tuttavia, nell’aprile del 1912, falliti i tentativi di mediazione internazionali, per indurre la Turchia a riconoscere la colonia italiana di Libia, avuta assicurazione della neutralità austriaca e francese, l’occupazione del Dodecaneso, valutati i pro e i contro, apparve allo Stato maggiore dell’Esercito e della Marina, l’unica soluzione per superare l’impasse. Si decise, quindi, di costituire un Distaccamento speciale che sarebbe poi diventato la 6° Divisione Speciale dell’Egeo, che si sarebbe riunita a Tobruk e da lì sarebbe salpata il 2 maggio, per approdare a Rodi due giorni dopo. Il 5 maggio l’ammiraglio Ameglio otteneva la resa di Rodi, dove le truppe italiane facevano il loro ingresso, accolte dall’entusiasmo delle popolazioni, convinte che la cacciata dei turchi fosse un primo passo verso l’annessione alla Grecia. Intanto venivano occupate, dopo Rodi, le altre isole. Il 18 ottobre 1918 veniva firmato ad Ouchy un trattato di pace tra Italia e Turchia, con cui quest’ultima si impegnava a sgombrare la Libia. Solo quando l’operazione di sgombro fosse stata ultimata, gli italiani avrebbero lasciato il Dodecaneso che rimaneva formalmente sotto il dominio turco, ma la cui amministrazione civile e militare passava provvisoriamente all’Italia. Non tutti gli abitanti delle Isole anelavano ad un’unione alla Grecia, molti avrebbero voluto l’autonomia, mentre i turchi israeliti presenti in quei territori gradivano la presenza italiana. Un governo autonomo delle isole sarebbe stato gradito, inoltre, sia alla Francia che all’Inghilterra, che si sarebbero meglio sentite garantite nei loro interessi rispetto all’espansione dell’autorità greca in quell’arcipelago. Ad un anno dall’occupazione, tenendo conto anche di una notevole emigrazione dalle Isole verso le Americhe o il Sudan, la situazione si era stabilizzata. A settembre furono riaperte le scuole delle tre confessioni religiose presenti. Le autorità militari ritennero di dover istituire una scuola italiana al fine di rafforzare l’espansione della nostra cultura in quei luoghi. Alla stregua di Crispi si riteneva che l’istituzione delle scuole italiane fosse determinante per il rafforzamento della presenza italiana oltremare. Quel possedimento lontano, dal clima dolcissimo, ottenuto quasi per caso, in cui volentieri si recavano funzionari e militari italiani, sicuri di poter condurre uno stile di vita sano e tranquillo e orgogliosi di portare fino a quei lontani scogli la cultura e la civiltà italiane, fu sempre considerato un possedimento di secondo piano, bisognoso soltanto di essere difeso, ma scarsamente interessante sia per un’eventuale emigrazione, sia per un’espansione della dominazione italiana nel Mediterraneo Orientale. Solo alla vigilia della seconda guerra mondiale ci si rese conto delle potenzialità del possedimento, anche se esso non fu mai sfruttato adeguatamente; così si passò progressivamente da un sistema di mera difesa ad una politica militare che prevedeva la possibilità che le isole potessero essere un trampolino per l’attacco, in caso di guerra, alle colonie inglesi del Mediterraneo orientale (Cipro, Egitto, Sudan) e alla Grecia, nel caso in cui, come poi avvenne, essa si fosse alleata con una potenza nemica e una postazione indispensabile per costituire un cuneo fra i due nuclei, orientale e occidentale, della home fleet sparsa nel Mediterraneo da Gibilterra a Cipro, nonché il mezzo più idoneo per usare la Marina e l’Aeronautica allo scopo di ostacolare i collegamenti inglesi in quel mare che, a partire dal 1935, avrebbe avuto un ruolo fondamentale nei destini d’Europa.

 

In quel periodo tutte le potenze guardavano con avidità al progressivo disfarsi dell’immenso Impero Ottomano la cui eredità era diventata la prima causa di conflitto fra le nazioni Europee. Nel 1914 la Germania aveva ottenuto dalla Sublime Porta l’autorizzazione a costruire una ferrovia da Berlino a Baghdad, mentre l’Italia firmava con l’Impero un accordo che l’autorizzava alla costruzione di una ferrovia che andasse dal porto di Adalia, zona di forte interesse italiano, all’interno dell’Anatolia. Allo scoppio del primo conflitto l’Italia, che si trovava ancora provvisoriamente ad occupare l’Arcipelago, in attesa di definire la situazione con la Turchia, firmava con la Francia, l’Inghilterra e la Russia, il Memorandum di Londra che segnava il suo passaggio dalla Triplice Alleanza alla Triplice Intesa e quindi la sua partecipazione alla guerra al fianco delle Potenze occidentali a patto che, alla fine del conflitto, oltre al Trentino Alto –Adige, all’Istria, la Dalmazia, al porto di Valona, ottenesse dagli alleati il riconoscimento del possesso del Dodecaneso e dei suoi interessi, nel caso di divisione dell’Anatolia, sulla zona costiera che andava da Smirne ad Adalia. I diritti dell’Italia sulla zona vennero confermati nel 1917 dall’accordo di San Giovanni di Moriana, accordo dichiarato decaduto, alla fine della guerra, per la mancata ratifica dello stesso da parte della Russia. Nel 1919 l’intervento nei negoziati di pace degli Usa, mise in discussione le promesse precedentemente fatte all’Italia; si cominciò a parlare di ritorno alla Grecia del Dodecaneso, in virtù del principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli, e di attribuzione all’Italia della zona di Adalia. Era comprensibile, tuttavia, che Dodecaneso ed Anatolia erano inscindibilmente legate fra loro; l’Italia aveva bisogno delle isole per mantenere la zona di influenza nella costa anatolica e aveva bisogno di quest’ultimo territorio per far valere i suoi diritti sulle Isole.

