Lino Piscopo, La drammaturgia siciliana dalle origini alle vastasate,
Provincia regionale di Palermo, Assessorato alla Cultura, Palermo 2006, pp. 64.
Il lavoro di Lino Piscopo non è certamente - come egli stesso modestamente lo definisce - una semplice carrellata, forse noiosa, di autori e di testi, è bensì uno studio serio ed accurato del teatro siciliano dalle origini all’alba dell’Ottocento. Il teatro ha da sempre rappresentato la vera anima di ogni popolo, la sua tendenza al riso o al pianto, all’autocommiserazione o all’esaltazione; non capiremmo, infatti, l’anima del popolo greco senza le tragedie che ne indicano la propensione alla celebrazione del mito, all’esaltazione del fato, alla dolorosa constatazione delle ingiustizie che la vita riserva ai poveri ed ai potenti. Così come non comprenderemmo la propensione all’autoironia della gente veneta senza le commedie di Goldoni o la tendenza alla satira propria dei francesi senza il teatro di Moliére. Nella finzione scenica, i popoli hanno sempre trovato lo strumento più adatto per rappresentare una realtà, troppe volte ufficialmente negata o volutamente ignorata dai detentori del potere. Ecco perché il teatro ha sempre avuto nei secoli una funzione critica nei confronti del potere costituito, più o meno manifesta, a seconda delle epoche e dei regimi.
Anche per il popolo siciliano la trasposizione scenica della realtà quotidiana fu un modo per mettere alla berlina i ricchi e i potenti, ma anche per denunciare la miseria della povera gente che, soprattutto nelle città, viveva ai limiti delle possibilità umane, in catoi fatiscenti, al di là delle più elementari norme di igiene personale, sempre alla ricerca di cosa mettere nello stomaco per sopravvivere giorno dopo giorno. Un popolo quello siciliano, servo per millenni, oggetto e strumento di potere di re lontani e di patrizi tanto potenti quanto incapaci.
Il teatro, dunque, rappresenta una testimonianza anche per la storia della Sicilia e la sua fondamentale importanza per gli abitanti di questa terra si deduce anche dal gran numero di teatri che i nostri primi dominatori ci hanno lasciato come segno del loro passaggio. I teatri di Siracusa, di Taormina, di Segesta, di Tindari, sono i luoghi più frequentati dai turisti che visitano la nostra Isola.
Di teatro in Sicilia, intendendo, in senso vago per teatro siciliano, anche quello costituito da testi scritti da drammaturghi siciliani, pur in altre lingue, possiamo cominciare a parlare con Teocrito, esponente della classe intellettuale della Magna Grecia, siciliano di Siracusa, vissuto tra il IV e il III secolo A.C.. Amico di Callimaco, fu, forse, il maggior poeta dell’età ellenistica, famoso soprattutto per i suoi idilli, per i suoi carmi, alcuni di contenuto politico, contro la tirannia di Gerone, per le sue poesie bucoliche, ma soprattutto per i suoi epicarmi che erano delle vere e proprie rappresentazioni sceniche che si rifacevano alla vita di tutti i giorni, osservata, spesso, da una visuale nettamente umoristica. Fra le sue opere più famose ricordiamo Le Siracusane; ma anche altri due suoi concittadini, Epicarmo e Mosco, contribuirono all’evoluzione del nostro teatro, mettendo in risalto nella loro produzione, non solo la celebrazione dell’amore, spesso dell’erotismo, ma soprattutto l’uso dell’ironia. Fin da allora, proprio nel teatro, si rivela il carattere del nostro popolo che, al pessimismo dei greci, contrappone la trasposizione in senso comico, sulla scena, delle proprie miserie e delle prepotenze a cui viene sottoposto nei secoli. Un popolo che si serve dell’umorismo per nascondere il proprio fallimento, che trova nel prendere in giro chi lo domina, il solo strumento per redimersi dalla schiavitù, alla quale nella realtà si adatta opportunisticamente. L’ironia, il lato comico delle miserie umane saranno proprio le caratteristiche, poi, del maggiore dei nostri drammaturghi, quel Luigi Pirandello che nel paradosso innalzò a capolavoro il racconto del quotidiano. Fu proprio Pirandello a tradurre in siciliano e a portare sulle scene, nel lontano 1919, il poema satiresco di Euripide U Ciclopu. Sulla scia della tradizione letteraria greca, anche Lino Piscopo, ha pubblicato, nel 2003, un dramma in due atti, Ilion!...Ilion, trasposizione dell’Iliade omerica in dialetto siciliano.
Con Federico II, all’ombra della Scuola siciliana, in un momento in cui la nostra, lingua era la più diffusa e conosciuta nella penisola, in attesa di essere soppiantata dal toscano, il teatro siciliano attraversò un momento di particolare splendore. In quel tempo, probabilmente, vennero alla luce i primi strambotti d’amore in siciliano, secondo le testimonianze di Ugo Falcando e dell’arabo Gubayr, come eredità degli antichi fescennini. In quegli anni la produzione letteraria siciliana vide come protagonisti, Iacopo da Lentini, Odo delle Colonne, Pier delle Vigne e lo stesso FedericoII, ma chi fu l’iniziatore del teatro siciliano medievale fu senz’altro Ciullo d’Alcamo con il suo Contrasto fra Amante e Madonna che fu messo in scena, nel 1948, con scene di Giorgio De Chirico e con l’interpretazione di due grandi del teatro italiano come Ivo Garrani e Laura Carli.
Con la fine del regno normanno-svevo, la Sicilia vede svanire il suo sogno di grandezza e riacquista il ruolo di colonia di sfruttamento nelle mani del conquistatore di turno. La lingua si evolve e si trasforma e anche il teatro assume nuovi aspetti e ricalca nuove realtà. In attesa che l’Umanesimo e poi il Rinascimento trionfino anche in questo estremo lembo d’Europa, la cultura popolare resta ancorata ai temi religiosi tanto cari alla tradizione medievale; così il primo autore che è degno di essere menzionato dopo Ciullo d’Alcamo è Marco De Grandi con la sua Resurrectio Christi, nella prima metà del 1400. E’ questa una rappresentazione teatrale di argomento religioso che riesce particolarmente suggestiva per l’uso del siciliano che rende più vicina agli ambienti popolari del tempo la narrazione della Passione. Di questo periodo è anche un contrasto amoroso fortemente manierato, di Caio Calogero Porzio, di cui non ci è pervenuto il titolo.
Con il Rinascimento l’argomento principe della commedia italiana è l’amore, inteso non in senso idilliaco e pastorale, ma come eros, che si esprime non solo nella scurrilità del racconto, per arrivare alla commedia boccaccesca, sulla scia della Mandragola di Machiavelli, ma anche come eterno conflitto tra giovani ed anziani. Si tratta di avventure erotiche di basso rango sempre contrastate dai vecchi, o per gelosia, o per spilorceria, o per rivalità. Protagonisti diventano, dunque, i mezzani e le mezzane, i servi complici o bugiardi ed imbroglioni, i parassiti, con un occhio rivolto alle commedie di Plauto e di Menandro.
La Controriforma, tuttavia, imponeva il ritorno ad un teatro didascalico a soggetto religioso e su questa traccia si muove il gesuita Ortensio Scammacca, autore di una serie di rappresentazioni proprie del teatro liturgico (S. Alessio, S. Agata, S. Rosalia, ecc.). Da questo tipo di teatro derivano quelle rappresentazioni religiose che ancor oggi vengono messe in scena in molte parti della Sicilia, per esempio i vari Mortori, nonché le processioni spettacolari, come i Misteri di Trapani o le Vare di Caltanissetta.
Con Ambrogio Borghese, nel 1650, spunta la maschera siciliana di Nardo Nappa, protagonista della sua commedia Ambrosia, mentre è del 1660 l’esordio di Masi, un’altra caratteristica maschera siciliana creata dal notaio catanese Giuseppe Squillaci nella commedia Masi il siciliano. Anche in Sicilia nasce, dunque, la maschera che era già nata nel teatro del resto d’Italia ed è la maschera che determina il trionfo vero della commedia dell’arte, intesa non solo come rappresentazione fatta da compagnie di comici di professione, ma anche come opera di attori, più che di autori; cioè, al canovaccio scritto si sovrappongono le improvvisazioni di chi recita.
È proprio su questa scia che si colloca il cosiddetto teatro dei Travaglini, sito nell’attuale Piazza Bellini, chiamato così perché il personaggio protagonista delle varie farse scollacciate che vi si rappresentavano, era appunto il buffone Travaglino. In questo teatro recitarono per la prima volta due donne che portarono notevoli turbamenti in molte agiate famiglie palermitane.
Nella seconda metà del Settecento nascono le vastasate palermitane, spettacoli che avevano luogo nel vasto Piano della Marina, o in casotti, più o meno grandi dove si vendeva la merce e che poi vennero costruiti apposta per le rappresentazioni sceniche. Fu sempre in quel vasto piano prospiciente il mare che avvennero le prime rappresentazioni dell’Opera dei pupi.
Per comprendere l’origine delle vastasate, bisogna, in un certo senso, ripercorrere la storia sociale ed urbanistica della Palermo dell’epoca; ad una nobiltà ricchissima e sfaccendata, e ad una borghesia fatta di laboriosi commercianti e di professionisti, vicini al ceto patrizio, si contrapponeva una innumerevole plebe che viveva al limite dell’umano offrendo, nelle strade inzaccherate della città, ancora sprovvista di fogne, i propri servizi ai ricchi. Tra questi servizi il più comune era quello di portarli a braccia o su portantine per evitare che sporcassero i preziosi indumenti e le scarpe di seta. Vastaso è un termine di origine greca che indica appunto colui che porta, ha tuttavia assunto, col tempo, una valenza totalmente negativa, quella di sporcaccione, volgare, maleducato, probabilmente perché la professione di portantini era esercitata dalla feccia della plebe cittadina, non caratterizzata certo, né dal rispetto per l’igiene, né per l’osservanza delle buone maniere. I vastasi, le loro maniere, le loro liti, i rapporti pittoreschi che si intrecciavano nei curtigghi palermitani, su cui si affacciavano le abitazioni dei nobili cittadini, furono il canovaccio di quelle commedie, i cui inventori furono Biagio Perez e Giuseppe Marotta, l’uno portiere, l’altro sarto, che avrebbe dato luogo alla tradizione delle vastasate. Tali farse recitate da attori presi dalla strada, tutti maschi, anche quando impersonavano personaggi femminili, con i loro vestiti sudici, e la loro parlata colorita, riscossero tanto successo che re Ferdinando I, durante la sua permanenza a Palermo, alla fine del Settecento, volle assistere ad una di queste rappresentazioni. Di esse, purtroppo, ci sono rimasti solo i titoli, ad eccezione dell’arcinota Curtigghiu di li Raunisi di cui è giunto fino a noi anche il testo completo, scritto verosimilmente da Biagio Perez. Anche in questa commedia, più volte rappresentata recentemente, i protagonisti erano quelli di tutte le altre vastasate Nofriu e Lisa; il cortile, sfondo del racconto, è realmente esistito e si trova in prossimità del Capo. Il cortile era lo stratagemma scenico che venne usato anche dagli autori di commedie del resto d’Italia, soprattutto nel ‘500, per sostituire la piazza, sfondo della commedia atellana, dove non era conveniente che apparissero le donne per bene o le fanciulle caste. La trama si snoda su una storia d’amore, interpretata in chiave estremamente comica, con tutti i risvolti popolari ad essa consueti, per esempio la fuitina. Una particolare messa in scena di tale famosa vastasata è quella curata da Ignazio Buttitta, rappresentata, nel 1973, al Teatro Biondo; per merito del Buttitta il testo, interpretato da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e ripreso dalla RAI, ha goduto di un’abile attualizzazione.
Un discorso a parte merita il grande Giovanni Meli, abate e medico, poeta coltissimo, gran dongiovanni, il cui unico lavoro drammatico è una farsa, alla maniera delle vecchie vastasate: Li palermitani in festa. Pri la vinuta improvvisa in Palermu di Sua Maestà Ferdinandu III che ebbe molteplici rappresentazioni, non solo a fine Settecento, ma anche ai giorni nostri. A tale testo si sono ispirati Lino Piscopo e Giuseppe Santostefano nello spettacolo teatrale Vinnu lu Re, messo in scena nel 1996 al Teatro Orione, ambientato nel classico curtigghiu palermitano, abitato dalla plebe, ma su cui si affacciano le case dei benestanti, alla vigilia dell’arrivo del Re, a cui si accompagnano speranze e delusioni.
Se il teatro siciliano avrà il suo momento di trionfo e di riconoscimento internazionale con Pirandello, conoscere i drammaturghi che lo precedettero e sulla scia dei quali anche il grande agrigentino si pose - pur rappresentando tempi e costumi diversi, ma sullo sfondo caratteriale identico di un popolo che esprime il suo pessimismo trasformando la realtà in paradosso - non può non considerarsi estremamente istruttivo e meritorio per chi ci dà, oggi, la possibilità di conoscere, un mondo, quello dell’antico teatro dialettale, su cui, purtroppo, per troppo tempo, è sceso un immeritato oblio.
Gabriella Portatone
Maria Gabriella Pasqualini, L’Esercito italiano nel Dodecaneso 1912-1943. Speranze e realtà. I documenti dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico SME, Roma 2006, pp. 560
Il puntualissimo studio di Maria Gabriella Pasqualini sulla presenza dell’Esercito italiano nel Dodecaneso, nel trentennio in cui le Isole Egee costituirono parte del nostro Impero coloniale, è un lavoro che merita rispetto e grande considerazione per la particolarità della ricerca e per averci dato, per la prima volta, un quadro completo dei sistemi di difesa italiani in quelle lontane isole. La ricerca si apre con un’acuta osservazione sull’obiettività dello storico professionista che sottolinea l’onestà intellettuale dell’autrice, la quale riconosce l’impossibilità dell’esistenza di una storia recuperata acriticamente dai documenti. Nel momento in cui il ricercatore sceglie i documenti, ha già fatto una valutazione critica da cui non può essere esente la componente personale, caratteriale, sentimentale e anche ideologica. Anche lo storico più onesto, dunque, non riuscirà mai a non marchiare con la sua personalità il proprio lavoro di ricerca; ma ciò che distingue lo storico onesto dal manipolatore della verità storica, spesso strumento di particolari interessi politici ed economici, è, appunto, la buona fede e lo sforzo continuo di essere indipendente nelle sue valutazioni e quanto più possibile conforme alla verità documentale.
Il Dodecaneso, un possedimento di 14 isole, sparse nel Mare Egeo, in prossimità della Turchia, si trovò quasi casualmente ad incrociare i destini dell’Italia quando venne occupato, come pegno per il completo sgombro, da parte delle truppe turche, della parte interna della Libia, conquistata solo parzialmente dagli italiani nel 1911. L’occupazione delle Sporadi meridionali veniva considerata dal Capo di Stato Maggiore, gen. Pollio, una manovra adeguata per ottenere dal governo della Porta la firma di un trattato di pace con l’Italia, visto che l’esercito non riusciva ad aver ragione della ribellione delle tribù interne della Cirenaica e della Tripolitania, inoltre, la presenza della flotta italiana, in quell’estremo lembo del Mediterraneo, avrebbe potuto mettere finalmente fine, al contrabbando di armi dalla Turchia alla Libia. Occupare quelle isole invece che fare un’azione di forza sui Dardanelli, appariva più conveniente sia dal punto di vista economico che da quello politico-militare. Un’azione di forza sugli Stretti, infatti, avrebbe reso la Turchia quanto mai guardinga, rinfocolando il nazionalismo arabo-turco e avrebbe insospettito e messo in allarme sia la Russia che l’Inghilterra; avrebbe, inoltre, costretto la Marina italiana ad una lotta molto dura che avrebbe sicuramente portato alla perdita di qualche nave e quindi di parecchie decine di milioni, perdita che l’Italia non poteva permettersi. Non meno pericoloso per gli equilibri internazionali sarebbe risultato un bombardamento di Salonicco o di Smirne, quest’ultima azione, inoltre, avrebbe potuto colpire più interessi italiani che turchi. Fin da allora fu chiaro ai vertici dell’esercito e della Marina che per la distanza delle Isole dall’Italia e per la loro prossimità al territorio turco, esse avrebbero dovuto essere continuamente presidiate dalla forze italiane, inoltre, per la povertà del loro territorio, sarebbero sempre dipese, per gli approviggionamenti, dalle navi italiane che avrebbero dovuto effettuare i trasporti attraverso una rotta che non sarebbe mai stata sicura. Dunque le esigenze politiche finivano per cozzare con le difficoltà di ordine militare ed economico. Non si poteva, d’altronde, non tener presente che un’eventuale occupazione italiana del Dodecaneso non sarebbe stata certamente gradita né da Vienna, né da Londra, né da Parigi, mentre le popolazioni greche delle isole, seppur stanche della dominazione turca e simpatizzanti per l’Italia, una volta liberatesi dell’odioso dominio ottomano, avrebbero difficilmente sopportato un’occupazione diversa da quella greca. Il Capo di Stato Maggiore della Marina era soprattutto preoccupato della reazione inglese all’occupazione italiana delle isole: infatti la flotta italiana avrebbe potuto più facilmente controllare il commercio del Mediterraneo orientale e, in caso di alleanza con la Turchia, favorire in funzione antinglese l’invio di truppe turche in Egitto; tuttavia il Capo di Stato Maggiore Generale, gen. Pollio, reputava i rischi meno pericolosi per l’Italia del permanere di una situazione di incertezza in Libia. Tali difficoltà rendevano tentennanti i vertici dell’Esercito, tanto più che i rischi apparivano sproporzionati a quelli che dovevano essere i vantaggi di un’occupazione destinata da essere provvisoria. Tuttavia, nell’aprile del 1912, falliti i tentativi di mediazione internazionali, per indurre la Turchia a riconoscere la colonia italiana di Libia, avuta assicurazione della neutralità austriaca e francese, l’occupazione del Dodecaneso, valutati i pro e i contro, apparve allo Stato maggiore dell’Esercito e della Marina, l’unica soluzione per superare l’impasse. Si decise, quindi, di costituire un Distaccamento speciale che sarebbe poi diventato la 6° Divisione Speciale dell’Egeo, che si sarebbe riunita a Tobruk e da lì sarebbe salpata il 2 maggio, per approdare a Rodi due giorni dopo. Il 5 maggio l’ammiraglio Ameglio otteneva la resa di Rodi, dove le truppe italiane facevano il loro ingresso, accolte dall’entusiasmo delle popolazioni, convinte che la cacciata dei turchi fosse un primo passo verso l’annessione alla Grecia. Intanto venivano occupate, dopo Rodi, le altre isole. Il 18 ottobre 1918 veniva firmato ad Ouchy un trattato di pace tra Italia e Turchia, con cui quest’ultima si impegnava a sgombrare la Libia. Solo quando l’operazione di sgombro fosse stata ultimata, gli italiani avrebbero lasciato il Dodecaneso che rimaneva formalmente sotto il dominio turco, ma la cui amministrazione civile e militare passava provvisoriamente all’Italia. Non tutti gli abitanti delle Isole anelavano ad un’unione alla Grecia, molti avrebbero voluto l’autonomia, mentre i turchi israeliti presenti in quei territori gradivano la presenza italiana. Un governo autonomo delle isole sarebbe stato gradito, inoltre, sia alla Francia che all’Inghilterra, che si sarebbero meglio sentite garantite nei loro interessi rispetto all’espansione dell’autorità greca in quell’arcipelago. Ad un anno dall’occupazione, tenendo conto anche di una notevole emigrazione dalle Isole verso le Americhe o il Sudan, la situazione si era stabilizzata. A settembre furono riaperte le scuole delle tre confessioni religiose presenti. Le autorità militari ritennero di dover istituire una scuola italiana al fine di rafforzare l’espansione della nostra cultura in quei luoghi. Alla stregua di Crispi si riteneva che l’istituzione delle scuole italiane fosse determinante per il rafforzamento della presenza italiana oltremare. Quel possedimento lontano, dal clima dolcissimo, ottenuto quasi per caso, in cui volentieri si recavano funzionari e militari italiani, sicuri di poter condurre uno stile di vita sano e tranquillo e orgogliosi di portare fino a quei lontani scogli la cultura e la civiltà italiane, fu sempre considerato un possedimento di secondo piano, bisognoso soltanto di essere difeso, ma scarsamente interessante sia per un’eventuale emigrazione, sia per un’espansione della dominazione italiana nel Mediterraneo Orientale. Solo alla vigilia della seconda guerra mondiale ci si rese conto delle potenzialità del possedimento, anche se esso non fu mai sfruttato adeguatamente; così si passò progressivamente da un sistema di mera difesa ad una politica militare che prevedeva la possibilità che le isole potessero essere un trampolino per l’attacco, in caso di guerra, alle colonie inglesi del Mediterraneo orientale (Cipro, Egitto, Sudan) e alla Grecia, nel caso in cui, come poi avvenne, essa si fosse alleata con una potenza nemica e una postazione indispensabile per costituire un cuneo fra i due nuclei, orientale e occidentale, della home fleet sparsa nel Mediterraneo da Gibilterra a Cipro, nonché il mezzo più idoneo per usare la Marina e l’Aeronautica allo scopo di ostacolare i collegamenti inglesi in quel mare che, a partire dal 1935, avrebbe avuto un ruolo fondamentale nei destini d’Europa.
In quel periodo tutte le potenze guardavano con avidità al progressivo disfarsi dell’immenso Impero Ottomano la cui eredità era diventata la prima causa di conflitto fra le nazioni Europee. Nel 1914 la Germania aveva ottenuto dalla Sublime Porta l’autorizzazione a costruire una ferrovia da Berlino a Baghdad, mentre l’Italia firmava con l’Impero un accordo che l’autorizzava alla costruzione di una ferrovia che andasse dal porto di Adalia, zona di forte interesse italiano, all’interno dell’Anatolia. Allo scoppio del primo conflitto l’Italia, che si trovava ancora provvisoriamente ad occupare l’Arcipelago, in attesa di definire la situazione con la Turchia, firmava con la Francia, l’Inghilterra e la Russia, il Memorandum di Londra che segnava il suo passaggio dalla Triplice Alleanza alla Triplice Intesa e quindi la sua partecipazione alla guerra al fianco delle Potenze occidentali a patto che, alla fine del conflitto, oltre al Trentino Alto –Adige, all’Istria, la Dalmazia, al porto di Valona, ottenesse dagli alleati il riconoscimento del possesso del Dodecaneso e dei suoi interessi, nel caso di divisione dell’Anatolia, sulla zona costiera che andava da Smirne ad Adalia. I diritti dell’Italia sulla zona vennero confermati nel 1917 dall’accordo di San Giovanni di Moriana, accordo dichiarato decaduto, alla fine della guerra, per la mancata ratifica dello stesso da parte della Russia. Nel 1919 l’intervento nei negoziati di pace degli Usa, mise in discussione le promesse precedentemente fatte all’Italia; si cominciò a parlare di ritorno alla Grecia del Dodecaneso, in virtù del principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli, e di attribuzione all’Italia della zona di Adalia. Era comprensibile, tuttavia, che Dodecaneso ed Anatolia erano inscindibilmente legate fra loro; l’Italia aveva bisogno delle isole per mantenere la zona di influenza nella costa anatolica e aveva bisogno di quest’ultimo territorio per far valere i suoi diritti sulle Isole.
Il Corpo di Spedizione in Anatolia sbarcò nella penisola turca nell’aprile del 1919 e, data l’occupazione di Smirne da parte della Grecia, la delegazione italiana alla Conferenza di pace di Versailles chiese compensi per l’Italia nell’Anatolia del nord, zona di Eraclea, e nella parte sud, verso Adalia ed Alessandretta, dove erano già fuggiti moltissimi turchi di Smirne, spaventati dall’arrivo dei greci. I soldati italiani avevano avuto l’ordine di giustificare l’occupazione del litorale meridionale dell’Anatolia, con la necessità di riportare nella zona quell’ordine turbato dallo sbarco greco a Smirne e dalla formazione di bande che, in nome del nazionalismo turco e del sentimento antigreco, avevano cominciato una vera e propria spedizione punitiva contro i greci ed una rivoluzione che, sotto la guida di Mustafà Kemal, avrebbe abbattuto il Sultanato e dato vita alla Repubblica turca. Intanto nelle Isole del Dodecaneso, il giorno di Pasqua, scoppiavano degli incidenti provocati dal nazionalismo greco e perciò ingigantiti dalla propaganda greca che accusava gli italiani di persecuzione nei confronti dei suoi connazionali e di aver decretato il blocco navale delle Isole. Le autorità italiane, pur smentendo il blocco navale, riconobbero che degli incidenti erano avvenuti soprattutto a Rodi, con due morti e alcuni feriti, provocati dal metropolita greco dell’isola. La tensione con la Grecia, che nutriva delle legittime aspirazioni sulle Isole dell’Egeo, continuava, malgrado alla Conferenza di Pace di Parigi ci fossero state lunghe trattative tra Venizelos e Tittoni, culminate in un accordo segreto in base al quale l’Italia si impegnava ad aiutare la Grecia a stanziarsi in Epiro e in Tracia e nella zona di Smirne, accettava di cedere il Dodecaneso, eccetto Rodi, ottenendo in cambio il riconoscimento dei suoi interessi sull’Albania e Valona. Tale accordo segreto sarebbe stato destinato a rimanere inapplicato dopo le vicende della guerra greco-turca che avrebbero ribaltato il trattato di Sevres, lasciando alla Turchia l’intera Anatolia e la città di Istambul nella Tracia. Ciò avrebbe, altresì, segnato il destino della Turchia moderna; uno stato laico seppur abitato quasi esclusivamente da islamici, repubblicano, con una democrazia in continua evoluzione, a cavallo tra l’Asia e l’Europa, punto di riferimento dell’Occidente, prima per difendersi da un’espansione comunista nel Vicino Oriente e, caduto il Muro di Berlino, per arginare l’espansionismo fondamentalista islamico.
Il venir meno delle condizioni che avevano dato luogo all’accordo segreto Tittoni- Venizelos, determinarono il permanere dell’occupazione italiana del Dodecaneso fino al 1947, occupazione che si pose come cuscinetto contro le tensioni franco-inglesi della zona; mentre gli inglesi, infatti avrebbero favorito un’espansione nella zona della Grecia, tradizionalmente amica, i francesi sostenevano le rivendicazioni turche con lo scopo, sia di stringere un rapporto politico ed economico con la nuova classe dirigente turca, laica e filo-occidentale, sia di stroncare le speranze inglesi di mantenere il pieno controllo della zona, tramite la presenza greca. La presenza italiana, riducendo le ragioni di tale dualismo, finì per compattare pericolosamente le posizioni anglo-britanniche.
Il 1° settembre 1919, visto che il Dodecaneso aveva finito per assumere un carattere prettamente politico nel contesto internazionale post-bellico, si decise che il Comando del Corpo di Spedizione Orientale passasse sotto le dirette dipendenze del Ministero della Guerra e così sarebbe stato fino all’armistizio dell’8 settembre; questo possedimento d’Oltremare, infatti, non sarebbe mai stato sottoposto alla competenza del Ministero delle Colonie, come invece era avvenuto per la Libia e sarebbe poi avvenuto per l’Etiopia. Malgrado il Ministero della Guerra chiedesse, già nel 1919, una riduzione dei contingenti presenti nell’Egeo, allo scopo di ridurre le spese in quella zona, che continuava ad essere considerata di importanza secondaria, Diaz si oppose decisamente ad una decisione che riteneva estremamente imprudente. La posizione di Diaz fu confermata dalla delusione che nelle popolazioni islamiche dell’Anatolia aveva determinato il rimpatrio di qualche reparto; di fronte alla costernazione della popolazione, che temeva di essere abbandonata dagli italiani alle scorrerie e alle vendette greche, anche il Ministero degli Esteri si rese conto di quanto potesse essere politicamente inopportuno ogni ulteriore diminuzione della presenza delle forze militari italiane in loco. L’esercito italiano rimaneva in Anatolia, dunque, in quel momento di difficile transizione, ufficialmente per contribuire al mantenimento dell’ordine pubblico, ufficiosamente per non abbandonare, nell’attesa dell’evolversi della situazione, quella importante e strategica zona del Mediterraneo orientale. Era quella un’opportunità che mai l’Italia aveva avuto, di inserirsi in quello scacchiere, in prossimità di Suez e del mar Rosso, da cui avrebbe potuto controllare sia il commercio che i movimenti della flotta britannica che aveva fatto della zona, tramite la presenza in Egitto, i mandati in Palestina e Trangiordania, la base navale di Cipro, il Sudan e la Somalia britannica, un british lake che le permetteva di agire indisturbata nel Golfo Persico.
Il 10 agosto del 1920, il Presidente del Consiglio Bonomi comunicava che il Corpo di Spedizione del Mediterraneo orientale con sede a Rodi veniva scisso dal Governo Civile del Dodecaneso, a capo del quale sarebbe presto andato il Governatore Mario Lago; il primo avrebbe avuto la sua sede a Scalanova, il secondo a Rodi. Quest’ultimo, con i primi decreti, decideva di dare ampie autonomie alle isole che sarebbero state rette in virtù di ordinamenti speciali che tenessero conto delle tradizioni e delle consuetudini locali. Tale decreto dava piena libertà di culto alle varie comunità religiose presenti sul territorio. Nel 1921 l’Italia occupava anche Castellorizzo, isoletta che, per essere quasi sotto la costa Anatolica diventava una preziosa testa di ponte per il controllo di quella zona, mentre , quasi contemporaneamente venivano ritirati i presidi ancora presenti in Adalia. La situazione evolveva a vantaggio dell’Italia che, oltre a mantenere la strategica posizione data dall’occupazione delle Isole, aveva ottenuto lo sgombero dell’Anatolia dalla presenza francese e greca.
Il problema dell’ordine pubblico nel Possedimento fu affidato ai Carabinieri Reali, che già avevano svolto tale funzione fin dal 1912 e l’avrebbero continuata fino alla fine del secondo conflitto mondiale.
Con la pace di Losanna, nel 1923 le Isole del Dodecaneso o Sporadi Meridionali (Rodi, Scarpanto, Coo, Calino, Stampalia, Lero, Caso, Piscopi, Simi, Patmo, Nisiro, Calchi, Castelrosso e Lisso), venivano riconosciute internazionalmente e ufficialmente come possedimento italiano a cui veniva attribuita dal nuovo regime un’importanza strategica fondamentale in funzione antinglese, per il controllo del Mediterraneo Orientale.
Nell’agosto del 1923 venne presentato al Ministro della Guerra Di Giorgio, un Promemoria su un eventuale attacco in Anatolia, importante, sia perché si riconosceva il valore strategico del possedimento, sia perché se ne evidenziava, contemporaneamente la debolezza, dovuta alla difficoltà delle comunicazioni con la madre patria, visto che la navigazione delle navi italiane sarebbe dovuta comunque avvenire in acque non amiche. La debolezza dell’Italia rispetto alle posizioni nella zona di Francia, Inghilterra e Grecia, avrebbe potuto spingere il nuovo governo turco ad un attacco nei suoi confronti, per dimostrare all’Europa la forza acquisita. L’Italia era, inoltre, svantaggiata dal fatto che, per mancanza di fondi, non fosse possibile rafforzare, almeno per il momento, il presidio.
Nel periodo tra le due guerre, man mano che il fascismo si affermava all’interno e all’estero, apparve sempre più necessario approntare un razionale piano di Difesa per le Isole, considerate, fino al 1936, in funzione di una difesa delle postazioni conquistate e non ancora come testa di ponte per un eventuale attacco.
La Marina intendeva potenziare la base di Portolago nell’isola di Lero, sottolineandone l’importanza strategica anche se il Governatore Lago insisteva sull’importanza politica di Coo, a metà strada tra Lero e Rodi. La Marina suggeriva il concentramento a Lero di tutte le unità navali presenti nel Possedimento e il trasporto immediato da Coo a Lero di tutta la fanteria ivi presente. L’importanza strategica dell’Isola di Lero era determinata dal fatto che in essa fossero presenti ben cinque grandi baie dove era facilissimo l’approdo; ciò la rendeva una base ideale per la flotta, ma anche facilmente attaccabile soprattutto dalla parte settentrionale. La eventuale perdita di Lero avrebbe significato per l’Italia la quasi totale chiusura della rotta per il Levante. Altrettanto fondamentale era la difesa di Rodi, non solo della città, ma dell’intera isola, sede del governo civile. La difesa fissa delle coste sarebbe stata compito dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.
Il 22 novembre 1936, per raggiunti limiti d’età, il Governatore Lago veniva collocato a riposo e il suo posto veniva occupato da Cesare Maria De Vecchi, quadrunviro, marcia su Roma, grande amico di Mussolini, già governatore della Somalia, carattere decisionista e non facile, a cui sarebbero andati i poteri civili e militari. Si dispose di affidare, in tempo di pace, al Governatore, il comando di tutte le forze armate presenti nel Possedimento. Le forze inviate in appoggio sul Possedimento nel corso di azioni particolari, rimanevano però sotto agli ordini degli Alti Comandi dai quali dipendevano. In caso di guerra, poi, si decise, soprattutto per volere del Capo di Stato maggiore Badoglio, che le forze armate presenti fossero sottratte al comando del Governatore e poste agli ordini dei Comandi centrali. Questa era, peraltro la regola seguita negli altri possedimenti d’Oltremare. Tale regola, tuttavia, non fu mai pienamente accettata da De Vecchi che, con il suo carattere fattivo, aveva impresso fin dal suo arrivo, una sferzata di rinnovamento e un impulso senza pari all’organizzazione del Possedimento. Le pretese del Governatore, che, peraltro aveva dalla sua, la grande amicizia e confidenza con lo stesso Mussolini, resero sempre più complicati i rapporti con lo Stato Maggiore, il Ministero della Guerra e gli alti comandi delle tre armi, per cui fu necessario richiamarlo in patria, il 27 novembre 1940.
Malgrado i suoi difetti, De Vecchi segnò con la sua personalità e le sue capacità il periodo della sua missione nel Dodecaneso, dove soltanto nel marzo del ’39, e per giunta a malincuore, applicò le leggi razziali. Il suo difetto fondamentale era quello di non riconoscere altra autorità se non quella di Mussolini. Aveva compreso, tuttavia, più del duce e dello Stato Maggiore, le effettive potenzialità del Possedimento egeo che, nonostante il SIM avvertisse delle intenzioni inglesi di attaccare insieme alla Grecia e la Turchia l’Italia proprio in quel possedimento, continuava a mantenere il 4° posto nella classifica dell’importanza bellica dei vari settori: 1° Adriatico, 2°Canale di Sicilia, 3°Cirenaica, 4°Egeo.
Tenendo conto del cambiamento della situazione internazionale, dopo la conquista italiana dell’Etiopia e dopo lo scoppio della guerra civile spagnola, che avevano acuito le rivalità tra Italia e Inghilterra, De Vecchi aveva elaborato un nuovo piano di Difesa che si basava su un aumento della presenza navale e aerea sul Possedimento e sull’uso di una squadriglia di sommergibili.
All’inizio della guerra l’Egeo parve rispondere alla sua funzione di portaerei nel Mediterraneo orientale, visto che proprio dalle isole partirono i primi attacchi riusciti su Alessandria d’Egitto che, tuttavia, non arrecarono gravi danni alla mobilità della flotta inglese.
Nella sfortunata campagna di Grecia, il Dodecaneso non fu usato come avrebbe dovuto essere, pur essendo vicinissimo alle coste greche; stranamente era visto come testa di ponte verso il Levante e non verso la penisola greca. Furono i tedeschi a comprendere maggiormente l’importanza dell’Egeo come trampolino di attacco e se ne sarebbero serviti per la conquista di Creta, con la cosiddetta operazione Mercurio, nel maggio del 1941
Man mano che le isole dell’Egeo venivano conquistate, i tedeschi miravano a sostituirsi agli italiani nella gestione militare del Dodecaneso, facendo sì che i rapporti tra i due alleati, in quella zona del Mediterraneo, diventassero ogni giorno più tesi, anche apparendo formalmente correttissimi. Gli italiani mal sopportavano la prepotenza e l’arroganza dei tedeschi, i quali, dopo il 25 luglio e l’ascesa al potere di Badoglio, diffidavano degli italiani da cui si aspettavano da un giorno all’altro l’abbandono.
Le truppe tedesche iniziarono a Rodi gli atti di ostilità contro gli italiani, subito dopo la notizia dell’armistizio, il 9 settembre del ’43 e due giorni dopo le truppe italiane si arrendevano. L’ammiraglio Campioni aveva sperato fino all’ultimo in un aiuto degli inglesi che non arrivò mai. Durante l’occupazione tedesca furono uccisi 1054 italiani tra militari e civili.
Il 15 maggio 1945 gli inglesi ripresero Rodi e decretarono il coprifuoco per gli italiani che pur sostenuti dalla comunità turca, furono lasciati al ludibrio dei greci. I Carabinieri furono esautorati, disarmati e soggetti ad attacchi personali. 4 militari italiani vennero uccisi. Furono soppresse le scuole italiane e l’unico giornale italiano, gli alloggi italiani furono requisiti, dando solo 24 ore di tempo agli occupanti per lasciare le isole, portando via solo i loro effetti personali.
Il 27 giugno 1946 i Ministri degli Esteri dei quattro Grandi decisero il ritorno alla Grecia del Dodecaneso, senza nessun risarcimento agli italiani per gli investimenti fatti in miglioramenti e bonifiche e senza consentire loro il proseguimento delle attività intraprese.
Gabriella Portalone
Montesquieu, Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri, a cura di D. Felice, Pisa, Edizioni ETS, 2004, pp. 86.
Alcuni anni prima della pubblicazione dell’Esprit des Lois, che appare nel 1748, e quindi parallelamente alla composizione del suo capolavoro (siamo negli anni che vanno tra il 1736 e il 1743), Montesquieu lavora ad uno scritto - Essai sur les causes qui peuvent affecter les esprits et les caractères - che svolge un aspetto cruciale dell’opera maggiore e che troverà sistemazione tra i libri XIV e XIX della terza parte. Il tema in questione è tra i motivi ispiratori della ricerca filosofica e intellettuale montesquieuiana, quello dello spirito generale di una nazione o di un popolo, così nella formulazione dell’Esprit, che nell’Essai suona in modo pressocché identico (e senz’altro lo è nella sostanza), dato che il concetto di esprit è espresso con il termine di caractère. Sennonché il saggio rimane incompiuto e quindi inedito e la sua importanza ‘si limita’, per così dire, a documento interno del pensiero e della teoria di colui che è stato considerato il padre della sociologia come del moderno liberalismo politico. Testo dunque prezioso, poiché sviluppa argomentazioni e riflessioni che legheranno il nome dell’autore alla sua fortuna, e che adesso è pubblicato da uno dei maggiori studiosi di Montesquieu, Domenico Felice, che nella nota introduttiva puntualizza assieme alla tradizione di pensiero e al contesto culturale (da Ippocrate ad Aristotele, da Galeno a Cartesio, dallo spagnolo Huarte alle relazioni di viaggio dell’epoca) in cui si innerva la trattazione di un simile tema, anche quella originalità con cui il Président discorre di alcuni ‘pezzi’ classici delle idee, dei luoghi comuni come dei ‘pregiudizi’ occidentali (la teoria dei climi e la ‘naturale’ schiavitù orientale), che pongono la sua opera come fondamentale momento speculativo della storia della filosofia politica moderna. Così, come è oramai noto, Montesquieu indugia ad esaminare le cause che agiscono sul carattere o spirito di una nazione (come su quelli di un individuo) indicandole nel binomio – dialettico, complementare e comunque correlato – fisico-morale. E sarebbe certamente suggestivo a tal fine ricercare gli spunti, i motivi di contatto e le influenze, ovviamente anche implicite e per genealogie sotterranee, che un tale aspetto della teoria montesquieuiana potrebbe avere con una tradizione di pensiero, robusta e sovente trascurata, come quella astrologica ed ermetica, dalle formidabili implicazioni teologiche e filosofiche (si pensi solo alla questione del libero arbitrio), che proprio sul punto delle cause fisiche e morali che agiscono sull’uomo ha posto un’attenzione tutta particolare, come attesta la riflessione del pensiero antico, la filosofia di Agostino fino alla metafisica di Tommaso, e la straordinaria fortuna rinascimentale che tale filone intellettuale ha avuto.