 

Il Corpo di Spedizione in Anatolia sbarcò nella penisola turca nell’aprile del 1919 e, data l’occupazione di Smirne da parte della Grecia, la delegazione italiana alla Conferenza di pace di Versailles chiese compensi per l’Italia nell’Anatolia del nord, zona di Eraclea, e nella parte sud, verso Adalia ed Alessandretta, dove erano già fuggiti moltissimi turchi di Smirne, spaventati dall’arrivo dei greci. I soldati italiani avevano avuto l’ordine di giustificare l’occupazione del litorale meridionale dell’Anatolia, con la necessità di riportare nella zona quell’ordine turbato dallo sbarco greco a Smirne e dalla formazione di bande che, in nome del nazionalismo turco e del sentimento antigreco, avevano cominciato una vera e propria spedizione punitiva contro i greci ed una rivoluzione che, sotto la guida di Mustafà Kemal, avrebbe abbattuto il Sultanato e dato vita alla Repubblica turca. Intanto nelle Isole del Dodecaneso, il giorno di Pasqua, scoppiavano degli incidenti provocati dal nazionalismo greco e perciò ingigantiti dalla propaganda greca che accusava gli italiani di persecuzione nei confronti dei suoi connazionali e di aver decretato il blocco navale delle Isole. Le autorità italiane, pur smentendo il blocco navale, riconobbero che degli incidenti erano avvenuti soprattutto a Rodi, con due morti e alcuni feriti, provocati dal metropolita greco dell’isola. La tensione con la Grecia, che nutriva delle legittime aspirazioni sulle Isole dell’Egeo, continuava, malgrado alla Conferenza di Pace di Parigi ci fossero state lunghe trattative tra Venizelos e Tittoni, culminate in un accordo segreto in base al quale l’Italia si impegnava ad aiutare la Grecia a stanziarsi in Epiro e in Tracia e nella zona di Smirne, accettava di cedere il Dodecaneso, eccetto Rodi, ottenendo in cambio il riconoscimento dei suoi interessi sull’Albania e Valona. Tale accordo segreto sarebbe stato destinato a rimanere inapplicato dopo le vicende della guerra greco-turca che avrebbero ribaltato il trattato di Sevres, lasciando alla Turchia l’intera Anatolia e la città di Istambul nella Tracia. Ciò avrebbe, altresì, segnato il destino della Turchia moderna; uno stato laico seppur abitato quasi esclusivamente da islamici, repubblicano, con una democrazia in continua evoluzione, a cavallo tra l’Asia e l’Europa, punto di riferimento dell’Occidente, prima per difendersi da un’espansione comunista nel Vicino Oriente e, caduto il Muro di Berlino, per arginare l’espansionismo fondamentalista islamico.

 

Il venir meno delle condizioni che avevano dato luogo all’accordo segreto Tittoni- Venizelos, determinarono il permanere dell’occupazione italiana del Dodecaneso fino al 1947, occupazione che si pose come cuscinetto contro le tensioni franco-inglesi della zona; mentre gli inglesi, infatti avrebbero favorito un’espansione nella zona della Grecia, tradizionalmente amica, i francesi sostenevano le rivendicazioni turche con lo scopo, sia di stringere un rapporto politico ed economico con la nuova classe dirigente turca, laica e filo-occidentale, sia di stroncare le speranze inglesi di mantenere il pieno controllo della zona, tramite la presenza greca. La presenza italiana, riducendo le ragioni di tale dualismo, finì per compattare pericolosamente le posizioni anglo-britanniche.

 

Il 1° settembre 1919, visto che il Dodecaneso aveva finito per assumere un carattere prettamente politico nel contesto internazionale post-bellico, si decise che il Comando del Corpo di Spedizione Orientale passasse sotto le dirette dipendenze del Ministero della Guerra e così sarebbe stato fino all’armistizio dell’8 settembre; questo possedimento d’Oltremare, infatti, non sarebbe mai stato sottoposto alla competenza del Ministero delle Colonie, come invece era avvenuto per la Libia e sarebbe poi avvenuto per l’Etiopia. Malgrado il Ministero della Guerra chiedesse, già nel 1919, una riduzione dei contingenti presenti nell’Egeo, allo scopo di ridurre le spese in quella zona, che continuava ad essere considerata di importanza secondaria, Diaz si oppose decisamente ad una decisione che riteneva estremamente imprudente. La posizione di Diaz fu confermata dalla delusione che nelle popolazioni islamiche dell’Anatolia aveva determinato il rimpatrio di qualche reparto; di fronte alla costernazione della popolazione, che temeva di essere abbandonata dagli italiani alle scorrerie e alle vendette greche, anche il Ministero degli Esteri si rese conto di quanto potesse essere politicamente inopportuno ogni ulteriore diminuzione della presenza delle forze militari italiane in loco. L’esercito italiano rimaneva in Anatolia, dunque, in quel momento di difficile transizione, ufficialmente per contribuire al mantenimento dell’ordine pubblico, ufficiosamente per non abbandonare, nell’attesa dell’evolversi della situazione, quella importante e strategica zona del Mediterraneo orientale. Era quella un’opportunità che mai l’Italia aveva avuto, di inserirsi in quello scacchiere, in prossimità di Suez e del mar Rosso, da cui avrebbe potuto controllare sia il commercio che i movimenti della flotta britannica che aveva fatto della zona, tramite la presenza in Egitto, i mandati in Palestina e Trangiordania, la base navale di Cipro, il Sudan e la Somalia britannica, un british lake che le permetteva di agire indisturbata nel Golfo Persico.

 

Il 10 agosto del 1920, il Presidente del Consiglio Bonomi comunicava che il Corpo di Spedizione del Mediterraneo orientale con sede a Rodi veniva scisso dal Governo Civile del Dodecaneso, a capo del quale sarebbe presto andato il Governatore Mario Lago; il primo avrebbe avuto la sua sede a Scalanova, il secondo a Rodi. Quest’ultimo, con i primi decreti, decideva di dare ampie autonomie alle isole che sarebbero state rette in virtù di ordinamenti speciali che tenessero conto delle tradizioni e delle consuetudini locali. Tale decreto dava piena libertà di culto alle varie comunità religiose presenti sul territorio. Nel 1921 l’Italia occupava anche Castellorizzo, isoletta che, per essere quasi sotto la costa Anatolica diventava una preziosa testa di ponte per il controllo di quella zona, mentre , quasi contemporaneamente venivano ritirati i presidi ancora presenti in Adalia. La situazione evolveva a vantaggio dell’Italia che, oltre a mantenere la strategica posizione data dall’occupazione delle Isole, aveva ottenuto lo sgombero dell’Anatolia dalla presenza francese e greca.

 

Il problema dell’ordine pubblico nel Possedimento fu affidato ai Carabinieri Reali, che già avevano svolto tale funzione fin dal 1912 e l’avrebbero continuata fino alla fine del secondo conflitto mondiale.

 

Con la pace di Losanna, nel 1923 le Isole del Dodecaneso o Sporadi Meridionali (Rodi, Scarpanto, Coo, Calino, Stampalia, Lero, Caso, Piscopi, Simi, Patmo, Nisiro, Calchi, Castelrosso e Lisso), venivano riconosciute internazionalmente e ufficialmente come possedimento italiano a cui veniva attribuita dal nuovo regime un’importanza strategica fondamentale in funzione antinglese, per il controllo del Mediterraneo Orientale.

 

Nell’agosto del 1923 venne presentato al Ministro della Guerra Di Giorgio, un Promemoria su un eventuale attacco in Anatolia, importante, sia perché si riconosceva il valore strategico del possedimento, sia perché se ne evidenziava, contemporaneamente la debolezza, dovuta alla difficoltà delle comunicazioni con la madre patria, visto che la navigazione delle navi italiane sarebbe dovuta comunque avvenire in acque non amiche. La debolezza dell’Italia rispetto alle posizioni nella zona di Francia, Inghilterra e Grecia, avrebbe potuto spingere il nuovo governo turco ad un attacco nei suoi confronti, per dimostrare all’Europa la forza acquisita. L’Italia era, inoltre, svantaggiata dal fatto che, per mancanza di fondi, non fosse possibile rafforzare, almeno per il momento, il presidio.

 

Nel periodo tra le due guerre, man mano che il fascismo si affermava all’interno e all’estero, apparve sempre più necessario approntare un razionale piano di Difesa per le Isole, considerate, fino al 1936, in funzione di una difesa delle postazioni conquistate e non ancora come testa di ponte per un eventuale attacco.

 

La Marina intendeva potenziare la base di Portolago nell’isola di Lero, sottolineandone l’importanza strategica anche se il Governatore Lago insisteva sull’importanza politica di Coo, a metà strada tra Lero e Rodi. La Marina suggeriva il concentramento a Lero di tutte le unità navali presenti nel Possedimento e il trasporto immediato da Coo a Lero di tutta la fanteria ivi presente. L’importanza strategica dell’Isola di Lero era determinata dal fatto che in essa fossero presenti ben cinque grandi baie dove era facilissimo l’approdo; ciò la rendeva una base ideale per la flotta, ma anche facilmente attaccabile soprattutto dalla parte settentrionale. La eventuale perdita di Lero avrebbe significato per l’Italia la quasi totale chiusura della rotta per il Levante. Altrettanto fondamentale era la difesa di Rodi, non solo della città, ma dell’intera isola, sede del governo civile. La difesa fissa delle coste sarebbe stata compito dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.

 

Il 22 novembre 1936, per raggiunti limiti d’età, il Governatore Lago veniva collocato a riposo e il suo posto veniva occupato da Cesare Maria De Vecchi, quadrunviro, marcia su Roma, grande amico di Mussolini, già governatore della Somalia, carattere decisionista e non facile, a cui sarebbero andati i poteri civili e militari. Si dispose di affidare, in tempo di pace, al Governatore, il comando di tutte le forze armate presenti nel Possedimento. Le forze inviate in appoggio sul Possedimento nel corso di azioni particolari, rimanevano però sotto agli ordini degli Alti Comandi dai quali dipendevano. In caso di guerra, poi, si decise, soprattutto per volere del Capo di Stato maggiore Badoglio, che le forze armate presenti fossero sottratte al comando del Governatore e poste agli ordini dei Comandi centrali. Questa era, peraltro la regola seguita negli altri possedimenti d’Oltremare. Tale regola, tuttavia, non fu mai pienamente accettata da De Vecchi che, con il suo carattere fattivo, aveva impresso fin dal suo arrivo, una sferzata di rinnovamento e un impulso senza pari all’organizzazione del Possedimento. Le pretese del Governatore, che, peraltro aveva dalla sua, la grande amicizia e confidenza con lo stesso Mussolini, resero sempre più complicati i rapporti con lo Stato Maggiore, il Ministero della Guerra e gli alti comandi delle tre armi, per cui fu necessario richiamarlo in patria, il 27 novembre 1940.

 

Malgrado i suoi difetti, De Vecchi segnò con la sua personalità e le sue capacità il periodo della sua missione nel Dodecaneso, dove soltanto nel marzo del ’39, e per giunta a malincuore, applicò le leggi razziali. Il suo difetto fondamentale era quello di non riconoscere altra autorità se non quella di Mussolini. Aveva compreso, tuttavia, più del duce e dello Stato Maggiore, le effettive potenzialità del Possedimento egeo che, nonostante il SIM avvertisse delle intenzioni inglesi di attaccare insieme alla Grecia e la Turchia l’Italia proprio in quel possedimento, continuava a mantenere il 4° posto nella classifica dell’importanza bellica dei vari settori: 1° Adriatico, 2°Canale di Sicilia, 3°Cirenaica, 4°Egeo.

 

Tenendo conto del cambiamento della situazione internazionale, dopo la conquista italiana dell’Etiopia e dopo lo scoppio della guerra civile spagnola, che avevano acuito le rivalità tra Italia e Inghilterra, De Vecchi aveva elaborato un nuovo piano di Difesa che si basava su un aumento della presenza navale e aerea sul Possedimento e sull’uso di una squadriglia di sommergibili.

 

All’inizio della guerra l’Egeo parve rispondere alla sua funzione di portaerei nel Mediterraneo orientale, visto che proprio dalle isole partirono i primi attacchi riusciti su Alessandria d’Egitto che, tuttavia, non arrecarono gravi danni alla mobilità della flotta inglese.

 

Nella sfortunata campagna di Grecia, il Dodecaneso non fu usato come avrebbe dovuto essere, pur essendo vicinissimo alle coste greche; stranamente era visto come testa di ponte verso il Levante e non verso la penisola greca. Furono i tedeschi a comprendere maggiormente l’importanza dell’Egeo come trampolino di attacco e se ne sarebbero serviti per la conquista di Creta, con la cosiddetta operazione Mercurio, nel maggio del 1941

 

Man mano che le isole dell’Egeo venivano conquistate, i tedeschi miravano a sostituirsi agli italiani nella gestione militare del Dodecaneso, facendo sì che i rapporti tra i due alleati, in quella zona del Mediterraneo, diventassero ogni giorno più tesi, anche apparendo formalmente correttissimi. Gli italiani mal sopportavano la prepotenza e l’arroganza dei tedeschi, i quali, dopo il 25 luglio e l’ascesa al potere di Badoglio, diffidavano degli italiani da cui si aspettavano da un giorno all’altro l’abbandono.

 

Le truppe tedesche iniziarono a Rodi gli atti di ostilità contro gli italiani, subito dopo la notizia dell’armistizio, il 9 settembre del ’43 e due giorni dopo le truppe italiane si arrendevano. L’ammiraglio Campioni aveva sperato fino all’ultimo in un aiuto degli inglesi che non arrivò mai. Durante l’occupazione tedesca furono uccisi 1054 italiani tra militari e civili.

 

Il 15 maggio 1945 gli inglesi ripresero Rodi e decretarono il coprifuoco per gli italiani che pur sostenuti dalla comunità turca, furono lasciati al ludibrio dei greci. I Carabinieri furono esautorati, disarmati e soggetti ad attacchi personali. 4 militari italiani vennero uccisi. Furono soppresse le scuole italiane e l’unico giornale italiano, gli alloggi italiani furono requisiti, dando solo 24 ore di tempo agli occupanti per lasciare le isole, portando via solo i loro effetti personali.