Montesquieu insiste tuttavia sul ruolo rilevante che hanno le cause morali nella formazione dello spirito di un popolo (è sua premura anticipare e rispondere a critiche di determinismo), ma non rinuncia a demarcare sempre la differenza, affermando il principio che le cause fisiche hanno maggiore efficacia laddove la civiltà è ad uno stadio primitivo, ovvero presso i popoli "selvaggi e barbari". Si ritorna così a ribadire come questi due mondi fisici e politici, antropologici e culturali contrapposti subiscano una differente azione della natura e della cultura. La questione, all’interno della riflessione del barone di La Brède, confluirà nel grande tema politico del dispotismo – che viene localizzato nei grandi spazi imperiali che si trovano ad Oriente, a giudicare proprio dalla natura dei popoli che vivono in regioni che spingono verso tali sistemi di potere. Con la relativa opposizione – naturaliter occidentale – della libertà (ovvero della civiltà e della politica, per sovrapposizioni coincidenti e sinonimiche) comunque poi organizzata nella tripartizione dell’uno, dei pochi e dei molti. E da una tale categoria autonoma di governo, il salto montesquieuiano rispetto alla tradizione politica classica, l’analisi delle altre due forme di governo, monarchia e repubblica, tra antichi e moderni, delinea, assieme alla critica di ciò che di lì a poco sarà definito come antico regime, l’ideale dello scrittore politico, individuato concretamente nell’Inghilterra settecentesca.
Giorgio E. M. Scichilone
Claudio Finzi, Re, Baroni, popolo. La politica di Giovanni Pontano, Rimini, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 2004, pp. 214
Particolarmente interessante è il libro di Claudio Finzi, professore ordinario di storia delle dottrine politiche presso l’università di Perugia, che si propone di far conoscere una parte, finora trascurata, della vasta produzione di uno degli autori più rappresentativi dell’umanesimo italiano: Giovanni Pontano. Più conosciuto e apprezzato come letterato e poeta, Pontano fu anche un originale pensatore politico.
Nato in Umbria nel 1429, Pontano si trasferisce giovanissimo a Napoli dove percorre brillantemente una carriera di funzionario regio al servizio della dinastia aragonese fino a diventare primo ministro di re Ferrante. Grande diplomatico, esperto di questioni militari, uomo di mondo e legatissimo agli affetti familiari, Pontano coltiva gli studi letterari dove raggiunge altissimi livelli tanto da essere considerato il massimo poeta latino dopo l’antichità. Nel 1463 gli viene affidata l’educazione del principe ereditario Alfonso duca di Calabria; Pontano inizia la sua riflessione politica con quello che è stato definito "uno scritto d’occasione" il De Principe, che in forma di lettera indirizzata al regale allievo pone le sue considerazioni, dà raccomandazioni e regole di vita che ritiene adatte a un principe futuro sovrano di un regno grande e importante. Seguirà il De obedientia e il De Fortitudine due trattati strettamente legati al primo. Egli imposta la sua indagine intorno ai due elementi necessari e complementari di ogni struttura sociale: il governante e la società. Nel De principe esamina la funzione e il comportamento del governante, che essendo in una condizione totalmente diversa da qualsiasi altro cittadino (intermedio fra gli uomini e la divinità), necessita di consigli appropriati. È importante per un principe l’educazione e l’istruzione cioè le lettere e gli studia humanitatis che formano l’uomo e la sua anima, migliorano la sua personalità e le sue doti. L’educazione ha bisogno di modelli concreti e Pontano ne offre due: Ciro di Persia e Alfonso il magnanimo, primo sovrano aragonese a Napoli. Il principe deve esercitare soprattutto due virtù: la liberalità e la clemenza mediante le quali si rende simile a Dio che benefica tutti ed ha misericordia anche dei malvagi e deve evitare la superbia, ricordando che le fortune umane sono sempre instabili e aleatorie. La grande novità introdotta da Pontano, rispetto a coloro che prima di lui avevano scritto sul principe, è il concetto di maiestas della quale l’autore non dà una definizione ben precisa, ma che deve intendersi come una qualità essenzialmente politica, caratteristica esclusiva dei principi. Essa rappresenta il ruolo che il principe deve incarnare in ogni momento (gerere principis personam), l’immagine che dovrà dare di sé in ogni suo comportamento. A proposito del legame tra l’essere e l’apparire, del rapporto tra moralità e immagine del principe, Finzi nota come Pontano, utilizzando un linguaggio non privo di ambiguità, affermando che importante è l’essere e l’apparire buoni, si trovi a metà strada tra Egidio Romano per il quale ciò che conta è l’essere buoni e Niccolò Machiavelli per il quale non ha più importanza essere buoni ma sembrarlo. Continuando nella sua indagine politica, Pontano affronta il problema della durata della struttura sociale. Dall’analisi contingente del regno di Napoli che si trova in una situazione di instabilità, dovuta alla indisciplina baronale, ai tentativi di autonomia, alle rivolte e alle insubordinazioni, Pontano elabora una teoria universalmente valida. Nel difficile equilibrio tra obbedienza e giustizia, tra autorità e libertà affronta il problema della stabilità della società. Occorre, dice Pontano, consolidare la società ritrovandole un fondamento capace di reggerla nella sua complessa e articolata struttura legando stabilmente i sudditi al sovrano, ma anche i sudditi fra loro. Nel trattato De obedientia, Pontano prende in esame i diversi tipi di obbedienza: alle norme della ragione e delle leggi, ai superiori, ai magistrati, al sovrano, nell’ambito della famiglia e militare. Per Pontano, seguace in questo di Aristotele e Cicerone, la società umana è per natura e deriva sia dal bisogno di procurarsi il necessario per vivere sia dall’innata socievolezza dell’uomo. Tale innata socievolezza è dimostrata anche dal suo possedere la parola, strumento che insieme con la ragione ci distingue dai bruti e che non avrebbe alcun senso se l’uomo fosse destinato a vivere da solo. Tutta la convivenza umana è radicata nell’obbedienza; se vogliamo evitare il disordine dobbiamo applicare questa virtù fondamentale. Nella sua analisi Pontano richiama il pensiero di Machiavelli, ma se ne distacca nel momento in cui rimane in lui la fiducia nell’azione morale, nell’educazione, tipica del pensiero politico e pedagogico dell’umanesimo. Simmetrica all’obbedienza è la giustizia l’altra suprema virtù indispensabile alla società. Il rapporto tra inferiore e superiore si risolve nell’obbligo di prestare obbedienza o nell’obbligo di rendere giustizia a seconda della direzione. Obbedire non significa limitare la propria libertà perché l’obbedienza come la libertà è per natura; dunque non soltanto si è liberi anche se bisogna ubbidire, ma dobbiamo necessariamente obbedire affinché possiamo essere liberi. Pontano studia molto i classici latini e greci, in modo particolare Aristotele che tuttavia modifica per i propri fini con continui riferimenti ai problemi del suo tempo e della società napoletana. Come Aristotele accetta che esistano gli schiavi per natura e critica Platone per l’abolizione dell’istituto familiare. Egli, invece, è favorevole al matrimonio e vede nella prole la speranza di immortalità su questa terra. Afferma che il governo monarchico è il migliore e ciò è attestato dalla natura (un solo cuore governa il corpo dell’uomo, una sola ragione l’anima, un solo Dio l’universo), dalla ragione, dalla storia e dall’esperienza. I governanti devono essere privi di passioni o debbono quantomeno dominarle seguendo i dettami della ragione.
Nel trattato De fortitudine Pontano scrive che primo dovere dei governanti è reprimere in se stessi la cupiditas. Egli è consapevole della possibilità che sorga una tirannia. Ma i tiranni spuntano più facilmente dalle aristocrazie e dalle democrazie piuttosto che dalle monarchie; e i re che diventano tiranni sono meno dannosi perché conservano il senso del proprio interesse e pur utilizzando la crudeltà nei confronti dei cittadini, tutelano la pace e la conservazione dello stato. Gli scritti intorno all’uso della ricchezza (De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De conviventia) completati nel 1493, ricalcano quasi letteralmente il pensiero aristotelico dell’Etica nicomachea, ma vi è anche la presenza del Cicerone del De officiis.
Gli avvenimenti drammatici che attraversano la vita di Pontano nell’ultimo scorcio del secolo XV non influiranno sulla sua produzione sia in campo letterario che in campo etico – politico. Fra il 1498 e il 1499 scrive altri tre trattati: il De Prudentia, il De Fortuna e il De magnanimitate che segna il culmine della sua indagine. Secondo Pontano la magnanimità rappresenta la virtù più alta che gli uomini possano coltivare; ma per conseguirla ed esercitarla occorre esservi predisposti dalla natura, altrimenti tutto è inutile. Oggetto della virtù della magnanimità è l’onore e i due vizi contrapposti alla medietà virtuosa del magnanimo sono la pusillanimità e la presunzione. Sempre in questo trattato appare la fortuna, intesa nel senso umanistico e rinascimentale di destino che ci condiziona e può portarci dove non vogliamo. La fortuna esiste, ma il suo potere non è illimitato e l’uomo potrà contrastarla con la ragione e la prudenza. Nonostante Pontano sia stato anche un esperto di problemi militari non scrive nulla di specifico sulla guerra. Tuttavia qua e là nei numerosi trattati esprime le sue idee in proposito. La guerra è terribile, è sempre un momento difficile e drammatico della vita degli uomini, ma è un avvenimento al quale non è possibile sottrarsi, perché essa appartiene all’imperfezione umana. La guerra è considerata anche un momento esaltante nel quale è possibile esercitare al massimo le virtù, soprattutto quella della fortezza, e inoltre è anche il momento nel quale si può conseguire la gloria, aspirazione suprema di ogni uomo magnanimo.
La fine del regno di Napoli che entra nell’orbita dell’impero spagnolo, le sue tristi vicende personali provocano in Pontano un drammatico scoraggiamento che lascerà tracce evidenti nelle ultime due opere politiche: il De immanitate e il De sermone. Il primo trattato potrebbe sembrare la caduta delle illusioni e il ritorno alla realtà dopo la speranza; negli uomini privati prevalgono la malafede e la menzogna, nei grandi, negli uomini pubblici, dilaga la disumanità, la matta bestialità. Pontano ritiene che l’uscita dalla natura umana e l’ingresso nella ferinità abbia provocato l’immanità, qualcosa che annulla la ragione e la volontà dell’uomo e che non coincide con il vizio. Infatti mentre il vizio, per quanto indegno appartiene alla natura umana, la matta bestialità è radicalmente disumana.
Diametralmente opposto al trattato De obedientia - dove Pontano aveva teorizzato la costruzione della società e il suo corretto funzionamento - qui si assiste al dissolvimento della società politica e al suo trasformarsi in un branco di bruti. La matta bestialità è stata sempre presente nella storia degli uomini seppur distribuita in modo diverso negli anni e nei secoli. Vi sono stati periodi storici nei quali nascono un maggior numero di uomini crudeli e disumani. Nonostante la drammaticità delle sue affermazioni, Pontano conclude con un atto di speranza riposta negli studia humanitatis; questi possono insegnarci a frenare le passioni, possono rafforzare i legami sociali, in una parola consolidare la nostra umanità al fine di allontanarci dalla matta bestialità.
Rosanna Marsala
Nunzio Dell’Erba, Socialismo e questione contadina in Romania (1821-1921), Milano, Edizioni Unicopli, 2006, pp. 121.
Il recente saggio di Nunzio Dell’Erba, docente di Storia contemporanea nell’Università di Torino, ricostruisce le vicende del socialismo romeno dalla prima metà del XIX all’inizio del XX secolo. L’autore, con la sua preziosa capacità di sintesi, – già ben collaudata con un fortunato volumetto sulla Storia dell’Albania (Tascabili Newton, 1997) – ha il merito di colmare una lacuna nell’ambito degli studi sul socialismo europeo.
In Romania il socialismo ebbe le sue radici nel 1821, nel movimento rivoluzionario valacco capeggiato da Tudor Vladimirescu, ed ebbe la sua "causa scatenante" nella questione contadina e nei conseguenti movimenti sociali repressi dalle autorità. Gli intellettuali romeni, fuggiti in seguito alla repressione, si ritrovarono nelle più grandi capitali europee ed entrarono in contatto con il socialismo europeo occidentale. A diffondere i principi socialisti contribuì, ad esempio, l’Associazione romena per la direzione dell’emigrazione, sorta a Parigi nel 1849 ad opera di Nicolae Balcescu seguace di Mazzini e morto a Palermo a trentatré anni.
Ion Heliade Radulescu e Theodor Diamant si impegnarono a divulgare in Romania le idee dei socialisti utopisti Fourier, Owen e Saint-Simon, tanto che Diamant istituì nei pressi di Ploiesti un falansterio che fallì per l’ostilità delle autorità. Nonostante l’insuccesso di tale iniziativa, Diamant ebbe il merito di creare una coscienza politica tanto che nel 1846 fu costituita a Brasov un’Associazione di mutuo soccorso e nel 1858, a Bucarest, la Cassa di soccorso e previdenza dei tipografi. E numerose altre associazioni operaie sorsero tra il 1860 e il 1870. L’Associazione generale degli operai di Timisoara, nell’ottobre del 1868 inviò una petizione al Ministro degli Interni per potere esercitare la libertà di riunione e aderì alla I Internazionale marxista.
In Romania, osserva l’autore, ebbe vasta eco l’esperienza della Comune di Parigi tanto che il governo inviò subito una circolare ai prefetti per sollecitarli a una maggiore vigilanza. In seguito alla guerra contro la Turchia, i socialisti romeni, attraverso alcuni organi di stampa, presentarono la questione contadina al vaglio dell’opinione pubblica mostrando, in particolare, le contraddizioni sociali del Paese. Tra il 1886 e l’inizio del 1887 i socialisti iniziarono una capillare propaganda nei villaggi e nelle campagne e gli intellettuali ebbero il merito di svolgere un’importante opera di educazione. Nel gennaio del 1888 i contadini svolsero una intensa attività a sostegno dei candidati socialisti che condusse alla vittoria del primo deputato socialista Vasile Gheoghe Mortun. Il programma politico dei socialisti aveva i suoi punti cardine nel suffragio universale, nello scioglimento dell’esercito permanente, nell’insegnamento gratuito e obbligatorio, nell’autonomia del comune, nell’abolizione delle imposte dirette e nel graduale riscatto delle grandi proprietà (ivi, p. 19).
I contadini, esasperati dalle misere condizioni di vita, nell’aprile del 1888 organizzarono una sommossa per "tradurre in atto i [...] propositi rivendicativi" (Ivi, p. 20). L’arresto dei contadini spinse i socialisti romeni a solidarizzare con il ceto oppresso pubblicando articoli a sostegno della loro lotta. Alla II Internazionale, tenuta a Parigi nel luglio 1889, i socialisti romeni – tra i quali Constantin Mille – "attribuirono alle diseguaglianze economiche esistenti fra l’enorme massa dei contadini e la minoranza dei proprietari terrieri la causa della sommossa contadina" (Ivi, p. 21). Nel Marzo del 1891 i socialisti "diffusero un manifesto con cui invitarono i lavoratori a costituire un partito, unico organismo capace di "difendere i loro interessi" e di "realizzare rivendicazioni pratiche in seno alla società borghese"" (Ivi, p. 23). Il 9 dicembre 1891 entrò in carica il governo conservatore di Lascar Catargiu che assunse subito una linea dura attraverso l’emanazione di leggi speciali e l’istituzione della gendarmeria rurale. L’anno successivo, ad opera di Musoiu Panait, apparve la prima traduzione in romeno del Manifesto del partito comunista di Marx. Il documento - definito "quintessenza del socialismo" - ebbe subito una seconda edizione.
Tra i protagonisti del socialismo romeno vi fu Constantin Dobrogeanu-Gherea, al secolo Salomon Abromovic Katz, di famiglia ebrea russa, divenuto nel 1882 cittadino romeno e sostenitore del movimento rivoluzionario russo. Egli espresse "una concezione sociale dell’arte, tendente a dimostrare la dipendenza dell’opera estetica dall’ambiente e dal momento storico [...] considerò l’arte solo in funzione sociale, assegnando ad essa una funzione interpretativa della realtà ed esaltatrice della lotta di classe, unico momento idoneo a creare un’organizzazione sociale basata sulla sacralità del lavoro umano" (ivi, p. 29). Nel 1886 Gherea, con il saggio Che cosa vogliono i socialisti romeni? impresse un orientamento politico alle prime organizzazioni socialiste, ma le sue proposte si mossero "tra un indirizzo intransigente e rivoluzionario e una visione politica municipalistica e gradualistica" (ivi, pp. 30-31). La soluzione della questione contadina venne sintetizzata in nove punti programmatici: voto universale diretto; scioglimento dell’esercito permanente; autonomia comunale; libertà assoluta di stampa, di riunione etc.; insegnamento libero e gratuito; elezione dei magistrati da parte del popolo; sostituzione dei penitenziari con case di correzione; uguaglianza della donna (ivi, p. 32).
Nell’opera La neoservitù della gleba, edita da Gherea nel 1910, l’autore definì la neoservitù il "regime economico e politico-sociale agrario" che "consiste in quattro termini: rapporti di produzione in buona parte basati sul servaggio [...] uno stato di diritto liberalborghese [...] una legislazione tutelare, che decreta l’inalienabilità delle terre contadine [...] l’insufficienza della terra del cosiddetto piccolo proprietario contadino per il lavoro e il mantenimento della sua famiglia" (p. 34). Due anni dopo, al IX Congresso della II Internazionale, Gherea fece un discorso contro il militarismo tanto che, dopo l’entrata in guerra della Romania, egli preferì trasferirsi in Svizzera sino al 1919 per morire in patria l’anno dopo. Le idee di Gherea approdarono alla costituzione del Partito socialdemocratico dei lavoratori romeni (PSDMR) costituito nel 1893. Nel 1897 quest’ultimo, al IV Congresso, si fece promotore – attraverso i circoli socialisti – di un’azione in favore del miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei contadini da realizzare con "uno sgravio fiscale e una scolarizzazione estesa a tutte le età" (p. 43). Il governo conservatore di Catargiu sciolse i circoli al fine di rispondere alle preoccupazioni dei proprietari terrieri. Si trattò – scrive Dell’Erba – di una repressione che "inferse un duro colpo al partito socialista romeno, che riuscì a riorganizzarsi solo nei primi anni del XX secolo" (p. 44). Proprio agli inizi del ‘900 la Romania appariva con una popolazione in prevalenza contadina e con un territorio dominato dal latifondo.
Nel 1906, con il documento Quarant’anni di povertà, di schiavitù e di vergogna, i socialisti denunciarono la grave situazione economica dei contadini e la loro esclusione dal godimento dei diritti politici. Il numero di anni riportato nel titolo del documento non era casuale, ma serviva per ricordare il periodo di reggenza di Carlo I.
Nel febbraio-marzo 1907 i contadini organizzarono una rivolta che coinvolse i villaggi romeni e che fu duramente repressa dal governo che provvide subito allo scioglimento dei circoli socialisti e all’arresto dei dirigenti. La sommossa, scrive l’autore, "segnò una battuta d’arresto, ma ebbe una vasta eco in tutti i Paesi europei. Essa esercitò grande influenza in Transilvania, dove i contadini romeni unirono alla lotta contro gli agrari ungheresi anche quella per l’indipendenza nazionale" (pp. 54-55). I contatti tra i socialisti della parte orientale e della parte meridionale dei Carpazi produsse, nel mese di luglio dello stesso anno, l’Unione socialista della Romania che, nel suo programma, chiese "l’espropriazione forzata di tutte le grandi proprietà che superano la dimensione di trecento ettari" (p. 55). L’Unione rinvigorì il partito socialdemocratico e, nel 1910, a Bucarest, fu approvato un programma di solidarietà alla classe lavoratrice della Transilvania.
Con la prima guerra mondiale i problemi economici della Romania si acuirono, inaugurando uno dei periodi "più complessi e inquieti della storia" di quel Paese. La questione contadina continuò a essere "il nodo più intricato" delle forze politiche. E mentre l’ala moderata socialista invitava alla "distensione", l’ala intransigente "diede vita ad azioni sovversive che raggiunsero il culmine nello sciopero generale dell’ottobre 1920" (p. 77). Il sovrano, pressato dai ceti proprietari, incaricò il generale Alexandru Averescu di formare un governo che fu ostile al movimento operaio. Gli intransigenti iniziarono a chiamarsi "comunisti" e ad aderire ai principi della III Internazionale: lotta di classe e dittatura del proletariato. E nel maggio 1821, "in un clima abbastanza confuso", si tenne a Bucarest il Congresso costitutivo del Partito comunista che proposte un progetto di riforma agraria di stampo sovietico con la totale espropriazione delle terre.
Il volume di Dell’Erba si chiude con un’Appendice che raccoglie il Programma del partito socialdemocratico degli operai della Romania, lo Statuto del 1908 sull’Unione socialista della Romania e il Programma agrario dei partiti socialisti e comunisti.
Claudia Giurintano
Alfonso Giordano, Canti sparsi d’amori perduti, Edizioni Novecento, 2006, Palermo, pp. 32.
Meraviglia questa raccolta breve di poesie dal titolo Canti sparsi d’amori perduti. L’Autore è Alfonso Giordano, primo presidente della Corte di Appello che, tra il 1985 e il 1987, ebbe a presiedere un processo storico: il Maxiprocesso di Palermo contro la mafia. E meraviglia, anche perché si tratta di poesie d’amore e perché l’alto magistrato che le ha date alle stampa ha ben 78 anni.
Le ragioni però sono confessate molto sinceramente nell’ultima lirica del volume, che si intitola Congedo: "Traggo dallo spartito/ logoro dei ricordi/ il riflesso ingiallito di variegati accordi/ le dissonanze acute/ di trionfi esaltanti/ le note brucianti/ di umiliazioni avute".
A prima vista, però, può sembrare che le poesie prescelte siano il tentativo di affidare alla pagina scritta una serie di ricordi. Ma non è così. La lirica infatti prosegue: "Ed ecco la mia vita,/ (stagion breve e infinita)/ con le sue gioie e i dolori,/ rivivere in un attimo/ nella mente avvilita,/ mentre mi rigiro/ nel letto, insonne,/ e piango sull’origliere/lacrime disperate e sincere".
Dunque, non è solo il passato per il passato che il Poeta intende riportare alla memoria. è un passato rievocato come pretesto per esprimere oggi, nel pieno della terza (o quarta) età, il suo dramma di uomo che ha cercato, senza trovarlo, per tutta la vita l’amore. L’amore che non soddisfi solo i sensi. L’amore che prenda nella sua interezza l’anima. L’amore che sia sogno e realtà assieme.
Credo infatti che alla luce di tale spasmodica ricerca vanno vista le numerose donne della raccolta: Erato, Arianna, Adriana, Lesbia, Calpurnia, Arabella, Ifigenia, Sara, Nausicaa. e i nomi sono di donne vere. Solo finalisticamente (e non tutti) possono essere considerati simbolici. Perché l’uomo Giordano guarda all’amore nella sua più alta sublimità, come fusione piena e completa tra due esseri, ed invece la raccolta documenta che ogni incontro pur vissuto all’acme della passione lascia tormenti e rimpianti: "No, non è possibile/ che tutto si annulli/ e svapori per sempre/ nella sera che muore. Oppure: Adesso che tutto è finito/le parole d’amore/ che non ti dissi/ si sfaldano sulle mie labbra/ col sapore acredella cenere".
E che la concezione dell’amore quale pienezza assoluta abbia in Giordano tale alta significazione trova riscontro, a mio giudizio, nella prima lirica (Erato): "Se t’ami ancora il dubio ecco m’assale./ Ma una certezza si fa strada: e sia!/ e forse amo di te sol l’ideale".
A parte queste considerazioni di fondo un altro dato va evidenziato: la pudicizia del linguaggio che esalta lo stesso sentimento dell’amore purificandolo quasi alla maniera del Dolce stil nuovo. Versi di alto respiro morale e anche religioso quelli che chiudono Congedo: "Ma, ecco, in lontantanza/, profilarsi una croce:/ è l’ultima speranza".
Dino D’Erice
Carmelo Pirrera, Cronaca, Messina, Intilla, 2006
Confessa il poeta, in calce alla sua raccoltina di cedere "al pianto se ci viene chiesto chi mai sia stata Ecuba per noi".
L’autore sa, dunque, bene quanto siano commisti e comunicanti le grandi vicende consacrate dalla memoria collettiva e gli episodi spiccioli e quotidiani delle nostre misere vite di uomini comuni.
Ecuba - la sventurata regina di Troia - potrebbe essere nostra madre, nostra sorella, la nostra compagna… E, con lei, ci sarebbero famigliari Priamo, Paride, i loro cari e i loro nemici…
Pirrera sente la tragicità della storia in quanto tale: lo svolgersi e raggrumarsi degli eventi - poco importa se "piccoli" o "grandi" - è, comunque, doloroso, spesso inenarrabile e magari inutile, incomprensibile…
Con notevole delicatezza, il nostro poeta tesse il suo taccuino di emozioni e di ricordi; in appena ventitrè brevi composizioni condensa i tumulti personali, famigliari, generazionali ed epocali del suo tempo.
I toni usati sono quelli pacati e amari di chi ha vissuto e visto e può, quindi, tirare l’impietoso (e, proprio perciò, ricco di pietas) consuntivo; di chi ha domato la boria delle parole altisonanti; di chi vuol quasi farsi perdonare le illusioni e gli errori di cui è stato alfiere, ma che gli sono tuttavia serviti per dare una direzione alla propria vita.
Queste "cronache" quasi private diventano così emblematiche della storia di tanti.
Pirrera raggiunge questo risultato mercé efficacissimi endecasillabi, incamminati in un solco di tenerezza, spesso affogata in occhi di donne e in fondi di bottiglia.
Convincenti la fattura, il lessico e il ritmo, bene intonati, a nostro avviso, al sentire dell’autore.
Ci sono quasi il taglio e l’apparente immediatezza del diario in questi versi, oltre a una singolare attitudine al lindore, insieme interiore e stilistico.
Di queste poesie, contrassegnate da numeri anziché da titoli, ci piace, infine, citare alcuni brani, tratti dagli ultimi due testi del volume: "Non fu fatica, no. Non fu fatica/ chiudere i conti con il bene e il male;/ con il sole e coi giorni,/ con la storia,/ con la speranza spesso menzognera,/ e abbandonarsi al sonno della terra/ […]/ Rosa irrecuperabile, la vita./ Svendettero i suoi libri, il suo violino/ e bruciarono i versi…".
Salvatore Mugno
Lino Di Stefano, Gentile filosofo sociale, Isernia, Edizioni Eva, 2005
"La vita dunque dello spirito, in cui la cultura consiste, è sforzo, lavoro, ma non è pena... Il lavoro non è un giogo per la volontà e quindi per l’uomo; è la sua libertà...". Lo sosteneva Giovanni Gentile, ne La riforma dell’educazione, un suo studio pubblicato nel 1919.
Proprio sul filo del pensiero gentiliano sulla produzione economica e sull’organizzazione dei lavoratori e degli imprenditori, si inserisce il recente saggio di Lino Di Stefano, studioso molisano, già autore, peraltro, di svariate pubblicazioni dedicate al grande intellettuale siciliano.
Di Stefano ritiene che il dato etico-sociale sia centrale e costantemente presente nella riflessione gentiliana, a partire dai suoi scritti giovanili, quando si era da poco diplomato al Liceo Classico "Ximenes" di Trapani.
Ne sarebbe esempio un intervento, intitolato Arte sociale, uscito su una rivista di Castelvetrano ("Helios") nel 1896, in cui il filosofo dell’Attualismo rilevava che "opera d’arte non è solo quella dell’artista che ritrae la società; ma anche quella che ritrae l’anima onde schiettamente prorompe".
Le questioni sociali - nell’attività gentiliana - sono poi presenti nel volume La filosofia di Marx (1899), nella corrispondenza col Croce, in vari saggi e interventi apparsi su periodici, in un arco temporale che si estende per quasi un cinquantennio, fino al "testamento spirituale costituito da Genesi e struttura della società, uscito postumo nel 1946", come precisa Di Stefano.
Gentile rigettava il socialismo materialistico marxiano, argomentando che esso "anziché fomentare e svolgere le tendenze morali della solidarietà che ogni concezione socialista parrebbe destinata ad eccitare, battendo sul diritto senza dovere del lavoratore e sul concetto della egoistica lotta di classe, accentuò l’individualismo..." (Frammenti di storia della filosofia, 1926).
L’autore di questa plaquette ripercorre e analizza gli scritti di quanti si sono occupati del profilo sofiale gentiliano (da Ugo Spirito a Ado Schiavo a Augusto del Noce), soffermandosi sulla concezione gentiliana secondo cui "società e Stato coincidono", dalla quale, poi, si giunge alla formulazione del diritto corporativo e dello Stato corporativo.
Scriverà Gentile che "la corporazione nega il particolarismo e individualismo liberare dell’economia, riconosce i legami essenziali dell’individuo con la società nazionale..." (1946).
Si trattava di una "terza via" che provava a sostituirsi ai binomi capitale-lavoro e liberalismo-comunismo.
La sintesi si sarebbe dovuta trovare nell’idea di "potenza nazionale", che avrebbe messo tutti insieme e d’accordo, ma il regime - puntualizza Di Stefano - non seppe in realtà armonizzare i conflitti, rimanendo preda di "aporie" irrisolte.
Il nuovo concetto di individuo delineato da Gentile, nel contesto di una "società ideale" e concepito come "socius", restava e ancora rimane lontano dalla realtà.
Salvatore Mugno
Un approccio diverso - questo di Piero Vassallo - al pensiero di Giovanni Gentile e già il titolo, Gentile l’Italiano (Roma, Biblioteca, 2005), è la riprova più lampante. Nel senso che l’Autore non esamina soltanto l’aspetto teoretico dell’attualismo, ma ne sviscera i tratti spesso sfuggiti a tanti studiosi. Ciò perché l’interprete genovese affronta, fin dall’inizio del suo lavoro, non solo l’intera e complessa problematica della riforma della dialettica hegeliana, nella quale Gentile si cimentò con esiti spesso felici, ma anche alcuni temi, politici, metafisici e morali di una dottrina, l’attualistica, appunto, quant’altro mai ricca di spunti e di suggestioni profondi.
Già l’affermazione perentoria vassalliana secondo cui "con Gentile finisce l’egemonia filosofica dei tedeschi e però inizia la riabilitazione della metafisica elaborata dall’italianissimo San Tommaso" costituisce una credenziale che lascia trasparire i futuri sviluppi di uno studio condotto con consapevolezza critica e, soprattutto, padronanza dei problemi affrontati. E i problemi affrontati da Vassallo in tale ricerca sono tanti considerata, altresì, la conoscenza sicura dei massimi maestri del pensiero antico, Platone ed Aristotele, di San Tommaso d’Aquino, della Filosofia italiana ed europea contemporanee e, in particolare, del grande Vico, "auttore", per usare le parole del teorico della Scienza nuova, molto caro al nostro studioso.
Non mancano, naturalmente, nel saggio vassalliano precisi e puntuali riferimenti a pensatori del calibro di Cornelio Fabro e di tanti altri uomini di cultura e ciò a conferma della versatilità di un Autore che ha fatto della ricerca filosofica la propria scelta di vita. Vassallo intravede, giustamente, nella logica-dialettica hegeliana quelle aporie già individuate da Trendelenburg, K. Fischer, Gentile e Fabro consistenti, in ultima analisi, in quel ‘caput mortuum" racchiuso nella celebre formula di Hegel secondo cui "il niente considerato come codesto immediato uguale a se stesso, è il medesimo che l’essere".
In breve, che da tale unità nasce il divenire. Premesso che "Gentile si riteneva capace di condurre a compimento l’opera iniziata da Vico e da Gioberti"; assodato che l’ultimo Del Noce, col saggio su Gentile, dimostrò che il pensatore attualista iniziò la revisione della filosofia risorgimentale; precisato che lo studioso siciliano, contrariamente a Croce, seppe apprezzare il pensiero vichiano che si inseriva "iusto iure" nella tradizione umanistica italiana; riconfermato che la filosofia del Vico sosteneva "in totale sintonia con i teologi della Riforma cattolica, la stretta connessione tra religione e morale"; ribadito, infine, che la Scienza Nuova non concedeva nulla "agli stati d’animo reazionari", l’Autore spezza anche una lancia a favore di Kierkegaard il quale, nella famosa Postilla, individuò con esattezza le difficoltà della speculazione hegeliana segnatamente laddove il filosofo tedesco affermava che "la verità dell’essere come del niente è perciò l’unità di entrambi".
Le analisi vassalliane sulla dottrina di Gentile si avvalgono non solo di una conoscenza di prima mano del sistema del filosofo di Castelvetrano, ma affondano anche le radici in una ricca padronanza bibliografica visti i rimandi e i riferimenti ad opere e a filosofi di grande rilevanza. L’Autore asserisce, da una parte, che Gentile seppe, all’occorrenza, prendere le distanze sia da Platone che da Aristotele e sottolinea, dall’altra, che il padre dell’attualismo pur avendo intravisto che "l’accordo tra fede e ragione costituiva l’inevitabile risultato della contraddittoria avventura moderna", non seppe, poi, percorrere il passo ulteriore consistente nel riconoscere la cretività di Dio rispetto all’Atto puro.
La disamina vassalliana non si esaurisce soltanto nell’individuare i motivi di vero ed anche i limiti teoretici di un pensiero così profondo come quello gentiliano, ma passa in rassegna pure gli aspetti politici di una filosofia così legata all’azione e, quindi, alla prassi. E ciò, in particolare, di quel periodo storico, come quello degli ultimi anni della Repubblica sociale, così decisivo per le future sorti della storia d’Italia. Gentile volle assumersi le sue responsabilità, per onorare il concetto di "fedeltà", e in questo modo firmò la sua condanna a morte anche se proprio in tale tragico frangente le sue idee religiose si vennero sempre più precisando fino alla celebre professione di fede - del 1943 - di essere cristiano-cattolico secondo, son parole del filosofo, una direttriche che "è la storia di ogni giorno di sempre". Vassallo dà atto a Gentile di tale presa di posizione ed è d’accordo con padre Agostino Gemelli il quale sosteneva, non senza ragione, che lo stava attendendo in un’aspettativa troncata solo dalla tragica morte avvenuta a Firenze il 15 aprile del 1944.
Mediante il conforto di pensatori del calibro di Sciacca, Del Noce, Petruzzellis, Francisco Elias de Tejada, Orestano ed altri - sempre con l’occhio fisso a Vico, investito da Vogelin di una ‘grandezza’ "con la quale i filosofi tedeschi non possono competere" - Piero Vassallo rivendica, giustamente, dopo la modernità, il primato della filosofia italiana. E benché egli ascriva all’autore della Teoria generale il difetto dell’identità di mente umana e mente divina, cionondimento gli riconosce il merito di aver, con la sua interpretazione, animato il dibattito filosofico a costo della sua stessa esistenza troncata con violenza proprio dopo la commemorazione del bicentenario vichiano.
Piero Vassallo, pur riconoscendo la grandezza di Gentile e pur apprezzando la svolta costituita dal La mia religione, conserva qualche perplessità al riguardo e intravede nell’attualismo una certa forma di averroismo vista, la dicotomìa tra le due verità - Io tracendentale e Dio - presente nella mente del filosofo. Ma, aggiungiamo, il passo fra il trascendentale e il trascendente è breve, sicché Gentile può essere assolto dall’accusa di dualismo dopo la professione di fede, già ricordata, del 1943.
Nella parte finale del saggio, Vassallo rende i dovuti riconoscimenti a padre Cornelio Fabro; e ciò, sia perché il sacerdote stimmatino risolve, a suo dire, la questione della doppia verità di Gentile restaurando il più genuino tomismo; sia perché anche Augusto Del Noce aveva, a suo tempo, additato il grande traduttore e interprete di Kierkegaard come il maggior filosofo che in quegli anni avesse l’Italia.
La situazione non è sostanzialmente mutata considerato l’imperversare del "pensiero debole" quale negazione, la più perentoria, della genuina ricerca speculativa. Il libro di Vassallo, ricco di suggestioni e di stimoli, conserva il grande merito, come abbiamo suggerito all’inizio, di affrontare la dottrina attualistica "ab intra" sviscerandone momenti felici e talune difficoltà. Esso, inoltre, ha il pregio del saggio che intende, opportunamente, rivalutare la figura di un uomo che oltre che grande filosofo rimane anche un grande italiano.
E, non a caso, il lavoro vassalliano esordisce con queste testuali parole a conferma della considerevole valenza nazionale della personalità di Giovanni Gentile: "Con la pubblicazione dei saggi sui Profeti del Risorgimento, Gentile tentò di fondare una "religione della patria", all’interno della quale comporre le discordi fonti delle tradizioni italiane, la fede cattolica, il panteismo rinascimentale e la filosofia romantica, professata, quest’ultima, dai protagonisti del risorgimento (e in modo particolare da Mazzini e Gioberti)".
L’aggiunta di Vassallo "impresa non facile" non cambia nulla, a nostro giudizio, per il semplice motivo che il filosofo siciliano ce la mise tutta per superare quegli ostacoli che il medesimo Autore dello studio in questione addita, considerandoli "eterogenei" e spesso inconciliabili fra loro.
Ma c’è di più perché l’Autore non si limita soltanto a rivalutare, "sic et simpliciter", la figura del pensatore siciliano, ma riesce, opportunamente, a cogliere anche gli aspetti dell’uomo conciliante il quale durante la Repubblica sociale costituì, a suo dire, "l’ultimo e disperato tentativo di salvare il fondamento spirituale della futura pacificazione fra gli italiani". Vassallo ha, al riguardo, ragioni da vendere giacché la morte violenta del filosofo, impedì a quest’ultimo di fare il passo decisivo sebbene il suo pensiero fosse "in nuce" tutto orientato verso la trascendenza, quantunque in sembianze poligoniche, per usare il linguaggio giobertiano.
Gentile, in ultima istanza, era uno spirito "naturaliter" cristiano e cattolico altrimenti non si giustificherebbero la professione di fede racchiusa nella conferenza fiorentina La mia religione e il successivo incontro, in Vaticano, fra il filosofo e il pontefice Pio XII. Incontro che a qualcuno sembrò più un avvenimento politico-culturale che una vera e propria conversione, ma che resta sintomatico ove si pensi alla famosa "attesa" di cui parlava padre Agostino Gemelli e alla grandiosa illusione "stroncata dalla barbara morte", per usare le testuali parole del fondatore dell’Università cattolica. Se - come ci riferisce lo storico Paolo Simoncelli nel suo Gentile e il Vaticano (1997) - il filosofo comunicò al papa che La mia religione rappresentava il massimo dello sforzo di adesione al cattolicesimo e il pontefice rispose dicendo "e vi par poco?", ciò significa che la via di Damasco era a portata di mano e che occorreva, ormai, percorrerla soltanto fino in fondo.
Da qui, la puntuale conclusione vassalliana secondo cui "con la morte per mano delle istituzioni dell’empietà, la fede cattolica, dichiarata da Gentile riceve un battesimo del sangue che la separa dall’adesione alla filosofia non cattolica di Hegel e la pone fra i simboli luminosi accesi oltre il secolo buio".