 

Il 27 giugno 1946 i Ministri degli Esteri dei quattro Grandi decisero il ritorno alla Grecia del Dodecaneso, senza nessun risarcimento agli italiani per gli investimenti fatti in miglioramenti e bonifiche e senza consentire loro il proseguimento delle attività intraprese.

 

 

 

Gabriella Portalone

 

 

 

Montesquieu, Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri, a cura di D. Felice, Pisa, Edizioni ETS, 2004, pp. 86.

 

Alcuni anni prima della pubblicazione dell’Esprit des Lois, che appare nel 1748, e quindi parallelamente alla composizione del suo capolavoro (siamo negli anni che vanno tra il 1736 e il 1743), Montesquieu lavora ad uno scritto - Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits et les caractères - che svolge un aspetto cruciale dell’opera maggiore e che troverà sistemazione tra i libri XIV e XIX della terza parte. Il tema in questione è tra i motivi ispiratori della ricerca filosofica e intellettuale montesquieuiana, quello dello spirito generale di una nazione o di un popolo, così nella formulazione dell’Esprit, che nell’Essai suona in modo pressocché identico (e senz’altro lo è nella sostanza), dato che il concetto di esprit è espresso con il termine di caractère. Sennonché il saggio rimane incompiuto e quindi inedito e la sua importanza ‘si limita’, per così dire, a documento interno del pensiero e della teoria di colui che è stato considerato il padre della sociologia come del moderno liberalismo politico. Testo dunque prezioso, poiché sviluppa argomentazioni e riflessioni che legheranno il nome dell’autore alla sua fortuna, e che adesso è pubblicato da uno dei maggiori studiosi di Montesquieu, Domenico Felice, che nella nota introduttiva puntualizza assieme alla tradizione di pensiero e al contesto culturale (da Ippocrate ad Aristotele, da Galeno a Cartesio, dallo spagnolo Huarte alle relazioni di viaggio dell’epoca) in cui si innerva la trattazione di un simile tema, anche quella originalità con cui il Président discorre di alcuni ‘pezzi’ classici delle idee, dei luoghi comuni come dei ‘pregiudizi’ occidentali (la teoria dei climi e la ‘naturale’ schiavitù orientale), che pongono la sua opera come fondamentale momento speculativo della storia della filosofia politica moderna. Così, come è oramai noto, Montesquieu indugia ad esaminare le cause che agiscono sul carattere o spirito di una nazione (come su quelli di un individuo) indicandole nel binomio – dialettico, complementare e comunque correlato – fisico-morale. E sarebbe certamente suggestivo a tal fine ricercare gli spunti, i motivi di contatto e le influenze, ovviamente anche implicite e per genealogie sotterranee, che un tale aspetto della teoria montesquieuiana potrebbe avere con una tradizione di pensiero, robusta e sovente trascurata, come quella astrologica ed ermetica, dalle formidabili implicazioni teologiche e filosofiche (si pensi solo alla questione del libero arbitrio), che proprio sul punto delle cause fisiche e morali che agiscono sull’uomo ha posto un’attenzione tutta particolare, come attesta la riflessione del pensiero antico, la filosofia di Agostino fino alla metafisica di Tommaso, e la straordinaria fortuna rinascimentale che tale filone intellettuale ha avuto.

 

Montesquieu insiste tuttavia sul ruolo rilevante che hanno le cause morali nella formazione dello spirito di un popolo (è sua premura anticipare e rispondere a critiche di determinismo), ma non rinuncia a demarcare sempre la differenza, affermando il principio che le cause fisiche hanno maggiore efficacia laddove la civiltà è ad uno stadio primitivo, ovvero presso i popoli "selvaggi e barbari". Si ritorna così a ribadire come questi due mondi fisici e politici, antropologici e culturali contrapposti subiscano una differente azione della natura e della cultura. La questione, all’interno della riflessione del barone di La Brède, confluirà nel grande tema politico del dispotismo – che viene localizzato nei grandi spazi imperiali che si trovano ad Oriente, a giudicare proprio dalla natura dei popoli che vivono in regioni che spingono verso tali sistemi di potere. Con la relativa opposizione – naturaliter occidentale – della libertà (ovvero della civiltà e della politica, per sovrapposizioni coincidenti e sinonimiche) comunque poi organizzata nella tripartizione dell’uno, dei pochi e dei molti. E da una tale categoria autonoma di governo, il salto montesquieuiano rispetto alla tradizione politica classica, l’analisi delle altre due forme di governo, monarchia e repubblica, tra antichi e moderni, delinea, assieme alla critica di ciò che di lì a poco sarà definito come antico regime, l’ideale dello scrittore politico, individuato concretamente nell’Inghilterra settecentesca.

 

Giorgio E. M. Scichilone

 

Claudio Finzi, Re, Baroni, popolo. La politica di Giovanni Pontano, Rimini, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 2004, pp. 214

 

 

 

Particolarmente interessante è il libro di Claudio Finzi, professore ordinario di storia delle dottrine politiche presso l’università di Perugia, che si propone di far conoscere una parte, finora trascurata, della vasta produzione di uno degli autori più rappresentativi dell’umanesimo italiano: Giovanni Pontano. Più conosciuto e apprezzato come letterato e poeta, Pontano fu anche un originale pensatore politico.

 

Nato in Umbria nel 1429, Pontano si trasferisce giovanissimo a Napoli dove percorre brillantemente una carriera di funzionario regio al servizio della dinastia aragonese fino a diventare primo ministro di re Ferrante. Grande diplomatico, esperto di questioni militari, uomo di mondo e legatissimo agli affetti familiari, Pontano coltiva gli studi letterari dove raggiunge altissimi livelli tanto da essere considerato il massimo poeta latino dopo l’antichità. Nel 1463 gli viene affidata l’educazione del principe ereditario Alfonso duca di Calabria; Pontano inizia la sua riflessione politica con quello che è stato definito "uno scritto d’occasione" il De Principe, che in forma di lettera indirizzata al regale allievo pone le sue considerazioni, dà raccomandazioni e regole di vita che ritiene adatte a un principe futuro sovrano di un regno grande e importante. Seguirà il De obedientia e il De Fortitudine due trattati strettamente legati al primo. Egli imposta la sua indagine intorno ai due elementi necessari e complementari di ogni struttura sociale: il governante e la società. Nel De principe esamina la funzione e il comportamento del governante, che essendo in una condizione totalmente diversa da qualsiasi altro cittadino (intermedio fra gli uomini e la divinità), necessita di consigli appropriati. È importante per un principe l’educazione e l’istruzione cioè le lettere e gli studia humanitatis che formano l’uomo e la sua anima, migliorano la sua personalità e le sue doti. L’educazione ha bisogno di modelli concreti e Pontano ne offre due: Ciro di Persia e Alfonso il magnanimo, primo sovrano aragonese a Napoli. Il principe deve esercitare soprattutto due virtù: la liberalità e la clemenza mediante le quali si rende simile a Dio che benefica tutti ed ha misericordia anche dei malvagi e deve evitare la superbia, ricordando che le fortune umane sono sempre instabili e aleatorie. La grande novità introdotta da Pontano, rispetto a coloro che prima di lui avevano scritto sul principe, è il concetto di maiestas della quale l’autore non dà una definizione ben precisa, ma che deve intendersi come una qualità essenzialmente politica, caratteristica esclusiva dei principi. Essa rappresenta il ruolo che il principe deve incarnare in ogni momento (gerere principis personam), l’immagine che dovrà dare di sé in ogni suo comportamento. A proposito del legame tra l’essere e l’apparire, del rapporto tra moralità e immagine del principe, Finzi nota come Pontano, utilizzando un linguaggio non privo di ambiguità, affermando che importante è l’essere e l’apparire buoni, si trovi a metà strada tra Egidio Romano per il quale ciò che conta è l’essere buoni e Niccolò Machiavelli per il quale non ha più importanza essere buoni ma sembrarlo. Continuando nella sua indagine politica, Pontano affronta il problema della durata della struttura sociale. Dall’analisi contingente del regno di Napoli che si trova in una situazione di instabilità, dovuta alla indisciplina baronale, ai tentativi di autonomia, alle rivolte e alle insubordinazioni, Pontano elabora una teoria universalmente valida. Nel difficile equilibrio tra obbedienza e giustizia, tra autorità e libertà affronta il problema della stabilità della società. Occorre, dice Pontano, consolidare la società ritrovandole un fondamento capace di reggerla nella sua complessa e articolata struttura legando stabilmente i sudditi al sovrano, ma anche i sudditi fra loro. Nel trattato De obedientia, Pontano prende in esame i diversi tipi di obbedienza: alle norme della ragione e delle leggi, ai superiori, ai magistrati, al sovrano, nell’ambito della famiglia e militare. Per Pontano, seguace in questo di Aristotele e Cicerone, la società umana è per natura e deriva sia dal bisogno di procurarsi il necessario per vivere sia dall’innata socievolezza dell’uomo. Tale innata socievolezza è dimostrata anche dal suo possedere la parola, strumento che insieme con la ragione ci distingue dai bruti e che non avrebbe alcun senso se l’uomo fosse destinato a vivere da solo. Tutta la convivenza umana è radicata nell’obbedienza; se vogliamo evitare il disordine dobbiamo applicare questa virtù fondamentale. Nella sua analisi Pontano richiama il pensiero di Machiavelli, ma se ne distacca nel momento in cui rimane in lui la fiducia nell’azione morale, nell’educazione, tipica del pensiero politico e pedagogico dell’umanesimo. Simmetrica all’obbedienza è la giustizia l’altra suprema virtù indispensabile alla società. Il rapporto tra inferiore e superiore si risolve nell’obbligo di prestare obbedienza o nell’obbligo di rendere giustizia a seconda della direzione. Obbedire non significa limitare la propria libertà perché l’obbedienza come la libertà è per natura; dunque non soltanto si è liberi anche se bisogna ubbidire, ma dobbiamo necessariamente obbedire affinché possiamo essere liberi. Pontano studia molto i classici latini e greci, in modo particolare Aristotele che tuttavia modifica per i propri fini con continui riferimenti ai problemi del suo tempo e della società napoletana. Come Aristotele accetta che esistano gli schiavi per natura e critica Platone per l’abolizione dell’istituto familiare. Egli, invece, è favorevole al matrimonio e vede nella prole la speranza di immortalità su questa terra. Afferma che il governo monarchico è il migliore e ciò è attestato dalla natura (un solo cuore governa il corpo dell’uomo, una sola ragione l’anima, un solo Dio l’universo), dalla ragione, dalla storia e dall’esperienza. I governanti devono essere privi di passioni o debbono quantomeno dominarle seguendo i dettami della ragione.

 

Nel trattato De fortitudine Pontano scrive che primo dovere dei governanti è reprimere in se stessi la cupiditas. Egli è consapevole della possibilità che sorga una tirannia. Ma i tiranni spuntano più facilmente dalle aristocrazie e dalle democrazie piuttosto che dalle monarchie; e i re che diventano tiranni sono meno dannosi perché conservano il senso del proprio interesse e pur utilizzando la crudeltà nei confronti dei cittadini, tutelano la pace e la conservazione dello stato. Gli scritti intorno all’uso della ricchezza (De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De conviventia) completati nel 1493, ricalcano quasi letteralmente il pensiero aristotelico dell’Etica nicomachea, ma vi è anche la presenza del Cicerone del De officiis.

 

Gli avvenimenti drammatici che attraversano la vita di Pontano nell’ultimo scorcio del secolo XV non influiranno sulla sua produzione sia in campo letterario che in campo etico – politico. Fra il 1498 e il 1499 scrive altri tre trattati: il De Prudentia, il De Fortuna e il De magnanimitate che segna il culmine della sua indagine. Secondo Pontano la magnanimità rappresenta la virtù più alta che gli uomini possano coltivare; ma per conseguirla ed esercitarla occorre esservi predisposti dalla natura, altrimenti tutto è inutile. Oggetto della virtù della magnanimità è l’onore e i due vizi contrapposti alla medietà virtuosa del magnanimo sono la pusillanimità e la presunzione. Sempre in questo trattato appare la fortuna, intesa nel senso umanistico e rinascimentale di destino che ci condiziona e può portarci dove non vogliamo. La fortuna esiste, ma il suo potere non è illimitato e l’uomo potrà contrastarla con la ragione e la prudenza. Nonostante Pontano sia stato anche un esperto di problemi militari non scrive nulla di specifico sulla guerra. Tuttavia qua e là nei numerosi trattati esprime le sue idee in proposito. La guerra è terribile, è sempre un momento difficile e drammatico della vita degli uomini, ma è un avvenimento al quale non è possibile sottrarsi, perché essa appartiene all’imperfezione umana. La guerra è considerata anche un momento esaltante nel quale è possibile esercitare al massimo le virtù, soprattutto quella della fortezza, e inoltre è anche il momento nel quale si può conseguire la gloria, aspirazione suprema di ogni uomo magnanimo.

 

La fine del regno di Napoli che entra nell’orbita dell’impero spagnolo, le sue tristi vicende personali provocano in Pontano un drammatico scoraggiamento che lascerà tracce evidenti nelle ultime due opere politiche: il De immanitate e il De sermone. Il primo trattato potrebbe sembrare la caduta delle illusioni e il ritorno alla realtà dopo la speranza; negli uomini privati prevalgono la malafede e la menzogna, nei grandi, negli uomini pubblici, dilaga la disumanità, la matta bestialità. Pontano ritiene che l’uscita dalla natura umana e l’ingresso nella ferinità abbia provocato l’immanità, qualcosa che annulla la ragione e la volontà dell’uomo e che non coincide con il vizio. Infatti mentre il vizio, per quanto indegno appartiene alla natura umana, la matta bestialità è radicalmente disumana.