Lino Di Stefano
Introduzione
Spesso la memoria storica dell’uomo risulta essere alquanto avara nel riconoscere e nel valorizzare eventi o personaggi che hanno lasciato un’impronta indelebile nel tempo. La difficoltà di attribuire un’adeguata dimensione diviene maggiormente accentuata quando l’oggetto della nostra ricerca verte su realtà considerate periferiche o secondarie, non meritevoli pertanto di essere studiate e divulgate al pubblico più ampio. Di questa errata concezione di studio da cui dovrebbe discostarsi il ricercatore più attento, è stata vittima una delle figure a mio avviso più importanti dell’Ottocento siciliano: il barone Enrico Piraino di Mandralisca. Nato e vissuto all’ombra della rocca di Cefalù, cittadina normanna delle Madonie, dedicò tutta la sua esistenza alla continua ricerca del sapere, considerato l’elemento fondamentale per la libertà di ogni individuo. La pluralità e la profondità dei suoi interessi lo videro protagonista attivo in diverse discipline: medicina, storia, scienze naturali, archeologia, arte, materie giuridiche, agricoltura, letteratura ecc. Questo grande bagaglio culturale gli permise di non restare insensibile ai problemi del suo tempo, talchè con genialità e lungimiranza si adoperò alla soluzione di problematiche più svariate sia in campo sociale che politico. La fede per il progresso e l’amore innato verso il prossimo possono essere colti nella loro essenza nella volontà testamentaria del barone, che materializza come dice il prof. Portera: "la dirittura morale dell’uomo e la ricchezza del suo spirito…".(1)
Il testamento, infatti, rappresenta la chiave di lettura della personalità del Piraino, evidenziando l’aspetto solidale di un uomo che dedicò la sua breve esistenza in favore della comunità, donandole tutti i suoi beni fondando un liceo, comprendente anche una biblioteca e un museo. L’obiettivo di questa istituzione era quello di forgiare anche nell’animo dell’individuo più umile, le concezioni di identità e coscienza intese come mezzo per sfuggire alla prigionia dell’ignoranza e del sopruso da parte dei più forti, che possono essere combattuti solo quando si prende possesso della moralità civica e della giusta ripartizione dei diritti e doveri in ambito sociale. In quest’ottica, per l’europeo di Cefalù Enrico Piraino, l’istruzione avrebbe avuto il ruolo di musa liberatrice dalle angherie di un passato ancora strutturato su base feudale di cui erano vittime le classi sociali più povere. Eludendo il costume dell’epoca che consentiva agli aristocratici di generare figli al di fuori di un matrimonio gravato dalla sterilità femminile, il barone fin da giovane concepì come suo unico erede il liceo, istituzione che avrebbe dovuto continuare la sua opera pia dopo la morte. In questa breve anticipazione della figura del Mandralisca è facile intuire quanto questo personaggio sia stato importante all’epoca in cui visse e come influenzò il modo di pensare allora dominante.
I. Le origini familiari
Il nostro studio sul mecenate inizia partendo dalle origini della sua famiglia che nel lontano XVI secolo decise di trasferirsi dal Portogallo in Sicilia a causa della crisi politico-dinastica che colpì la penisola iberica in quel periodo.(2) Il primo membro che preferì abbandonare la propria terra fu un certo Domenico Pirejne, il quale nel 1580 si trasferì a Cefalù divenendo il capostipite della famiglia che successivamente avrà modo di espandersi in altre aree dell’isola. Portò con sè due figli, Angelo e Pietro, il primo darà origine al ramo di Noto, il secondo invece, sposandosi, diventerà padre di Giuseppe che correggerà in seguito il cognome in Piraino. Questi avendo preso in moglie nel 1604 Anna Almerico avrà due figli: Diego, dal quale si diparte il ramo di Castelbuono e Francesco. Dal primo matrimonio di quest’ultimo nascerà Mario (senior), dal secondo invece (1657), contratto con Antonia Di Napoli dei principi di Resuttano, Giovan Battista che si ricongiungerà al ramo di Castelbuono. Il 1660 risulta essere un anno cruciale nel nostro cammino cronologico, dal momento che Mario senior acquistò in marzo alla pubblica asta il feudo Mandralisca unitamente a quello di Castagna che erano stati possesso della principessa di Gangi, Donna Antonia Graffea, donataria del fratello Giuseppe e sposa di Don Francesco Valguarnera. Essi facevano parte della baronia di re Giovanni che comprendeva anche i feudi di Casalvecchio, Culfo, La Menta, Raulica, Ramusa, Bordonaro Sottana.(3) L’investitura dei due feudi da parte di Mario senior avveniva in data 21 settembre 1660, ma appena tre anni dopo, il 15 dicembre 1663, lo stesso vendeva il feudo di Castagna a Bartolomeo Militello per vicissitudini legate molto probabilmente alla crisi che attanagliava le finanze dei baroni, indebitati per la loro ostinazione nel condurre un regime di vita sfarzoso. Non avendo figli però, Mario decise di cedere il feudo Mandralisca al fratellastro Giovan Battista con transazione datata 3 febbraio 1663 agli atti del notaio Jacopo Cangiamila e declarazione del 19 dicembre 1665.(4) Giovan Battista sposando successivamente Eleonora Ortolano di Cefalù avrà da questa Diego, l’arcidiacono Giuseppe (Gangi), Pietro Antonio, Francesco e Mario Junior, quest’ultimo dopo aver impalmato Arcangela Di Maria sarà padre di Giovannella, Dorotea, Emanuele il quale continua il ramo dei baroni Piraino a Cefalù, costruendo il palazzo di famiglia a piazza Duomo, e di Michelangelo (Gangi), che sposando Teresa Ortolano (Cefalù), genererà Giovan Battista, Arcangela, Liborio, Eleonora ed Enrico (Cefalù) il quale prendendo in moglie Aurora Monizio di Lipari è genitore di Michelangelo che, dopo aver sposato in seconde nozze Maria Carmela Cipolla, è padre del nostro Enrico nato il 3 dicembre 1809.
I Piraino, entrarono a far parte del patriziato aristocratico acquistando il titolo nobiliare di barone, generalmente conferito come premio dalla casata dei Ventimiglia a quel ceto di collaboratori, amministratori, (notai, giudici, giurati) che ambivano ad uno status sociale più elevato, scalzando le più antiche e blasonate dinastie.
Il primo antenato del Mandralisca a cui si attribuisce di aver ricoperto una carica pubblica, è un certo Francesco, il quale nel 1657 pare sia stato giurato a Cefalù assieme a Don Francesco Martino, Ettore Lo Forti, al dott. Simone D’Anna e in sostituzione del dott. Rocco di Cesare. Invece se vogliamo quantificare il patrimonio di Don Michelangelo Piraino barone di Mandralisca, bisnonno del nostro Enrico, che risiedeva a Gangi, basterà scorrere l’elenco dei suoi beni citati nel testamento del 1708. Egli possedeva oltre al feudo, un vigneto, una casa grande, cinque quadri mezzani, coppe d’argento, corone di metallo, oggetti d’oro e disponeva di quasi 90 bovini ecc.(5)
II. Gli ideali di un uomo nuovo
Esattamente ventanni dopo lo scoppio della Rivoluzione Francese, in un clima di notevole cambiamento epocale nasceva Enrico Piraino barone di Mandralisca, figlio di una terra che fino ad allora era vissuta sempre ai margini del circuito culturale europeo.(6) Diverse ipotesi sono state avanzate da illustri storici per spiegare questo torpore intellettuale caratterizzante la Sicilia degli ultimi decenni del secolo XVIII. La tesi più convincente è senz’altro quella che addita al baronaggio dell’isola la responsabilità del ristagno politico-sociale scaturito da un’ errata conduzione di privilegio non solo nei confronti degli altri ceti sociali, ma addirittura della stessa organizzazione statale, impotente nel contrastare realtà locali ben ancorate al tessuto urbano e rurale. Il desiderio di indipendenza dallo straniero e la fierezza del popolo siciliano fanno sì poi che gli stessi baroni diventino punto di riferimento imprescindibile dei contadini poveri, i quali vedono nei loro oppressori un protettore naturale dal governo spagnolo, come evidenzia Helene Tuzet nel suo libro Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo.(7)
In questa situazione il professore Orazio Cancila rimprovera agli intellettuali del tempo l’aspra opposizione ai principi nati dalla Rivoluzione Francese, che riuscirono ad attecchire soltanto nelle province orientali dove cominciava a svilupparsi una piccola e media borghesia, pronta a recepire i nuovi impulsi provenienti dall’esterno. Enrico Piraino spogliandosi della veste di nobile appartenente al patriziato di provincia, ligio al potere e diffidente verso ogni forma di rinnovamento, si schierava dalla parte dei più deboli e bisognosi, ripudiando quell’ozio che contraddistingueva la classe aristocratica, chiusa in un piccolo mondo fatto di sperperi ed ipocrisie. Lo stesso padre del barone, durante il moto rivoluzionario del 1820, aveva fatto parte della Giunta Provvisoria di Governo, la quale aveva come unico obiettivo il mantenimento dello status quo, onde evitare sconvolgimenti che avrebbero potuto intaccare gli interessi dei proprietari terrieri. Potenziale continuatore delle antiche tradizioni familiari, Mandralisca preferì invece porsi come punto di rottura, improntando la sua vita ad un religioso senso del dovere. Egli dedicherà la sua breve esistenza allo studio, come dice Gaetano La Loggia nel suo elogio funebre: "…non solo abbandonò il mondo e le sue futili illusioni, ma essendosi fermamente persuaso, che l’uomo fu creato per lavorare e produrre…si diede con tutta lena allo studio delle scienze naturali e archeologiche che formarono la passione più spinta della sua vita…".(8)
Ma l’umida saletta studio in cui trascorreva notti insonni sulle amate carte "al chiarore d’una lampade"(9) non lo sottrasse da una partecipazione attiva alla vita politica e sociale del suo tempo: "Caldo amatore della politica della libertà, intollerante affatto dell’odioso servaggio, che cuore fu il suo, in rimirando già fatta vile ancella ed albergo di dolore Regina delle genti, la terra d’Italia? [...] non dubitava di scoprire le piaghe del popolo, che delitto erano d’un governo oppressore, e com’uomo, che nulla spera e nulla teme, reclamavane arditamente riparo".(10)
L’impegno culturale del barone si caratterizzò per un approccio enciclopedico di stampo illuministico, su una piattaforma metodologica positivistica. Egli pertanto riuscì a coniugare e ad interpretare pienamente le due felici stagioni del pensiero umano (illuminismo e positivismo) con il suo atteggiamento romantico. Infatti lo stesso positivismo definito il romanticismo della scienza, accompagnò in una proiezione ottimistica la crescita della nascente società tecnico-industriale.(11) Di questo influsso Piraino non ne poteva rimanere escluso, anzi lo caratterizzò con una visione intrinseca di valori morali e religiosi. Ciò gli permise di meritarsi l’attenzione ed il riguardo degli studiosi, testimoniato non soltanto dalla sua costante presenza in seno alle varie accademie ed associazioni culturali, ma anche per i risultati inediti che conseguì nell’ambito delle sue ricerche soprattutto malacologiche. In verità nel circuito scientifico internazionale la Sicilia del tempo si poneva all’avanguardia nel settore naturalistico. Personaggi come Vito D’Ondes Reggio, Domenico Scinà, Stanislao Cannizzaro, Antonio Bivona Bernardi, Francesco Tornabene, Giovanni Gussone, Paolo Balsamo, Vincenzo Tineo, Agostino Todaro, Niccolò Cervello, Giorgio e Carlo Gemellaro, Baldassare Romano e tanti altri furono amici e collaboratori illustri del Mandralisca.
III. La vita
Il barone, nato qualche anno prima (3 dicembre 1809) in cui vennero aboliti i diritti feudali (1812), trascorse la sua infanzia tra Lipari (nelle proprietà della nonna Aurora Monizio) e Cefalù nelle terre di Giarrossello, della Leonarda, nella riserva di caccia di Torretonda e nel palazzo di famiglia, a Gangi nel feudo Mandralisca.(12) L’unica compagna di giochi è la sorella Enrica Giuseppa più grande di sei anni, poichè altri quattro fratellini muoiono poco più che neonati di una malattia rara. Come la tradizione del tempo imponeva che tutte le famiglie nobili istruissero i loro figli presso reali istituiti, così anche Piraino ricevette l’educazione presso il Real Collegio Carolino Colasanzio dei Chierici regolari delle scuole Pie a Palermo. Entratovi nel 1818 ne uscì nel 1825 con un bagaglio culturale non indifferente. Durante i sette anni di permanenza al collegio vedrà raramente la famiglia, una delle poche circostanze è il matrimonio della sorella Enrica Giuseppa la quale nel 1820 fu data in sposa al barone Salvatore Martino e Valdina alla giovanissima età di dodici anni. Ma la sorte nefasta le riserva una morte precoce appena quattro anni dopo, in seguito probabilmente all’evoluzione della malattia di cui erano stati vittima gli altri fratelli. Enrico che era parecchio legato alla sorella, ne accusò notevolmente la perdita e appena uscito dal collegio, dopo un periodo di silenziosa sofferenza, si dedicò ai suoi studi archeologici nell’isola di Lipari, dove conobbe Maria Francesca Parisi sposandola il 24 febbraio 1827 a neanche diciotto anni compiuti. Le responsabilità del giovane Enrico dovevano crescere con la morte del padre avvenuta nel dicembre 1829. Da questo momento dovette amministrare il patrimonio di famiglia, ma ciò non gli impedì di proseguire nella sua attività di ricerca.(13) Dal campo della mineralogia e dell’agricoltura vengono le prime soddisfazioni al duro lavoro che aveva intrapreso sia a Lipari che sulle Madonie e sui Nebrodi, durante escursioni con gli amici ricercatori più intimi. Nel 1837 si comincia a diffondere negli ambienti scientifici la fama del nostro Enrico in virtù del fatto che il barone aveva vinto la Medaglia d’argento di prima classe assegnata dal Reale Istituto di Incoraggiamento dell’Agricoltura, Arti e Manifatture per la Sicilia, per aver presentato al salone dell’Esposizione Siciliana dell’Agricoltura, minerali, uva passa, olio e vini(14). Mandralisca intraprende una fitta relazione epistolare con i grandi scienziati dell’epoca. Dello stesso anno sono alcune lettere al botanico Filippo Parlatore, in cui riferisce che il professore Vincenzo Tineo ha voluto chiamare Klenia Mandralisca una pianta in suo onore. Successivamente lo stesso Parlatore, che è direttore dell’orto botanico di Firenze, riprendendo l’idea omaggerà il Nostro, dando il nome Mandralisca ad un’altra pianta. Gli anni che vanno dal 1840 al 1844 sono particolarmente fervidi dal punto di vista delle pubblicazioni. Nel 1840 vedono la luce due opere: la prima data in stampa all’Orotea di Palermo è il Catalogo dei molluschi terrestri e fluviatili delle Madonie e luoghi adiacenti per Enrico Piraino barone di Mandralisca, la seconda stampata dalla Salli di Palermo è la Monografia del genere Atlante di Enrico Piraino barone di Mandralisca da servire per la fauna siciliana. È del 1841, invece, la Lettera al Signor D. Enrico Piraino di Mandralisca di Benedetto Naselli con risposta al signor Benedetto Naselli data in stampa alla tipografia Virzì. Dal punto di vista familiare il 1841 è un anno importante per il nostro Enrico, poichè sposandosi la cognata Claudia Parisi con il barone Don Antonino Agnello, troverà in quest’ultimo un fratello più che un parente acquisito, come possiamo evincere anche dal romanzo della scrittrice romana Laura Frezza: Ritratto di ignoto in un interno di famiglia(15) nel quale si coglie pienamente lo spaccato di vita familiare in casa Piraino. La Frezza - avendo trovato in un vecchio armadio a muro un carteggio riguardante una relazione epistolare tra il nostro Enrico ed il cognato il barone Agnello -, ha pensato di ricostruire in un’ottica romanzata le vicende affettive-personali che legarono le due coppie.
La storia ruota intorno al quadro di ignoto attribuito quasi certamente al pittore Antonello Da Messina, che affidato da Enrico a Nino, costituirà fonte di non pochi problemi, dal momento che rubato a quest’ ultimo dal brutto ceffo di Giutria, toccherà diverse terre fra cui anche il suolo di Napoli. Alla ricerca del quadro vedremo impegnata Claudia, la sorella di Ciccia, moglie di Enrico, la quale dimostrerà tanto coraggio, mettendo in evidenza una personalità parecchio affine a quella dello scienziato, tanto da lasciar il dubbio al lettore che fra i due ci possa essere stata una relazione ambigua, dal momento che la stessa seguiva il barone in ogni suo scavo nelle terre di Lipari e lo assisteva durante le conferenze tenute in tutta Italia.
Questa ipotesi trova conforto nell’analisi condotta in parallelo delle singole personalità dei quattro personaggi: Nino tutto devoto alla famiglia e agli interessi personali sembra un uomo ideale per vivere con Ciccia, la quale ama il buon governo della casa e detesta seguire nelle sue ricerche il marito, che essendo uno spirito intraprendente e libero accetta ben volentieri il sostegno della cognata durante le sue attività di ricerca e di studio. Tutto ciò comunque è frutto di fantasia e non di dati reali, anzi a proposito Marino(16) scrive: "Enrico ama trascorrere la vita in famiglia, attendendo alle piacevoli attività di ricerca che lo portano ad intrattenere rapporti con studiosi e scientifici". E infatti continuando a ripercorrere la vita del Mandralisca vediamo che nel 1842 in seguito ad una pubblicazione Nota su talune specie di Molluschi Terrestri e Fluviatili di Sicilia, sul n. 230 del "Giornale Letterario Palermitano", egli comincia un fitto scambio di materiale scientifico-informativo con i più grandi studiosi di storia naturale in Sicilia. Fra questi sicuramente annoveriamo il naturalista Francesco Minà Palumbo di Castelbuono, il quale conserverà fino alla morte, avvenuta nel 1899, una stima enorme nei confronti del nostro barone. Come più volte ripetuto, Piraino oltre che ai suoi studi scientifici fu interessato anche ai problemi di natura socio-politica. Su questo versante possiamo apprezzare un volumetto che egli scrisse nel 1844 intitolato Sulle prestazioni pretese della Mensa Vescovile di Cefalù dove viene presa di mira la condotta dei Vescovi di Cefalù, giudicata illegittima perchè basata su un’amministrazione di stampo fortemente medievale mirante alla riscossione di prestazioni di tipo feudale.
Sempre nel 1844 ottiene il suo primo incarico politico con la carica di Consigliere Provinciale dell’Intendenza di Palermo, grazie alle sue conoscenze giuridico-amministrative, dimostrando una notevole capacità nell’affrontare i problemi del territorio. Nel 1846 il barone inviò una collezione di piante siciliane al Grande Erbario Centrale di Firenze. In virtù di ciò la direzione dell’Imperiale e Reale Museo di storia Naturale di Firenze lo ringraziò a nome del Gran Duca in data 11 novembre 1846. Ci avviciniamo ad un periodo particolarmente carico sotto il profilo delle tensioni sociali, destinato ad esplodere con l’insurrezione popolare di Palermo del 10 gennaio 1848 che costituirà la rivolta madre da cui poi si dipartiranno tutte le altre nel resto d’Europa. Il Nostro, che nel frattempo il 3 aprile 1847 è costretto ad accettare la carica di Presidente del Consiglio Distrettuale sotto il regio decreto di Ferdinando II, pensa bene di munirsi del bastone animato di ferro, ottenendo il permesso dal Ministero e Real Segreteria di Stato della Polizia Generale, in modo da poterlo conservare in casa e a portarlo con sè durante le ore notturne.(17-18) Il barone, nonostante fosse paladino del pacifismo più radicato, era un provetto spadaccino che non aveva alcun timore nel difendere l’incolumità propria e quella della sua famiglia. A Cefalù durante i moti rivoluzionari fu creato un Comitato provvisorio nel quale figurarono eletti oltre al Piraino, il Barone Bordonaro, Nicolò Agnello, Francesco Cirincione, Vincenzo Agnello, G. Cirincione. Frattanto, creato il 15 marzo il General Parlamento siciliano sotto Ruggero Settimo, Mandralisca scelse di sedersi nella Camera dei Comuni,(19) rappresentativa ormai dell’elemento democratico che meglio proiettava le forme più evolute di vita sociale(20). In questa Camera sedevano anche Pasquale Calvi, Interdonato, Errante, Cordova oltre che personalità del calibro di Francesco Crispi, Francesco Ferrara, Michele ed Emerico Amari, Mariano Stabile, Vincenzo Fardella di Torrearsa che si prodigarono in difesa dei diritti civici. I rappresentanti cefaludesi oltre al Nostro furono Carlo Ortolano di Bordonaro e Antonino Agnello di Ramata.
L’esperienza del Parlamento fu abbastanza breve poichè ebbe termine appena l’anno successivo il 15 maggio 1849, quando Palermo dovette capitolare dinanzi all’esercito borbonico. Ciononostante si possono individuare elementi positivi con il tentativo di rendere più democratico il funzionamento elettivo con la partecipazione dei diversi ceti sociali. L’elezione non avveniva tramite il censo, anche se venivano esclusi dal diritto di voto gli analfabeti, gli stranieri residenti in Sicilia e i cittadini di età inferiore ai venti anni. Erano eletti solo gli uomini di cultura, i professionisti in genere. Dopo questa breve parentesi, in cui aveva votato contro la decadenza dei Borbone, (voto che peraltro non ritratterà più) Enrico si dedicò nuovamente ai suoi studi e all’impegno sociale, animato dalla convinzione che l’unica arma da fornire ad un popolo per liberarsi dall’oppressione dello straniero fosse la presa di coscienza della propria identità culturale.(21)
È del 6 febbraio 1849 l’atto d’acquisto del Castello (la Rocca) e dei terreni adiacenti affidato al cognato Antonino Agnello. Il 10 maggio 1850 ottiene il permesso di detenere un fucile ed un coltello da caccia con documento rilasciato dal Ministero e Regia Segreteria di Stato e firmato dal terribile Direttore del Dipartimento di Polizia Salvatore Maniscalco, lo stesso che darà la caccia a Salvatore Spinuzza(22).
Nel medesimo anno, il 13 luglio, diviene socio corrispondente della Commissione di Agricoltura e Pastorizia della Sicilia, inoltre il 26 ottobre 1852 dall’Associazione per lo Studio della Natura e dell’Arte di Hildeshein consegue il diploma di corrispondente. In questi anni i suoi studi numismatici diventano più intensi in prospettiva della pubblicazione di una memoria inerente a delle monete antiche di Lipari. Ma questo resterà un progetto incompiuto poichè vi era l’impossibilità di riprodurre le immagini, cosa che sarà fatta troppo tardi quando il testo non potrà essere più stampato. Nel 1853 Antonino Restivo Navarro aveva arricchito la collezione del Piraino inviandogli diverse monete antiche. Quest’anno risulta oltremodo importante visto che il mecenate è impegnato nella stesura del suo testamento, avvenuta con precisione il 26 ottobre, il quale rappresenta un momento significativo dell’esistenza del barone, poichè ci mostra tutta la sua grandezza morale unita ad una fenomenale capacità di precorrere la cultura moderna. Il 1854 è l’anno dell’epidemia del colera. La famiglia Mandralisca per evitare il contagio preferisce trasferirsi in una delle sue proprietà lontane dal mare come ebbe a dire lo stesso Enrico in una lettera inviata al barone Carlo D’Estorff: "…sicchè dovetti fuggire colla famiglia, isolandomi per parecchi mesi in una mia villetta in cima di q. e montagne, e quando cessato ogni sospetto del morbo, mi restituiva in casa, i miei abituali incomodi non mi permettevano di scrivere…".(23) Gli incomodi al quale si riferisce riguardano il suo stato di salute minato da una malattia polmonare che nel 1856 avrà una fase di acutizzazione. Malgrado ciò appena l’anno prima aveva ricevuto il 17 marzo la nomina a Consigliere Provinciale dell’Intendenza di Palermo e il 3 novembre veniva eletto corrispondente locale della Commissione di antichità e belle arti di Palermo.
Neanche dal punto di vista delle ricerche la sua attività di studio conobbe sosta, avendo egli proseguito gli scavi a Lipari dove rinvenne importanti reperti archeologici soprattutto di terracotta. In questo periodo si riaccendono gli animi rivoluzionari dei cospiratori antiborbonici, e nonostante i capi più rappresentativi della rivoluzione del 1848-49 fossero andati in esilio(24), si formarono nell’isola diversi Comitati insurrezionali diretti a distanza(25). Visto che il Comitato centrale di Palermo esitava a programmare le operazioni, a Corleone il barone Francesco Bentivegna prese l’iniziativa del moto programmato per il 12 gennaio 1857, ma scoperto dovette anticiparlo al 22 novembre quando con pochi compagni occupò Mezzojuso, liberando diversi carcerati. Con l’aiuto di questi fece insorgere Villafrati, muovendo su Palermo, ma il capoluogo era rimasto estraneo all’insurrezione, favorendo quindi l’intervento delle truppe borboniche che costrinsero il Bentivegna a disperdere i suoi uomini e a rifugiarsi a Corleone. Parallelamente a Cefalù i cospiratori liberarono Salvatore Spinuzza, un audace giovane patriota che si pose alla direzione del movimento, a cui parteciparono anche i fratelli Nicola e Carlo Botta, Cesare Civello, Andrea Maggio, Alessandro Guarneri, ma anche in questo caso essendo stato mal organizzato, le truppe regie non ebbero alcuna difficoltà a disperdere i rivoluzionari che si rifugiarono sui monti. Il Luogotenente di Sicilia il Principe di Castelcicala fece occupare tutti i paesi in cui si era propagata l’onda rivoluzionaria, e al Maniscalco famigerato Direttore di Polizia fu dato il compito di ricercare tutti i cospiratori della rivolta. Sia Bentivegna che Spinuzza dopo essere stati individuati furono arrestati e condannati a morte. In questo periodo di particolare agitazione fu arrestato a Napoli nel 1856 lo stesso barone Enrico Piraino, anche se il provvedimento giudiziario fu limitato ad un fermo di polizia seguito da un immediato rilascio. Non abbiamo notizie su questo avvenimento che in quanto ad importanza si commenta da solo. Si sono ipotizzate diverse interpretazioni, la più credibile associa la figura dell’intellettuale Mandralisca ad un potenziale nemico ideologico del regime borbonico, in combutta con i cospiratori locali. Comunque risulta strano il fatto che il provvedimento si sia limitato ad un semplice fermo, questo potrebbe indurre a pensare che il barone ottenne il rilascio grazie all’influenza di qualche amicizia politica, frutto dei suoi continui soggiorni nella città partenopea. Ad ogni modo le nostre interpretazioni lasciano il tempo che trovano, visto che non sono avallate da alcun dato oggettivo. Sembra certo però, che una personalità facente parte della nuova cultura illuminata come quella dello scienziato cefaludese, non potesse non scontrarsi con un regime oppressivo, dove non vi era spazio per la crescita umana dell’individuo.
Nel 1857 Enrico torna ad occuparsi di agricoltura, ed avendo scritto una relazione sui prodotti siciliani e sulle ricette per fabbricare vini liquorosi ed aceto, vinse la Medaglia di argento di prima classe nella Esposizione dell’Agricoltura Italiana. All’inizio del 1858 diviene socio dell’accademia dei Pellegrini Affaticati di Castroreale.(26) Nel mese di febbraio Charles Th. Gaudin scrive da Palermo al barone complimentandosi per le importanti ricerche effettuate a Lipari. A sua volta Piraino da Napoli nel mese di Agosto scriverà all’amico Filippo Parlatore, aggiornandolo sulle ricerche della fauna e della flora condotte sulle Madonie assieme al botanico Agostino Todaro ed in virtù della sua esperienza il 30 novembre viene nominato membro della Commissione di Studi per la distruzione delle cavallette dall’Accademia Palermitana di Scienze e Lettere. Nel frattempo la situazione storico-politica sembra quanto mai propizia per un cambiamento epocale e così l’11 maggio del 1860 Garibaldi e i Mille sbarcarono in Sicilia, dopo che a Palermo nel convento della Gancia vi era stata una timida insurrezione popolare, la quale comunque diede il via alle azioni di rivolta nelle campagne. Si crearono immediatamente dei Comitati rivoluzionari per sostenere l’azione dei garibaldini che progressivamente spodestavano i funzionari borbonici lungo la loro avanzata alla conquista dell’isola che avvenne il 27 maggio.
Anche a Cefalù nel frattempo era stato costituito un Comitato rivoluzionario di cui fecero parte il nostro Enrico, in qualità di Presidente ed il cognato, il barone Don Antonino Agnello di Ramata. A sminuirne l’operato fu però il Capo di Stato Maggiore Salvo di Pietraganzilli, che in un volume(27) da lui pubblicato citava la freddezza con cui la guardia cittadina aveva accolto il 26 maggio il corteo dei rivoluzionari lamentadone l’atteggiamento di passività. A casa del cugino, Carlo Ortolano barone di Bordonaro, avvenne l’incontro con tutti gli esponenti del Comitato cefaludese, di questi Pietraganzilli prese di mira in modo particolare il nostro Enrico tanto che ebbe a dirgli: "Ma a lei, composte bene le cose dopo la vittoria, non dispiacerà di riuscire Deputato o Ministro? Metta ora, per Dio, un dito nella acqua fredda e ci aiuti"(28). Ora a noi questo atteggiamento sembra oltre che ingiusto anche impregnato di un certo egocentrismo. Infatti egli stesso riferisce che il nostro Enrico alla richiesta di denaro per finanziare la rivoluzione abbia risposto di rivolgersi al Vescovo di Cefalù. Da questo elemento possiamo affermare con certezza che il Capo di Stato Maggiore abbia fatto dire al Piraino delle cose che il barone non pensasse assolutamente e soprattutto per le quali aveva condotto delle battaglie personali. Abbiamo già detto infatti e avremo modo di trattarlo successivamente, come gravavano sulla comunità le prestazioni richieste dal Vescovo e la posizione di contrasto assunta dal Mandralisca con la pubblicazione Sulle prestazioni pretese della Mensa Vescovile di Cefalù. Frattanto Enrico viene nominato Presidente del Consiglio Civico in data 2 giugno 1860.
Da Torino l’abile politica cavouriana fa sì che l’azione condotta da Garibaldi non dia linfa al partito d’azione, e rimanga sotto il controllo dei liberali moderati. In questo contesto Piraino, riconosciuta ormai ampiamente la sua opera di potenziamento della cultura, viene nominato durante la Prodittura, Consigliere di Luogotenenza per il Dicastero della Pubblica Istruzione sotto il marchese Massimo Cordero di Montezemolo, ma non appena questi fu sostituito con Alessandro della Rovere si dimise(29). Nel primo Parlamento Nazionale riunitosi per la prima volta il 18 febbraio 1861 siederà anche Mandralisca come rappresentante del Collegio di Cefalù. Eletto Deputato inizia un periodo di frequenti viaggi che lo porteranno ad allontanarsi dalla sua Sicilia, la quale ormai sembra aver abbandonato quelle velleità di indipendenza serpeggiate con vigore nel periodo rivoluzionario del 1848. Il contatto con gli ambienti lombardi e piemontesi gli mostra palesemente la sperequazione delle condizioni di vita delle popolazioni del nord progredito rispetto a quelle del sud. Ma ciò che lo preoccupa realmente è la totale incapacità dei membri della Camera dei Deputati di adoperarsi per delle possibili soluzioni. Tutta la sua tristezza si evidenzia in una lettera del 21 giugno 1861 inviata al cognato il barone Don Antonino Agnello di Ramata(30), dove motiva il suo scontento, indicando lo slancio risorgimentale chiuso paradossalmente con l’unità d’Italia. Da un contesto del genere il nostro Enrico preferì allontanarsi dando a breve le dimissioni dalla sua carica. L’aver capito egli anzitempo quali fossero i problemi che meritassero una celere risposta nell’ambito economico-politico, ci induce a credere con una buona dose di sicurezza che se la morte non l’avesse stroncato così prematuramente avrebbe partecipato alla realizzazione di non poche opere, non solo in Sicilia ma anche in tutta Italia. Infatti, poco prima di spirare, pur segnato dalla malattia non tralasciò il suo impegno culturale, nonché sempre nel 1861 per i meriti scientifici nella zootecnica, il Governo lo nominò membro del Gran Giurì alla Grande Esposizione Italiana di Firenze, dove aveva presentato una bozza su un possibile sviluppo dell’agricoltura nel Meridione. L’11 aprile il Dicastero della Sicurezza Pubblica gli concedeva di poter portare un fucile, due pistole ed un bastone animato nella qualità di Deputato al Parlamento. Dalle ultime lettere con gli amici più intimi, come da quella che gli spedì il critico d’arte Agostino Gallo in data 31 dicembre 1863, si evidenzia come il barone pur stremato dalla malattia continuasse i suoi scavi archeologici nell’isola di Lipari:(31) "Godo che Ella siasi ristabilito in salute col soggiorno in Lipari. Lo stesso avrebbe ottenuto in Palermo, sebbene in quest’anno l’inverno sia stato freddo, ma poco flagellato dalle piogge e affatto finora dalle nevi. Ho dovuto osservare che l’aria più grave di questa ex capitale, ora degradata, sia a lei, asmatico per ragion dei nervi più giovevole, che quella di Cefalù".
Ma, in realtà, il barone Mandralisca attraversava ormai ben pochi momenti nei quali dedicarsi agli studi prediletti. Infatti la morte inesorabile lo colse il 15 ottobre 1864 nella sua Cefalù. Si spense tra le braccia del medico palermitano Gaetano La Loggia che tentò di tutto pur di salvarlo(32), sepolto presso l’oratorio del SS.Rosario, fu lo stesso medico a tenere il discorso funebre. Successivamente il 30 gennaio del 1865 la municipalità di Cefalù celebra le esequie istituzionali con l’intervento del canonico Francesco Miceli che pronuncia l’elogio funebre. Nel 1867 la salma di Piraino venne trasferita all’interno della chiesa del purgatorio in un sarcofago. La sua scomparsa lasciò un vuoto incolmabile tra tutti gli amici e scienziati che avevano seguito con interesse i suoi studi ritenendolo un grande collega laddove egli stesso si definiva un dilettante.(33)
Per apprezzare maggiormente la sua opera di ricerca occorre considerare quanto difficoltosi erano in quel tempo gli spostamenti lungo la nostra penisola ed immedesimarsi nella situazione politica di certo non favorevole. Molto spesso finanziò a proprie spese progetti della cui importanza era fermamente convinto, come l’osservatorio meteorologico dei Padri Cappuccini a Lipari, il progetto del porto di Cefalù, il restauro dei mosaici del Duomo ruggeriano. Conferì dei premi agli studenti più capaci, si adoperò nella costruzione di chiese campestri e nella cura del folclore locale con sfilate di carri addobbati. Si prodigò affinchè la società italiana dei vapori toccasse almeno due volte al mese Cefalù e una volta a settimana Lipari. Mantenne agli studi dei popolani anche non vedenti negli istituti palermitani.
Dall’amicizia con Filippo Parlatore nacque il desiderio di allargare l’orto botanico di Palermo. La sua vena innovativa gli permise di introdurre l’uso dello zolfo nella cura delle malattie della vigna(34) e di sperimentare il rimboschimento di alcune zone di Cefalù con semi provenienti dalla Grecia. L’impegno sociale è oltretutto rimarcato dall’interessamento del barone alla ristrutturazione dell’ospedale di Cefalù(35) di cui poi ne sarà deputato alla gestione, dall’istituzione presso l’Università degli Studi di Palermo delle due scuole di lavori anatomici e di anatomia chirurgica dall’abbattimento delle ultime resistenze contro il libero scambio, lottando contro i padroni delle tonnare affinchè si liberalizzasse la pesca delle amie a vantaggio dei pescatori poveri.
Piraino è anche autore di altre opere rimaste inedite quali: Prodromo di Topografia statistica delle isole Eolie, Raccolta di iscrizioni greche trovate in Lipari, Elenco degli uccelli che abitano a Lipari, o che vi sono di passaggio, Appunti sull’origine di Alesa Arconida, Note di agricoltura, Le ricette per colorire zabbara ed altro del signor Barone di Mandralisca. Memoria(36), e forse di un breve componimento poetico che va sotto il titolo di Ritratti di taluni liberali del ‘48. Il Miceli infine menziona altre due opere di cui si sconosce l’edizione: Coltura e fecondazione delle palme e Osservazioni sulla crittogama(37).
IV. L’attività amministrativa
La società moderna indica molto spesso agli uomini dei percorsi di vita basati su bisogni artificiali, che hanno come unico obiettivo la ricerca continua ed esasperata del successo, del potere e del denaro, considerati elementi fondamentali per il raggiungimento della realizzazione dell’individuo.(38) Nel 1829 il ventenne Enrico, morendo il padre Michelangelo, divenne improvvisamente amministratore di un ingentissimo patrimonio familiare che si componeva di vasti latifondi sparsi tra Lipari e tutto il territorio madonita. Queste proprietà ereditate dagli antenati, appartenenti non solo al ramo dei Piraino che si era insediato a Cefalù, ma anche a quello di Gangi e Castelbuono, un tempo erano state amministrate da quei giurati e notabili entrati nel patriziato provinciale grazie alla benevolenza acquisita presso i Ventimiglia. Se per costoro la gestione di tutti i possedimenti e la contabilità delle ingabellazioni o delle giornate di salario degli operai costituiva una delle loro attività quotidiane, di certo ciò non sembrava un incarico facilmente conducibile da un giovinetto che aveva passato tutta la sua adolescenza soltanto sui libri, lontano dalle questioni prettamente economiche. Tuttavia Enrico dimostrò immediatamente non solo di saper far fronte ad un onere così grande, ma anche di rivelare un’abile capacità organizzativa, tanto che lo stesso suocero, il barone Don Francesco Parisi e Donna Marianna, sua sorella, lo costituirono loro procuratore, conferendogli ogni potere e facoltà su una controversia pendente per l’eredità Monizio tra il Barone Don Felice Nobile di Catanzaro da una parte ed i baroni Michelangelo Piraino e Francesco Parisi dall’altra.(39)
Da questo momento in poi, il nostro Enrico, preferì sfuggire a quella ricerca di bisogni artificiali di cui abbiamo parlato poco sopra, per dedicarsi agli studi e all’amministrazione di un patrimonio che doveva non dilapidarsi, come sovente capitava ad i nobili del tempo, ma accrescersi e mantenersi per realizzare tutte quelle opere in favore della comunità, all’insegna del grande spirito umanitario che contraddistingueva la sua persona. Ben presto cominciò ad offrire il suo servizio anche alla cittadinanza di Cefalù, computando le erogazioni di somme di denaro "per conto della comune" ed impegnandosi in alcune indagini statistiche e scientifiche dell’ area madonita, inerenti alla popolazione, al commercio e all’agricoltura. Da un documento di epoca posteriore, datato 1861, l’anno successivo in cui il Nostro divenne Presidente dello stesso Consiglio Civico, si evince come egli conoscesse bene il territorio, non soltanto dal punto di vista mineralogico o naturalistico ma anche economico ed amministrativo. Molto importante è la valutazione del Piraino riguardo la necessità di un tribunale di prima istanza: "…se il Governo non accordasse a Cefalù un Tribunale di prima istanza tutte le popolazioni del circondario sarebbero costrette a recarsi in Termini per ogni piccola domanda, poichè i Giudici mandamentali han perduto secondo il nuovo sistema giudiziario ogni competenza…". Il barone lamentava che una cittadina come Cefalù, sbocco naturale del circondario e sede della dogana, della Curia Vescovile, del Tribunale Ecclesiastico ecc. dovesse rivolgersi alla competenza giuridica di Termini Imerese, una località difficilmente raggiungibile a causa dell’assenza di linee stradali e ferroviarie; oltretutto era incomprensibile che la provincia di Messina, più piccola rispetto a quella di Palermo, avesse due tribunali a Patti ed a Mistretta. Per documentare questo disagio egli realizzò una interessante nota sul quadro delle distanze dei comuni dell’entroterra, sottolineando la precarietà dei collegamenti che spesso facevano desistere i contendenti dall’ intraprendere percorsi legali per risolvere le loro liti.
Lo spirito umanitario e l’abilità nel condurre la gestione del denaro non dovevano essere certamente ignote neanche al famigerato Direttore di Polizia Salvatore Maniscalco, tanto che questi inviò al Piraino una lettera di raccolta fondi in favore delle popolazioni continentali del Regno delle due Sicilie, colpite dal terremoto del 16 e 17 dicembre 1857. "Nel rivolgermi a Lei particolarmente, io adempio ad un debito, cui vorrà Ella pure partecipare volontariamente, promuovendo questa soscrizione o concorrendo ad essa colle sue offerte", così recitava il Direttore dopo aver chiarito che tutte le donazioni ricevute sarebbero state trasmesse al signor Benedetto Sommariva, Ufficiale di Carico del Ministero e Real Segreteria di Stato. Evidentemente Maniscalco poteva far leva su diversi fattori scrivendo al barone, innanzitutto sulla sua naturale predisposizione a risolvere problematiche di natura sociale, in secondo luogo sul suo cospicuo patrimonio, che più di una volta venne in aiuto dei bisognosi e nel contempo agli innumerevoli rapporti che il Nostro teneva con i personaggi più influenti del panorama politico provinciale.
IV. La ristrutturazione dell’ ospedale degli infermi
Un’opera che certamente può essere considerata l’emblema del grande spirito filantropico del barone Enrico Piraino è la ristrutturazione dell’ospedale sito nella cittadina madonita. La difficoltà realizzativa di questo progetto, dovuta alla mancanza di fondi e all’ostinazione del Vescovo Proto, interessato semplicemente ad un tornaconto personale, non scalfirono la tenacia con cui il barone si propose di portare a compimento questo istituto assistenziale. Ho cercato di ripercorrere l’iter amministrativo attraverso l’analisi di alcune lettere(40) che il Nostro scriveva all’intimo amico Agostino Gallo, erudito e letterato palermitano, appartenente ai dotti di vecchio stampo illuministico. Dallo scambio epistolare notiamo come il Gallo, nonostante fosse un accademico, avesse anche delle fitte relazioni di natura politica con personalità di spicco non solo nel capoluogo siciliano. La continua ricerca di finanziamenti e la necessità della realizzazione di un’opera benefica per gli infermi è spesso evidenziata da Piraino, il quale vedeva in essa un sostegno ed una speranza per coloro che dalla vita non avevano alcuna gioia. L’ospedale, nei desideri più intimi del barone, che non aveva potuto godere della nascita di un figlio, a causa della sterilità della moglie Francesca, doveva costituire anche un centro di ricerca per combattere l’infecondità, spesso celata con adozioni clandestine o con figli nati da relazioni extraconiugali. L’amore per i bambini è documentato dalla sua stessa volontà testamentaria, laddove egli vuole che si destini una stanza dell’edificio alle lezioni pratiche e teoriche di ostetricia per le levatrici, tenute da un chirurgo a cui allega sei onze annue come gratificazione. L’importanza della ricerca medica è oltremodo sentita, se consideriamo che lo stesso si adoperò per la creazione presso l’Università degli Studi di Palermo delle due scuole di lavori anatomici e di anatomia chirurgica. Le vicende amministrative legate all’ospedale sono riportate anche nel romanzo di Laura Frezza(41), dove oltre agli episodi che sono frutto di pura fantasia, è possibile prendere nota dei nominativi effettivi dei soci alla deputazione dell’istituto come: Don Antonino Agnello barone di Ramata, Giovan Battista Spinola, Rodrigo La Calce, Vincenzo Pernice e dell’architetto Labiso, degli ingegneri Benedetto e Bartolo Ventimiglia e per ultimo dell’appaltatore della costruzione il mastro Vincenzo Vazzana. Come già detto, uno dei maggiori ostacoli alla ristrutturazione dell’istituto era rappresentato dal Vescovo Proto, il quale stando alle competenze della Curia, a cui spettava il compimento delle opere pie, avrebbe dovuto sovvenzionare i lavori, ma nel far ciò richiedeva di entrare nella rappresentanza comunale in qualità di Deputato, scontrandosi pertanto con l’amministrazione municipale. Di questo episodio il Piraino ne fa partecipe il Sottoprefetto scrivendogli le seguenti parole: " …non soddisfatto del rapporto della Deputazione io mi portai personalmente dal Vescovo, per intendere dalla sua bocca le sue intenzioni ed i suoi desideri. Lo trovai adiratissimo contro la Deputazione…. Egli lagnavasi della scortesia del cessato Consiglio Civico che non lo aveva confermato Deputato per come egli era, lagnavasi di taluni che a di lui parere erano i veri nemici della patria perché agivano con l’intento di nuocere alla sua dignità. Faceva intravedere che egli non aveva alcun obbligo di fare quella spesa e che la medesima era l’effetto di una oblazione volontaria e finalmente interrogato da me a manifestare i suoi desideri si esprimeva annunziando che egli non avrebbe dato la somma se non veniva nominato Deputato della rappresentanza comunale. Dietro questa dichiarazione io cercai di scoprire le intenzioni del municipio ed ho dovuto rilevare che lo stesso non vuole assolutamente nominare Deputato il Vescovo".
Enrico ricordando l’esito negativo sortito dalla sua denuncia, che mirava al sequestro dei beni della Mensa Vescovile, si augurava in questa circostanza di arginare le resistenze del Vescovo, nominandolo deputato onorario, infatti continua nella sua lettera scrivendo: "…Però molto mi preme la posizione e l’assestarsi di un’opera così utile e benefica e mi duole l’animo al riflettere che in questo modo non si può riuscire a nulla, poiché parmi vano il progetto di portar sequestro sui beni della Mensa Vescovile, senza lo appoggio di un atto esecutivo che possa far validare questo sequestro…In tal stato di cose io pregherei la S. V Ill. ma, di provocare dal governo la nomina di deputato onorario in persona del Vescovo se questo si può ottenere, in tal guisa la deputazione non avrebbe impicci nell’ amministrazione e potrebbe soddisfarsi l’amor proprio del Vescovo". Della necessità dell’intervento governativo per realizzare quest’opera il Piraino ne parlò anche all’amico Agostino Gallo in una lettera(42) del 30 marzo 1855: "Le scrissi dandole avviso del favorevole rapporto di questo Vicario Capitolare, per lo implorato Vescovo in pro dell’ospedale, fatto al Direttore di Grazia e Giustizia e lo pregava di seguitare a proteggere questa pia opera, la quale senza l’aiuto del Governo non può risorgere."
L’influenza politica del letterato palermitano appare ancora più evidente quando il Piraino chiede a Gallo di inoltrare la domanda presso i Ministeri di Grazia e Giustizia e della Finanza in una lettera del 13 febbraio 1855: " Io la ringrazio senza fine della compiacenza avuta nell’accettare il patrocinio di questo povero ospedale e mi spero tutto il buono e felicito risanamento dall’opera valevolissima sua, che efficacemente prego di continuare. E non la risparmi e presso il Direttore dell’Interno e della Grazia e Giustizia e se può anche presso quello della Finanza. Scusi l’insistenza per un’opera che merita tutti i riguardi poichè si tratta non solamente di far bene al povero, ma al povero che colpito da infermità non può accattare, ne trovare letto". La ristrutturazione dell’istituto assistenziale voluta fortemente dal barone, troverà uno slancio notevole soltanto dopo la morte dello stesso, concretizzandosi in un importante centro di cura e sostegno per tutti coloro che vivevano ai margini della società, abbandonati alle loro sofferenze.
V. "Sulle prestazioni pretese della Mensa Vescovile di Cefalù"
Possiamo trovare riscontro della notevole preparazione del Piraino nel campo giuridico e amministrativo, studiando un libretto che egli scrisse nel 1844 contro le angherie perpetrate dai Vescovi di Cefalù sulla cittadinanza locale. La pubblicazione intitolata: Sulle prestazioni pretese della Mensa Vescovile di Cefalù rappresenta una disputa che Mandralisca decise di sostenere con mezzi personali, confidando sull’amore per le ricerche storiche e le indagini archivistiche, nei confronti della struttura feudale, che nonostante fosse stata abolita formalmente nel 1812 ancora angustiava la libertà del commercio, dell’agricoltura e dell’industria. Artefici di questa anacronistica architettura medioevale, i Vescovi di Cefalù, ritenevano di dover continuare a riscuotere le obsolete gabelle sulla povera gente, che ritenendole a ragione illegittime le aveva denunciate al Real Governo.(43) Già nel secolo precedente Don Michelangelo Piraino si era fatto promotore in qualità di giurato di una contesa contro il Vescovo di Cefalù Don Domenico Valguarnera, appartenente alla potente famiglia dei principi Valguarnera Gravina Conti di Assaro. Nel 1839 il Consiglio Distrettuale di Cefalù inviò una petizione al re affinchè venissero soppressi i diritti di natura feudale, quest’ultimo con un decreto reale del 20 febbraio 1840, favorevole al Consiglio ed in disaccordo con il Consiglio provinciale di Palermo che riteneva legittime le suddette pretese, incaricava all’intendente del capoluogo di risolvere urgentemente la questione. Questi dopo aver consultato il suo Consiglio con rapporto del 22 maggio 1840 dichiarava decaduti quei diritti. Così l’11 dicembre del 1841 veniva diffuso a tutti gli Intendenti di Sicilia l’ordine di cessazione di tutti i residui di feudalità. Paradossalmente la cittadinanza cefaludese invece di veder attuata la disposizione reale si vedeva citata dal Direttore Generale presso il tribunale civile di Palermo per asserire la legittimità di dette prestazioni.
Piraino ci elenca sommariamente la tipologia di queste prestazioni:
1. Il testatico di grano uno sopra ogni animale da soma che carico di cereali arriva a Cefalù.
2. Il dritto di macello, cioè grana dieci sopra ogni bove, grana cinque sopra ogni porco, e grana tre sopra ogni altro animale che si macella.
3. La decima sulla calce, che in tutti i fondi del territorio si cuoce, o che i sudditi fondi fossero di proprietà privata, o di demanio regio o comunale.
4. La decima sopra tutte le crete cotte di tutto il territorio.
5. La decima sulle produzioni ortilizie, e sulle trecce degli agli.
6. La decima sulla manifatturazione e immisioni delle scope.
7. Grana cinque sopra ogni quintale di legno, e sopra ogni salma di carbone, che si estraggono da Fiume Torto a Baronia (detto il boscogliuolo).
8. La duodecima sulla produzione dei vini mostali
9. La decima sopra tutto il pesce che s’immette in tutto il suddetto litorale.
10. Finalmente il dritto del terragiolo.
Il barone articola la trattazione in sei capitoli dove ci viene spiegata come ebbe origine la chiesa cattedrale e la stessa città di Cefalù, i vari tipi di signoria che si crearono nell’isola, con particolare attenzione a quella della cittadina madonita e in che modo i Vescovi aumentarono le loro pretese nel corso del tempo. Piraino prosegue poi in una breve esposizione cronologica degli avvenimenti, menzionando alcuni cittadini che intrapresero un’azione di protesta contro i Vescovi avendone la meglio. L’ultimo capitolo viene dedicato alla differenziazione delle pretese che non potevano assumere carattere domenicale o sacramentale come la tradizione ormai aveva dato per scontato. In conclusione della sua pubblicazione Mandralisca si augura che tali diritti angarici possano finalmente essere aboliti: "Possano questi cenni ottenere l’abolizione di questi residui delle feudalità, i quali vuole Iddio, vuole il Re, vuole il progresso, si togliessero in vantaggio della libera industria, del commercio, della agricoltura!" . Inizia la sua trattazione parlandoci della leggenda del re normanno Ruggero, il quale partitosi da Napoli per la Sicilia con le sue navi fu assalito in alto mare dall’impeto di una tempesta che si placò soltanto quando questi fece a Dio il voto di erigere un tempio in quella terra ove egli avrebbe trovato la salvezza. Questo luogo fu Cefalù. Qui l’accoglienza della gente fu talmente festosa che il re decise celermente di innalzare ai piedi della rupe cittadina il grande tempio che con il consenso di Ugone Arcivescovo di Messina e dei canonici messinesi e trainesi divenne Cattedra Vescovile, retta dal canonico Iocelmo proveniente dal convento degli agostiniani di Bagnara. Re Ruggero concesse ampi privilegi sia alla chiesa che ai cittadini, continuando la tradizione inaugurata dal padre Conte Ruggero, il quale dopo la vittoria sui saraceni e la conquista della cittadina volle assicurare sia a questi ultimi che ai cristiani il rispetto della libertà di religione e il diritto di proprietà, che consisteva nel mantenimento delle proprie case, delle vigne, delle terre colte ed incolte. Chiunque venne esentato dal servizio militare sia per mare che per terra, ebbe la franchigia di dogana e poteva tagliare la legna nei boschi di proprietà della Mensa. Parimenti il re decise di infeudare il Vescovo attribuendogli le facoltà temporali che davano la possibilità di giudicare tutti gli abitanti del territorio e di imprigionare i presunti colpevoli. Al giudizio del re erano riservati soltanto i delitti di fellonia, tradimento ed omicidio. Pertanto Piraino sottolinea come il Vescovato di Cefalù fu investito non di semplice baronia ma di signoria di primo rango. Nel dirci ciò ci illustra brevemente come avvenne l’istituzione degli ordini feudali in Sicilia ad opera dei normanni, che fregiarono con il titolo feudale tutti coloro che si distinguevano per importanti imprese belliche o semplicemente per un servizio reso ad un re. Diversi gradi di signorie furono stabilite nell’isola. Il conte Ruggero in quelle di prim’ordine aveva istituito il Vescovato di Catania, Patti, Lipari ecc. Suo figlio re Ruggero decise pertanto di rendere il giusto tributo al Vescovo di Cefalù investendolo come signore di primo grado, attribuendogli vastissime competenze e privilegi in diversi settori. Ricordiamo: i diritti delle dogane di mare e di terra, d’ancoraggio e falangaggio, del macello, i dazi sulla macinatura e sui forni. Il Vescovato di Cefalù aveva anche la competenza di amministrare la giustizia civile e giudiziara, la facoltà di nominare il Bajulo, un vice-comite scelto fra tre rappresentanti nominati dal popolo. Oltretutto vi erano 5088 villani che prestavano per quella circoscrizione il servizio della gleba dovendo al Vescovo in qualità di signore ventiquattro diete, angarie e collette. A questo rendevano il servizio personale unitamente ad una somma di denaro annuale altri villani che risiedevano in territori limitrofi. Come se non bastasse alla chiesa apparteneva anche il castello di Cefalù. Non contenti i Vescovi di tutti questi privilegi, decisero di introdurre nuove prerogative nella gestione del loro già vasto potere come: le scomuniche, gli interdetti, i balzelli e le decime sulle produzioni ortalizie, sulla produzione delle crete cotte, sulla calce, sull’immissione delle scope. Si aggiungano anche il diritto di boscaglia, il testatico sulle vetture cariche di cereali, il terratico e la decima sulla pesca. Mandralisca menziona poi che il Vescovo Monsignor Domenico Valguarnera vendeva la neve all’interno del palazzo vescovile arrecando danno all’economia cittadina, pertanto avendo il magistrato di Cefalù fatto un esposto al governo regio, questi fu colpito assieme agli altri giurati da scomunica al suono notturno della campana a martello. Le competenze della chiesa divenivano sempre più larghe con l’introduzione della riscossione della duodecima sui vini mostali e della duodecima enfiteutica. Nonostante l’abolizione della signoria avvenuta nel secolo in cui visse il nostro barone, la cittadinanza cefaludese rimaneva gravata dai soprusi e dalla angherie che i Vescovi seguitavano a pretendere. Questo sistema continuava a sussistere anche per via dell’atteggiamento di alcuni cittadini che pur di trovare impiego nella corte vescovile non sostenevano gli interessi civici. In linea generale l’abolizione della signoria produsse soltanto la soppressione delle dogane, dei diritti di ancoraggio e falangaggio poichè palesemente erano in contrasto con il potere regio.(44) Il Piraino comunque nel corso della sua esposizione mette in risalto che non tutti i cittadini fecero il gioco dei Vescovi, citando degli episodi in cui gli umili e indifesi prevalsero sulle pretese della Mensa; successivamente ci spiega che le prestazioni possono avere origine da tre sorgenti: dal diritto, cioè della proprietà, dal diritto canonico, e dalla feudalità. Nella fattispecie, i diritti che i Vescovi esercitavano erano di natura tipicamente feudale poichè i cittadini erano legati con un rapporto di vassallaggio al loro signore il Vescovo, che riuniva sia il potere della chiesa che quello temporale. Queste usurpazioni ed angherie che, con l’abolizione del sistema feudale avrebbero dovuto estinguersi, erano intollerabili ugualmente nella stessa epoca medioevale, poichè non sostenute dalla volontà dei regnanti. Il barone Mandralisca si chiede su quale principio si poggiassero le pretese del Vescovo allorchè questi esigeva il diritto di riscuotere le decime sul mare, che essendo libero é di tutti i cittadini, o sulla macellazione degli animali o sulla produzione degli orti che sono proprietà privata. I Vescovi oltretutto etichettarono le decime che riscuotevano dai cittadini come sacramentali. Ma in realtà queste decime erano quelle che i cittadini offrivano a quei parroci senza patrimonio, i quali provvedevano al mantenimento del culto e alla cura delle anime. Pertanto non pare che il dazio di estrazione sul legno e carbone, o i diritti di ancoraggio o falangaggio possano identificarsi fra quelli sacramentali. Il Piraino tende anche a precisare che i cittadini cefaludesi furono esentati fin dall’inizio dal pagamento di ogni decima da Re Ruggero e tale disposizione fu confermata dai sommi pontefici Alessandro III, e Clemente III con le bolle papali del 1171 e 1190. I Vescovi allargarono il loro potere oltre a quei pochi territori nei quali giustamente avevano il diritto di riscuotere dagli enfiteuti il canone in denaro, alla duodecima parte del prodotto dei vini mostali e a una parte di frumento, anche in quelle numerose terre in cui i cittadini cefaludesi erano stati resi liberi dal privilegio di re Ruggero.
Il Nostro conclude la sua trattazione augurandosi che, avendo il re preso una posizione favorevole riguardo alla soppressione delle prestazioni pretese dai Vescovi, con una nota reale del 23 giugno 1842, finalmente la cittadinanza cefaludese possa essere liberata dalle ingiuste e intollerabili angherie di cui fu vittima nel corso dei secoli. Il suo animo di uomo votato al progresso e alla ricerca del bene comune gli fa sperare che la sua pubblicazione possa contribuire alla vittoria di questa importante causa in modo che le generazioni future possano costruire un futuro libero da ogni sopruso e prospero economicamente.
Luciano Candia
NOTE
(1) D. Portera, Enrico Pirajno di Mandralisca, umanità scienza e cultura in una grande collezione siciliana, Palermo, Pubblisicula Editrice, 1991, p. 119.
(2) G. V. Cicero, Origini della famiglia Piraino, "Il Corriere delle Madonie", 15 ottobre 1966
(3) R. Liberto, Enrico Piraino di Mandralisca, Tesi di Laurea, Facoltà di Lettere, Palermo, 1951/1952, p. 6
(4) N. Marino, Enrico Piraino barone di Mandralisca, Centro grafica Castelbuono, 1999, p. 2
(5) M. Siragusa nel Bollettino 2002, Tipografia Le Madonie, Castelbuono, 2003, cit., p. 92.
(6) O. Cancila, Cultura e lotta politica in Sicilia nell’età del riformismo illuminato, Messina, Providente Editrice, p. 5.
(7) H. Tuzet, Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo, Palermo, Sellerio editore, 1988, p. 336.
(8) G. La Loggia, Elogio funebre di Enrico Piraino, Palermo, Ed. Francesco Lao, 1864, p. 6.
(9) F. Miceli, Elogio funebre di Enrico Piraino, Cefalù, Ed. Salvatore Gussio, 1865, p. 7.
(10) Ivi, p. 10.
(11) D. Portera, in L’eredità...,cit., p. 63.
(12) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 3.
(13) S. Termini, L’eredita’ del Mandralisca, Palermo, Stass, 1991, pp. 45-46
(14) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 7
(15) L. Frezza, Ritratto d’ignoto in un interno di famiglia, Palermo, Ila Palma, 1992
(16) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 6
(17) Ivi, p. 10
(18) N. Marino, Oggetti, curiosità e bibelots della fondazione Mandralisca, Palermo, Tip. Kelagrafica Lo Giudice, 1994, p. 76
(19) D. Portera, L’eredità…, cit., p. 60
(20) A. Tullio, La collezione archeologica del museo Mandralisca, Cefalù, Misuraca Lorenzo Editore, 1981, cit., p. 53
(21) F. Miceli, Elogio funebre…, cit, p. 13
(22) N. Marino, Enrico Piraino…, cit. , p. 12
(23) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 12
(24) M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino Editore, 1998, cit., p. 105
(25) R. Liberto, Enrico Piraino…, cit., p. 22
(26) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 12.
(27) R. Liberto, Enrico Piraino…, cit., p. 25
(28) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 17
(29) Ivi, p. 18
(30) R. Liberto, Enrico Piraino…, cit., p. 28
(31) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 21
(32) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 21
(33) S. Termini, in L’eredità…, cit., p .4
(34) N. Marino nel Bollettino 2002, Castelbuono ,Tipografia Le Madonie, , 2003, p. 116
(35) Raccolta di quattordici lettere tra il barone Piraino ed Agostino Gallo, Cefalù Torino 1834 1861.5Qq D68 n.13 (14). Palazzo Marchesi Palermo.
(36) Ivi, p. 116.
(37) F. Miceli, Elogio funebre…,cit., p. 7.
(38) P. Di Salvo, Immagini per Mandralisca, Palermo, Kelagrafica Lo Giudice, 1994, cit., p. 37.
(39) R. Liberto, Enrico Piraino…, cit., p. 19.
(40) Raccolta di quattordici lettere…cit.
(41) L. Frezza, Ritratto d’ignoto…,cit.
(42) Raccolta di quattordici lettere...cit.
(43) Enrico Piraino, Sulle prestazioni…, cit., p. 3
(44) N. Dally, Usi e costumi di tutti i popoli del mondo, Torino, Editrice Fontana, 1845.
(45) E. Gibone, Storia della decadenza e rovina dell’Impero Romano, Palermo, Editrice Altieri, 1833
(46) F. Guizot, Della democrazia di Francia, Torino, Giamini e Fiore, 1849
(47) T. Macaulay, Storia d’Inghilterra, Torino, Cugini Pomba & C, 1854
(48) C. Botta, Storia della guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, Firenze, Le Monnier-Felice, 1856
(49) P. Colletta, Storia del reame di Napoli, Firenze, Le Monnier-Felice, 1856
(50) DI Blasi, Storia cronologica dei Viceré Luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo Areta , 1842
(51) C. Denina, Delle rivoluzioni d’Italia, Milano, Editrice soc.tip.dei classici italiani, 1820
(52) F. A. Gualtieri, Gli ultimi rivolgimenti italiani, Firenze, Le Monnier-Felice, 1852
(53) F. Guicciardini, Storia d’Italia (1490-1534), Firenze, Borghi & C, 1836
(54) Doc.n.14.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(55) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 10
(56) Ivi, p. 11
(57) D. Portera, Cospirazioni democratiche in Sicilia (1820-1860) Cefalù, Editrice Giorni Nuovi, 1973, cit., p .44
(58) N. Marino, Enrico Piraino…, cit., p. 11
(59) R. Liberto, Enrico Piraino…, cit., p. 21
(60) D. Portera, L’eredità…, cit, p. 54
(61) Doc. n.2. Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(62) D. Portera, Cospirazioni…, cit., pp. 95-96
(63) Doc.n 23 Sezione I:Registri e volumi- Serie 1- Corrispondenza (Archivio Mandralisca)
(64) Doc.n.17.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(65) Doc.n.18.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(66) Doc.n.97.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(67) Doc.n.5.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(68) Doc.n.43.Sezione I: Registri e volumi-Serie I-Corrispondenza (Archivio Mandralisca)
(69) Doc.n.12.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(70) Doc.n.14.Sezione I: Registri e volumi -Serie I- Corrispondenza (Archivio Mandralisca)
(71) Doc.n.6.Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(72) Raccolta di quattordici lettere…cit.
(73) Doc.n.66. Sezione II: Carte sciolte-Serie 7-Rapporti con le istituzioni civili (Archivio Mandralisca)
(74) Doc.n.20.Sezione I: Registri e volumi-Serie I-Corrispondenza (Archivio Mandralisca)
(75) D. Portera, Il libro d’oro della città di Cefalù, Cefalù, Salvatore Misuraca Editore, 2001, cit., pp. 47-48
(76) Raccolta di quattordici lettere…cit.
A sei chilometri da Canicattì, tra la strada statale n. 122, che collega Agrigento con Caltanissetta, e la regia trazzera Canicattì-Castrofilippo, si sviluppa per ben 40 ettari il sito di Vito Soldano, uno dei pochi centri romano-bizantini individuati, ove sono affiorati nel tempo resti di città antiche e sono stati ritrovati reperti ed in particolare monete appartenenti a diversi periodi storici.
Tutto ciò nell’immaginario collettivo canicattinese ha sviluppato numerose leggende plutoniche, legate appunto alla presunta presenza di un tesoro sotterraneo la cui scoperta dovrebbe portare al riscatto dell’intera Sicilia. Molte di queste leggende sono altresì collegate alla saga di Carlo Magno e dei suoi paladini, così come avvenuto, con analogie a volte davvero sorprendenti, anche in altri comuni del territorio nazionale.
Vito Soldano coincideva, fino ai primi decenni del Novecento, quasi con l’intero territorio di Canicattì, comune allora primo per popolazione dell’intera provincia di Girgenti, ma con un territorio assai piccolo e circondato da quello ben più esteso di Caltanissetta, Girgenti e soprattutto della vicina Naro, già città demaniale e sede di una importante Comarca. Solo nel 1923, con Regio Decreto del 25 marzo, Canicattì, "città opulenta" secondo Vito Amico(1) e "città laboriosa e industre" per Francesco Nicotra(2), vide riparato, ma solo in parte, il torto subito ed ebbe riconosciuta l’estensione della sua giurisdizione sugli attuali 9142 ettari di territorio. L’allora capo dell’ufficio tecnico comunale, ingegnere Luigi Portalone, completò nel 1934 i necessari sopralluoghi.
La zona di Vito Soldano, delimitata idealmente dal Castello di Naro, dal Monte Castelluccio di Racalmuto, dalla Serra Puleri e da Monte Bardaro sulla direttrice per Caltanissetta, era da tutti considerata fonte di benessere per la fertilità e per la ricchezza di acque: il fiume Naro, le sorgenti Giarra, Balata dei Russi, Gulfi di Trabia, Calice di San Francesco, Granci e le acque piovane di Grotticelle, Aquilata, Andolina e Cazzola.
Le vicende legate al sito di Vito Soldano ed il suo stesso nome sono stati oggetto in passato, e lo sono ancora oggi, di accese discussioni tra gli storici e gli archeologi.
Lo storico De Burigny(3) afferma con assoluta convinzione che Vito Soldano non sarebbe altro che l’antica Mozio, la fortezza greca di cui parla Diodoro Siculo nella sua Biblioteca Storica e che fu fiorente ai tempi del capo dei siculi Ducezio (459-440 a.C.). Secondo Biagio Pace(4) invece Vito Soldano sarebbe stato un "borgo romano-bizantino". Adolfo Holm(5), Filippo Cluverio(6) e Giuseppe Picone(7) sostengono che Mozio sorgeva con certezza nel territorio agrigentino, mentre l’identificazione con Vito Soldano non sarebbe dimostrata. Anche Vito Pugliese(8) ed il canicattinese Diego Corbo(9) sono convinti della identificazione di Mozio con Vito Soldano. Vito Amico ritiene invece senza alcun dubbio che l’antica Mozio sorgesse dove oggi si trova la città di Naro. Per Sandro Policastro(10) in località Vito Soldano sorgeva l’antica "Kakyron" fondata dai Greci nel III sec. a.C., quindi occupata da Romani e Bizantini e, infine, distrutta dagli Arabi.
Al di là della attribuzione di un nome certo, è da ritenere che in località Vito Soldano sia esistito un insediamento greco, che tuttavia avrebbe avuto maggiore sviluppo nel periodo romano-bizantino, come confermato dagli scavi archeologici. Al tempo della conquista araba l’antica città avrebbe assunto la denominazione di Vito Soldano con riferimento ad un importante dignitario musulmano. Secondo altri invece, ad esempio il Calvaruso(11), non si tratterebbe del nome di una persona ma di un toponimo, beyt soltan, che significherebbe "casa del sultano". L’antica città era in posizione strategica lungo la via che congiungeva Agrigento con Catania attraverso Caltanissetta ed Enna.
Dell’antica città greca e del successivo insediamento romano e bizantino sono affiorate alcune strutture, grazie soprattutto ad un breve saggio di scavo realizzato nel 1956 dalla Sovrintendenza alle Antichità di Agrigento sotto la direzione dell’archeologa canicattinese Maria Rosaria La Lomia, che se ne occupò successivamente in un fondamentale articolo, Ricerche archeologiche nel territorio di Canicattì: Vito Soldano, pubblicato nel 1961 sulla rivista Kokalos diretta da Eugenio Manni. Maria Rosaria La Lomia partecipò alla campagna di scavo per incarico del sovrintendente Pietro Griffo. L’articolo è assai interessante per le osservazioni di carattere storico e soprattutto per la minuziosa descrizione dei luoghi e dei reperti affiorati durante gli scavi. L’archeologa ritiene poco attendibili le affermazioni del Corbo relativamente al soggiorno di cartaginesi e poi di saraceni e normanni nel sito di Vito Soldano e "fantastiche e confuse" alcune citazioni da Cicerone. Plausibile invece l’ipotesi dello stesso relativamente alla esistenza di un tempio, probabilmente dedicato a Cerere, sul colle a mezzogiorno: "Sopra di un colle a mezzogiorno, si vedono gli avanzi di un tempio di Cerere, perché al confine della città. Fuori della medesima nelle rupi si osservano grandiosi sepolcri e stanze mortuarie piene di ossame"(12). Esatta l’indicazione del ritrovamento di monete del periodo degli imperatori Adriano, Claudio II il Gotico e Costanzo II.
La campagna di scavo portata avanti dall’archeologa canicattinese ha consentito l’individuazione di resti di terme romane risalenti al III-IV secolo d.C. ed ha avvalorato l’opinione di quanti identificano il sito di Vito Soldano con Corconiana (tra gli altri Filippo Cluverio e Vito Amico), una delle otto stationes o mansiones dell’itinerario Catina-Agrigentum (91 miglia), a sua volta uno degli otto grandi percorsi indicati nell’Itinerarium Antonini redatto al tempo di Caracalla (211-217 d.C.). La rete di stationes o mansiones, ossatura portante del cursus publicus, cioè del servizio postale romano, garantiva ai viaggiatori una sicura assistenza con stalle, osterie, servizio veterinario, granai e personale di polizia. Tra una statio e la successiva esistevano le cosiddette mutationes, vere e proprie stazioni di posta minori, che distavano 10 o 15 miglia l’una dall’altra.
Queste strade, che furono poi inserite anche nella Tabula Peutigeriana, collegavano ville, masserie e latifondi; Corconiana, collocata dall’Itinerarium Antonimi a 13 miglia da Agrigento, svolgeva certamente un ruolo importante nel contesto economico, sociale e politico della Sicilia Romana.
Maria Rosaria La Lomia, d’accordo con quanto sostenuto da Cluverio e Amico, scrive che "è legittimo pensare che la statio esistente nel sito di Vito Soldano faccia parte di quelle menzionate nell’Itinerarium Antonimi e che si possa fare un tentativo d’identificazione con Corconiana"(13). Fa altresì riferimento ai ritrovamenti di resti di epoca romana (monete di vari imperatori, pezzi di tegole lisce o striate, frammenti di conci, manici in terracotta di vasellame, frammenti di lucerne, avanzi di colonne e di mura) e descrive, con dovizia di particolari, due ambienti termali dell’età romana imperiale ed una vasta necropoli paleocristiana. Le terme di Vito Soldano non sono sontuose e ricche come altre ma, pur nella loro semplicità, indicano il ruolo importante che la mansio Corconiana rivestiva in Sicilia dal punto di vista economico e politico.
Maria Rosaria La Lomia ha individuato due ambienti termali che si presentano in buono stato di conservazione; uno, per la sua forma absidata, è chiamato dai contadini del luogo l’Ecclesiastra, "nome che starebbe a suggerire l’ipotesi di un riadattamento, in età bizantina, dell’edificio primitivo a chiesa cristiana". L’ambiente absidato, realizzato in laterizi, è alto circa un metro: vi sono stati trovati mattoni, tegole, orci, anforette fittili. Le terme di Vito Soldano avevano quattro strutture principali: Tepidarium (ambiente A), Calidarium (B), Ipocausto (C), Praefurnium (D).
I due ambienti A e B sono sottostanti rispetto al piano circostante, come due ampie vasche. Al di sotto del pavimento esistono delle aperture che mettono in comunicazione i vari ambienti per la circolazione dell’aria calda. L’ampiezza della necropoli rende plausibile l’esistenza di un importante centro abitato, appunto una delle mansiones ricordate nell’Itinerarium di Antonino.
Dentro l’ambiente A sono stati trovati frammenti di orci, cocci di terra sigillata chiara, tegole e mattoni, frammenti di coccio pesto e molte anfore fittili. Nella parte absidata, a terra, è stata scoperta una buca profonda circa m. 1,50 e, al suo interno, una scala realizzata con grossi blocchi squadrati. Accanto all’ambiente termale B si trova un grosso phitos le cui pareti sono spesse da 5 a 7 centimetri e che era con tutta probabilità utilizzato come recipiente di olio o acqua. "Durante il lavoro di pulitura dell’ambiente B, si ritrovarono anfore fittili ma cosa fondamentale si rivelò l’esistenza di suspensurae. Si rinvennero in loco, murati lungo la base delle pareti, o al centro del piano di fondazione, dei mattoni bessali, alcuni murati fra loro, altri sparsi lungo il pavimento"(14).
A nord dell’ambiente B è venuta alla luce una sala composta da due vani, C e D. All’interno del vano C, con pavimento in terra battuta, un cunicolo largo m. 0,40, alto m. 0,90 e lungo m. 3,60. Dal cunicolo dell’ambiente C si raggiungeva l’ambiente D che fu trovato pieno di cenere per uno spessore di cm. 30. Rosaria La Lomia scrive che oltre il vano D esiste un altro ambiente, più grande, al cui interno sono presenti pezzi di mosaico bianchi e neri. A sud degli ambienti A e B esiste un grosso muro realizzato con blocchi di pietra squadrata e martellata, delle dimensioni di m. 1,20 di lunghezza ed uno spessore di m. 1,80.
I vari ambienti sono stati nel tempo gravemente danneggiati per l’ignoranza dei contadini e soprattutto per l’incuria delle autorità competenti: gli spazi sono stati addirittura utilizzati come recinto per la custodia degli animali e nel vano A i contadini hanno praticato una buca profonda un metro e mezzo alla ricerca di un ipotetico tesoro. Il Corbo narra di un proprietario che, allo scopo di liberare il terreno dalle pietre per impiantare un vigneto, cedette gratuitamente a chi glieli richiedeva blocchi squadrati e altro materiale. Molte ville e casalini della zona sono stati costruiti con reperti dell’età classica e romano-bizantina.
In data 24 aprile del 1971 si ebbe un autorevole e fermo intervento del sovrintendente alle Antichità di Agrigento, professor Ernesto De Miro, volto a porre un freno al degrado ed alle ruberie nel sito di Vito Soldano. Nella denuncia De Miro segnalava lo spianamento della collina detta "La Montagnola" con conseguente danneggiamento di "colonne, architravi, tombe bizantine risalenti al IV secolo d. C." e stigmatizzava "lo scempio perpetrato e la indiscriminata distruzione dei reperti archeologici…; una grave perdita, consumata a danno del patrimonio archeologico nazionale". In data 11 dicembre 1973 il pretore di Canicattì, dottor Antonio Pallotta, condannava gli autori dello scempio.
Nei primi anni Settanta nel sito di Vito Soldano un breve saggio di scavo ha portato alla luce, nei pressi dell’edificio termale, ulteriori avanzi dell’abitato tardo-romano: di particolare importanza un blocco di architrave con epigrafe in latino riutilizzato per la costruzione di un muro a secco. In anni più recenti si è avuto qualche altro intervento assai limitato e di cui peraltro non sono stati ancora resi noti in forma ufficiale i risultati. La finalità delle nuove campagne realizzate dalla Sovrintendenza alle Antichità di Agrigento è quella di riportare alla luce altri ambienti che si sviluppavano verosimilmente attorno alle terme.
Le campagne di scavo fin qui realizzate hanno consentito il ritrovamento di reperti assai importanti: numerose colonne quasi sempre in frammenti; grossi blocchi di pietra squadrati e lavorati con perizia; un oscillum fittile della seconda metà del IV secolo a.C. con figura di volto femminile; molti frammenti di lucerne coralline; un disco fittile con una interessante decorazione figurata: un orante presso l’ingresso di una tomba; frammenti di vasi, coppe, unguentari di vetro; una matrice di lucerna di argilla grigia; una lucerna di argilla arancio a recipiente tondo con la decorazione a destra di un vitello di profilo ed una testa nel prospetto; frammenti di ceramica di età bizantina.
A Vito Soldano sono state trovate, tra le altre, le seguenti monete: un grande bronzo di Adriano con la testa dell’imperatore laureata di profilo a destra; un piccolo bronzo di Claudio II il Gotico con la testa dell’imperatore sormontata da stephane radiata; un piccolo bronzo di Costanzo II; una contromarca di Eraclio ed Eraclio Costantino.
La riutilizzazione delle terme di Vito Soldano in epoca bizantina è dimostrata dal ritrovamento di altri reperti: un disco di terracotta in cui è raffigurato un uomo in preghiera davanti all’ingresso di un sepolcro, un anello di rame, alcune lucerne di età romano-imperiale, diverse monete del periodo bizantino.
La scoperta di così numerose monete ha sviluppato nella fantasia popolare le cosiddette leggende plutoniche che tuttavia, a giudizio di Alfonso Tropia(15), potrebbero trovare origine e spiegazione anche nella natura del sottosuolo, ove esistono grotte ricche di cristalli di gesso e stalattiti. Intraviste al lume delle fiaccole da audaci esploratori, queste grotte avrebbero determinato sogni di ricchezza e leggende. Si favoleggiava dei tesori dei saraceni, uomini ca si cruvicavanu vivi pi nun perdiri li ricchizzi.
Leggende analoghe, riguardanti la presenza di tesori favolosi e incantati, sono narrate in altri paesi della Sicilia e sono sempre riferite a località abitate in tempi più o meno remoti. Queste le più significative: la fiera di Barbarà ad Alia; la grotta del cavallo a Sabucina, nel territorio di Caltanissetta; la fiera di fra Rosario a Lercara Friddi; la fiera del lavatore a Montedoro; la leggenda della fontana di Serradifalco, quella di Calafarina a Pachino e della grotta del Monaco ad Augusta.
Giuseppe Pitrè(16) e Mattia Di Martino(17), che pubblicarono sull’argomento autorevoli articoli, ebbero come fonte principale, diretta o indiretta, un barbiere di Canicattì, tale Vincenzo Lumia, che seppe fondere, in un fantasioso racconto, molti elementi delle leggende e delle tradizioni popolari pagane e cristiane: il toro di Falaride e la crudeltà dei saraceni, il paladino di Francia Orlando e l’eroe delle saghe paesane Ruggero il Normanno, il re Vitusullanu di Canicattì e il re Fluri di Naro, l’origine della città di Ravanusa e il biblico "fermati, o sole!" di Giosuè, il rito cristiano del battesimo, il culto dell’Immacolata ed il leggendario ritrovamento in ogni comune di statue della Madonna, la tromba di Orlando e la sua strepitosa durlindana in grado di spezzare perfino le rocce.
I cantori francigeni ed i loro discepoli ed emuli italiani diffusero qua e là in Italia varie tradizioni leggendarie su Carlo Magno e su altri eroi del ciclo franco. Canicattì si inserisce in questo contesto con numerose affinità e corrispondenze, in alcuni casi davvero precise e sorprendenti. A Canicattì Orlando, dovendo superare una montagna per raggiungere Vito Soldano, aprì un varco con la sua spada così come aveva fatto sul colle Polito, nella catena dei monti pisani; analogamente l’isola Orlandina fu staccata dallo stesso paladino da un monte cadente a picco sul mare Adriatico fra Parenzo e Rovigno; sulla cima del monte Cucco, in Umbria, si trovano cinque fenditure profonde, quasi verticali, create sempre da Orlando con cinque colpi di fendente della sua spada.
Numerosi altri riferimenti alle imprese del paladino si trovano a Sutri (una grotta naturale, detta la grotta d’Orlando), a Perugia (la vecchia chiesa di Sant’Angelo era detta il padiglione d’Orlando), ad Osimo (il bosco di Roncisvalle), a Firenze (nella chiesa di Santo Stefano è raffigurato il ferro del cavallo d’Orlando); a Roma c’è il vicolo della spada d’Orlando, a Susa il sasso d’Orlando, a Gaeta la torre d’Orlando, a Messina il capo d’Orlando, ad Aidone la sella d’Orlando, a Sant’Elpidio il casino Orlando, a Pavia sotto le mura il sasso d’Orlando e nel Duomo la lancia d’Orlando.