 

Diametralmente opposto al trattato De obedientia - dove Pontano aveva teorizzato la costruzione della società e il suo corretto funzionamento - qui si assiste al dissolvimento della società politica e al suo trasformarsi in un branco di bruti. La matta bestialità è stata sempre presente nella storia degli uomini seppur distribuita in modo diverso negli anni e nei secoli. Vi sono stati periodi storici nei quali nascono un maggior numero di uomini crudeli e disumani. Nonostante la drammaticità delle sue affermazioni, Pontano conclude con un atto di speranza riposta negli studia humanitatis; questi possono insegnarci a frenare le passioni, possono rafforzare i legami sociali, in una parola consolidare la nostra umanità al fine di allontanarci dalla matta bestialità.

 

 

 

Rosanna Marsala

 

 

 

 

 

Nunzio Dell’Erba, Socialismo e questione contadina in Romania (1821-1921), Milano, Edizioni Unicopli, 2006, pp. 121.

 

Il recente saggio di Nunzio Dell’Erba, docente di Storia contemporanea nell’Università di Torino, ricostruisce le vicende del socialismo romeno dalla prima metà del XIX all’inizio del XX secolo. L’autore, con la sua preziosa capacità di sintesi, – già ben collaudata con un fortunato volumetto sulla Storia dell’Albania (Tascabili Newton, 1997) – ha il merito di colmare una lacuna nell’ambito degli studi sul socialismo europeo.

 

In Romania il socialismo ebbe le sue radici nel 1821, nel movimento rivoluzionario valacco capeggiato da Tudor Vladimirescu, ed ebbe la sua "causa scatenante" nella questione contadina e nei conseguenti movimenti sociali repressi dalle autorità. Gli intellettuali romeni, fuggiti in seguito alla repressione, si ritrovarono nelle più grandi capitali europee ed entrarono in contatto con il socialismo europeo occidentale. A diffondere i principi socialisti contribuì, ad esempio, l’Associazione romena per la direzione dell’emigrazione, sorta a Parigi nel 1849 ad opera di Nicolae Balcescu seguace di Mazzini e morto a Palermo a trentatré anni.

 

Ion Heliade Radulescu e Theodor Diamant si impegnarono a divulgare in Romania le idee dei socialisti utopisti Fourier, Owen e Saint-Simon, tanto che Diamant istituì nei pressi di Ploiesti un falansterio che fallì per l’ostilità delle autorità. Nonostante l’insuccesso di tale iniziativa, Diamant ebbe il merito di creare una coscienza politica tanto che nel 1846 fu costituita a Brasov un’Associazione di mutuo soccorso e nel 1858, a Bucarest, la Cassa di soccorso e previdenza dei tipografi. E numerose altre associazioni operaie sorsero tra il 1860 e il 1870. L’Associazione generale degli operai di Timisoara, nell’ottobre del 1868 inviò una petizione al Ministro degli Interni per potere esercitare la libertà di riunione e aderì alla I Internazionale marxista.

 

In Romania, osserva l’autore, ebbe vasta eco l’esperienza della Comune di Parigi tanto che il governo inviò subito una circolare ai prefetti per sollecitarli a una maggiore vigilanza. In seguito alla guerra contro la Turchia, i socialisti romeni, attraverso alcuni organi di stampa, presentarono la questione contadina al vaglio dell’opinione pubblica mostrando, in particolare, le contraddizioni sociali del Paese. Tra il 1886 e l’inizio del 1887 i socialisti iniziarono una capillare propaganda nei villaggi e nelle campagne e gli intellettuali ebbero il merito di svolgere un’importante opera di educazione. Nel gennaio del 1888 i contadini svolsero una intensa attività a sostegno dei candidati socialisti che condusse alla vittoria del primo deputato socialista Vasile Gheoghe Mortun. Il programma politico dei socialisti aveva i suoi punti cardine nel suffragio universale, nello scioglimento dell’esercito permanente, nell’insegnamento gratuito e obbligatorio, nell’autonomia del comune, nell’abolizione delle imposte dirette e nel graduale riscatto delle grandi proprietà (ivi, p. 19).

 

I contadini, esasperati dalle misere condizioni di vita, nell’aprile del 1888 organizzarono una sommossa per "tradurre in atto i [...] propositi rivendicativi" (Ivi, p. 20). L’arresto dei contadini spinse i socialisti romeni a solidarizzare con il ceto oppresso pubblicando articoli a sostegno della loro lotta. Alla II Internazionale, tenuta a Parigi nel luglio 1889, i socialisti romeni – tra i quali Constantin Mille – "attribuirono alle diseguaglianze economiche esistenti fra l’enorme massa dei contadini e la minoranza dei proprietari terrieri la causa della sommossa contadina" (Ivi, p. 21). Nel Marzo del 1891 i socialisti "diffusero un manifesto con cui invitarono i lavoratori a costituire un partito, unico organismo capace di "difendere i loro interessi" e di "realizzare rivendicazioni pratiche in seno alla società borghese"" (Ivi, p. 23). Il 9 dicembre 1891 entrò in carica il governo conservatore di Lascar Catargiu che assunse subito una linea dura attraverso l’emanazione di leggi speciali e l’istituzione della gendarmeria rurale. L’anno successivo, ad opera di Musoiu Panait, apparve la prima traduzione in romeno del Manifesto del partito comunista di Marx. Il documento - definito "quintessenza del socialismo" - ebbe subito una seconda edizione.

 

Tra i protagonisti del socialismo romeno vi fu Constantin Dobrogeanu-Gherea, al secolo Salomon Abromovic Katz, di famiglia ebrea russa, divenuto nel 1882 cittadino romeno e sostenitore del movimento rivoluzionario russo. Egli espresse "una concezione sociale dell’arte, tendente a dimostrare la dipendenza dell’opera estetica dall’ambiente e dal momento storico [...] considerò l’arte solo in funzione sociale, assegnando ad essa una funzione interpretativa della realtà ed esaltatrice della lotta di classe, unico momento idoneo a creare un’organizzazione sociale basata sulla sacralità del lavoro umano" (ivi, p. 29). Nel 1886 Gherea, con il saggio Che cosa vogliono i socialisti romeni? impresse un orientamento politico alle prime organizzazioni socialiste, ma le sue proposte si mossero "tra un indirizzo intransigente e rivoluzionario e una visione politica municipalistica e gradualistica" (ivi, pp. 30-31). La soluzione della questione contadina venne sintetizzata in nove punti programmatici: voto universale diretto; scioglimento dell’esercito permanente; autonomia comunale; libertà assoluta di stampa, di riunione etc.; insegnamento libero e gratuito; elezione dei magistrati da parte del popolo; sostituzione dei penitenziari con case di correzione; uguaglianza della donna (ivi, p. 32).