Più di un riferimento al grande paladino troviamo a Spello, in Umbria. Vicino Porta Venere una casetta appoggiata ad una torre porta il nome di prigione d’Orlando mentre in una iscrizione sulla chiesa di Santa Ventura si fa riferimento al fallo di Orlando; nel muro c’è un foro alto da terra 0,65 centimetri che sarebbe stato prodotto da Orlando ictu mingendi: dalle dimensioni e dall’altezza del foro si può calcolare la misura del corpo del paladino, come suggerisce una iscrizione in latino:
Orlandi hic Caroli Magni metire nepotis
Ingentes artus cetera facta docent.
Vogliamo adesso accennare alle leggende più significative collegate direttamente o indirettamente al sito di Vito Soldano. A prescindere da qualsiasi ricostruzione di carattere storico più o meno documentata, nell’immaginario collettivo Vito Soldano sarebbe stato un feroce sultano che, a capo del suo potente esercito, avrebbe occupato e distrutto un’antica città romana e bizantina, imponendo su tutto il territorio il suo tirannico dominio. Era solito ammazzare i suoi sudditi rinchiudendone uno al giorno dentro un vitello di bronzo. Per non avere l’imbarazzo della scelta della quotidiana vittima sacrificale, il tiranno conservava in un casciunieddu dei biglietti, li puositi, ove erano scritti i nomi dei sudditi ed ogni giorno ne estraeva uno. Tutto andò liscio finché un giorno arrivò il turno di una ragazza, figlia di un arzillo vecchietto che non tollerò l’amaro destino della propria creatura e decise di andare a protestare direttamente a Parigi, alla corte dell’imperatore Carlo Magno.
L’imperatore lo ascoltò, promise tutto il suo aiuto e ordinò ad Orlando di prendere con sé l’esercito e raggiungere in Sicilia il luogo ove governava un tiranno così malvagio. Orlando con soli due cavalieri partì seguendo l’itinerario indicato dal vecchio. Il paladino, i due cavalieri e il vecchietto, che intanto fu battezzato col nome di Fortunato, raggiunsero la Sicilia ma, per arrivare a Vito Soldano, fu necessario superare una montagna. Orlando tirò fuori la spada e colpendo la cima riuscì ad abbassarla, con la potenza di Dio prima e poi con la sua spada famosa chiamata durlindana. Da allora quel luogo fu chiamato la Portella d’Orlando. Il paladino chiese quindi a Fortunato quanto mancasse per giungere alla meta: mancava poco, ma era già buio e si pensò bene di aprire tende e padiglioni per trascorrere lì la notte.
Nel frattempo il re Vito Soldano, ansioso per uno strano presentimento, convocò un mago suo suddito che gli predisse che un giorno sarebbe venuto un certo Orlando, mandato per virtù di Dio, che avrebbe ucciso tutti i saraceni. L’indomani Orlando chiamò Fortunato dicendogli: "Va’ da quel re saraceno e chiedigli se vuole essere battezzato: in caso contrario sarà aggredito da Orlando con la sua durlindana". Fortunato eseguì l’ambasciata ma Vito Soldano non accettò la proposta, anzi fece inseguire dai suoi il povero vecchio che tuttavia, correndo, si mise in salvo. I saraceni, saputa la notizia, cominciarono a tremare. Fortunato raggiunse Orlando che ordinò ai suoi compagni di restare nelle tende e da solo, dando fiato al suo corno d’avorio, l’olifante, andò incontro ai saraceni, uccidendone in combattimento una quantità tale che dal vallone sottostante cominciò a scorrere un fiume di sangue. Verso sera Vito Soldano uscì dal suo minimientu, la grotta dove abitava, e si presentò ad Orlando che con un colpo di spada gli recise un braccio. Il re saraceno, atterrito, cominciò a correre e si buttò dentro una grotta "can un si nni sappi né nova né vecchia".
Orlando pensò di tornare tra i suoi e, dopo tre giorni di festa, decise di levare le tende e di rientrare a Parigi.
Un’altra leggenda narra che ad un uomo, mentre dormiva, apparvero due fantasmi che gli dissero: "Stanotte devi andare da solo a Vito Soldano; dall’altra parte della montagna c’è una grande pietra, lì accanto devi scavare con la zappa; sotto una balata troverai un callaruni, un pentolone pieno di monete; puoi prenderle e portarle via a condizione che tu sia solo". L’indomani il contadino, invece, confidò ad un suo compare il sogno. Il compare gli propose di andare a Vito Soldano per trovare il tesoro e così fecero: trovarono la balata e il pentolone ma, quando lo sollevarono, si accorsero che era pieno di scorci di vavaluci.
Le leggende relative a Vito Soldano narrano di un tesoro arcano, dal cui ritrovamento deriverebbe la prosperità dell’intera Sicilia. Così avrebbe detto un giorno il Gran Turco, mitico abitatore della contrada, a un contadino che era andato a trovarlo. Al contadino il Gran Turco chiese se fosse stato disincantato lu minimientu di Vitusullanu. Alla risposta: "Nun si l’ha pigliatu nuddu, pirchì nuddu ha avutu ancora ssu coraggiu!" il Gran Turco rimase un momento in silenzio e quindi replicò: "Si nun si piglia lu trisoru di Vitusullanu, povera Sicilia!"(18).
La ricerca del tesoro fu spesso causa di dolore e pianto, come per quella donna, "bella come il sole" ma vanitosa, che si recò un giorno a Vito Soldano per chiedere al mago un diamante per la sua gulera, cioè la sua collana. Il mago si fece portare da uno sgherro il bambino della donna e lo tramutò con la sua bacchetta magica, così da farne il corpo di smeraldo, i denti di perla, gli occhi di brillante, le labbra di corallo e i capelli d’oro. Con una catena d’oro appese il bambino sul petto della madre che era svenuta, ma non poté più uscire dalla grotta. Ed è sempre là col figliuolo fatto pietra, fuori di sé dal dolore. Il Gran Turco la strapazza e la scimia, dileggiandola ironicamente: "Piangi la tua vanità".
Da questa leggenda Luigi Natoli ha tratto argomento per la sua novella Il Gran Turco e madonna Altruda(19). Alla tragica vicenda Enrico Cacciato, esponente di primo piano dell’Accademia del Parnaso Canicattinese, ha dedicato la poesia Il gioiello di Vito Soldano(20).
Un’altra leggenda narra che a Vito Soldano ogni sette anni si tiene una fiera di animali esotici, aratri e attrezzi agricoli mai visti, suppellettili e tante altre meraviglie. La fiera si svolge da mezzanotte alle sei del mattino. A nessuno però è dato conoscere il giorno in cui essa si svolge. Una notte a un contadino, al servizio del barone Adamo, scappò una mucca che, correndo, giunse in una pianura ove tante persone vendevano arance; il garzone frugò nelle tasche ma trovò soltanto un grano e con quella moneta poté acquistare solo tre bellissime arance. Dopo appena un’ora la fiera scomparve in un baleno e il contadino si ritrovò solo, sperduto nella grande pianura. Dopo due giorni ritornò in paese e raccontò tutto al suo padrone il quale, viste le arance ed accortosi che erano d’oro, se le fece dare in cambio di due once. Il contadino se ne andò felice non sapendo quello che aveva perso.
Di Vito Soldano e delle leggende ad esso collegate non poteva non occuparsi l’ultimo dei gattopardi siciliani, il barone canicattinese Agostino La Lomia che, con lo pseudonimo Fausto di Renda, sul Corriere di Sicilia di Catania pubblicò nel 1956 un articolo dal titolo: A Vito Soldano – La trovatura del "Su Vicio Messina". Vi si narra dei vari tentativi portati avanti da avventurosi ricercatori per appropriarsi di antiche monete e oggetti di valore presenti nel sito. Vincenzo Messina, soprastante in alcuni feudi del territorio, nel 1906, durante dei lavori di sistemazione del terreno per l’impianto di un vigneto, vide affiorare moltissime monete d’oro. Armato di doppietta calibro 12, intimò ad uno dei nove operai che aveva trovato il tesoro di non toccare nulla, in attesa di procedere ad un’equa distribuzione. Quindi al più giovane ordinò di iniziare la conta ad alta voce. Furono contate 822 monete fior di conio, con l’effige dell’imperatore bizantino Costantino IV Pogonato (648-685 d. C.).
Vincenzo Messina impose ai presenti di non divulgare il fatto e fece distribuire le monete in due mucchietti di 411 pezzi ciascuno. Prese per sé il primo mucchietto e fece dividere il secondo in 10 parti e cioè in quote di 41 monete. Quindi all’operaio che aveva trovato le monete assegnò due quote per un totale do 82 pezzi; ad altri sette operai furono consegnate 41 monete ciascuno e, infine, al ragazzo che aveva fatto la conta fu assegnata la quota di 41 pezzi più la moneta rimasta dispari(21).
La famiglia La Lomia possedeva un feudo nel territorio di Vito Soldano (l’attuale Villa Lanza), in origine di proprietà di un antenato, l’abate Gioacchino. Il barone Agostino venne perciò in possesso di molte monete d’oro di epoca romana e bizantina provenienti dagli scavi e proprio queste monete balzarono agli onori della cronaca nel settembre del 1959. Il barone era ospite fisso in occasione dell’annuale rassegna cinematografica di Messina-Taormina e della mostra del cinema di Venezia. Nella città lagunare alloggiava sempre all’Hotel Danieli e quell’anno, nella camera n. 88, subì un furto di cui parlò tutta la stampa nazionale, relegando in secondo piano i servizi sui film in concorso. Tra gli oggetti rubati anelli con pietre preziose incise, medaglioni, spille di grande pregio, alcune corniole e tra queste una di Cerere, del IV secolo a.C.(22).
A queste leggende relative al sito di Vito Soldano ne sono collegate tante altre ambientate in numerose contrade del territorio canicattinese. Si tramanda che molti tesori siano legati ai sogni e che la trovatura (il ritrovamento di qualcosa di prezioso) sia propiziata da anime buone che nei sogni danno precise indicazioni. Si narra a tal proposito di un tale, lu zi Filippu Cantalanotti, che sognò di trovare un tesoro ai piedi di un noce, in contrada Corrice.
Su Casalotti, località che il Sacheli ha definito "di non dubbia importanza archeologica, tutta sparsa di antiche vestigia di case, di frantumi di rossi mattoni, fertile di storia e di trovatura", un po’ meno si è sbizzarrita la fantasia popolare; anche qui si sono immaginati tesori, ma in particolar modo orrori, come la mostruosa serpe, l’idra ammaliatrice chiamata biddrina che, nascosta presso le fonti e le paludi, riuscirebbe ad attirare ed incantare chiunque, passando da quei luoghi, la fissi con gli occhi(23).
Sulla sommità della Serra Puleri pare ci sia un tesoro di pezzi da dodici d’oru, ma non è facile appropriarsene. Ci riuscirà solo chi, con la bocca piena d’acqua, attinta a li cannuledda di la Cuba, sarà capace di arrivare fino alla cima della collina senza inghiottire l’acqua né farla cadere. Se verserà intatto lu vuccuni d’acqua dentro un fosso posto sulla vetta, vedrà la roccia spaccarsi e comparire il tesoro.
A Canicattì si troverebbe anche il tesoro di Troia, che non si sa dove sia ma che si può riscattare ritrovando setti lanni di assoliu ittati munnu munnu, di cui la prima è pedi Carlinu. Su ogni cassa di latta è stampata una troia ed una lettera: tutte e sette le lettere formano un nome che indica il luogo dove il tesoro è nascosto(24).
Sotto le vette del monte Giummello dicono che esista un altro tesoro, sorvegliato a vista notte e giorno da un gigante, il terribile Manodiferro, lo stesso che lo avrebbe nascosto lì in epoca remota, dopo aver spaccato la cima del monte con un pugno e creato i Pizzi. Chi vuole impadronirsi del tesoro deve portare sulla cima cento quintali di spoglie di cipolle. Il gigante prenderà allora la bilancia per pesarle ed ordinerà ai venti di scatenarsi e soffiare con violenza. Se nessuna spoglia volerà via, la bilancia cadrà dalle mani del gigante, i Pizzi cozzeranno tra di loro, sgretolandosi, e l’oro apparirà nel suo splendore, mentre Manodiferro in un lampo si dileguerà. Giummeddu vuol dire piccolo fiocco (giummo), o può forse derivare dal francese jumelles-gemelle, essendo le due rocce quasi uguali. Giummeddu potrebbe essere anche il nome di un personaggio.
Le leggende canicattinesi dunque insistono sempre su un tesoro misterioso in grado di generare benessere e felicità. E se non fossero solo leggende? Quando la città sotterranea di Vito Soldano sarà finalmente disvelata nella sua integrità, sarà chiaro a tutti che il tesoro, da sempre vagheggiato, lì c’è davvero: un bene artistico di valore incommensurabile che, attraverso il turismo, realizzerà il sogno atavico di riscatto e di crescita.
Gaetano Augello
NOTE
(1) V. Amico, Lexicon Topographicum Siculum, Catania, 1759.
(2) F. Nicotra, Dizionario illustrato dei Comuni siciliani, voce Canicattì, curata da Alfonso e Giovanni Tropia, Palermo, 1908.
(3) J. Levesque De Burigny, Storia generale di Sicilia, L’Aia, 1745.
(4) B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, Roma, 1935.
(5) A. Holm, Geschichte Siciliens im Alterthum, Leipzig, 1870.
(6) P. Cluveri, Sicilia antiqua, Leiden, 1619.
(7) G. Picone, Memorie storiche agrigentine, Girgenti, 1866-1880.
(8) V. Pugliese, Geografia della Sicilia, Palermo, 1836.
(9) D. Corbo, Notti sicole, amene, storiche e filosofiche alle vette dell’Etna, Palermo, 1847.
(10) S. Policastro, De veteribus recentioribusque rebus siculis, Catania, 1976.
(11) G. M. Calvaruso, I paesi di nome arabo della provincia di Girgenti, in "Akragas", Girgenti, marzo 1913.
(12) D. Corbo, op. cit.
(13) M. R. La Lomia, Ricerche archeologiche nel territorio di Canicattì: Vito Soldano, in "Kokalos", n. VII, 1961.
(14) M. Rinallo, Vito Soldano e la viabilità romana tardo-antico in Sicilia, tesi di laurea, Palermo, 2003.
(15) A. Tropia, Vitusullanu, in "La Siciliana", Siracusa, marzo 1930.
(16) G. Pitrè, La fera di Vitusullanu, in "Studi di leggende popolari in Sicilia" e "Nuova raccolta di leggende siciliane", Torino, 1904.
(17) M. Di Martino, Vitusullanu nella storia e nelle credenze popolari canicattinesi, in "Archivio per lo studio delle tradizioni popolari", Rivista trimestrale diretta da Giuseppe Pitrè e S. Salomone Martino, Palermo, 1890.
(18) P. Candiano, Uno sguardo al mondo di ieri, Canicattì, 1966.
(19) L. Natoli, Il Gran Turco e madonna Altruda, in "Giornale di Sicilia", Palermo, 1927.
(20) E. Cacciato, Crisi di coscienza e pensieri di Pinco Pallino, Firenze, 1960.
(21) F. di Renda (Agostino La Lomia), A Vito Soldano – La trovatura del "Su Vicio Messina", in "Corriere di Sicilia", Catania, 28 febbraio 1956.
(22) G. Augello, Agostino La Lomia – Un Gattopardo nella Terra del Parnaso, Canicattì, 2006.
(23) C. A. Sacheli, Linee di folklore canicattinese, Acireale, 1914.
(24) G. Gangitano, La "Terra" di Canicattì – Note storiche, Curiosità, Tradizioni, Palermo, 1939.
Teco sempre vogl’esser mia dolce Italia
Niccolò Tommaseo
"Il termine "foiba" è una corruzione dialettale del latino "fovea", che significa "fossa"; le foibe, infatti, sono voragini rocciose, a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione di corsi d’acqua; possono raggiungere i 200 metri di profondità. […]. In Istria sono state registrate più di 1.700 foibe"(1). Questa definizione si limita a descrivere una particolarità geologica del suolo carsico, ma non racconta nulla delle brutalità commesse dai partigiani comunisti di Tito nel corso degli anni della seconda guerra mondiale. In quelle cavità (alcune delle quali realizzate dall’uomo per scopi lavorativi), migliaia d’Italiani furono gettati col deliberato proposito di ripulire etnicamente un’area che per secoli aveva visto una nostra forte presenza, soprattutto nelle grandi città dell’Istria e lungo le coste della Dalmazia. Il velo del silenzio, calato per anni sopra questa triste vicenda, pare finalmente dissolversi. Resta, tuttavia, ancora molto da fare affinché il maggior numero di persone possa conoscere questi fatti, le circostanze in cui si svolsero, i personaggi che ebbero responsabilità, i nomi di coloro che ne furono protagonisti, alcuni imprigionati, torturati o uccisi per aver coltivato un’idea d’Italia che, dopo l’8 settembre 1943, non risiedeva più in quella regione.
Le foibe sono ormai divenute un simbolo del sacrificio in nome dell’italianità. Fra quei pallidi cristalli di sale e le immense caverne ove tortuose gallerie percorrono fiumane urlanti, riposano ancora i resti straziati(2) di tanti connazionali che nell’oscurità invocano solo che la loro storia sia narrata, soprattutto ai ragazzi, affinché la memoria non si tramuti mai in un registro esclusivo o peggio ancora adulterato.
Gli intenti formativi sottostanti le presenti pagine esigono un paio di constatazioni a margine, preliminari e reversibili: 1) per un verso è un paradosso che per educare alla vita si sia spesso costretti a parlar di atrocità, di violenze, di morte; 2) d’altro canto non lo è affatto, giacché proprio l’esigenza di promuovere i tratti della personalità umana dei più giovani implica il far capire loro che ogni giorno non è festa, che per le idee bisogna anche saper patire e che i doveri non sono un corollario ipotetico e secondario dei fondamentali diritti, bensì l’orizzonte lontano ma pur sempre radioso in cui si staglia la tersa aurora della libertà.
In questa sede non si vuol proporre una ricostruzione dei fatti concernenti gli avvenimenti che hanno insanguinato quelle terre sorelle fra il 1943/45 e il 1954, bensì offrirne una lettura in chiave pedagogica sulla scorta della legge 92/2004, così da poter tendere una mano a chi, dai profondi abissi del martirio, irrequieto si protende verso la luce per non essere dimenticato.
Come sta scritto all’entrata del cimitero di Zara: "Post tenebras lux".
I. La legge 92/2004: un’occasione per rinsaldare a scuola l’identità nazionale
La legge 28 marzo 2003, n. 53 "Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale", all’art. 2 "Sistema educativo di istruzione e di formazione", comma 1, lettera b. "principi e criteri direttivi", così recita: "Sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione, e lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale ed alla civiltà europea"(3).
La Scuola, dunque, fra i suoi tanti impegni ha quello di contribuire al processo di crescita spirituale e morale degli studenti, orientandone attenzione ed acquisizione dei contenuti attraverso la coscientizzazione dei momenti storici che costituiscono l’importantissimo mosaico dell’identità locale e nazionale, costantemente rivolte alla più ampia prospettiva della comune "civiltà europea". Diventare cittadini europei non vuol dire affatto trascurare l’idea di Patria(4) né accantonare eventi, uomini ed episodi che ne hanno segnato a fondo gli usi ed i costumi, l’immenso patrimonio storico ed artistico, la sua filosofia. L’Italianità è un valore da tutelare(5).
Gli insegnanti "di ogni ordine e grado"(6) hanno l’obbligo di spingersi oltre l’importantissimo momento didattico per fare degli alunni dei cittadini responsabili e sentitamente ispirati ai principi della democrazia, all’amore della libertà nel rispetto delle persone e delle leggi. Tale compito per l’istruzione pubblica, pur svolto in stretto contatto con i genitori, va assunto in completa autonomia rispetto agli indirizzi privati di questi, che nel far frequentare ai propri figli una scuola statale hanno scelto di affidarli alla responsabilità civica dei docenti, che assolvono sì un servizio, ma che al contempo esercitano inscindibilmente una precisa funzione pubblica. "Nessuna nazione moderna – sostiene il pedagogista tedesco Wolfgang Brezinka - può lasciare l’educazione dei suoi giovani soltanto alle loro famiglie ed alle più ampie comunità di sostegno familiare. La straordinaria diversità dei gruppi e degli interessi privati va controbilanciata da sforzi educativi, mirati a qualità personali propizie alla coerenza sociale ed all’identità morale dello Stato. Le scuole pubbliche sono il mezzo principale per assicurare un minimo di competenze comuni ed il consenso morale tra i suoi membri. Questo minimo è espresso in ideali di personalità di base, che servono come scopi generali educativi della nazione"(7). Chiunque oscuri od intralci per lassismo o peggio ancora per cupi interessi di parte la lodevole opera di chi si spende instancabilmente per un’equilibrata "pedagogia civico-nazionale"(8), ispirata anche alla Costituzione così come alle altre leggi, compie un’azione riprovevole, agisce contro la propria Nazione, ostacola la possibilità degli studenti di acquisire più fiducia nel sistema politico-istituzionale nonché di coltivare una sana coscienza critica, umilia la deontologia dell’educatore, offende i principi della giustizia ed attenta al desiderio di comunità(9). Impegnarsi è scegliere di fare il proprio dovere. Fino in fondo e senza lasciarsi mai raggelare dai tanti ostacoli, dalle fitte trame intessute dai mediocri figuri che affollano lo scenario circostante, dall’insidiosa tentazione di pensare che "tanto tutto è inutile". Non è così! Non è vero che le prospettive comuni, talune visioni del mondo consolidatesi lungo lo scorrere del tempo, non abbiano più consistenza o forza evocativa. Tutto sta nel dirimere la propaganda destruens da quei concetti che possono ancora liberamente offrire ampie vie da intraprendere per una "pedagogia dei valori"(10). Non si tratta di invocare assurde unità livellatrici, in nome di un unicum valoriale dai risvolti pericolosi perché liberticida, ma di dichiarare ancora aperto il cammino progettuale dell’uomo(11) verso l’ambiziosa meta della perfettibilità morale, delle virtù personali e civili, anche a costo della lotta più dura (soprattutto con se stessi). I corteggiatori del nulla, del nichilismo immobilizzante hanno spesso prestigiosi pulpiti da cui poter esercitare il loro omologante ministero del "baratro costante". Ma occorre respingerne l’urto mistificatore, tenere duro sulle posizioni. Tali maîtres à penser amano sciogliersi in più o meno contorti ragionamenti para-ermeneutici per indurci a deporre le armi dello slancio ideale(12), abbandonandosi perlopiù inconsapevolmente al vuoto che obnubila, in cui il tutto apparente ed il niente concreto combaciano in modo promiscuo. Essi, al di là dell’algida analisi, pare non si curino affatto di rilanciare e riallacciare quelle "illusioni necessarie"(13) che da sempre hanno rappresentato la mistura propulsiva dell’agire morale. Non c’è volontà nei loro discorsi, né forza nei loro precetti dottrinali.
Le parole sono come dei sassi. Se ben utilizzate sono capaci di consentire l’edificazione di armoniosi scenari di convivenza possibile; al contrario, esse possono ridursi ad un cumulo di polverose macerie in cui la pulsione vitale è assente. Solo nello sforzo continuo e partecipato, condiviso, all’architettura sociale e politica si potrà finalmente tornare ad educare ai valori. Invocare la complessità (concetto di gran moda che riempie ogni sorta d’intervento sull’odierna società occidentale, con l’unico e vezzoso scopo di fotografare il caos ma che non prospetta nient’altro che l’attesa-presenza di un nulla incombente) è un modo semplice ed infido per diffondere un verbo che non parla, incapace di incidere in quanto privo di senso ma che possiede la capacità di rimandare a tristi visioni post-moderne. "Occorre insomma che chi educa ritorni a pensare in grande, non scoraggiandosi di fronte agli insuccessi. È costitutivo della figura dell’educatore il non perdere mai la pazienza nell’esercizio della propria attività, essendo la ripetizione una "necessità pedagogica", come lo è il non perdere mai la speranza e la fiducia nel cucciolo d’uomo, con la "grazia del poter-iniziare-di-nuovo, sempre di nuovo, ancor sempre di nuovo". Ma a questo scopo, è necessario riconoscere, oltre l’ineludibile riferimento dei valori, la centralità della relazione educativa, del rapporto io/tu nell’azione della scuola"(14).
La scuola pubblica costituisce una delle istituzioni più importanti dello Stato moderno; vero serbatoio dell’Italia di domani, essa assume oggi un ruolo guida che con gli anni diventa sempre più importante e delicato. In un contesto socio-politico internazionale in cui tutti i punti fermi paiono vacillare, ove tutto si mostra incerto e sbiadito, quasi liso, la scuola ha il gravoso onere di istruire al passo coi tempi, senza mai scollarsi dalle reali esigenze del circuito lavorativo né tanto meno sottraendosi al suo ruolo cruciale di luogo di cultura e di formazione umana. Il carico degli obblighi d’ufficio, dei tanti progetti ed obiettivi ormai sembra intasare le vie dell’organizzazione scolastica, che tuttavia in ogni modo cerca di adottare nuove e più duttili strategie di sviluppo del sistema.
Non si tratta di individuare una disciplina specifica che si occupi da sola di instradare ai valori della cittadinanza e della legalità, com’era negli intendimenti dell’istituzione nel 1958 della (purtroppo) assai poco praticata, se non eterea, Educazione civica(15); questa, per lasciare davvero il segno, avrebbe invece avuto bisogno negli anni di ben altro spazio e spessore rispetto a quello sinora distrattamente concessole. Una simile prassi educativa, invece, merita senza alcun dubbio una compartecipazione di tutti gli insegnanti, che devono intraprendere tale iter in modo pluri-disciplinare e dunque condivisibile. "La prospettiva storica – come si legge, infatti, nell’enciclopedia pedagogica diretta da Mauro Laeng - è certamente quella più strettamente collegata all’ed. civ. […]. Tuttavia, poiché una proposta di utilità sociale e di disciplina formativa dell’individuo è inevitabilmente insita in ogni ricerca culturale e in ogni suo studio organico, tutte le discipline possono e debbono dare il loro apporto all’ed. civ., che pertanto assume un aspetto trans-disciplinare"(16).
Il trascorrere degli anni ha però richiesto necessarie e radicali modifiche alle finalità del D.P.R. 585/1958. Nuovi bisogni formativi e grandi cambiamenti sociali hanno così agevolato l’ideazione della circolare n. 58 del Ministero della Pubblica Istruzione dell’8 febbraio 1996. In essa si sanciscono le linee guida per la "realizzazione degli obiettivi propri dell’educazione civica", tese a rafforzare le nuove istanze culturali, giuridiche e pedagogiche. L’esigenza di un rafforzamento istituzionale dell’educazione civica è da tutti avvertita anche in riferimento ad una più ampia e condivisa cultura costituzionale. La direttiva si sviluppa in 8 articoli. Il primo focalizza la sua attenzione su quattro punti, tesi a porre in evidenza gli obiettivi dell’educazione civica, che si perseguono anche attraverso: A) tutte le materie; B) attività extracurriculari; C) vari momenti della vita scolastica; D) l’insegnamento specifico dell’Educazione civica. Il 2° ed il 3° articolo si riferiscono al Progetto Educativo d’Istituto (P.E.I.). L’art. 4 sancisce l’istituzione della commissione come da D.M. 23 marzo 1995, mentre l’articolo successivo fissa entro 90 giorni dalla data d’emanazione della direttiva il termine ultimo per la pubblicazione del documento definitivo di revisione. L’art. 6 affida nel biennio della scuola secondaria di II grado l’insegnamento dell’Educazione civica al docente di Economia e Diritto; nel triennio, invece, tale disciplina è affiancata alla Storia. La formazione in entrata e in itinere del personale docente e direttivo sull’educazione civica pertiene l’art. 7. L’ultimo punto sancisce, infine, che con i decreti ministeriali posteriori alla commissione il predetto D.P.R. sarebbe stato abrogato(17).
La direzione pedagogica appena riportata s’inserisce nella più ampia Educazione alla convivenza civile(18), che fra le sue diramazioni interne, difatti, non manca di indicare come fondamentale l’Educazione alla cittadinanza(19). Tutti i docenti, non solo quelli d’area umanistica, sono chiamati a perseguire trasversalmente questo fondamentale obiettivo educativo, magari tentando di incrementare ulteriormente i loro sforzi progettuali, di collaborazione e compresenza. Numerose, infatti, sono le occasioni che il calendario istituzionale offre per un simile proposito: "4 novembre" (Giornata dell’Unità nazionale e festa delle FF.AA.)(20) – "25 aprile" (Festa della Liberazione)(21) – "2 giugno" (Festa della Repubblica)(22); ma anche il 12 ottobre (Giornata Nazionale in memoria di Cristoforo Colombo; D.P.C.M. 20 febbraio 2004)(23), il 9 novembre (Giorno della libertà in ricordo dell’abbattimento del muro di Berlino; L. 15 aprile 2005, n. 61)(24) il 12 novembre (G.N. in memoria dei marinai scomparsi in mare; L. 31 luglio 2002, n. 186)(25), il 7 gennaio (G.N. del Tricolore; L. 31 dicembre 1996, n. 671)(26), il 27 gennaio (G.N. della memoria della Shoah; L. 20 luglio 2000, n. 211)(27) ed il 10 febbraio (G.N. del ricordo delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; L. 30 marzo 2004, n. 92)(28).
A queste date ormai consolidate se ne potrà presto affiancare un’altra, preannunciata dal Ministro dell’Istruzione il 20 settembre 2005 presso il complesso monumentale del Vittoriano in Roma per l’inaugurazione dell’A.S. 2005-06 e sancita con un provvedimento ad hoc lo scorso mese di marzo, dedicata al tema della "legalità"(29).
Da sottolineare, inoltre, il proficuo equilibrio-rapporto fra il sentimento nazionale e quello ricollegabile alle specificità locali e regionali(30). Sarebbe buona prassi, dunque, oltre a quanto predetto, far riprendere corpo a quella ritualità civile in occasione di tutte le ricorrenze pubbliche e non trascurare le celebrazioni ufficiali sull’identità nazionale(31), capaci di suscitare nei ragazzi il contagioso "germe" dell’attaccamento. "È evidente, in definitiva, - scrive Deiana – che il capitale sociale delle festività civili di una comunità si accresce anche con la valorizzazione delle festività civili perché queste costituiscono una concentrazione simbolica che trasmette memoria, esprime compartecipazione e identità sociale. Ma è soprattutto dai programmi scolastici che deve essere nutrita la memoria collettiva e accresciuta la coscienza civile, affinché nelle nuove generazioni l’amnesia storica non si trasformi in amnesia morale"(32). Strumenti come la bandiera(33), gli inni, le feste e la partecipazione attiva alle celebrazioni delle ricorrenze nazionali, il contatto col territorio(34), la conoscenza dei monumenti, statue e lapidi, la lettura dei discorsi presidenziali(35), di determinati atti parlamentari e/o provvedimenti governativi, la stessa toponomastica(36), non rivestono solamente una valenza di mera scenografia politico-sociale, la cui rilevanza è ben altro che secondaria, ma possono concretamente contribuire ad incrementare il senso del patriottismo repubblicano(37).
Tutto ciò apre la strada ad un momento di riflessione su di un genocidio del ‘900(38), per tanti anni sottaciuto, al più oggetto di polemiche e contrasti politici limitati ad una ristretta zona di confine, in realtà poco o affatto conosciuto alla maggioranza degli Italiani, sminuito e/o volontariamente rimosso per biasimevoli convenienze. La tragedia degli Istriani e dei fatti che hanno investito l’intera Venezia Giulia, città come Trieste e Gorizia, così come Capodistria, Fiume, Pola, Zara e tante altre località, durante e dopo gli esiti dell’ultimo conflitto mondiale, per lunghi anni non hanno fatto parte del patrimonio condiviso di memoria nazionale. È ora di porvi rimedio. Numerose e diffuse le iniziative in tal senso. Il "10 febbraio" 2005, infatti, si sono svolte in tutta Italia, per la prima volta in modo ufficiale dopo l’avvenuta introduzione della legge 30 marzo 2004, n. 92 - Istituzione del giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati(39), ben 176 manifestazioni, un minuto di silenzio in entrambi i rami del Parlamento, una cerimonia a Trieste alla presenza dei ministri Fini e Tremaglia e la deposizione di una corona d’alloro da parte del Presidente della Repubblica al sacello del milite ignoto(40). Da sottolineare anche sul sito dell’A.N.V.G.D. (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) la pubblicazione di un dettagliato calendario relativo a dibattiti e conferenze sul tema, da cui si evince che le molteplici attività si sono concentrate in un arco temporale piuttosto ampio. Su questa fonte sono state riportate le città più attive per numero e qualità delle iniziative: Torino – Trieste – Firenze – Roma – Milano – Venezia – Genova – Bologna – Ancona – Brescia – Udine – Verona – Gorizia – Salerno – Rovereto – Trento – Pordenone – Belluno – Como – Carpi (MO) – Spinea (VE) – Sabaudia (LT) – Amalfi (SA). Non meno piena d’appuntamenti pubblici ed approfondimenti è stata per il 2006 l’agenda della II ricorrenza del "giorno del ricordo". Fra le innumerevoli attività degne di menzione sicuramente quella dell’8 febbraio al Quirinale per la consegna da parte del Presidente Ciampi delle medaglie ai parenti di alcuni infoibati. In quella sede il Capo dello Stato ha detto: "Il riconoscimento del supplizio patito è un atto di giustizia nei confronti di ognuna di quelle vittime, restituisce le loro esistenze alla realtà presente perché la custodisca nella pienezza del loro valore, come individui e come cittadini italiani. L’evocazione delle loro sofferenze e del dolore di quanti si videro costretti ad allontanarsi per sempre dalle loro case in Istria, nel Quarnaro e nella Dalmazia, ci unisce oggi nel rispetto e nella meditazione. Questo nostro incontro non ha valore solamente simbolico; testimonia la presa di coscienza dell’intera comunità nazionale. L’Italia non può e non vuole dimenticare: non perché ci anima il risentimento, ma perché vogliamo che le tragedie del passato non si ripetano in futuro. La responsabilità che avvertiamo nei confronti delle giovani generazioni ci impone di tramandare loro la consapevolezza di avvenimenti che costituiscono parte integrante della storia della nostra patria"(41). Nella stessa cerimonia è stata premiata anche la signora Licia Cossetto, la quale ha ricevuto una medaglia d’oro al merito civile in memoria della sorella Norma. Questa la motivazione ufficiale del riconoscimento che ne sintetizza il supplizio e la lode: "Giovane studentessa istriana, catturata e imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di amor patrio"(42). La vicenda di questa ragazza poco più che ventenne ha da sempre accompagnato gran parte delle ricostruzioni storiche che hanno tentato di divulgare e far conoscere l’orrore di quegli anni in Istria. Norma Cossetto, col suo sorriso fresco e fiducioso, i suoi occhi colmi di futuro (negatole) ed i suoi abiti semplici e colorati sono ormai scolpiti nel cuore di tutti gli Italiani, che nell’esaltarne la figura esplicitano il dovere della memoria. Nello stesso periodico dell’A.N.V.G.D. sono riportate le celebrazioni svoltesi quest’anno in tutta la Nazione, fra cui la deposizione di una corona all’Altare della Patria da parte del Presidente del Senato della Repubblica Marcello Pera e di altri rappresentati delle istituzioni, la conferenza in Campidoglio alla presenza del Presidente della Camera dei Deputati Pierferdinando Casini e delle autorità locali, nonché il significativo incontro a Palazzo Chigi fra una delegazione degli esuli ed il Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi, che ha pronunciato le seguenti parole:
Il Parlamento italiano ha proclamato il 10 febbraio Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale, affinché tutti sappiano quali aberranti azioni siano state compiute dall’uomo accecato dall’odio e dal desiderio di dominio. È, questa, un’altra pagina dolorosa della nostra recente storia scritta dalla violenza di popoli su altri popoli, dallo spirito di vendetta, che ha seminato morte, dolore e costretto migliaia di persone all’esilio. È una pagina che appartiene ad un tempo a noi ancora troppo vicino per poterlo guardare solo con gli occhi distaccati della storia. Sono infatti le stesse persone che hanno vissuto quel periodo di terrore a portare una dolorosa testimonianza dinnanzi al mondo. La loro presenza, la loro voce, come quella di sopravvissuti ad altri eccidi, esprimono la più forte condanna di ogni forma di violenza in nome dei valori fondamentali dell’umanità: il rispetto della vita umana, il rispetto della dignità della persona. Nel commemorare, insieme a tutto il popolo italiano, le vittime delle foibe e nell’onorare gli esuli istriani, fiumani e dalmati dobbiamo ascoltare queste voci e trarne insegnamento per le azioni di governo, per promuovere la pace e la convivenza fra i popoli. Dobbiamo ricordare per consolare tutti coloro che di questi errori portano ancora ferite profonde nell’anima, quando anche nel loro corpo. Dobbiamo ricordare anche perché i nostri giovani, nati e cresciuti in un clima di libertà, pace e democrazia sappiano che questi sono valori preziosi, valori che loro stessi devono essere pronti a custodire e difendere con tenacia se vogliono che episodi così tragici non si ripetano mai più. Ricordare per guardare avanti, superando antichi rancori e barbarie ideologiche, affermando i valori condivisi che sono a fondamento della nostra identità. Per costruire un mondo libero e giusto(43).
L’auspicio intrinseco a queste righe è quello di offrire soprattutto agli studenti un ulteriore momento di riflessione su questo avvenimento che ha segnato la nostra recente storia nazionale, affinché anche tramite di esse possano ritrovarsi e rinnovarsi come Italiani consapevoli del proprio passato, vigili nel divincolarsi nell’intricato dedalo di trabocchetti e manipolazioni intessuti per anni da chi ha tramato per scompigliare il policromo mosaico di una memoria davvero condivisa.
Il Liceo Statale Regina Margherita(44) di Palermo, secondo quanto previsto dalla legge 92/2004, sin dal primo anno d’istituzione di tale norma ha realizzato momenti di riflessione su questo scottante tema(45). Nel 2005, difatti, l’Istituto s’è reso promotore di una manifestazione, realizzata in collaborazione con la Provincia Regionale ed avente per titolo Il silenzio squarciato, svoltasi il 21 febbraio presso la sede dell’Ente locale in via S. Lorenzo Colli in Palermo, inserendosi in un quadro generale di mostre, dibattiti, conferenze e seminari che hanno visto nello stesso mese coinvolte numerose altre scuole e svariate realtà istituzionali e culturali in tutta Italia. Gli interventi e le immagini proiettate in power-point sull’argomento hanno interessato i ragazzi, che con la loro attenzione hanno apertamente manifestato tutto il loro coinvolgimento. "Ciò che maggiormente ci ha colpito – hanno avuto modo di scrivere due studentesse – sono state le foto e i volti delle persone costrette ad abbandonare la propria terra per non essere uccisi. Alla conferenza è intervenuta anche la signora Anna Bruno, figlia di un poliziotto ucciso nella triste circostanza, la quale ha condiviso con noi la sua triste esperienza ed il suo dolore. Dopo quest’incontro quello che più ci sta a cuore è di essere testimoni per le generazioni successive perché ci si ricordi degli orrori e delle atrocità affinché queste non si ripetano"(46).
Quello appena tratteggiato è solo un esempio di come tale giornata possa diventare un’ottima occasione di studio per analizzare meglio certi eventi del XX secolo e per discutere con gli alunni sul valore della "solidarietà nazionale"(47) e della necessità della collaborazione fra i popoli in prospettiva europea, al fine di instillare in loro un’autonoma e seria riflessione sui temi civici e morali più alti della convivenza democratica. È nelle aule di tutti gli Istituti scolastici che ogni giorno si rinnova e conferma il composito plebiscito dell’appartenenza(48).
La legge n. 92/2004 è solennità civile ai sensi dell’art. 3 della L. 260/1949(49) e come tale ricopre una funzione importantissima nella formazione spirituale e civile dei ragazzi. La conoscenza approfondita della tragedia di migliaia di connazionali giuliano-dalmati nonché della "questione giuliana" abbisogna ancora di tanti altri sforzi. Occorre discutere ed informare, scrivere, promuovere incontri e far parlare la gente, sensibilizzare le nuove generazioni, muoversi indefessamente affinché le testimonianze dei profughi(50) e delle loro famiglie incidano sulla coscienza di tutti e sia così scongiurata la minaccia dell’oblio. Il deputato che ha promosso alla Camera il progetto di legge in un suo intervento, tra le altre cose, ebbe a dire nel febbraio 2001: "Non credo che si debba vivere perennemente con il ricordo del dolore, ma non è neppure giusto che di tutto questo non resti nulla. Mi opprime e mi rattrista vedere che passano gli anni e le generazioni e, piano piano, scompaiono tasselli di storia. In tal modo scompaiono le storie tragiche che vi ho raccontato, anche se sono testimonianze e memorie che contengono una spiritualità che fa spavento: sono storie e memoria che debbono tornare a far parte dei miti unificanti della nazione. Mi spaventa vedere che pian piano il vecchio dialetto di coloro che venivano da Cherso, da Lussino, da Pola e da Capodistria stia scomparendo; scompaiono le vecchie tradizioni e le storie e di tutto ciò all’Italia non resta quasi più nulla; eppure, quegli uomini e quelle donne hanno dato tanto e il loro sacrificio è stato, prima di tutto, un sacrificio di italianità. Con la proposta di legge di mia iniziativa non chiedo nulla di più e nulla di meno di una semplice medaglietta: ovvero, il riconoscimento, a cinquant’anni di distanza, da parte dell’Italia (la loro Patria) al loro sacrificio. Non si chiedono benefici economici o assegni; non si chiede nulla del genere, ma si chiede una semplice medaglietta che dimostri che l’Italia li ricorda. Quelle famiglie e quella gente non chiedono nulla di più. Come dicevo, mi spaventa constatare che nell’Italia di oggi nessuno più conosce i nomi di quelle città o la storia di quelle terre"(51).
Per ciò che riguarda l’insegnamento, alla luce delle precedenti considerazioni, parrebbe almeno opportuna una revisione e/o un ampliamento del tema sui libri di testo di Storia(52) nonché una didattica specifica sul punto per gli stessi docenti in formazione ed in servizio(53). Non si tratta di stravolgere ciò che è fondamentale che i nostri allievi conoscano, ma di ricomporre tutti i pezzi della storia nazionale, affinché da grandi conoscano bene ciò che li ha preceduti, senza mistificazioni né tagli censori. Un tale e meticoloso intervento offrirebbe un’ulteriore garanzia sul difficile sentiero di crescita a cui abbiamo la responsabilità di introdurre gli allievi e che conduce a quel traguardo chiarificatore e privo di acredine che il Capo dello Stato ha auspicato il 9 febbraio 2005 alla vigilia della prima "giornata del ricordo": "È giunto il momento che i ricordi ragionati prendano il posto dei rancori esasperati"(54). In tal modo si consentirebbe infine di soddisfare pure la mai sopita e legittima richiesta d’attenzione da parte della Scuola che da anni oramai gli esuli richiedono, cui va l’indubbio merito di non aver mai cessato di far sentire la propria voce cercando di far conoscere le brutture di un simile capitolo della storia contemporanea(55).
A chi ancora oppone delle indecorose resistenze sul tema e magari per tanto tempo, celandosi dietro il proprio ufficio, ha scientemente taciuto tale accadimento ed ha storto il naso al solo accennare l’argomento "foibe" e gli avvenimenti del confine orientale, a volte puntando persino il dito e cercando di screditare chi avesse solo tentato discuterne, oppure ancora lamentandosi dell’assenza di legislazione in materia, valga allora come "promemoria" che questa, così come qualsiasi altra legge della Repubblica, termina con la medesima e solenne dicitura che impegna ciascun cittadino: "È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato".
II. Luigi Bruno: un uomo al servizio dell’Italia(56)
Una mano. Solo una mano e il cuore in gola. Questo l’ultimo ricordo di una bimba di circa 6 anni che inspiegabilmente per la sua fresca e incontaminata visione del mondo si vede strappata da una delle figure di riferimento più importanti per ogni fanciullo, quella del padre. Eppure, quella mano che stentatamente, solo per qualche attimo, si fa largo con tutte le forze fra le sbarre di quel carcere per salutarla ancora, quante volte aveva accarezzato la sua testa, attraversato con amore i suoi capelli nelle notti d’inverno o rinfrescato la sua fronte nelle giornate di caldo, quante volte le aveva asciugato il volto rigato da lacrime per futilità, quante meravigliose e semplici cose della quotidianità li aveva uniti sino a quel momento, quante volte saldamente alla sua avevano passeggiato per le strade del corso, quante volte quelle mani avevano manifestato l’apertura totale di un abbraccio paterno che a quell’età pare come il premio più dolce ed ambito, capace di racchiudere in sé il senso delle cose, il calore della famiglia, i sentimenti più intimi. Quante volte! Ma quel giorno tutto era diverso, stravolto, grigio.
Un’esistenza conchiusa esclusivamente nella routine quotidiana al più merita spazio fra i ricordi delle persone più care. Ma quando un individuo riesce a superare l’atavica tendenza alla mera e diretta soddisfazione egoistica con la costanza del dovere nel segno di un ideale alto, quando un uomo soffre e perisce per servire il proprio Paese, anche se nessun gesto eclatante o particolarmente meritevole di encomio pubblico sembra averne segnato l’attività, nel ripercorrerla nei suoi tratti umani e drammaticamente più intensi è la poesia struggente del vivere che s’impone alla nostra attenzione, consentendoci di entrare in sintonia con ciò che in ogni tempo costituisce la cifra nobile di ciò che decifriamo come senso di umanità.
È attraverso la storia di Luigi Bruno che è possibile simbolicamente ripercorrere quella di migliaia di altri infoibati, uccisi perché Italiani. Il caso emblematico e tragico di questa guardia di Pubblica Sicurezza è simile a quello di numerosi altri cittadini e tutori dell’ordine che per primi furono oggetto delle violenze dei comunisti jugoslavi, poiché, ieri come sempre, in chi indossa una divisa si concretizza più facilmente il bersaglio dell’odio di chi disconosce il limite, di tutti coloro che nello Stato non riescono e non vogliono vedere altro che un nemico.
Nato a Caltanissetta il 29 aprile 1893, Luigi Bruno compie gli studi elementari sino alla 6ª classe. Svolge da ragazzo il mestiere di fabbro, ma già nel settembre 1913 viene chiamato a compiere il servizio militare presso il 6° Reggimento Artiglieria da campagna. L’insorgere del conflitto mondiale fa poi sì che il Nostro venga trattenuto alle armi in territorio dichiarato in stato di guerra oltre il periodo strettamente necessario di leva.
Già caporale del Regio Esercito nel settembre 1915, assume il grado di caporalmaggiore il 1° gennaio 1916 e l’anno successivo quello di sergente fra le fila del 51° Rgt. art. camp. Passa successivamente al 4° Rgt. art. camp. il 22 aprile 1917, quindi al 55° Rgt. art. camp. il 4 dicembre 1917. A guerra conclusa Luigi sarà trasferito nel 1919 per otto mesi nella sua città natale in forza al 36° Rgt. art. camp. Dal foglio matricolare e caratteristico risulta che "durante il tempo passato sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito con fedeltà ed onore". Il congedo, tuttavia, non distacca il giovane nisseno dalla volontà di continuare a vestire l’uniforme. A seguito di sua richiesta viene quindi riammesso in servizio il 1° febbraio del 1920 nel Corpo della Regia Guardia col grado di vicebrigadiere presso la Legione Territoriale di Palermo. Nel luglio dell’anno seguente giunge presso la Legione Territoriale di Bologna, ove presterà la sua opera per circa quattordici anni. Pronuncerà il suo giuramento alle istituzioni il 27 luglio 1926. Sarà sempre nella città emiliana che troverà moglie nel marzo del 1929 e dalla cui unione nasceranno i figli Vincenzo e Luciano.
Promosso brigadiere nel febbraio del 1922, Luigi passa nel ruolo specializzato CC.RR. col grado di Appuntato vigilante. Tre anni dopo, questi è assegnato definitivamente al Corpo degli Agenti di Pubblica Sicurezza(57), rivelando negli anni ottima condotta e attitudine all’attività investigativa. Tale merito professionale trova ulteriore suggello nella medaglia d’argento al merito concessagli con un provvedimento ministeriale del 25 giugno 1937.
Da Bologna Luigi viene infine trasferito alla Questura di Fiume nel febbraio 1935. Dopo appena un anno, scompare prematuramente la moglie Concetta. Questo grave lutto segna a fondo la sua sfera affettiva; ma un nuovo amore riuscirà a colmare quel vuoto inatteso e a ridestare in lui sentimenti sino a quel momento ritenuti ormai svaniti. Sarà così che nel 1938 Luigi sposerà Maria, dalla quale avrà la gioia della tanto desiderata figlia, Anna Maria.
Gli anni trascorsi nella città quarnerina saranno vissuti nelle difficoltà del servizio, negli affetti famigliari cui mai fece mancare le sue premure, nelle asperità del tempo di guerra e della minaccia incombente di un sanguinoso rovescio di sovranità territoriale, nella durezza del clima d’occupazione, in tutte quelle vicissitudini che contrassegnarono quel difficilissimo periodo intercorrente fra l’8 settembre 1943 ed il maggio del 1945(58).
III. Dalle foibe al ricordo della Repubblica Italiana - La testimonianza di Anna Maria Bruno
"Nel periodo della seconda guerra mondiale vivevo a Fiume, al n. 5 di via Milano insieme alla mia famiglia. Mio padre era una guardia di Pubblica Sicurezza in servizio presso la Questura del capoluogo quarnerino(59). Il 4 maggio del 1945, intorno alle due del pomeriggio, si recò al Comando per consegnarsi, così come ordinato dal nuovo regime di Tito. Rammento che mia madre lo pregò di non andare, come presagendo qualcosa di terribile, ma lui rispose che non v’era nulla da temere. In realtà la situazione era già pesante sin da quando i Tedeschi avevano abbandonato la città. Consapevole della gravità del momento e dell’odio dei partigiani slavi per l’elemento italiano e in special modo per qualsiasi forma di autorità che ancora lo rappresentasse, mio padre scelse quindi di rispondere alla chiamata per cercare di tenerci fuori da possibili rappresaglie. In tale circostanza, ciò che insospettì mia madre fu l’insolito invito di un suo collega a costituirsi insieme ed a lasciare a casa il cappotto buono ed altri eventuali oggetti di un certo valore per evitare che gli Slavi se ne potessero impadronire. Quell’uomo, che poi scoprimmo essere un confidente dei titini, tornò la stessa sera a casa, invece mio padre fu trattenuto, non facendo più ritorno. Preoccupata per la sua prolungata assenza, mia madre, già quella sera e poi ancora l’indomani, si affannò a chiedere notizie riuscendo a scoprire che mio padre era tenuto prigioniero nel carcere della città insieme ad altri militari e civili italiani. Dal Comando fecero sapere che i familiari potevano portare cibo ed indumenti, che sarebbero stati recapitati ai detenuti. Riempimmo alcune borse di ciò che potesse tornargli utile e ci recammo di gran corsa presso il piazzale antistante al carcere dove erano riuniti gli altri congiunti per consegnare i pacchi ed avere qualche notizia più precisa. Le vettovaglie e gli indumenti furono ritirati, ma nessuna nuova sulla sua sorte alleggerì la nostra apprensione. L’indomani, tornando sul posto, mentre aspettavamo, mia madre mi disse: "Chiamalo con forza, vedrai che ti risponderà". Con tutta l’energia di cui ero capace cominciai a chiamarlo, ma l’idea si dimostrò assai infelice. Dalla cella dove egli si trovava recluso, nel tentativo di farci capire che aveva sentito la nostra presenza, fece un cenno con la mano, chiamandomi per nome. Mia madre urlò: "Guarda, Anna, lassù c’è papà!". Alzai lo sguardo e lo chiamai ancora con più foga agitando confusamente le braccia, ma ad un tratto giunse un ceffo che iniziò a sparare sulle persone lì radunate. Non so come riuscimmo a rimanere illese; ricordo, però, che mia madre mi tirò con forza e insieme fuggimmo via. Il giorno seguente, nonostante il pericolo corso, tornammo nuovamente sul posto, nella vana illusione di potergli essere almeno quanto più possibile vicine. Pochi, però, questa volta sostavano ammutoliti nella piazza. Ci parve persino di sentire come delle grida soffocate. Tornammo a casa affrante, ferite nell’anima per quei flebili lamenti che ci parve di udire dalla quella dannata cella. Mia madre raccontò l’accaduto ad alcuni amici che abitavano nel nostro palazzo, i quali ci consigliarono di non tornare più al carcere, perché quasi certamente il nostro congiunto, per averci salutate e chiamate, era stato torturato. In seguito, andammo a chiedere notizie ad una famiglia che abitava proprio dinanzi alla prigione, che ci assicurò che nella notte si erano sentiti degli strani rumori e che erano strati visti dei camion sui quali avevano fatto salire tutti gli Italiani reclusi e diretti verso destinazioni ignote. Ci venne detto, inoltre, di non andare più da loro a chiedere e far domande perché anch’essi erano terrorizzati dal clima di paura diffuso e dalle concrete minacce di ritorsioni. Fra tante ed orrende scene che in quei giorni maggiormente s’impressero nella mia memoria di certo vi fu la vista di un giovane carabiniere con l’uniforme tutta a brandelli e vilmente appeso ad un gancio, alle cui orbite erano state apposte due stelle rosse ed al collo un oltraggioso cartello con su scritto: Carne di basso macello. Giorni di odio e crudeltà, in cui la vendetta politica ed etnica commiste a quella privata insanguinarono le strade della nostra bella città.
"Da quel giorno in poi fu una continua ricerca presso quei luoghi ove venivano segnalati gruppi di prigionieri; ma ogni sforzo naufragò miseramente! Ormai, quindi, resici conto dell’inutilità e dell’estrema pericolosità di restare a Fiume, ottenuto con notevoli difficoltà il lasciapassare(60), ci trasferimmo su di un carro bestiame a Udine, dove risiedeva uno zio materno. Furono talmente tanti i disagi e gli stenti patiti che venni colpita da una grave forma d’anemia. Restammo dallo zio ancora per qualche mese, nella speranza che mio padre, finalmente libero, potesse ritrovarci in una località vicina. Uno dei ricordi più vivi che ho di quel periodo è legato alla mia nuova maestra(61), che quasi ogni giorno non mancava di chiamarmi in disparte per manifestarmi con parole e gesti tutto il suo affetto. Tra tanti orrori che segnarono per sempre la mia infanzia, questa donna generosa rivestì ai miei occhi uno spiraglio di luce che per qualche giorno rischiarò i miei pensieri, insozzati da tanta efferatezza e pregni di tristi abbandoni.
"Rammento, poi, un altro pezzo della mia permanenza friulana. Questa, però, non è legata ad una persona bensì ad un luogo sacro. Era il periodo della settimana santa e approfittando della temporanea mancanza dei miei, mi recai da sola presso la piccola chiesa del Tempio Ossario. Lì, inginocchiata ai piedi del crocefisso, pregai talmente tanto per mio padre che il tempo passò senza che me ne accorgessi. Quando i miei familiari mi trovarono, nessun rimprovero sancì la mia innocente marachella, ma una carezza avvolse nella comprensione il motivo di quel mio gesto.
"Fu sempre in questa città che mia madre si premurò almeno di certificare presso le autorità la scomparsa del marito. Nella copia del verbale di irreperibilità – n. 12, stilato il 1° settembre 1946 presso la 4ª Compagnia delle Guardie di P.S. di Udine, riferendosi a mio padre si affermava che: "[la] guardia scelta di P.S. effettiva Bruno Luigi […], già in servizio presso la disciolta Questura di Fiume, in data 4 maggio 1945, fu prelevato e deportato in Jugoslavia, e da tale data nulla più si è saputo di lui né venne riconosciuto tra gli agenti dei quali fu legalmente accertata la morte. Essendo ora trascorsi più di tre mesi dalla data della sua scomparsa e risultando che le ulteriori ricerche e indagini, esperite in ogni campo, e sotto ogni forma, sono riuscite infruttuose nei di lui riguardi e che pertanto non è possibile nel frattempo conoscere se sia tuttora in vita o sia in effetti deceduto viene redatto il presente processo verbale di irreperibilità a norma dell’art. 124 della legge di guerra, per gli effetti che la legge ad esso attribuisce"(62).
"Dopo circa un anno, anche per non continuare a pesare sul bilancio dello zio, andammo in Sicilia dove vivevano i nonni. Arrivati a Caltanissetta, mia madre continuò ostinatamente a sperare, ma penso ancora con dolore alla sua muta disperazione il giorno in cui giunse una lettera nella quale ci veniva comunicato di non insistere nelle ricerche, perché Luigi Bruno era ormai sicuramente deceduto. Immobile e con gli occhi fissi nel vuoto, si rivolse a me dicendomi a bassa voce solo queste parole: "Anna, papà non tornerà più!".
"In tutti questi anni non ho mai smesso di cercare di ottenere giustizia per la memoria di mio padre. Molti gli ostacoli ed i momenti di insondabile tristezza per così tanta indifferenza intorno a questa storia, sconosciuta dalla maggior parte delle persone, ritenuta marginale o follemente giustificabile da qualchedun’altro! La cosa mi ha sempre destato disgusto, se non rabbia. Mi madre mi diceva sempre di non parlare con gli estranei delle nostre vicissitudini e di dire che papà era morto in Russia! In molti, fra coloro che hanno saputo della vicenda che ha segnato la mia famiglia, mi hanno persino invitata negli anni a poggiare una pietra su quegli eventi; ma io non l’ho mai fatto, e quando tutto sembrava ormai avermi quasi piegato alle loro insidiose ed insensibili ciarle un rinnovato atto di vigore mi ha spronato a muovermi ancora. Il 18 marzo del 2001, così, mi decisi a scrivere di getto al Presidente della Repubblica Ciampi, chiedendo se non fosse giusto istituire una giornata, oltre a quella per commemorare la Shoah, anche per i martiri delle foibe. Gli addetti agli uffici presidenziali preposti ai rapporti con la cittadinanza mi rincuorarono, assicurandomi che i tempi erano ormai maturi affinché il Parlamento se ne occupasse doverosamente. Di lì a pochi anni, infatti, la legge 92 del 2004 ha finalmente reso omaggio ai tanti caduti e concretizzato in tal modo un’attesa durata ben 60 anni! Ma l’entusiasmo per questo mio ritrovato vigore con l’unico scopo di onorare la memoria di mio padre doveva ancora raggiungere il suo culmine nei primi di gennaio del corrente anno, quando da Palazzo Chigi mi è pervenuto un telegramma in cui si diceva: "Riconoscimento ai congiunti dei martiri foibe, legge 92/2004. Informasi che istanza presentata da Lei per riconoscimento in oggetto est stata accolta. Presidente della Repubblica Italiana consegnerà riconoscimenti at Quirinale, Roma giorno 8 febbraio 2006 ore 10,30".
"Alle prime del giorno convenuto, così, mi sono ritrovata di fronte al portone principale del Quirinale, dove nel frattempo si erano radunati altri invitati, aderenti alla Lega Nazionale di Trieste. Nel varcare la soglia di quell’imponente palazzo ho ripensato alle tante ricerche compiute, al pesante fardello interiore che ci ha accompagnato in tutti questi anni, alle infinite attese, agli innumerevoli momenti di solitudine, di vuoto esistenziale. Tutto aveva forzatamente indotto me e mia madre a ritenere che la nostra, in fondo, fosse per gli altri solo una vecchia storia di poco conto! Ora tutto era diverso. Certo, un riconoscimento non cancella anni di ricordi mesti né può riportare in vita un caduto; mio padre rimaneva uno scomparso, un infoibato chissà dove, ma a me bastava. Il suo Paese lo ricordava.
"Entrata nel salone adibito per la cerimonia, una signorina m’ha indicato la sedia riservatami. Mi sono presto accorta con piacere di dover sedere in prima fila, giacché i posti per i familiari dei caduti erano stati assegnanti in ordine strettamente alfabetico. Alle ore 10.30, quindi, ha fatto il suo ingresso il Presidente, seguito da tutte le altre autorità convenute. Iniziati i discorsi ufficiali, mentre ascoltavo Ciampi non potevo non ripensare anche a mia madre, a come sarebbe stata fiera di un simile momento. Ricordo che fra le parole del Capo dello Stato queste mi hanno particolarmente colpita: "L’evocazione delle loro sofferenze e del dolore di quanti si videro costretti ad allontanarsi per sempre dalle loro case ci unisce oggi nel rispetto e nella meditazione".
"Al termine degli interventi del Vice-presidente del Consiglio dei Ministri Gianfranco Fini, del professor De Vergottini e quello del Capo dello Stato, è poi giunto il momento tanto atteso della consegna dei riconoscimenti. Quando ho sentito scandire il nome di "Luigi Bruno" il mio cuore traboccava di forti emozioni. Mi sono avvicinata al palco dove era ad attendermi Ciampi, il quale mi ha dimostrato la sua solidarietà chiedendomi anche della città d’origine. In quegli istanti sono riuscita a dire solo poche parole, ma quel caloroso contatto umano con chi con lode ha rappresentato lungo il suo settennato l’unità nazionale mi ha donato un attimo di gioia e ripagato dei tanti anni di attesa.
"Terminata la consegna delle attestazioni, ancora pervasa da sensazioni difficilmente descrivibili, ho riletto per un minuto con gli occhi lucidi la motivazione apposta sulla pergamena di concessione, che così recita: "… in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria". Attraverso quelle semplici parole veniva finalmente restituita giustizia alla memoria di mio padre.
"Conserverò con estrema cura questa medaglia unitamente alla croce di bronzo che mio padre ricevette per aver combattuto per l’Italia anche nella prima guerra mondiale. Il ricordo di questa giornata costituisce per me un prezioso patrimonio spirituale da tramandare in famiglia e condividere con gli altri affinché la sua triste fine e l’adesione incondizionata al dovere non sbiadiscano, bensì siano rammentate come esempio di rettitudine.
"Non ho mai cessato d’interrogarmi sulla sorte di mio padre, in quale maledetta foiba possano averlo gettato. Credo solo che la sua unica "colpa" sia stata quella di essere un poliziotto, ma soprattutto un italiano. Ho voluto raccontare tutto ciò per fare comprendere quanto quella tragica scomparsa abbia offuscato la mia esistenza e come la crudeltà di certuni abbia tramutato la mia breve infanzia, rendendomi orfana e costretta a fuggire dalla nostra città, ormai perduta.
"Ciò che maggiormente ancora mi addolora arreca ancora angoscia, specie in alcune notti, è pensare che mio padre non abbia una degna sepoltura. Il fatto di non poter adagiare un fiore sulla sua tomba, magari persino sulla stessa foiba dove l’hanno spinto, come un cencio da rifiuto, in cui giacciono sparsi i suoi poveri resti, m’inquieta angosciosamente e rende sovente le mie preghiere più intense ma tormentate e bagnate dal pianto"(63).
Francesco Paolo Calvaruso
NOTE
(1) Cfr. http://www.ades.it (Associazione Amici e Discendenti degli Esuli Giuliani - Istriani – Fiumani - Dalamati).
(2) Cfr. G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino, Einaudi, 2006.
(3) Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana [d’ora in poi: G.U. della R.I.] del 2 aprile 2003, n. 77; la stessa indicazione è riportata anche all’art. 1, comma 3 del Decreto Legislativo 17 ottobre 2005, n. 226 in "G.U. della R.I." 4 novembre 2005, n. 257: "Norme generali e livelli essenziali delle prestazioni sul 2° ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione".
(4) Nella prima cerimonia di consegna delle medaglie alla memoria per i caduti delle foibe l’8 febbraio 2006 presso il palazzo del Quirinale il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha ricordato che: "Il nostro europeismo non nega, anzi rafforza l’amore per la Patria praticata negli ideali del Risorgimento. Essi ci hanno trasmesso insieme alla coscienza della ritrovata unità nazionale il sentimento profondo di fraternità fra tutte le nazioni libere e indipendenti".
(5) Cfr. A.M. Greco, Cento prof. alla Moratti: "Tuteliamo l’italianità", in "il Giornale del lunedì", lunedì 10 giugno 2002, anno XXXIII n. 22, p. 16. In questo articolo si riportano succintamente i contenuti di un appello rivolto da decine di docenti universitari di vari atenei al ministro del MIUR affinché venga incrementata l’attenzione per le nostre tradizioni. Tale richiesta mira quindi a valorizzare il ruolo chiave della Scuola sulla salvaguardia dell’identità nazionale, che deve porsi come punto centrale in un sì vasto spettro di nuove esigenze sovranazionali. La globalizzazione può essere meglio gestita ed affrontata se le radici di un Paese affondano in un terreno ben tenuto, non abbandonato all’incuria dei distratti. Le materie umanistiche, nonostante il tentativo di dominio tracotante ed invadente della tecnica, mostrano ancora il loro aureo contributo al dispiegarsi dello Spirito.
(6) Come recita la L. 92/2004, art. 2 comma 2, nella "giornata del ricordo" "[…] sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado". Data la trasversalità del tema e del mandato educativo teso alla sensibilizzazione civica degli studenti, pare opportuno precisare che la realizzazione di attività culturali di approfondimento, per classi singole o interclassi, non è una prerogativa esclusiva del docente di storia, poiché la prescrizione lascia intendere che l’argomento prescinda dallo sviluppo specifico della propria programmazione. Va da sé che tempi e unità didattiche risentiranno di tale facile constatazione prassico-applicativa. Il messaggio intrinseco della legge è di fare di tutti gli alunni dei cittadini informati e sensibilizzati su simili tematiche, qualsiasi ne sia l’età o l’indirizzo scolastico intrapreso.
(7) W. Brezinka, Scopi dell’educazione nelle famiglie e nelle scuole pubbliche in situazione di pluralismo, in "Pedagogia e Vita", Brescia, La Scuola, gen.-feb. 2005, serie 63 - n. 1, p. 35. L’A. così continua: "Oltre ai doveri, gli insegnanti sono tenuti per legge a fornire un’educazione ai valori nell’ambito della costituzione dello Stato e dei principi morali societari di base. Le scuole pubbliche non sono semplicemente organizzazioni al servizio d’interessi privati dei genitori e dei loro figli in materia di educazione e di progresso individuale. Esse sono nel medesimo tempo i centri nazionali per la difesa e la formazione delle comuni indicazioni d’orientamento e della loro trasmissione alle generazioni successive". In perfetta sintonia con quanto appena riportato il Presidente della Repubblica Ciampi, durante il discorso pronunciato in occasione dell’apertura dell’A.S. 2003-04 presso il complesso monumentale del Vittoriano in Roma, il 16 settembre 2003 ha detto: "Educare significa soprattutto trasmettere valori. Esiste, naturalmente, una sfera privata dei valori. Di questa, ciascuno è responsabile solo di fronte alla propria coscienza. I valori che ci uniscono come cittadini italiani, sono proclamati solennemente nei primi dodici articoli della Costituzione".
(8) Cfr. G. Nevola (a cura di), Una patria per gli Italiani? La questione nazionale oggi, tra storia, cultura e politica, Roma, Carocci, 2003. Sul punto cfr. in particolar modo il capitolo: Quale patria per gli Italiani? Dalla "repubblica dei partiti" alla pedagogia civico-nazionale di Ciampi, ivi, pp. 139-191.
(9) Cfr. Z. Bauman, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2001. Di forte impatto appare fra le prime pagine del testo, a proposito del concetto di "comunità", l’immagine metaforica del "cerchio caldo". In merito si rende opportuno accennare ad una distinzione sociologica fra "società" e "comunità". Il primo concetto rimanda ad un’unione di soggetti che decidono di stare assieme, vincolati da interessi e con delle responsabilità nette, ove la competizione è persino funzionale all’aggregato umano, in vista di precisi obiettivi. Questo termine rimanda ad un’idea di accostamento di individualità, pronte a sciogliersi dall’unione nel momento in cui le condizioni aggreganti non dovessero più convincere gli aderenti stessi. Nel caso della "comunità", invece, si potrebbe dire che essa è la dimensione della con-fusione di identità in una somma sovra-individuale, un insieme di persone che trova in sé la ragione stessa del gruppo, è una malta densa e rassicurante, in cui c’è meno concorrenza ma più compattezza, tendenza ad una certa omogeneità gruppale. La società vive d’individualità ben definite; la comunità, invece, si mostra come un sé autonomo, vive di parti convergenti in un fulcro condiviso. La tendenza centrifuga è il rischio costante della dinamica societaria, mentre una forte e (a volte) schiacciante forza centripeta caratterizza i momenti del far comunità. Sulle due definizioni cfr. L. Gallino, Dizionario di Sociologia, Torino, UTET, 2004, pp. 143-146 e pp. 601-605.
(10) Basta questa espressione per far storcere tanti nasi sofisticati e saccenti. Certo, ormai la regola è far finta di criticare restando omologati nel dissentire. Un po’ per vezzo o il gusto del dissenso, impegnandosi ad apparire più sottili di quanto non abbisogni. Di questi tempi il vero baluardo controcorrente è quello della tradizione, fra le cui solide mura è importante stringersi affinché, non paralizzati dalla visione delle rovinose macerie dell’ottundimento collettivo circostante, si possano scorgere nuove albe capaci di rischiarare inusitati traguardi. Per una riflessione sulla "pedagogia dei valori" cfr. W. Brezinka, Educazione ai valori? Problemi e possibilità, in Idem, Morale e educazione. Per una filosofia normativa dell’educazione, Roma, Armando, 1994, pp. 115-135. L’A. a p. 115, con lo scopo di chiarificare quello che potrebbe contrariamente sembrare solo uno slogan buono per tutte le stagioni, afferma: "Ogni tipo di educazione è sempre orientata verso determinati valori, e nessuno può educare senza far ricorso a valori precisi. Ciò risulta ovvio a chiunque possiede idee chiare sull’educazione". Conclusa la sua attenta analisi, Brezinka così termina il capitolo: "L’educazione è conseguenza del rinnovamento normativo della società, ma non può provocarlo. Perciò l’utilità dello slogan "educazione ai valori" consiste essenzialmente nello stimolare i cittadini adulti a riflettere su ideali comuni ed a considerarli seriamente nella vita quotidiana. Il buon esempio da parte loro è e rimane il mezzo più efficace per aiutare la giovane generazione nel suo orientamento ai valori". Ma se ciò pare quasi scontato, come mai la società attraversa una fase di stanca pedagogica in cui la scuola pare abbia il fiato corto in questo gioco scorretto di (sospetta) delega al compito educativo, salvo poi lamentarsene in ogni caso? Una risposta plausibile potrebbe risiedere nell’irresponsabile tentazione della "rinuncia all’educazione". "Uno dei massimi sociologi italiani, – si legge su di una rivista specializzata – Franco Ferrarotti, ha definito i cinquant’anni che ci hanno preceduto il periodo senza educazione. Al piccolo d’uomo sono state date cose invece che valori, gli si è creato intorno un mondo virtuale, quello dei mass media, in particolare la televisione, che hanno creato bisogni, sostituendo i sogni: la capacità di immaginare, di esser creativi, di progettare. […] Il tempo che la famiglia riserva all’educazione è stato drasticamente ridotto e le nuove generazioni devono essere affidate alla scuola. Vi è sempre più difficoltà nel trasmettere valori, dato che in casa vi è un ospite fisso, la TV, ben più potente della famiglia, tutto teso a sostituirla"; cfr. R. Zucchi, Riprendiamoci la pedagogia, in "Le nuove frontiere della scuola. Periodico quadrimestrale di cultura, pedagogia e didattica", Trapani, La Medusa ed., maggio 2004, anno III n. 10, pp. 13-26.
(11) Cfr. B. Mondin, L’uomo progetto aperto, in "Pedagogia e Vita", Brescia, La Scuola, lug.-ago. 2005, n. 4, pp. 37-50.
(12) Nell’ambito delle celebrazioni per il 144° anniversario della Provincia di Palermo, presso Palazzo Sclafani, s’è svolto nel pomeriggio del 12 settembre 2005 un incontro culturale con Marcello Veneziani, dal titolo: Il primato delle idee (per uno sguardo d’insieme sull’8ª ed. della "Festa della Provincia" cfr. F. Certa, Si alza il sipario il territorio si accende, in "Palermo", n. 4 luglio-agosto 2005, pp. 2-3; F.C., Incontri ravvicinati con gli autori, in Ib., p. 4). Tale titolo lo si deve all’Assessore alla Cultura Tommaso Romano che, ben cogliendo il vero intento dell’A. in uno dei suoi libri (M. Veneziani, La sconfitta delle idee, Roma-Bari, Laterza, 2003), ha introdotto e moderato l’interessante conferenza. Chi scrive, dopo aver ascoltato gli spunti offerti dall’ospite sulla condizione attuale del pensiero, delle idee e degli intellettuali, alla fine degli interventi, ha avuto modo di rivolgere all’A. una domanda sul ruolo della Scuola nel risveglio delle idee e della coscienza civile degli Italiani. Veneziani ha così delineato un quadro non proprio entusiasmante dell’infelice condizione generale in cui versa, a suo dire, questa importante istituzione del nostro Paese. Per anni, ha sostenuto lo scrittore, essa ha ricoperto un ruolo chiave nella formazione della classe media della Nazione, troppo a lungo divisa internamente ed ambita preda di smanie politico-diplomatiche estere, così come ha anche avuto l’indubbio pregio d’innalzare il livello culturale di tutti gli Italiani. Tuttavia, faceva notare, da anni la Scuola pare stia segnando il passo sul piano delle idee, quasi appiattita, impegnata com’è in progetti d’ogni sorta e sovraccarica di tanti compiti che non le danno il tempo necessario per una sana maturazione dei concetti che impartisce.
(13) Vilfredo Pareto scrisse, sull’importanza delle convinzioni di fede collettive utili alla società, che "niente è così reale e pratico nella vita dei popoli come l’ideale. […] Se dal punto di vista della scienza ogni sorta di dubbio può e deve attaccare ogni principio, dal punto di vista dell’utilità sociale si deve restare tranquilli e lasciare intoccati tali principi che sono alla base della buona riuscita dei sistemi sociali". Al sociologo è altresì possibile affiancare altri pensatori come Unamuno e Nietzsche, persino Leopardi. Tutti accomunati dal medesimo tormento del pensiero per l’irrisolvibile tensione tra sapere e credere, conoscenza razionale e bisogni spirituali.
(14) E. Butturini, L’attuale crisi istituzionale e sociale, e l’impegno educativo, in AA.VV., "L’educazione alla legalità", Brescia, La Scuola, 1994, p. 92.
(15) Cfr. D.P.R. 13 giugno 1958, n. 585 - Introduzione dell’insegnamento dell’Educazione Civica negli istituti e scuole secondaria e artistica - , in "G.U. della R.I." 17 giugno 1958, n. 143. Impossibile non riportare qualche stralcio di questo decreto, solo a tratti datato, che nel suo dispiegarsi non può che suscitare pronta adesione. Nella premessa all’allegato 1 si legge: "L’educazione civica si propone di soddisfare l’esigenza che tra Scuola e Vita si creino rapporti di mutua collaborazione. […] La Scuola a buon diritto si pone come coscienza dei valori spirituali da trasmettere e da promuovere, tra i quali acquisiscano rilievo quelli sociali, che essa deve accogliere nel suo dominio culturale e critico. […]". Terminata la premessa con l’espressione "ogni insegnante prima di essere docente della sua materia, ha da essere eccitatore di moti di coscienza morale e sociale", il decreto passava poi a delineare l’azione educativa in relazione ai cicli scolastici. Sul primo ciclo si diceva solennemente tra le altre cose: "la lucidità dell’educatore rischiari le eclissi del giudizio morale dell’alunno, e si adoperi a mutare segno a impulsi associati, nei quali è pur sempre un potenziale di energia. Conviene al fine dell’educazione civica mostrare all’allievo il libero confluire di volontà individuali nell’operare collettivo". Nelle scuole superiori il docente era esortato a fare ancora di più: "L’azione educativa, in questa fase di sviluppo psichico, sarà indirizzata a costituire un solido e armonico equilibrio spirituale, vincendo incertezze e vacillamenti, purificando impulsi, utilizzando e incanalando il vigore, la generosità e l’intransigenza della personalità giovanile". Nella conclusione alla premessa il legislatore affermava: "Se l’educazione civica mira, dunque, a suscitare nel giovane un impulso morale a secondare e promuovere la libera e solidale ascesa delle persone nella società, essa si giova, tuttavia, di un costante riferimento alla Costituzione della Repubblica, che rappresenta il culmine della nostra attuale esperienza storica, e nei principi fondamentali si esprimono i valori morali che integrano la trama spirituale della nostra civile convivenza". Cfr. direttiva M.P.I. 8 febbraio 1996, n. 58 e il relativo "Documento allegato alla direttiva"; D.P.R. 10 ottobre 1996, n. 567; Circ. M.P.I. 25 ottobre 1996, n. 672. Cfr. anche L. Corardini - G. Rrefrigeri (a cura di), Educazione civica e cultura costituzionale. La via italiana alla cittadinanza europea, Bologna, Il Mulino, 1999.
(16) G. Penati, Civica, Educazione, in AA.VV., "Enciclopedia Pedagogica", vol. II (Cabrini-Düss), Brescia, La Scuola, 1989, pp. 2656-2657. Di rilevanza quanto sottolineato poco più avanti in un’ottica di pluralismo culturale: "Un insegnamento concreto dell’ed. civ., che non intenda limitarsi ad un’arida precettistica e a un’enunciazione di meri rapporti giuridici, ma si fondi invece sull’organicità non occasionale, ma strutturale delle varie componenti della civiltà, storicamente evidenziata, dovrà bensì far conoscere in particolare leggi e strutture giuridiche vigenti, a cominciare dalla Costituzione dello stato democratico". Sui problemi metodologico-didattici relativi all’ed. civ. l’A. (pp. 2658-2659) suggerisce di dar voce all’educazione alla socialità; per far ciò sarebbe buona prassi adottare il "metodo attivo", capace di concretizzare esperienze di partecipazione all’interno della stessa realtà scolastica. Fra i pedagogisti citati Dewey, Freinet, Kerschensteiner e Codignola.
(17) Nel documento in allegato alla direttiva si pone inizialmente una riflessione sul ruolo dell’educazione ("intesa come processo che svolge una fondamentale funzione di umanizzazione") e della scuola nella società contemporanea. La scuola, si legge, deve istruire, ma anche elaborare un sapere inteso "come coscienza dei valori della vita e come capacità di compiere scelte consapevoli e responsabili, per sé e per gli altri". Quali le dimensioni fondamentali, dunque? Quella della persona (area della ricerca della verità e del senso della vita); quella del cittadino (area socio-relazionale, organizzativa); quella del lavoratore (area della produzione di beni e servizi). Da porre in evidenza l’ormai diffusa convinzione che l’adattamento sociale e la preparazione al mercato del lavoro non bastino al fare scuola; essa va sempre più intesa come comunità, un valore, ed anche come una "interazione sistemica fra docenti e discenti", che devono affrontare, con differenti ruoli, le aspre perturbazioni del tempo, che quotidianamente deve svolgere la sua funzione antropologica in modo insostituibile rispetto al ogni altra ipotesi formativa. Nella sua battaglia di civiltà, tesa contro ogni forma di devianza, la scuola deve e può prospettare con serietà e gioia. Per far ciò essa deve sapere certamente mediare: approccio cognitivo ed approccio relazionale; attenzione alle prestazioni ed ai vissuti personali; programmazione rigorosa e promozione della creatività; usare più linguaggi, anche multimediali. Occorre educare, poiché istruire non basta. Bisogni, valori e diritti sono guide pratiche per una corretta azione educativa rivolta alla solidarietà, alla sicurezza, al senso della famiglia, alla nazione, all’Europa e al mondo. Più stretti i contatti con l’extrascuola più efficace ed efficiente il frutto del flusso insegnamento-apprendimento. Un rinnovato patriottismo è possibile lì dove all’educazione civica venga altresì affiancata una solida cultura costituzionale. Il documento si conclude con le parole: "In questo panorama composito, in cui sorgono nello stesso mondo giovanile nuove domande e nuove risposte di senso di legalità e di solidarietà, la Costituzione è una specie di giacimento etico, politico e culturale per lo più sconosciuto, che possiede la singolare caratteristica di fondare in una visione unitaria i diritti umani e l’identità nazionale, l’articolazione autonomistica e l’apertura sopranazionale, la scuola come istituzione e il suo compito di ricerca, d’insegnamento, di garanzia e di promozione della persona".