 

Nell’opera La neoservitù della gleba, edita da Gherea nel 1910, l’autore definì la neoservitù il "regime economico e politico-sociale agrario" che "consiste in quattro termini: rapporti di produzione in buona parte basati sul servaggio [...] uno stato di diritto liberalborghese [...] una legislazione tutelare, che decreta l’inalienabilità delle terre contadine [...] l’insufficienza della terra del cosiddetto piccolo proprietario contadino per il lavoro e il mantenimento della sua famiglia" (p. 34). Due anni dopo, al IX Congresso della II Internazionale, Gherea fece un discorso contro il militarismo tanto che, dopo l’entrata in guerra della Romania, egli preferì trasferirsi in Svizzera sino al 1919 per morire in patria l’anno dopo. Le idee di Gherea approdarono alla costituzione del Partito socialdemocratico dei lavoratori romeni (PSDMR) costituito nel 1893. Nel 1897 quest’ultimo, al IV Congresso, si fece promotore – attraverso i circoli socialisti – di un’azione in favore del miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei contadini da realizzare con "uno sgravio fiscale e una scolarizzazione estesa a tutte le età" (p. 43). Il governo conservatore di Catargiu sciolse i circoli al fine di rispondere alle preoccupazioni dei proprietari terrieri. Si trattò – scrive Dell’Erba – di una repressione che "inferse un duro colpo al partito socialista romeno, che riuscì a riorganizzarsi solo nei primi anni del XX secolo" (p. 44). Proprio agli inizi del ‘900 la Romania appariva con una popolazione in prevalenza contadina e con un territorio dominato dal latifondo.

 

Nel 1906, con il documento Quarant’anni di povertà, di schiavitù e di vergogna, i socialisti denunciarono la grave situazione economica dei contadini e la loro esclusione dal godimento dei diritti politici. Il numero di anni riportato nel titolo del documento non era casuale, ma serviva per ricordare il periodo di reggenza di Carlo I.

 

Nel febbraio-marzo 1907 i contadini organizzarono una rivolta che coinvolse i villaggi romeni e che fu duramente repressa dal governo che provvide subito allo scioglimento dei circoli socialisti e all’arresto dei dirigenti. La sommossa, scrive l’autore, "segnò una battuta d’arresto, ma ebbe una vasta eco in tutti i Paesi europei. Essa esercitò grande influenza in Transilvania, dove i contadini romeni unirono alla lotta contro gli agrari ungheresi anche quella per l’indipendenza nazionale" (pp. 54-55). I contatti tra i socialisti della parte orientale e della parte meridionale dei Carpazi produsse, nel mese di luglio dello stesso anno, l’Unione socialista della Romania che, nel suo programma, chiese "l’espropriazione forzata di tutte le grandi proprietà che superano la dimensione di trecento ettari" (p. 55). L’Unione rinvigorì il partito socialdemocratico e, nel 1910, a Bucarest, fu approvato un programma di solidarietà alla classe lavoratrice della Transilvania.

 

Con la prima guerra mondiale i problemi economici della Romania si acuirono, inaugurando uno dei periodi "più complessi e inquieti della storia" di quel Paese. La questione contadina continuò a essere "il nodo più intricato" delle forze politiche. E mentre l’ala moderata socialista invitava alla "distensione", l’ala intransigente "diede vita ad azioni sovversive che raggiunsero il culmine nello sciopero generale dell’ottobre 1920" (p. 77). Il sovrano, pressato dai ceti proprietari, incaricò il generale Alexandru Averescu di formare un governo che fu ostile al movimento operaio. Gli intransigenti iniziarono a chiamarsi "comunisti" e ad aderire ai principi della III Internazionale: lotta di classe e dittatura del proletariato. E nel maggio 1821, "in un clima abbastanza confuso", si tenne a Bucarest il Congresso costitutivo del Partito comunista che proposte un progetto di riforma agraria di stampo sovietico con la totale espropriazione delle terre.

 

Il volume di Dell’Erba si chiude con un’Appendice che raccoglie il Programma del partito socialdemocratico degli operai della Romania, lo Statuto del 1908 sull’Unione socialista della Romania e il Programma agrario dei partiti socialisti e comunisti.

 

 

 

Claudia Giurintano

 

Alfonso Giordano, Canti sparsi d’amori perduti, Edizioni Novecento, 2006, Palermo, pp. 32.

 

Meraviglia questa raccolta breve di poesie dal titolo Canti sparsi d’amori perduti. L’Autore è Alfonso Giordano, primo presidente della Corte di Appello che, tra il 1985 e il 1987, ebbe a presiedere un processo storico: il Maxiprocesso di Palermo contro la mafia. E meraviglia, anche perché si tratta di poesie d’amore e perché l’alto magistrato che le ha date alle stampa ha ben 78 anni.

 

Le ragioni però sono confessate molto sinceramente nell’ultima lirica del volume, che si intitola Congedo: "Traggo dallo spartito/ logoro dei ricordi/ il riflesso ingiallito di variegati accordi/ le dissonanze acute/ di trionfi esaltanti/ le note brucianti/ di umiliazioni avute".

 

A prima vista, però, può sembrare che le poesie prescelte siano il tentativo di affidare alla pagina scritta una serie di ricordi. Ma non è così. La lirica infatti prosegue: "Ed ecco la mia vita,/ (stagion breve e infinita)/ con le sue gioie e i dolori,/ rivivere in un attimo/ nella mente avvilita,/ mentre mi rigiro/ nel letto, insonne,/ e piango sull’origliere/lacrime disperate e sincere".

 

Dunque, non è solo il passato per il passato che il Poeta intende riportare alla memoria. è un passato rievocato come pretesto per esprimere oggi, nel pieno della terza (o quarta) età, il suo dramma di uomo che ha cercato, senza trovarlo, per tutta la vita l’amore. L’amore che non soddisfi solo i sensi. L’amore che prenda nella sua interezza l’anima. L’amore che sia sogno e realtà assieme.

 

Credo infatti che alla luce di tale spasmodica ricerca vanno vista le numerose donne della raccolta: Erato, Arianna, Adriana, Lesbia, Calpurnia, Arabella, Ifigenia, Sara, Nausicaa. e i nomi sono di donne vere. Solo finalisticamente (e non tutti) possono essere considerati simbolici. Perché l’uomo Giordano guarda all’amore nella sua più alta sublimità, come fusione piena e completa tra due esseri, ed invece la raccolta documenta che ogni incontro pur vissuto all’acme della passione lascia tormenti e rimpianti: "No, non è possibile/ che tutto si annulli/ e svapori per sempre/ nella sera che muore. Oppure: Adesso che tutto è finito/le parole d’amore/ che non ti dissi/ si sfaldano sulle mie labbra/ col sapore acredella cenere".