(18) Cfr. L. Corardini – W. Fornasa – S. Poli (a cura di), Educazione alla convivenza civile. Educare istruire formare nella scuola italiana, Roma, Armando, 2003.
(19) Fra le altre educazioni indicate in tale percorso (che da sole non ne esauriscono il novero) troviamo: – Educazione stradale – E. all’ambiente – E. alla salute – E. alimentare – E. all’affettività; cfr. pure S. Chistolini (a cura di), Cittadinanza e convivenza civile nella scuola europea, Roma, Armando, 2006.
(20) Questa data, pur non costituendo più una Festa Nazionale, ricopre ugualmente un’innegabile valenza storica, tale da non poter comunque essere trascurata. Per il provvedimento che nel primo dopoguerra ne sancì per anni l’esistenza cfr. R.D.L. 23 ottobre 1922, n. 1354 – "Giorno 4 novembre, anniversario della nostra vittoria, è dichiarato festa nazionale e considerato festa a tutti gli effetti civili", in "G.U. del Regno d’Italia", 26 ottobre 1922, n. 252. Il Capo dello Stato durante il suo settennato al Quirinale ha costantemente rammentato come la vittoria della Grande Guerra per l’Italia abbia sancito un momento fondamentale, rappresentandone il compimento del "sogno risorgimentale". Nell’ultimo messaggio inviato in tale circostanza alle FF.AA., il Presidente Ciampi così si è espresso: "Nella storica ricorrenza del 4 novembre, Giorno dell’Unità Nazionale e Festa delle Forze Armate, desidero rivolgere un commosso pensiero a tutti gli italiani che hanno immolato la vita per il bene supremo della Patria, per la nostra libertà, per l’edificazione di uno Stato democratico e repubblicano, per la salvaguardia della pace tra i popoli. È nel loro imperituro ricordo che renderò omaggio alla sacre spoglie del Milite Ignoto, degno figlio d’Italia e di quella generazione che, proprio novanta anni or sono, iniziò l’ultimo conflitto del Risorgimento nazionale. […]". A questi ha fatto eco il Ministro della Difesa Antonio Martino: "Soldati, Marinai, Avieri, Carabinieri, il 4 novembre 1918, dopo quaranta mesi di durissime prove, l’armistizio di Villa Giusti chiuse la Grande Guerra. L’Italia uscì provata ma vittoriosa dal devastante conflitto. Il sacrificio dell’Esercito, sull’Isonzo, sul Carso, sul Pasubio, sull’Ortigara, sul Grappa, sul Piave; l’abnegazione della Marina, che assicurò il controllo dell’Adriatico; l’ardimento dei primi piloti, dimostrarono la tempra delle nostre Forze Armate. I terribili eventi del 1917 non piegarono i combattenti, che riuscirono ad impedire che il nemico dilagasse nella pianura padana. L’intero popolo si strinse intorno ai suoi soldati, che vinsero la decisiva battaglia di Vittorio Veneto. Con la Vittoria del 1918 l’Italia fu finalmente unificata e giunse a compimento il Risorgimento nazionale. […]".
(21) Cfr. Decreto Legislativo Luogotenenziale 22 aprile 1946, n. 185 – Disposizioni in materia di ricorrenze festive, in "G.U. del Regno d’Italia" del 24 aprile 1946, n. 96. All’art. 1 sta scritto: "A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale". L’espressione "totale liberazione", riferita alla data del 25 aprile 1945, in realtà, desta non poche perplessità. La tragedia giuliano-dalmata sembra che a suo tempo non fosse stata adeguatamente presa in considerazione, quasi che l’effettiva perdita di sovranità su ampie zone del territorio nazionale alla porta orientale d’Italia non rivestisse alcuna rilevanza.
(22) Cfr. L. 20 novembre 2000, n. 336 – Ripristino della festa della Repubblica il 2 giugno, in "G.U. della R.I." del 22 novembre 2000, n. 273. Cfr. altresì il Decreto Legislativo del Capo provvisorio dello Stato 28 maggio 1947, n. 387 – Dichiarazione di festa nazionale e di giorno festivo a tutti gli effetti civili del giorno 2 giugno 1947, primo anniversario del plebiscito popolare che ha instaurato la Repubblica Italiana in "G.U. della R.I." del 28 maggio 1947, n. 387 nonché la L. 27 maggio 1949, n. 381 – Disposizioni in materia di ricorrenze festive, in "G.U. della R.I." del 31 maggio 1949, n. 124.
(23) Cfr. G.U. della R.I. del 16 aprile 2004, n. 86.
(24) Cfr. G.U. della R.I. del 26 aprile 2005, n. 95.
(25) Cfr. G.U. della R.I. del 20 agosto 2002, n. 194. Da notare la coincidenza di questa data con l’anniversario dell’eccidio dei nostri militari a Nassiriya in Iraq nel 2003. La più grande tragedia per le nostre truppe all’estero dopo l’ultima guerra mondiale ha sinceramente ferito tutti i cittadini, che in quei cupi giorni hanno fatto sentire con partecipazione il loro affetto per coloro che in divisa, con onore e professionalità, ci rappresentano ovunque siano chiamati ad assolvere il loro compito. In quel frangente l’Italia s’è sentita toccata nel vivo, mostrando coesione ed orgoglio. "I caduti di Nassiriya nell’autunno 2003 – scrive Gennaro Malgieri a p. 12 nella prefazione al testo di F. Servello, Revisionismo. Memoria ritrovata Patria riscoperta, Roma, Koinè Nuove ed., 2005 – ci richiamarono improvvisamente e drammaticamente al principio pre-politico dell’appartenenza. Perciò ci stringemmo, senza distinzione di parte, a loro e tra noi per marcare, appunto, l’appartenenza a una comunità radicata in un patrimonio di valori morali e spirituali che definiscono un altro sentimento che per decenni non ha avuto cittadinanza in Italia: il patriottismo; sentimento che preesiste al riconoscimento della stessa idea di nazione". Sulle giornate appena successive all’attentato terroristico, solo per citare alcune testate nazionali, cfr. [AA.VV.], Strage di Italiani. Sei siciliani fra i 18 morti, in "Giornale di Sicilia", giovedì 13 novembre 2003, anno 143 n. 311, pp. 1-13; [AA.VV.], La strage degli Italiani, in "il Giornale", giovedì 13 novembre 2003, anno XXX n. 269, pp. 1-17; [AA.VV.], Strage di carabinieri, il dolore dell’Italia, "Corriere della Sera", giovedì 13 novembre 2003, anno 128 n. 269, pp. 1-18; [AA.VV.], La strage degli Italiani, in "La Stampa", giovedì 13 novembre 2003, anno 137 n. 311, pp. 1-16; [AA.VV.], L’Italia colpita al cuore, in "Il Messaggero", giovedì 13 novembre 2003, anno 125 n. 310, pp. 1-15. Questo il prezzo del nostro contributo alla pacificazione di un popolo che per troppi anni ha dovuto subire le cupidigie di un torbido tiranno. Pochi giorni dopo, sulle colonne de "il Giornale", si leggeva: "La Patria non è morta, stava male in salute ma l’abbiamo ritrovata, per fortuna. […]. L’Italia è in lutto ma non lascia il suo avamposto di civiltà e democrazia. Senza illusioni e senza avidità"; cfr. M. Cervi, La Patria ritrovata, in "il Giornale", sabato 15 novembre 2003, anno XXX n. 271, pp. 1-2. In ricordo di quell’infausta giornata (definita dal Ministro della Difesa come "uno dei giorni più tristi nella storia della Repubblica") lo scorso 12 novembre sono state concesse, durante una cerimonia svoltasi al Vittoriano, 19 croci d’onore alla memoria ai familiari dei caduti e 3 ai Carabinieri superstiti; cfr. P. Ciociola, Strage di Nassiriyah due anni dopo: dolore indelebile, in "Avvenire", domenica 13 novembre 2005, anno XXXVIII n. 269, p. 4. Fra i testi consultabili cfr. P. Agnetti, Nassiriya, Milano, Baroli, 2004; E. Conca S, Nassiriya, tragedia e orgoglio, Cagliari, Edizioni della Torre, 2005; R. Orza Palazzo, Gli angeli di Nassiriya, Gorizia, LEG, 2005. Triste si rinnova, a causa di un altro vile attentato, il cordoglio di tutti per l’uccisione, sempre a Nassiriya, di un ufficiale paracadutista della "Folgore" e di due sottufficiali dei Carabinieri il 27 aprile u.s.; cfr. [AA.VV.], Strage a Nassirya. Morti 3 Italiani. Le famiglie: No al ritiro, in "il Giornale", venerdì 28 aprile 2006, anno XXXIII n. 100, pp. 1-9.
(26) Cfr. G.U. della R.I., del 2 gennaio 1997, n. 1.
(27) Cfr. G.U. della R.I. del 31 luglio 2000, n. 177 – Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.
(28) Cfr. G.U. della R.I. del 13 aprile 2004, n. 86.
(29) Il ministro Letizia Moratti, a proposito dell’istituzione della "giornata della legalità", aveva concluso così il proprio intervento: "Una giornata che sia da stimolo a vivere nei nostri comportamenti quell’insieme di regole condivise che nascono dal rispetto degli altri e che diventano un contratto sociale per realizzare la migliore convivenza civile possibile. Ricordando che la legalità si realizza anche nei comportamenti e nei piccoli gesti quotidiani, nel rispetto dei propri compagni, nel rispetto delle strutture scolastiche che sono patrimonio di tutti, nel rispetto degli adulti, nel rispetto dell’ambiente. In questa giornata le scuole di tutta Italia, con una serie di eventi e di incontri, rifletteremo tutti assieme su questo valore profondo, chiamando a portare la loro testimonianza quanti ogni giorno operano per il rispetto della legalità e i parenti di coloro che nel nostro Paese hanno pagato con la vita la fedeltà alle Istituzioni e alle leggi" (cfr. http://www.istruzione.it). Cfr. AA.VV., L’educazione alla legalità, cit.; Associazione Nazionale Magistrati – Sezione Distrettuale di Palermo, La memoria ritrovata. Storia delle vittime della mafia raccontate dalle scuole, Palermo, Palumbo, 2005. Il D.M. n. 28 del 16 marzo 2006 prevede che tale giornata coinciderà col primo giorno di scuola di ogni anno. Tale decreto si snoda in 3 articoli, di cui l’ultimo adotta il c.d. "Manifesto Nazionale Cittadinanza, Legalità e Sviluppo".
(30) Sui rapporti fra sentimento nazionale e locale cfr. G. Nevola (a cura di), Altre Italie. Identità nazionale e Regioni a statuto speciale, Roma, Carocci, 2003.
(31) Da segnalare una serie di mostre annuali in vista del 150° anniversario dell’Unità con sede in Roma presso il Vittoriano; cfr. M. Breda, Otto secoli d’Italia. Le radici della nazione, in "Corriere della Sera", sabato 22 maggio 2004, anno 129 n. 121, p. 33.
(32) G. Deiana, Insegnare l’etica pubblica, Trento, Erikson, 2003, pp. 252-253.
(33) Tra i numerosi testi cfr. O. Bovio, Due secoli di tricolore, Roma, Ufficio Storico dello SME, 1996. Il Presidente Ciampi, com’è riportato a p. 234 di un testo a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Il tricolore. Il simbolo, la storia, Roma, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2005, ha affermato: "Il Tricolore non è una semplice insegna di Stato, è un vessillo di libertà conquistata da un popolo che si riconosce unito, che trova la sua identità nei principi di fratellanza, di eguaglianza, di giustizia. Nei valori della propria storia e della propria civiltà".
(34) Un importante fattore educativo per un migliore avvio alla socializzazione degli alunni è ricoperto delle attività extra-curricolari. "L’educazione alla libertà – si legge nel contributo di C. Nanni, L’educazione civica a scuola, in L. Corardini – G. Rrefrigeri (a cura di), op. cit., p. 345 – trova un suo momento e luogo privilegiato nelle attività extra-curriculari: quelle ludiche, quelle espressive, quelle formative. Qualcosa di simile avviene […] con la partecipazione a campagne civili o promozionali, sia all’interno che all’esterno della scuola, in quel tanto conclamato, ma non sempre attuato, interscambio tra scuola e territorio". Una scuola aperta e in contatto diretto con ciò che la circonda è un ottimo modo per avviare i ragazzi alla cittadinanza attiva e responsabile.
(35) Cfr. Presidenza della Repubblica Italiana, Viaggio in Italia. Discorsi e interventi del Presidente Carlo Azeglio Ciampi. 17 gennaio 2001 – 2 giugno 2002, Roma, Ufficio Stampa e Informazione della Presidenza della Repubblica, 2003; D. Pesole (a cura di), Carlo Azeglio Ciampi. Dizionario della democrazia, Milano, San Paolo, 2005. Per una lettura della storia repubblicana tramite l’ottica del Quirinale cfr. M. Staglieno, L’Italia del Colle 1946-2006. Sessanta anni di storia italiana attraverso i dieci presidenti, Milano, Baroli, 2006.
(36) Cfr. S. Raffaelli, I nomi delle vie, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 215-242.
(37) Cfr. M. Viroli, Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Roma-Bari, Laterza, 1995; G.E. Rusconi, Patria e repubblica, Bologna, Il Mulino, 1997; G. Nevola (a cura di), Una patria…, op. cit.; W. Barberis, Il bisogno di patria, Torino, Einaudi, 2004.
(38) Cfr. M. Pirina, Foibe, gli scomparsi della storia, in AA.VV., Memorie di sangue. Genocidi del ‘900, Rimini, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 2003, pp. 55-65. Il testo è la trascrizione degli atti di un convegno svoltosi a Piacenza il 21 febbraio 2002, in cui sono stati ricordati lo sterminio del popolo ebraico, il genocidio degli Armeni (su questa pagina storica cfr. F. Amabile – M. Tosatti, Mussa Dagh. Gli eroi traditi, Milano, Guerini e Associati, 2005) e il dramma delle foibe. All’inizio del brano l’A., rivolgendosi agli studenti, sente di dover fare un accenno ai libri di storia e alla sistematica esclusione di certi eventi non in linea con chi ha il potere di imporla: "È la storia di questi uomini che invece ritengo debba essere conosciuta, la storia scomparsa dalle pagine dei libri che nessuno vi dice che dovete conoscere, perché è una storia rimossa, perché la storia, quella che generalmente trovate nell’80-90% dei libri che sono negli scaffali delle biblioteche o delle librerie, è la storia dei vincitori, non la storia dei vinti, non la storia dei protagonisti che hanno subito. Allora, oggi io voglio dare parola a quelli che non ci sono e soprattutto rompere in maniera forte il silenzio dei vivi, perché il silenzio dei vivi è più tragico del silenzio dei morti che non possono più dire nulla". La puntigliosa ricerca con cui Pirina si è occupato negli anni del tema "foibe" è documentabile anche tramite altre pubblicazioni; tra queste, in riferimento all’espressione usata per designare la strage dei giuliano-dalmati, cfr. M. Pirina – A. D’Antonio, Genocidio… (Gorizia, Trieste, Pola, Istria, Fiume, Zara, Dalmazia), 4, Pordenone, Centro Studi e Ricerche Storiche "Silentes Loquimur", 1995.
(39) Cfr. G.U. della R.I., Serie Generale, anno 145° - n. 86, Roma, Martedì 13 aprile 2004. Tale legge è stata presentata alla Camera dei deputati dall’on. Roberto Menia il 26 ottobre 2001. La bozza è dunque stata assegnata alla I Commissione Affari Costituzionali, in sede referente, il 14 febbraio 2002, con pareri delle commissioni III, IV, V e XI. Esaminato il testo dalla Commissione il 26 e 27 febbraio; il 5, 6, 11 e 12 marzo; il 1° e 2 aprile; il 17 giugno 2003; il 3 febbraio 2004, il provvedimento è stato poi esaminato in aula il 4 e 10 febbraio 2004 ed approvato l’11 febbraio dello stesso anno. (Camera dei deputati, atto n. 1874). Per quanto riguarda l’altro ramo del Parlamento, il provvedimento è stato assegnato alla 1ª Commissione Affari Costituzionali, in sede referente, il 17 febbraio 2004, con pareri delle Commissioni 3ª, 4ª, 5ª e 7ª. Esaminato dalla Commissione il 25 e 26 febbraio; il 2 e 3 marzo 2004. Esaminato in aula, infine, il 4 e 11 marzo 2004 ed approvato il 16 marzo del 2004. (Senato della Repubblica, atto n. 2752).
(40) Cfr. MSc, Foibe, tutta l’Italia celebra la prima "Giornata del ricordo", in "il Giornale", giovedì 10 febbraio 2005, anno XXXII - n. 34, p. 8.
(41) Il discorso del Presidente è riportato per esteso in "Difesa Adriatica", marzo 2006, anno XII n. 3, p. 5.
(42) Ib., p. 1.
(43) (Rtg.), Ricordiamo insieme per non dimenticare mai più, in "La voce di Fiume", febbraio 2006, anno XL n. 32, p. 3.
(44) Sulla storia architettonico-monumentale della scuola cfr. S. Ricciardi, Vestigia di un regio monastero basiliano: il SS. Salvatore di Palermo, Palermo, Pezzino, 1988; Idem, Il Real Margherita di Palermo. Una scommessa scolastica nella Sicilia post-unitaria, Milano, Edizioni Ioppolo, 1993.
(45) La giornata è stata preceduta da una discussione dei docenti coi propri alunni il 10 febbraio; in un secondo momento, più classi sono state guidate alla visione di un documentario a cura dell’A.N.V.G.D. – Centro Studi "p. Flaminio Rocchi" dal titolo: Esodo. La memoria negata – l’Italia dimenticata (il filmato è stato posto all’attenzione del grande pubblico sul canale satellitare The History Channel alle ore 21 del 7 febbraio 2005, in replica il 10 febbraio alle ore 23), prodotto dalla Venicefilm e finanziato con i proventi della L. 16 marzo 2001, n. 72 – Interventi a tutela del patrimonio storico e culturale delle comunità degli esuli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, in "G.U. della R.I." del 28 marzo 2001, n. 73.
(46) E. Nuccio – C. D’Alessandro, Alla Provincia un incontro sulle foibe, in "Giornale di Sicilia", martedì 22 febbraio 2005, anno 145 n. 52, p. 30. Alla manifestazione hanno preso parte il presidente della Provincia Francesco Musotto, la prof. Gabriella Portalone dell’Università degli di Palermo ed il sottoscritto. Per quanto riguarda l’anno scolastico in corso, il "Regina Margherita" ha scelto di far incontrare gli studenti con alcuni esuli giuliano-dalmati invitando in Istituto, sia nelle succursali che nella sede centrale, nelle giornate del 9 e 10 febbraio i sigg. Lucia e Roberto Hodl (fratelli di Enrichetta, studentessa diciottenne infoibata a Fiume) e Gino Zambiasi (esule fiumano).
(47) Cfr. AA.VV., L’educazione tra solidarietà nazionale e nuova cittadinanza, Brescia, La Scuola, 1993. Il testo raccoglie gli Atti del XXXI convegno di Scholè del 1992, in cui diversi docenti universitari si sono confrontati sulla carenza del valore dell’identità nazionale negli Italiani, quella coscienza di "sentirsi parte" di una comunità accomunata da un patrimonio ideale, storico-culturale ed orientata allo stesso destino. In questo scenario si aggiunga la società attuale intesa come luogo dispersivo, frammentario e, ancora, la sua trasformazione in senso multiculturale e multietnico. Gli interventi posti si interrogano in che modo gli educatori possano intervenire per gestire questa situazione dalle conseguenze potenzialmente dirompenti per la stessa convivenza civile e democratica.
(48) Cfr. S. Romano, Italiani si diventa a cominciare dai banchi di scuola, in "Inserto speciale in occasione della Festa della Repubblica" allegato al "Corriere della Sera", sabato 1° giugno 2002, p. I. Nello stesso foglio sono altresì affrontati la storia della bandiera e dell’inno nazionale, l’evoluzione dello stendardo presidenziale e si presentano gli stemmi araldici delle FF.AA. (cfr. ib., pp. II e III). A pagina IV, infine, Renato Mannheimer presenta, con un articolo introduttivo intitolato Gli Italiani, il risultato di un interessante sondaggio, da cui emerge che alla domanda: "In generale, in che misura Lei si sente orgoglioso di essere cittadino...", ben l’88% degli Italiani si ritiene orgoglioso di esserlo. Positiva è altresì la percezione di sentirsi cittadino europeo (l’80%). Al quesito-stimolo: "Per Lei la bandiera italiana è soprattutto…", gli intervistati all’84% hanno risposto: "Il simbolo della nazione". Sull’inno di Mameli si sono poste due domande: "In che misura pensa di conoscere l’inno nazionale?" e "Le piace l’inno nazionale?". Alla prima il 34% della gente ha risposto che lo conosce a memoria, il 52% che ricorda la musica e qualche parola; alla seconda, invece, la somma di coloro cui piace molto e/o abbastanza l’inno raggiunge una percentuale di consensi pari all’83%. Sempre sull’ultima pagina si accenna anche all’emblema ufficiale dello Stato (l’iter che condusse la giovane Repubblica ad avere il suo simbolo vide il costituirsi di un’apposita Commissione speciale, presieduta da Ivanoe Bonomi ed i cui componenti furono i deputati: Candela, Cevolotto, Condorelli, Giannini, Guidi Cingolani Angela, Lussu, Maffi, Mazzoni, Pieri e Russo Perez. In un testo della Camera dei Deputati, 50° anniversario della Repubblica Italiana. Dalla Consulta alla Costituente, Roma, Ufficio atti e pubblicazioni, 1996, a p. 62 si legge: "Il 27 ottobre 1946 un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri aveva promosso un concorso per l’emblema della Repubblica. Nessuno dei progetti presentati fu accolto dalla Costituente, che promosse un nuovo concorso, al termine del quale venne adottato il bozzetto di Paolo Paschetto - votazione del 31 gennaio 1948. Al concorso pervennero 197 disegni e parteciparono 96 persone, fra cui artisti affermati e persone di umile condizione". Sia il bozzetto originale che la relativa documentazione dell’emblema statale si trovano adesso presso l’Archivio Centrale dello Stato - ACS. Su quest’ultimo punto cfr. D. Lgs. del Capo provvisorio dello Stato 5 maggio 1948, n. 535 – Emblema della Repubblica). Sulle origini repubblicane inoltre cfr. ACS (a cura di), La nascita della Repubblica. Mostra storico-documentaria, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri – Direzione generale delle informazioni, dell’editoria e della proprietà letteraria, artistica e scientifica, 1987; RAI-EDUCATIONAL, L’alba della Repubblica, opera in CD-ROM, Roma, 1998. È certo merito del Presidente Ciampi se la festa del "2 Giugno" così come la riscoperta del Vittoriano e di tutti i "simboli della Repubblica" (cfr. http://www.quirinale.it) sono tornati ad aggregare tanti cittadini al senso del patriottismo, conquistando lucidi consensi e la passione civica della maggioranza degli Italiani.
(49) Cfr. L. 27 maggio 1949, n. 260 – Disposizioni in materia di ricorrenze festive, in "G.U. della R.I." del 31 maggio 1949, n. 124.
(50) Cfr. F. Rocchi, L’esodo dei 350 mila Giuliani Fiumani e Dalmati, Roma, ed. Difesa Adriatica, 1998; G. Ooliva, Profughi. Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia, Milano, Mondadori, 2005. Numerose e sparse le comunità degli esuli in più parti del Paese, soprattutto quella laziale e in special modo quella di Roma; cfr. Associazione per la Cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio – Archivio Museo Storico di Fiume, Il villaggio giuliano-dalmata di Roma. Cronaca e storia di uomini e fatti (1947-2003) – Atti del convegno di studi del 19 dicembre 2003, Roma, 2003; R. Fidanza, Storia del quartiere giuliano-dalmata di Roma, opera in Cd-rom, Roma, Drengo, 2003; M. Micich, I Giuliano-Dalmati a Roma e nel Lazio. L’esodo tra cronaca e storia (1945-2004), Roma, Associazione per la cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio – Archivio Museo Storico di Fiume, 2004. Sull’origine del quartiere giuliano-dalmata di Roma all’E.U.R. cfr. Ministero dei Lavori Pubblici – Consiglio Superiore, Opere Pubbliche del Regime: il villaggio per le maestranze dell’esposizione universale di Roma, in "Annali dei lavori pubblici", Roma, Istituto poligrafico dello Stato, anno LXXX - fasc. n. 3, marzo 1942 - a. XX E.F, pp. 172-173. In questo quartiere sorge l’"Archivio Museo Storico di Fiume" che, insieme al "Museo della Civiltà Istriano-Fiumano-Dalmata" di Trieste, è ufficialmente riconosciuto dall’art. 2 della L. 92/2004.
(51) Cfr. il testo della discussione del progetto di legge Menia sul sito http://www.robertomenia.it.: Concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati – Seduta n. 857 del 12 febbraio 2001. Qualcuno potrebbe ideologicamente porre l’accento sulla matrice partitica del deputato proponente un simile provvedimento. A questi basta rammentare, dunque, che come recita l’art. 67 della Costituzione: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione (…)".
(52) Numerosi e marcatamente segnati da una precisa matrice politico-ideologica la maggior parte dei testi che andrebbero riscritti, soprattutto relativamente a simili pagine. Fra questi è attualmente possibile scorgere nient’altro che un piccolo campionario di strane "dimenticanze", di vaghi accenni o di grossolane inesattezze. Sul punto cfr. anche A. SGHERRI, L’editoria scolastica e la questione adriatica nel quadro del progetto "Storia del ‘900", in P.C. Hansen (a cura di), Il confine orientale nel Novecento, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, 2003, pp. 13-15; A. Fares, L’editoria scolastica e la questione adriatica, in ib., pp. 17-33. In un’intervista al prof. Mauri, decano dell’Università Statale di Milano, veniva chiesto un parere sulla recente istituzione della L. 92/2004. Il docente così avanzava due considerazioni: la prima, che le foibe non furono un eccidio contro fascisti o comunisti ma un genocidio per slavizzare quelle terre; la seconda, invece, dava un seguito alla seguente domanda: D. "Ora i nostri libri di scuola aggiungeranno finalmente un capitolo?" – R. "Se non saranno ancora monopolio di autori politicamente schierati come fino a oggi, sì"; cfr. L. Bellaspiga, La Giornata di tutti gli italiani, in "Avvenire", mercoledì 17 marzo 2004, anno XXXVII n. 65, p. 11.
(53) Cfr. F. Salimbeni, Istria. Storia di una regione di frontiera, Brescia, Morcelliana, 1994.
(54) Cfr. G. Benedetti, Il giorno delle foibe. Ciampi: ricordi, non rancori, in "Corriere della Sera", giovedì 10 febbraio 2005, anno 130 n. 34, p. 11. Nell’articolo è possibile rintracciare anche il parere del Presidente del Consiglio dei Ministri Silvio Berlusconi, che ha dichiarato: "Solo il ricordo di ciò che copre di vergogna l’essere umano può impedire di ripercorrere la stessa strada dell’odio e di generare i medesimi mostri, è per questo che nessuna delle pagine della nostra storia può essere cancellata, anche se il ricordo provoca turbamento, dolore, vergogna". Nello stesso foglio, sempre sul "10 febbraio", l’opinione dell’on. Piero Fassino (DS): "Una pagina dolorosa della storia italiana, troppo a lungo negata e colpevolmente rimossa. Nelle foibe morirono donne e uomini colpevoli soltanto di essere Italiani. E l’esodo fu l’espulsione di massa di una intera comunità, con l’obiettivo di sradicare l’italianità di quelle terre". Non è ovviamente mancata la dichiarazione del Presidente del Senato, com’è agevole leggere in G. Galezzi, Nel giorno delle foibe accuse a Toglietti e a De Gasperi, in "La Stampa", venerdì 11 febbraio 2005, anno 139 n. 41, p. 2, che sul tema ha aggiunto: "Un caso non unico nella storia; si tratta di una pagina tragica che una legge ha deciso giustamente di riesumare. La storia, almeno quando è buona storiografia, è uno strumento di conoscenza e non un mezzo di lotta politica, affinché le gravi, drammatiche ed anche gravi divisioni di ieri non tornino a dividerci oggi". Cfr. anche C. Magris, La memoria senza ossessione, in "Corriere della Sera", giovedì 10 febbraio 2005, cit., pp. 1/35; F. Biloslavo, Foibe, l’Italia celebra il giorno della verità, in "il Giornale", venerdì 11 febbraio 2005, anno XXXII n. 35, p. 10.
(55) Cfr. le ragioni degli esuli tra le colonne della collezione del periodico mensile "Difesa Adriatica - Centro Studi p. Flaminio Rocchi", organo dell’A.N.V.G.D. (per una sintesi recentemente data alle stampe cfr. L. Toth, Perché le foibe: gli eccidi in Venezia Giulia e in Dalmazia 1943-1950. I fatti e la loro interpretazione nella storiografia e nella politica, allegato al n. 2, febbraio 2006, di "Difesa Adriatica"), ma anche quella de "L’Arena di Pola" o de "La Voce di Fiume".
(56) Il paragrafo ricostruisce stralci della vita dell’agente di Pubblica Sicurezza Luigi Bruno, scomparso nel maggio del 1945 a Fiume in seguito all’arresto compiuto dai partigiani comunisti titini. Una breve parte della presente testimonianza è già stata resa pubblica in M. Pirina, Dalle foibe…all’esodo 1943-1956, Pordenone, Centro Studi e Ricerche Storiche "Silentes Loquimur", 5, 1996, pp. 304-306.
(57) Cfr. M. De Marco, La Pubblica Sicurezza sul confine orientale 1938-1945. Inediti di una tragedia annunciata, Gorizia (?), s.a. Il testo, scritto da un agente della Polizia di Stato, è reperibile tramite il sito http://www.tuttostoria.it. Esso tratta delle vicende riguardanti la provincia isontina, ma offre un buon contributo alla ricostruzione dell’azione del corpo nella zona del confine orientale. Per una breve inquadratura storica della Pubblica Sicurezza cfr. ib., pp. 8-36; R. Amato, La Polizia Italiana. Aspetti storici ed istituzionali, Palermo, ed. Sophia, 1977.
(58) In una pubblicazione degli Archivi di Stato su Fiume nella seconda guerra mondiale a cura di A. Ballarini e M. Sobolevski, Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947), Roma, Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per gli Archivi, 2002, frutto della collaborazione di studiosi italiani e croati, è possibile venire a conoscenza del questore Giovanni Palatucci (in servizio a Fiume dall’aprile alla fine di luglio del 1944, poi deportato a Dachau ed ivi deceduto il 10 febbraio 1945) e della difficile situazione del suo ufficio. A p. 67, a proposito della Questura, leggiamo quanto scritto dallo stesso: "Animato da senso del dovere e spirito di sacrificio, assunsi, nel principio dell’aprile decorso, la direzione della Questura, senza una parola di incoraggiamento o una direttiva del Centro. Eppure avevo raccolto, sia detto senza la minima intenzione d’attacco contro chicchessia, un’eredità onerosa. […] Si trattava di un organismo esautorato nei poteri e depauperato nei mezzi, scosso nel prestigio presso le autorità italiane e germaniche, con i servizi solo parzialmente efficienti e con una compagine disciplinare incrinata. […]". Sul personale Palatucci annotava: "Gli Agenti da lunghi mesi disarmati, intristiti nella ordinaria amministrazione più piatta, scoraggiati da continue angherie da parte germanica, durante lunghi mesi, avevano perduto il gusto del lavoro […]. Non si lamentano, in verità, casi di diserzione, o esempi gravi di indisciplina […]. Si sono tuttavia manifestate nel loro seno, forze centrifughe, eccessivo spirito di critica e quasi controllo sull’andamento della Questura; insomma una specie di tendenza alla socializzazione dei poteri, frutto pernicioso della disfatta […]". Tesi i rapporti con i Tedeschi, come si evince da p. 68: "A tale scopo, fin dall’aprile decorso mi adoperai nel modo più fattivo, per istituire rapporti di comprensione e di fiducia con le Autorità germaniche, civili e di Polizia, da cui mi ripromettevo anche un appoggio materiale che avrebbe ben potuto essere considerato un indennizzo delle gravi perdite a noi inflitte, con la sottrazione, avvenuta sin dal decorso settembre di armi, munizioni ed automezzi […]; è oggi compito estremamente delicato tenere compatta e disciplinata la compagine degli Agenti della Questura di Fiume. In questa lotta asprissima, serrata, talvolta estenuante, pur potendo contare sulla prima solidarietà di tutti di tutti i colleghi sono stato assolutamente solo […]". Alla nota 73 di p. 68 è riportato l’elenco dei nominativi dei sottufficiali ed agenti di P.S. alla Questura fiumana al giugno 1944. In tutto 134 persone, fra cui 12 impegnati presso l’Ufficio Ferrovia, ove prestava servizio Luigi Bruno. La scheda personale del Nostro è consultabile nello stesso testo a p. 311.
(59) La storia di Luigi Bruno e di molti agenti di P.S. si associa a quella di altri militari (Carabinieri, Finanzieri, Guardie alla Frontiera, Militi della M.D.T., etc.) imprigionati, torturati e/o infoibati perché rappresentanti di quell’Italia che i titini nel loro sanguinoso progetto di pulizia etnica detestavano più di ogni altra cosa. Di seguito, solo a scopo di rendergli omaggio con una citazione, si riportano i nomi degli altri Poliziotti scomparsi a Fiume nelle stesse circostanze del Nostro: Atzori Francesco - Avallone Raffaele - Azzaro Salvatore – Bartolomeo Salvatore - Blanchet Gennaro – Bolognini Dino - Buffalini Augusto - Castriota Cosimo - Chiavelli Amelio - Cipolla Salvatore – Cirillo Guglielmo - Coniglio Filippo - Conti Giannino - Corbo Bruno - Corbo Giuseppe - Cozzella Luigi - De Benedetto Ernesto - Delle Fontane Giuseppe – Di Giacomo Salvatore – Ferrara Giovanni - Fiorentini Antonio - Frongia Giuseppe - Ganzardi Ettore - Grillo Edoardo - Grossetti Domenico - Innocenti Ettore - Laruccia Vito Mario - Lazzarini Angelo - Lenzi Ezechiele - Manno Barnaba - Marsala Gaetano - Melosu Ignazio - Minerva Matteo - Murgolo Giuseppe - Nesti Giovanni - Nicoletti Tullio - Nicotra Mario - Olivieri Antonio – Panettoni Secondo - Pirrello Antonio – Pissi Edoardo - Puglisi Antonio - Ranni Antonio - Riccio Aquino – Romagnuolo Fernando - Rosati Filippo – Rutigliano Tommaso - Salvatore Antonio - Santamaria Nicola - Sarcina Luigi - Scaffetta Luigi - Sforza Giovanbattista – Sperduti Francesco - Tamantini Fabio - Valente Guido - Vendegna Mario - Verducci Vincenzo - Zamo Umberto - Zanini Bruno - Zito Mario; l’elenco dei caduti appartenenti alla P.S. in servizio a Fiume ed uccisi dopo il 3 maggio 1945 è tratto da M. Pirina – A. D’Antonio, Genocidio…, op. cit., pp. 138-139.
(60) Il foglio di via con cui si consentiva alla famiglia Bruno di lasciare definitivamente Fiume è datato 9 novembre 1945; esso concedeva appena quattro giorni per effettuare il cambiamento di residenza e in calce non si mancava di marcare il testo con l’espressione bilingue: "Morte al fascismo – Libertà ai popoli / Smrt fasizmu – Sloboda narodu!".
(61) Fra i tanti documenti che Anna Maria Bruno (classe 1938, insegnante in pensione) conserva vi è anche l’attestato di studio relativo al 1° anno rilasciato dalla direzione della Scuola elementare di Fiume, sita allora in p.zza Cambieri (A.S. 1944-45). Benché questa pagella sia stilata in Italiano occorre sottolineare come il momento di transizione rispetto alla sovranità sia anche in esso abbastanza evidente già alla data del 6 luglio 1945; l’intestazione del certificato, infatti, non riporta più lo stemma statale italiano ma una grossa stella rossa, alla cui base sta scritto: "Comitato Popolare di Liberazione – Sezione Culturale di Fiume".
(62) Al verbale seguirà una dichiarazione rilasciata il 7 ottobre 1948 dal Comando Provinciale Guardie di P.S. di Caltanissetta in cui si certifica che: "la Guardia scelta di P.S. Bruno Luigi fu Vincenzo, in data 4/5/1945 è stato dato irreperibile, come da Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Interno n. 11 dell’1/11/1946".
(63) Varie e tutte finalizzate a far rivivere la figura paterna le iniziative poste in essere dalla figlia di Luigi, fra queste anche una lettera al Presidente Ciampi, datata 18 marzo 2001. In essa la signora auspicava che venisse istituito anche per i martiri delle foibe un giorno di pubblica memoria. Seguiva ad essa la risposta del Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica (Ufficio per gli Affari Militari – Pos. n. UM/85866 del 30 marzo 2001), in cui si rassicurava la signora che nessun oblio avrebbe offuscato la memoria dei tanti nostri connazionali travolti in quel tragico periodo, "tant’è che nella sua visita a Trieste (23-24 febbraio 2000) il Capo dello Stato ha inteso rendere omaggio a tutte le vittime delle foibe andando personalmente a deporre una corona presso il Monumento Nazionale della foiba di Basovizza". La lettera si concludeva con la seguente considerazione: "Per quanto riguarda la sua idea di una giornata della memoria valutata senz’altro meritevole di attenzione, la stessa potrà essere eventualmente esaminata nel merito dal nuovo Parlamento dopo il suo pieno insediamento alla conclusione delle prossime consultazioni elettorali". Le Camere della XIV legislatura hanno in effetti coronato un’attesa durata troppi anni, riconoscendo la data del 10 febbraio come "Giornata del ricordo" con la succitata L. 92/2004; in applicazione all’art. 3, i congiunti degli infoibati, a richiesta, hanno diritto ad un diploma (su cui sono citate: Gorizia - Trieste - Fiume - Pola - Zara) ed una medaglia sulla cui parte frontale sta scritto: "PRO PATRIA"; sul retro, invece: "La Repubblica italiana ricorda" (insieme all’anno a cui si riferisce il fatto ed ovviamente il nome della persona scomparsa). / Sulla firma del "Trattato di pace" di Parigi del 1947, con cui l’Italia cedeva la propria sovranità su quelle terre, cfr. M. Pirina, Dalle foibe…, op. cit., pp. 338-341; I. Montanelli – M. CerviI, Guai ai vinti in L’Italia della Repubblica, Milano, Rizzoli, 1985, ora in Storia d’Italia 1943-1948, Milano, Edizioni del Corriere della Sera, 2004, pp. 344-365. La questione dei territori giuliani verrà definitivamente chiusa il 10 novembre del 1975 col "Trattato di Osimo". Fra le numerose opinioni consultabili su "Parigi-1947" e su "Osimo-1975" cfr. V. Crisafulli, Fra Patria ed europeismo. Valori obliati, verità conculcate, Palermo, Edizioni Thule, 1984, pp. 37-60. Nella prefazione a questo breve saggio il prof. Giuseppe Tricoli ricordava a p. 9 come quella dell’A., caustica, amara e schietta, fosse "un’utile testimonianza per la conoscenza del sistema del valori morali e politici della generazione dei vinti, [tesa ad] una più alta comprensione delle ragioni dell’ultima ed autentica generazione risorgimentale italiana".