 

E che la concezione dell’amore quale pienezza assoluta abbia in Giordano tale alta significazione trova riscontro, a mio giudizio, nella prima lirica (Erato): "Se t’ami ancora il dubio ecco m’assale./ Ma una certezza si fa strada: e sia!/ e forse amo di te sol l’ideale".

 

A parte queste considerazioni di fondo un altro dato va evidenziato: la pudicizia del linguaggio che esalta lo stesso sentimento dell’amore purificandolo quasi alla maniera del Dolce stil nuovo. Versi di alto respiro morale e anche religioso quelli che chiudono Congedo: "Ma, ecco, in lontantanza/, profilarsi una croce:/ è l’ultima speranza".

 

 

 

Dino D’Erice

 

 

 

Carmelo Pirrera, Cronaca, Messina, Intilla, 2006

 

Confessa il poeta, in calce alla sua raccoltina di cedere "al pianto se ci viene chiesto chi mai sia stata Ecuba per noi".

 

L’autore sa, dunque, bene quanto siano commisti e comunicanti le grandi vicende consacrate dalla memoria collettiva e gli episodi spiccioli e quotidiani delle nostre misere vite di uomini comuni.

 

Ecuba - la sventurata regina di Troia - potrebbe essere nostra madre, nostra sorella, la nostra compagna… E, con lei, ci sarebbero famigliari Priamo, Paride, i loro cari e i loro nemici…

 

Pirrera sente la tragicità della storia in quanto tale: lo svolgersi e raggrumarsi degli eventi - poco importa se "piccoli" o "grandi" - è, comunque, doloroso, spesso inenarrabile e magari inutile, incomprensibile…

 

Con notevole delicatezza, il nostro poeta tesse il suo taccuino di emozioni e di ricordi; in appena ventitrè brevi composizioni condensa i tumulti personali, famigliari, generazionali ed epocali del suo tempo.

 

I toni usati sono quelli pacati e amari di chi ha vissuto e visto e può, quindi, tirare l’impietoso (e, proprio perciò, ricco di pietas) consuntivo; di chi ha domato la boria delle parole altisonanti; di chi vuol quasi farsi perdonare le illusioni e gli errori di cui è stato alfiere, ma che gli sono tuttavia serviti per dare una direzione alla propria vita.

 

Queste "cronache" quasi private diventano così emblematiche della storia di tanti.

 

Pirrera raggiunge questo risultato mercé efficacissimi endecasillabi, incamminati in un solco di tenerezza, spesso affogata in occhi di donne e in fondi di bottiglia.

 

Convincenti la fattura, il lessico e il ritmo, bene intonati, a nostro avviso, al sentire dell’autore.

 

Ci sono quasi il taglio e l’apparente immediatezza del diario in questi versi, oltre a una singolare attitudine al lindore, insieme interiore e stilistico.

 

Di queste poesie, contrassegnate da numeri anziché da titoli, ci piace, infine, citare alcuni brani, tratti dagli ultimi due testi del volume: "Non fu fatica, no. Non fu fatica/ chiudere i conti con il bene e il male;/ con il sole e coi giorni,/ con la storia,/ con la speranza spesso menzognera,/ e abbandonarsi al sonno della terra/ […]/ Rosa irrecuperabile, la vita./ Svendettero i suoi libri, il suo violino/ e bruciarono i versi…".

 

 

 

Salvatore Mugno

 

 

 

Lino Di Stefano, Gentile filosofo sociale, Isernia, Edizioni Eva, 2005

 

"La vita dunque dello spirito, in cui la cultura consiste, è sforzo, lavoro, ma non è pena... Il lavoro non è un giogo per la volontà e quindi per l’uomo; è la sua libertà...". Lo sosteneva Giovanni Gentile, ne La riforma dell’educazione, un suo studio pubblicato nel 1919.

 

Proprio sul filo del pensiero gentiliano sulla produzione economica e sull’organizzazione dei lavoratori e degli imprenditori, si inserisce il recente saggio di Lino Di Stefano, studioso molisano, già autore, peraltro, di svariate pubblicazioni dedicate al grande intellettuale siciliano.

 

Di Stefano ritiene che il dato etico-sociale sia centrale e costantemente presente nella riflessione gentiliana, a partire dai suoi scritti giovanili, quando si era da poco diplomato al Liceo Classico "Ximenes" di Trapani.

 

Ne sarebbe esempio un intervento, intitolato Arte sociale, uscito su una rivista di Castelvetrano ("Helios") nel 1896, in cui il filosofo dell’Attualismo rilevava che "opera d’arte non è solo quella dell’artista che ritrae la società; ma anche quella che ritrae l’anima onde schiettamente prorompe".

 

Le questioni sociali - nell’attività gentiliana - sono poi presenti nel volume La filosofia di Marx (1899), nella corrispondenza col Croce, in vari saggi e interventi apparsi su periodici, in un arco temporale che si estende per quasi un cinquantennio, fino al "testamento spirituale costituito da Genesi e struttura della società, uscito postumo nel 1946", come precisa Di Stefano.

 

Gentile rigettava il socialismo materialistico marxiano, argomentando che esso "anziché fomentare e svolgere le tendenze morali della solidarietà che ogni concezione socialista parrebbe destinata ad eccitare, battendo sul diritto senza dovere del lavoratore e sul concetto della egoistica lotta di classe, accentuò l’individualismo..." (Frammenti di storia della filosofia, 1926).

 

L’autore di questa plaquette ripercorre e analizza gli scritti di quanti si sono occupati del profilo sofiale gentiliano (da Ugo Spirito a Ado Schiavo a Augusto del Noce), soffermandosi sulla concezione gentiliana secondo cui "società e Stato coincidono", dalla quale, poi, si giunge alla formulazione del diritto corporativo e dello Stato corporativo.

 

Scriverà Gentile che "la corporazione nega il particolarismo e individualismo liberare dell’economia, riconosce i legami essenziali dell’individuo con la società nazionale..." (1946).

 

Si trattava di una "terza via" che provava a sostituirsi ai binomi capitale-lavoro e liberalismo-comunismo.

 

La sintesi si sarebbe dovuta trovare nell’idea di "potenza nazionale", che avrebbe messo tutti insieme e d’accordo, ma il regime - puntualizza Di Stefano - non seppe in realtà armonizzare i conflitti, rimanendo preda di "aporie" irrisolte.

 

Il nuovo concetto di individuo delineato da Gentile, nel contesto di una "società ideale" e concepito come "socius", restava e ancora rimane lontano dalla realtà.

 

 

 

Salvatore Mugno

 

 

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