Nei secoli passati lo spirito dei siciliani sembrò spesso incline al fascino della cultura inglese, così come gli inglesi, popolo di viaggiatori e non soltanto di colonizzatori, furono attratti dalle bellezze della Sicilia e dalle sue tradizioni folcloristiche spesso descritte nei loro libri come, per esempio, risalta dal testo di William Henry Thompson, un viaggiatore dell’Ottocento.(1)
Così, anche in campo pedagogico, quando finalmente il governo borbonico comprese che sarebbe stato salutare provvedere all’istruzione del popolo, le attenzioni dei pedagogisti siciliani furono rivolte al metodo educativo dei pedagogisti inglesi, prima del Locke e del Lancaster successivamente. Ci riferiamo agli anni compresi tra l’ultimo decennio del Settecento e il primo trentennio dell’Ottocento.
È ben noto quale fosse il quadro politico e socio-culturale di quel tempo sia dell’Europa che dell’Italia tutta; se poi guardiamo, in particolare, la situazione dell’Italia meridionale dopo la ventata napoleonica e post napoleonica, essa appare particolarmente complessa sia per l’azione di governo, non certamente illuminata, dei sovrani borbonici, sia per la presenza di un controllo protettivo inglese nell’area mediterranea e specialmente in Sicilia dove, di fatto, un contingente inglese si era insediato esercitando sia direttamente che indirettamente la propria influenza in tutti i campi: politico, economico, sociale e culturale. Gli inglesi, d’altra parte, avevano trovato nell’isola una situazione a loro favorevole poiché i rapporti tra la nobiltà siciliana e il governo borbonico partenopeo erano sempre carichi di tensione. La vecchia aristocrazia isolana non voleva rinunciare in alcun modo al suo potere feudale e quindi si opponeva a qualsiasi azione riformatrice del sovrano anche se volta al miglioramento delle condizioni dell’Isola.
Lo stato di abbandono delle terre, l’assenza di strade e di vie di collegamento tra le città e i centri urbani, le precarie condizioni in cui venivano lasciati i porti, e il conseguente stallo degli scambi commerciali, così resi impossibili, facevano della Sicilia una terra povera e stagnante: Messina era l’unica eccezione. Il popolo continuava a vivere nella miseria, nell’analfabetismo e in condizioni igienico-sanitarie degradanti e mancava la manodopera specializzata proprio in un momento in cui, altrove c’era il fermento delle innovazioni tecniche nel campo del lavoro.
La Sicilia languiva sempre più assopita nell’arretratezza a cui era costretta da una classe aristocratica chiusa nell’immobilismo e nelle tradizioni stantie, paurosa di perdere vecchi privilegi con l’arrivo del nuovo e non si accorgeva che, così facendo, sarebbe stata travolta dal cambiamento che, suo malgrado, sarebbe giunto ugualmente.
Perfino i sovrani borbonici, quando furono costretti dall’arrivo dei francesi a rifugiarsi a Palermo, notarono una grande differenza con la società napoletana e la regina giudicava, incivile e retrogrado l’ambiente palermitano.
Soltanto pochi aristocratici auspicavano un cambiamento convinti che la condizione di abbandono in cui versava l’isola, avrebbe impoverito col tempo anche loro. La maggior parte dei nobili, infatti, ancorchè colti e liberali, si limitava a ricercare nell’agricoltura le ricchezze necessarie alla vita agiata. Nessun investimento veniva fatto per migliorare lo stato della terra in gran parte impoverita; i sistemi di coltivazione erano arretrati così come quelli dell’estrazione dello zolfo dalle miniere, per non parlare del trasporto di quest’ultimo fino alle navi; anche questa risorsa che sarebbe potuta diventare fonte di ricchezza, era ridotta a causa dei costi eccessivi nonostante l’alta richiesta che ne veniva fatta dai vari paesi europei, per essere utilizzata come combustibile per alimentare le macchine a vapore. La Germania e la Francia disdissero ogni contratto e volsero la preferenza all’acquisto del carbone; soltanto l’Inghilterra continuò ad acquistare lo zolfo perché nel primo ventennio dell’Ottocento aveva fatto degli investimenti in Sicilia per migliorare le condizioni di alcuni porti per rendere possibile l’attracco delle navi. Bisogna osservare anche che l’isola non era stata travolta dall’ondata napoleonica come gli altri stati europei e, quindi, era rimasta lontana dal germogliare delle nuove esperienze, delle nuove idee e delle nuove scoperte. In questo contesto non va dimenticato che si andava formando una piccola classe borghese, intellettuale più che economica, i cui esponenti giudicati come i "giacobini" della Sicilia, furono spesso costretti ad andare in esilio e quando nel 1812, la loro patria potè finalmente darsi una costituzione autonoma, sul modello di quella inglese, con l’appoggio di Lord William Bentinck, essi rappresentarono nel Parlamento siciliano i democratici, "e anticiparono, prima e durante la inquieta stagione dei moti del 1820-21, quella fine del sicilianismo che avrebbe trovato concorde la stragrande maggioranza dei siciliani, alimentandone la italianità, dopo il fallimento della Rivoluzione del 1848".(2)
In questo clima fermentava la voglia di autonomia dei siciliani dal governo di Napoli. In tale quadro va ricordata la posizione della Chiesa, l’altra grande potenza economica dell’Isola, i cui beni erano resi più produttivi e il ricavato veniva destinato non solo alle esigenze del culto ma alle molteplici opere assistenziali e caritatevoli verso i bisognosi; ciò costituiva parte della ricchezza dell’economia isolana quando non cadeva nelle mani di profittatori o di amministratori poco onesti.
Gli Ordini Religiosi e le Opere Pie, per quanto fossero sinceramente impegnati nell’offrire sostegno economico, oltre che spirituale, alle classi più povere, non riuscivano, spesso, a causa di un’insufficiente amministrazione a risolvere i problemi alla radice; i religiosi, inoltre, si dedicavano a impartire un’istruzione di base al popolo abbandonato all’analfabetismo.
Alla fine del XVIII secolo sembrava che vi fosse un certo interesse per risolvere quest’ultimo problema. Se nel passato non ci si era troppo preoccupati dell’istruzione in Sicilia, ci si rendeva conto che era arrivato il momento di gettare le basi di un percorso formativo che permettesse anche al popolo di avere una formazione e un’istruzione di base. Era necessario non più soltanto educare, bensì istruire il popolo e renderlo capace di diventare soggetto dei processi produttivi. Inoltre, i Gesuiti erano gli unici che garantivano un’istruzione ai più abbienti, oltre all’educazione religiosa e spirituale, che però non veniva molto ben vista dalle classi dirigenti, per motivi politici e culturali. L’istruzione pertanto, veniva considerata, dai contadini, come un privilegio delle classi aristocratiche.
Alla fine del Settecento, con un decreto del 21 marzo del 1788, il Vicerè, principe di Caramanico, diede l’incarico a G. A. De Cosmi di istituire le scuole normali in Sicilia. Veniva fatto così il primo esperimento di scuole popolari in Sicilia con l’attuazione del metodo di De Cosmi che venne eletto direttore delle scuole primarie. Egli era stato molto influenzato dalle dottrine filosofiche del Locke; uno dei suoi principali obbiettivi era quello di rivolgere ai giovani fanciulli il suo insegnamento basato su una dottrina filosofica necessaria, a suo parere, ai maestri e ai direttori per "iscuoprire la dominante abilità di ciascun figliuolo, e per coltivarla a preferenza dell’altre; acciocchè la numerosa gioventù sappia scegliere o nel foro, o nella medicina, o nella chiesa o nella negoziatura, o tra le arti liberali, o tra le manuali, dove meglio potrà impiegarsi".(3)
De Cosmi, che si era dedicato allo studio di discipline pedagogiche, filosofiche e teologiche, fu accolto con fervore dai siciliani desiderosi di un rinnovamento nel campo dell’istruzione. Egli aveva avuto modo di conoscere a Napoli il metodo normale tedesco, sotto la direzione di due maestri, il Vuoli e il Gentile, entrambi Padri celestini e si adoperava per espressa volontà del re di far si che i fanciulli apprendessero "una generale, gratuita, e simultanea istruzione nella lettura, nella maniera di scrivere, nell’aritmetica e nel catechismo: quattro cose di prima necessità nelle scuole".(4)
Il vicerè di Sicilia, con un "rescritto" del 20 ottobre del 1791, autorizzava l’applicazione, nelle scuole, del metodo elaborato da De Cosmi, anzi incaricava quest’ultimo di adoperarsi in quest’impresa, "come in cosa di pubblica espettazione ed utilità".(5)
De Cosmi cercava di attuare un metodo semplice, che non facesse stancare i fanciulli e permettesse loro di apprendere facilmente le nozioni di base dell’aritmetica e dello l’italiano per superare quelle difficoltà che avrebbero reso più complicato l’apprendimento delle materie insegnate. Soprattutto l’aritmetica veniva considerata da De Cosmi come la metà o poco più dell’istruzione.
De Cosmi si preoccupò altresì di applicare il metodo analitico alla grammatica italiana e latina e di limitare il numero di fanciulli nelle classi cosicchè essi potessero apprendere meglio le lezioni.
Molti erano gli scritti pedagogici che formavano il corpo della sua opera più importante: Elementi di filologia italiana e latina: la lingua italiana era considerata dal pedagogista l’elemento primario per la comprensione e la manifestazione del pensiero umano. Anche se De Cosmi era venuto a contatto con il pensiero di Rousseau e di altri pedagogisti, è all’opera di John Locke, (Pensieri sull’educazione) che guarda quando divide il processo didattico in due momenti corrispondenti alle operazioni mentali indicate da Locke come fonti dell’esperienza: la sensazione e la riflessione. Il primo momento veniva chiamato da De Cosmi, quello della nomenclatura in quanto: "stato per così dire passivo della nostra anima" e a sua volta suddivideva il secondo in due ulteriori momenti corrispondenti al manifestarsi delle due facoltà "la giudiziaria" e "la ragionatrice", ossia la facoltà del giudizio e del ragionamento, e applicava il metodo dei principi generali del discorso per espletare il procedimento didattico.(6)
Il metodo d’apprendimento per ogni disciplina, ma ancor più per la sfera linguistica doveva procedere dall’analisi verso la sintesi, percorrendo anche qui la via del Locke: il discente doveva riconoscere le parti del discorso esaminandone le diversità e le concordanze e doveva imparare a scrivere sotto la dettatura delle proprie sensazioni e dei propri sentimenti e non in maniera meccanica; egli doveva leggere con lo scopo di educare l’anima e la mente. Come conseguenza a questo processo, alle classi del leggere e dello scrivere dovevano succedere due classi normali di insegnamento.
De Cosmi proponeva ai maestri italiani un metodo nuovo, smantellando i vecchi sistemi educativi tradizionali.
La lingua italiana rivestiva un ruolo fondamentale nell’educare lo scolaro non soltanto per facilitare l’apprendimento della lingua latina ma perchè via via gli scolari si impadronissero del linguaggio come strumento per superare quell’ignoranza che adombrava le masse popolari.
De Cosmi promulgava un’istruzione allargata a tutte le fasce della popolazione dalla più alta alla più povera, e nel farlo propendeva per un’istruzione che fosse utile, nel senso più ampio del termine, e non più formale esercizio astratto.
Si trattava di un nuovo modello scolastico, che adottava programmi di stato, che era diverso da quello tradizionale, basato sull’istruzione precettistica. Appariva, quindi, come una scuola nazionale e pubblica.(7)
Ormai era chiara l’esigenza di promuovere un’istruzione allargata a tutte le classi sociali e non più ristretta soltanto ad una fascia elitaria di popolazione.(8)
Convinto, come egli stesso afferma, dell’impossibilità di attuare un metodo duraturo e definitivo nel tempo, tuttavia De Cosmi espresse chiaramente il suo invito a "faticare come per maniera di provisione sul piano presente per osservarne i vantaggi, e gli svantaggi, e per tentare i possibili miglioramenti".(9)
Egli aveva cercato di condurre l’impresa in maniera decisa ma entrò in contrasto anche con i Padri Celestini per rivendicare l’autonomia scolastica della Sicilia. Comunque, sorsero nell’Isola molte scuole normali, grazie all’intervento dei Municipi siciliani e dei Gesuiti che finanziarono le scuole normali di Palermo, Catania e Messina.
G. A. De Cosmi morì nel 1810; fu molto elogiato per avere riformato la scuola e gli vennero riconosciuti molti meriti.
Intanto l’interesse per l’educazione del popolo siciliano si accresceva: ciò è dimostrato dal fatto che il Parlamento siciliano di sua iniziativa, durante l’ultima seduta della sessione dell’anno 1812, durante la quale si votava per una nuova costituzione e si riordinava il Parlamento sul modello inglese, stanziò la cifra di once 400, considerevole per quei tempi, per premiare il cittadino che fosse stato in grado di presentare un piano di pubblica istruzione che rispondesse alle esigenze indicate nel bando emanato dal Parlamento: un piano che doveva rimanere nella memoria della popolazione.
Era necessario attuare riforme per le scuole, per i collegi e per l’ordine delle accademie civili e militari.
Alla gara parteciparono G. E. Ortolani, S. Termini, N. Lisi, Ignazio Roberto di Troina e F. Paternò Castello di Carcaci ed anche un autore anonimo presentò un progetto.
In linee generali, gli autori dei progetti propendevano per un’educazione e un’istruzione di massa, liberale, obbligatoria, pubblica, che servisse a formare individui, in grado poi di contribuire concretamente al benessere della Sicilia.(10)
Questi progetti, in realtà, non vennero presi in grande considerazione dal Parlamento che nel 1815, considerò le spese per la pubblica istruzione fra quelle meno impellenti; in quell’anno, le scuole normali, in Sicilia, non erano molte e solo alla fine del secondo decennio la situazione sembrò migliorare perchè si apportarono sostanziali modifiche alla normativa scolastica, a favore dell’istruzione e del metodo del De Cosmi.
A Palermo furono chiamati i maestri che insegnavano nelle scuole comunali di Monreale, con lo scopo di far loro apprendere il metodo normale per poi spiegarlo agli insegnanti delle altre scuole. Si trattava di una vera e propria istituzione della istruzione dei maestri.(11)
Non si trattava soltanto di ideali ma bisognava attuare quelle condizioni necessarie affinchè l’educazione coinvolgesse anche quella parte del popolo che si lamentava della carente istruzione, fino ad allora impartita ai propri figli. Era necessario incrementare delle istituzioni solide e pubbliche marginalizzando quelle private che avevano dominato il campo dell’educazione, fino a quel momento.
Le scuole primarie e secondarie erano, in genere, finanziate dai comuni altre invece erano a carico dell’Università o della Deputazione degli Studi di Palermo(12). Altre, come quelle di Leonforte, Palma e S. Mauro, venivano finanziate dai Padri Scolopi e quelle di Castiglione, Taormina, Petralia Sottana, Milazzo erano sostenute da benefattori privati.(13) I problemi economici e gestionali delle amministrazioni, complicavano la già difficile situazione scolastica siciliana. Frattanto, nel 1816 Ferdinando di Borbone, incoraggiò l’abate Antonio Scoppa a recarsi a Parigi per conoscere il nuovo metodo, quello di J. Lancaster per poi applicarlo nelle scuole di Napoli.
Erano gli anni in cui Bell e Lancaster erano riusciti ad ottenere larghi consensi al loro metodo di insegnamento nella scuola primaria.
L’abate Scoppa tornò dalla Francia entusiasta di avere appreso questo nuovo metodo di insegnamento che, a suo parere, sarebbe stato molto utile per migliorare, da un punto di vista didattico ed economico, le condizioni dell’istruzione nel nostro paese.
Egli, in realtà, aveva ragione, perchè ben presto il metodo lancasteriano, o di mutuo insegnamento, ebbe ampi consensi e larga diffusione in Italia e in seguito anche in Sicilia.
A. Bell e J. Lancaster avevano sperimentato le difficoltà dell’insegnamento in un momento storico molto difficile, quello che seguiva la caduta di Napoleone. Le scuole erano molto affollate di allievi e vi erano pochi maestri, oltretutto mancavano le risorse finanziarie per pagarli. Bell fece questa esperienza nel 1768 a Madras (India) e Lancaster, nel 1798 a Londra. Dovendosi confrontare con difficoltà economiche e gestionali Lancaster sperimentò un secondo metodo di istruzione popolare e pubblicò un manuale sui principi del nuovo metodo, The British System of Education.(14)
Lancaster, pur non essendo annoverato tra i più grandi pedagogisti, va considerato come il precursore di alcune delle più moderne istanze pedagogiche. Il suo metodo valorizza la vivacità dell’insegnamento, lo scambio delle conoscenze fra gli allievi e fra il docente e i discenti; non più alunni statici e silenziosi nel loro banco, non più il lavoro individuale, ma il lavoro dinamico di gruppo. Lungimirante la sua intuizione di quella figura che oggi viene definita tutor del gruppo, colui che più sa e che mette a disposizione degli altri il suo sapere; un metodo, insomma che anticipa i metodi d’autogoverno e della scuola-città odierni. Il sistema lancasteriano si rivelò molto utile poiché un solo maestro poteva dirigere centinaia di alunni e tra questi i più istruiti diventavano docenti degli altri più giovani o meno istruiti raggruppati in classi. Inoltre e la lettura e la scrittura venivano insegnate simultaneamente.
A Parigi, il metodo ebbe larga diffusione e grandi sostenitori, tanto che il governo francese stanziò molti fondi per l’apertura di 1500 scuole di mutuo insegnamento e in molte parti d’Italia gli stati e i governi si mostrarono favorevoli all’attuazione del suddetto metodo e lo incoraggiavano finanziando le scuole che da private si andavano trasformando in pubbliche.
Anche Ferdinando di Borbone iniziò ad entusiasmarsi dinanzi a codesti cambiamenti, e decise di prendere parte a molte iniziative a favore dell’apertura di queste scuole; anche se poi nei fatti le istituzioni governative non appoggiarono molto l’istituzione delle scuole mutue.
Il metodo lancasteriano fece la sua comparsa a Napoli, quando alla morte dell’abate Scoppa, gli succedette l’abate F. Mastroti, che tradusse il manuale di Lancaster dall’inglese all’italiano.(15)
In Sicilia, soprattutto, nei primi anni, il metodo seppur accolto con fervore dalla popolazione, non trovò l’appoggio necessario da parte delle istituzioni.
Le scuole di mutuo insegnamento, rappresentavano il secondo esperimento di scuola popolare in Sicilia e si distinguevano da quelle conventuali, in quanto aperte e finanziate anche da laici o privati. Era una scuola gratuita che aveva il compito di formare professionalmente i fanciulli e indirizzarli anche a lavori artigianali. Queste scuole rappresentavano quella voglia di cambiamento nell’istruzione, portato al centro dell’attenzione dagli avvenimenti politici del primo Ottocento.
Il metodo per l’apprendimento degli scolari, secondo Lancaster doveva essere semplice e bisognava che fosse attuato per economizzare sui fondi stanziati dalle pubbliche istituzioni.(16)
L’abate Nicola Scovazzo fu nominato direttore di codeste scuole in Sicilia. La sua vita fu interamente impegnata nella diffusione del metodo di mutuo insegnamento di cui egli si faceva propulsore e sostenitore.
Nato in Aidone, nel 1783, aveva dedicato gran parte della sua esistenza allo studio e alla vita conventuale e aveva meditato molto sulle varie forme di insegnamento e di educazione religiosa.
Incaricato dal governo di Napoli di aprire la prima scuola di mutuo insegnamento, egli la aprì a Palermo il 25 gennaio del 1819 nella Compagnia del Ponticello, iniziando a istruire venti scolari monitori; con delibera del Decurionato di Palermo, il metodo, venne istituzionalizzato.
In seguito venne aperta un’altra scuola a Messina, diretta dall’abate Giacomo Cardile, nel 1820, poi a Catania una seconda scuola venne avviata nel 1827. In parecchi comuni e città c’era la voglia di apprendere il metodo del Lancaster. Nel 1835 il metodo era stato diffuso in tutta la Sicilia.
L’intento di Scovazzo era quello di istruire i "bamboli" senza annoiarli troppo, basandosi su una didattica fondata sull’aiuto reciproco degli allievi, e sulla funzione monitoriale concepita come gioco e autodisciplina.(17)
Le classi erano otto e ognuna di esse corrispondeva ad un nuovo progressivo stadio di apprendimento dello scolaro, dalla lettura alla scrittura, esattamente come aveva auspicato Lancaster.
I fanciulli che appartenevano ad una stessa classe, possedevano all’incirca lo stesso grado di istruzione e erano a loro volta suddivisi in tutori e pupilli e in una stessa classe vi erano un monitore ed un assistente che avevano il compito di controllare gli altri compagni nello studio di alcune discipline. Quando un fanciullo si distingueva per cultura e intelligenza poteva passare ad una classe superiore e in base al profitto poteva andare avanti o regredire a una classe inferiore. Le classi così strutturate, coerentemente al metodo lancasteriano, potevano contenere anche centinaia di allievi con un solo maestro e con una notevole economia di tempo e soldi. Gli allievi scrivevano le lettere anche sulla sabbia per poi imparare a riordinarle e pronunciarle e alternavano la preghiera allo studio impartito come un gioco.
Scovazzo esortava incessantemente le istituzioni a prendersi cura del popolo; egli si prodigò affinchè tale metodo venisse introdotto anche nei collegi di Maria. Il metodo era necessario per evitare, secondo Scovazzo, che i figli dei poveri potessero abbandonare la scuola perchè i corsi troppo lunghi non avrebbero consentito agli allievi di andare a lavorare e aiutare le famiglie.
Uno studio semplice, quindi, basato sull’apprendimento del "leggere, scrivere, conteggiare, disegno lineare e la cognizione delle lingue". Il disegno lineare in particolare avrebbe aiutato lo scolaro anche nel lavoro agricolo.(18) Il disegno lineare costituisce la base per qualsiasi lavoro: partendo da comuni linee rette, angoli paralleli e perpendicolari, poligoni e poliedri si può giungere a disegnare "oggetti d’uso come zuppiere, bottiglie, tavolini, sedie, carrozze e moltissimi altri oggetti d’arte".(19)
L’aritmetica, dovrà essere scevra da astrattismi e calcoli indefiniti e la lingua italiana dovrà essere depurata da lungaggini retoriche. Sarà uno studio privo dell’utilizzo della grammatica e delle regole; non si dovrà più cercare di apprendere la lingua dei dotti attraverso la lettura dei classici. Lo scolaro non avrà bisogno di parlare una lingua aulica per comunicare con gli altri; egli dovrà soltanto sapere collegare i nomi alle cose purchè non commetta errori ortografici. Per ottenere un simile risultato basterà usare un metodo di traduzione dal siciliano all’italiano.
L’abate Scovazzo chiude il suo discorso esortando le istituzioni e il popolo a essere realistici "Il tempo delle illusioni metafisiche è finito. Nel secolo in cui viviamo, il calcolo è la prima scienza..."(20); tutte le altre discipline, devono apprendersi presso scuole specialistiche, licei, Università.
L’educazione doveva essere, naturalmente, rivolta anche alle donne e la preoccupazione dell’abate Scovazzo fu anche quella di esortare le nobili donne della società ad aiutare le meno fortunate, sovvenzionando privatamente quelle scuole e quegli istituti, come i collegi di Maria, che venivano lasciati nel più ampio degrado. Scovazzo elogia in maniera particolare il metodo dell’inglese Lancaster riferendosi non soltanto all’educazione del popolo in generale ma anche a quella delle donne che - egli scrive - fin dall’antichità non erano state tenute abbastanza in considerazione dalla società: "Nelle scuole di insegnamento mutuo aperte in Francia e in Inghilterra a benefizio delle donne gran parte del giorno è impiegata dalle fanciulle ad un travaglio continuo, alternando esercizi di lettura e scrittura e di calcolo con quelli dei lavori manuali d’ago. Questo metodo sublime, mercè della classificazione minuta delle discipline e la simultanea divisione del travaglio insieme alla reciprocanza dell’insegnamento riunisce tutto quanto all’uopo richiedersi. Per esso, permettendolo solo la estensione delle sale, si ha modo senza danno veruno ad ammettere alla istruzione un numero indeterminato di fanciulle sotto la disciplina di una sola istitutrice, e profittando tutte di tutto il tempo impiegato agli esercizi letterari, o ai lavori d’ago".(21)
Notevoli differenze, quindi, caratterizzano le scuole del mutuo insegnamento rispetto alle scuole normali dirette, anni prima, da De Cosmi: entrambe scuole popolari, ma con diversi programmi di studio e basate su diverse metodologie didattiche. Se in qualche modo le scuole normali risentivano ancora dell’influsso di uno studio più tradizionale, basato sul culto della lingua italiana, tanto che De Cosmi privilegiava lo studio di classici toscani come per esempio il Galateo di Mons. della Casa, e lo studio della lingua latina che sarebbe stata agevolata dalla conoscenza della lingua italiana, Lancaster e Scovazzo, fautori del metodo di mutuo insegnamento, abolivano tutto ciò che di classico e retorico poteva esserci nella didattica della lingua italiana.
Con molta probabilità l’abate Scovazzo risentiva ancora dell’influenza che gli inglesi avevano esercitato negli anni passati in Sicilia, soprattutto, quando nel primo quindicennio dell’Ottocento, il cambiamento costituzionale del 1812 diede l’avvio a numerosi dibattiti e cambiamenti in diversi settori culturali e intellettuali dell’isola. Da quel momento anche l’economia e la politica risentirono di quei cambiamenti "soprattutto per il tono completamente diverso che da allora in poi è dato cogliere nelle discussioni di politica economica e, più in generale, di pubblico interesse".(22)
In realtà, se la Costituzione del 1812 viene attribuita alla presenza degli inglesi in Sicilia, la diffusione della cultura inglese risale alla seconda metà del Settecento, in seguito alla diffusione di molte opere di autori inglesi (Bacone, Bolingbroke, Hobbes, Locke, Hume, Macaulay, Smith ecc.). Lo stesso De Cosmi - come si è detto - aveva preso ampio spunto dalla filosofia di Locke per fondare una didattica nuova alla fine del Settecento. L’influsso culturale che ebbero gli autori inglesi, in Sicilia, fu quindi notevole.
Molti nobili e uomini colti siciliani, avevano viaggiato, basti pensare al Balsamo che "dal soggiorno in Gran Bretagna avrebbe tratto idee, suggestioni, impressioni che avrebbe poi trasferito nei suoi studi e nelle sue proposte di politica economica per la trasformazione dell’economia agraria della Sicilia, ma che stanno anche alla base della costituzione del’ 12 alla cui stesura egli diede il maggiore contributo".(23)
Anche la lingua inglese aveva finito col diventare elemento di distinzione nella società, molti aristocratici la parlavano perchè l’avevano studiata(24) e molti viaggiatori inglesi già dalla seconda metà del Settecento avevano avuto l’interesse a visitare la Sicilia e a parlarne, descrivendola anche nei diari di viaggio che stilavano durante o poco dopo il loro tour siciliano come nel caso di Brydone.(25)
Il modello culturale inglese esercitava la sua influenza anche nella moda: "la moda prevedeva che si vestisse all’inglese, come di tipo inglese erano le vetture di lusso usate dall’aristocrazia".(26)
Nelle biblioteche gli scritti di Milton, Dryden, Shakespeare e Bacone erano largamente consultati come fonte di conoscenza e di accostamento intellettuale.
L’influsso dei modelli culturali inglesi su quelli siciliani, evidentemente, era ancora forte se si pensa che uomini colti e nobili, come l’abate Scovazzo, avevano dedicato quasi tutta la loro vita a far conoscere e divulgare le filosofie e i modelli didattici e pedagogici inglesi, con l’intento di migliorare la società e portare i siciliani a un livello di cultura accettabile..
La monarchia borbonica, purtroppo, ignorava quasi del tutto i problemi connessi all’istruzione siciliana e le scuole, infatti, venivano lasciate in totale stato di abbandono.
Il clero e i vescovi siciliani, invece, sostenevano un’educazione come quella del Bell e del Lancaster e cioè l’istruzione del popolo.
I preti e i vescovi erano attenti alla situazione, senza, però, poter risolvere il problema "dell’incremento generale dell’istruzione del popolo, che richiedeva l’ intervento dello Stato nella duplice direzione dell’ampliamento delle strutture scolastiche e della eliminazione totale delle viziose istituzioni e dei vincolanti sistemi (privilegi, mancanza di pubblici aiuti al mondo del lavoro, sistemi ingiusti di tassazione, ordinamenti economici assurdi, ecc.)"(27) che rendevano poveri i comuni e la popolazione.
La situazione, quindi, era difficile da gestire, se si considera che anche la preparazione e la didattica dei maestri era molto scarsa. Inoltre la situazione delle scuole femminili era peggiore rispetto a quelle maschili, infatti la preparazione delle scolare era affidata a maestri e suore semi-analfabete.
Nel 1849 il ministro della Polizia Generale invitava le autorità competenti a pretendere una preparazione completa per le fanciulle, comprensiva delle nozioni di base della grammatica, della lettura e del catechismo e non mirata esclusivamente all’apprendimento del taglio e del cucito.
In quegli anni, iniziava l’esigenza di seguire i modelli d’istruzione praticati in tutta l’Europa. In questo generale moto di rinnovamento, si iniziò a prendere in considerazione il gravoso problema dell’istruzione femminile non soltanto fine a sé stessa ma con lo scopo di inserire la donna nel mondo sociale e lavorativo perché anch’ella potesse contribuire al miglioramento generale delle condizioni sociali.
In realtà, soltanto dopo il ‘48 si iniziò a prendere coscienza della complicata situazione; ci si rese conto che la responsabilità dei problemi legati all’istruzione non era da attribuire soltanto alla politica, bensì anche alla classe borghese che, finalmente, comprese che soltanto in una società libera l’istruzione sarebbe servita realmente a migliorare l’equilibrio sociale. Purtroppo, però, come scrive Gaetano Bonetta "I contenuti socio-pedagogici alternativi espressi dalle teorie rivoluzionarie del ‘48 furono abilmente sfruttati per la continuità del sistema borbonico, che si avvalse della prevalenza politica che ebbe il moderatismo con la fine del sogno quarantottesco". (28)
Ida Correale
NOTE
(1) W.H. Thompson, Sicily and its Inhabitants: Observations made during a Residence in that Country in the Years 1809 and 1810, London, 1813.
(2) G. Bonetta, Istruzione e società nella Sicilia dell’Ottocento, Palermo, Sellerio, 1981, p. 3
(3) G. A. De Cosmi, Memoria sull’istituto normale di Sicilia e sulla pubblica educazione, Scuola media statale di Casteltermini, 1987, p.3
(4) Ibidem.
(5) Ibidem.
(6) Ivi, p.10
(7) G. A. De Cosmi, Elementi di filolgia italiana e latina, Palermo, R. Stamperia, 1805, vol. III, Appendice, p. 43
(8) A. Crimi, Teoria educativa e scuola popolare in Sicilia nel tempo dei borboni, Acireale, 1978
(9) Sulla scuola italiana della prima metà dell’Ottocento in Sicilia, cfr. G. Vigo, Istruzione e sviluppo in Italia nel secolo XIX, Torino, 1971; A. Angeli, Storia delle scuole elementari e popolari in Italia, Firenze, 1908; A. Monteperilli, Storia della scuola italiana dell’Ottocento, Milano, 1951; J. Zambaldi, Storia della scuola elementare in Italia, Roma, 1975; A. Poggi, Educazione privata e pubblica nel Ducato di Parma sotto Maria Luigia, in Enciclopedia Formiggini-Pedagogia, Roma, 1930; A. Zazo, L’istruzione pubblica e privata nel Napoletano (1767-1860), Il Solco, Città di Castello, 1927; G. Nisio, Della istruzione pubblica e privata in Napoli dal 1806 al 1871, Napoli, 1871; G. Leanti, Istruzione elementare in Sicilia dagli arabi fino al 1860, s.l. 1924, A. Crimi, Teoria educativa e scuola popolare in Sicilia nel tempo dei Borboni, Acireale, 1978; Bonetta G., Istruzione e società nella Sicilia dell’Ottocento, Sellerio Editore, Palermo, 1981; E. Persico, Il reciproco insegnamento in Italia, Lucci, Roma, 1923
(10) G. A. De Cosmi, Memoria sull’istituto normale di Sicilia e sulla pubblica educazione, Scuola media statale di Casteltermini, 1987, p. 18.
(11) Per un approfondito studio sui singoli progetti, presentati al Parlamento siciliano, si veda A. Crimi, Teoria educativa…, cap. 4, cit., p. 47.
(12) N. Giordano, La pubblica istruzione in Monreale dal secolo XVI all’unificazione del Regno, 1961.
(13) La deputazione degli studi per la Sicilia, per i decreti del 22 novembre 1813 e dell’11 febbraio 1814 del principe vicario generale, aveva ottenuto il potere di vigilare sull’amministrazione economica delle scuole; essa era composta da cinque membri: il presidente, il Rettore dell’Università di Palermo, e "tre persone distinte per sapere, integrità e zelo del pubblico bene." Ne facevano parte personaggi illustri della nobiltà palermitana, come il filosofo Tommaso Natale e Monsignor Ajroldi. Essa aveva la suprema direzione morale e scientifica di tutta l’Isola; doveva controllare le scuole, i seminari vescovili, i collegi, gli allievi e i maestri. Essa aveva approvato il metodo del De Cosmi perché ritenuto semplice e adeguato ad impartire una buona istruzione scolastica. Nel 1818 essa fu sostituita dalla Commissione di Pubblica Istruzione. Cfr. A. Crimi, Teoria educativa…., p.73 e sgg.; N. Giordano, Istruzione pubblica in Monreale dal secolo XVI alla unificazione del Regno, serie III, vol. XII, 1961, pp. 241-276.
(14) J. Lancaster, The British Sistem of Education, London, 1810.
(15) F. Mastroti, Manuale del sistema di Bell e Lancaster o mutuo insegnamento di leggere, scrivere, conteggiare e lavorare d’ago nelle scuole elementari, Napoli, Nobile, 1819.
(16) J. Lancaster, op. cit.
(17) N. Scovazzo, Discorso sopra il metodo di mutuo insegnamento, Palermo, T. Graffeo, 1835.
(18) Ivi, pp. 18-20.
(19) Ivi, p. 22.
(20) Ivi, p. 4
(21) N. Scovazzo, Della necessità d’istruzione morale e intellettuale per le donne del popolo e del modo di provvedervi in Palermo. Memoria diretta alle colte dame e signore palermitane dall’abate Nicola Scovazzo, Palermo, Stamperia Spampinato, 1836
(22) A. Li Vecchi, Il sogno inglese e la nazione siciliana, in "Sicilia", n. I (90) dicembre 2000, p. 37.
(23) Ivi, p. 38.
(24) Ibidem.
(25) P. Brydone, A Tour through Sicily and Malta, 1773
(26) A. Li Vecchi, op. cit., p. 39
(27) G. Bonetta, op. cit., p. 38
(28) Ivi, p. 53.
Gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento della storia statunitense furono caratterizzati dalla definitiva maturazione delle grandi forze produttive, i monopoli e i trusts, e contemporaneamente dal consolidamento delle strutture dello stato federale(1). Lo sviluppo di questo secondo fenomeno, agli albori del secolo americano, venne determinato da diversi fattori tutti concatenati fra loro: la risposta politica allo strapotere autocratico dei grandi industriali, banchieri e finanzieri; l’affermazione di un liberalismo maggiormente interventista e attento ai bisogni sociali del cittadino; l’espansione di forme di maggiore cooperazione fra le istituzioni statali e quelle federali, con la naturale predominanza di queste ultime; e infine l’evoluzione di un sentimento nazionale americano, dovuto anche al coinvolgimento del paese nella prima guerra mondiale(2).
Tutte queste tematiche vennero affrontate dai principali esponenti del movimento progressista, che con la loro vivacità intellettuale furono in grado di contrassegnare la vita culturale e politica del primo ventennio del Novecento in America. Per costoro il compito fondamentale della democrazia doveva essere quello di stimolare una sempre maggiore inclusione delle classi medie nel processo di governo e, allo stesso tempo, di riconoscere alle istituzioni democratiche locali, statali e soprattutto federali un ruolo attivo nella garanzia dei diritti di libertà, di uguaglianza e d’indipendenza dei cittadini, contro le palesi ingiustizie presenti nella società americana(3).
L’espansione dei poteri dell’esecutivo federale e del Congresso era stata un’evidente necessità dovuta alla risoluzione dei problemi politici del tempo. Si era verificato, in altre parole, il cambiamento di fatto della Costituzione materiale rispetto alle norme formali. Così, vi era stata in America una crescita costante delle funzioni legislative ed amministrative, e un considerevole allargamento della sfera federale a detrimento dei governi statali e locali, senza che vi fosse nessun cambiamento formale nell’impianto costituzionale(4).
L’idea federale, presente in tutti i documenti politici coloniali, così come nella Dichiarazione d’indipendenza, nelle costituzioni statali ed in quella federale, che aveva guidato la dottrina costituzionalista per due secoli, venne messa in crisi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento dalle dottrine sviluppate dai seguaci della scuola storica tedesca trapiantati in America, primo fra tutti l’hegeliano Francis Lieber, il quale propugnò la natura organica dello stato federale e rigettò la concezione contrattualista(5). Il professor Lieber, quindi, con le sue idee basate sul concetto idealistico di nazione, ebbe una notevole influenza su alcuni importanti autori del nazionalismo americano, quali Orestes A. Brownson, John A. Jameson, Elisha Mulford, Richard Ely, Herbert Baxter Adams, e Woodrow Wilson(6). Collegandosi a queste premesse il movimento nazionalista intese sostenere la superiorità del modello della comunità armonica e della concezione organica dello stato, rispetto a quello alternativo, sostenuto da James Madison nel Federalista, di una comunità divisa e parcellizzata in innumerevoli interessi particolari e bisogni privati, tutti in competizione fra di loro(7).
Ancora di più, al posto dei tradizionali concetti di patto della grazia e di federalismo, nelle università americane si iniziarono a studiare il costituzionalismo e il liberalismo riformatore e radicale, come successivamente il liberalismo idealistico di Thomas Hill Green, elaborati in Gran Bretagna nell’Ottocento. Tutto ciò finì naturalmente col confluire nel vasto movimento di rinnovamento politico-culturale dei primi decenni del Novecento denominato progressismo, nelle cui fila militarono intellettuali e politici di primo piano quali Herbert Croly, John Dewey, Edward Ross, Walter Lippmann, Louis Brandeis, Theodore Roosevelt, Robert La Follette e Woodrow Wilson(8).
Dal modello di un federalismo duale creato dalla Costituzione federale americana, interpretato in maniera autentica dal Federalista e dalla Corte Suprema di John Marshall, e realizzato nel corso dell’Ottocento, si passa, all’inizio del ventesimo secolo, per impulso proprio del movimento progressista, ad un modello cooperativo. Nella prima concezione, ossia quella di dual federalism, i governi degli stati e il governo federale rappresentano soggetti indipendenti che operano in sfere separate, al contrario nel sistema creato dal cooperative federalism gli stati e il potere centrale sono costituzionalmente obbligati a lavorare insieme, tutto ciò porta inevitabilmente ad un ampliamento delle prerogative e dell’autorità federale rispetto ai diversi soggetti statuali(9).
La rivalità il più delle volte sana, ma qualche volta anche pericolosa, fra potere federale e potere degli stati cede il passo ad un sistema incentrato sul ruolo predominante del governo nazionale del Presidente, il quale è legittimato dalla volontà popolare e dalla sua capacità di interpretare e guidare i bisogni della nazione. Si giunge, così, ad un modello fondato sulla naturale cooperazione che tutte le istituzioni, comprese gli stati, devono fornire al governo federale per garantire uno sviluppo armonico della società americana(10).
Il federalismo cooperativo sviluppato in maniera primaria e consapevole nel periodo della presidenza Wilson è ovviamente incuneato in una tradizione di pensiero che pur se esplicatasi appieno nel Novecento trae le sue origini nel secolo precedente, nelle idee economiche di Albert Gallatin, nella politica degli internal improvements di Daniel Webster e Henry Clay, e nel nazionalismo di Abraham Lincoln, e ha come immediato riferimento l’agire politico di Theodore Roosevelt. Ovviamente questo modello federale trova, successivamente a Wilson, la sua definitiva consacrazione nel New Deal di Franklin D. Roosevelt e nelle linee di politica economica sviluppate dalle presidenze di John F. Kennedy e Lyndon Johnson, dunque dagli anni trenta agli anni sessanta del Novecento.
Il modello duale, il quale ha la sua autentica e massima teorizzazione in James Madison, può essere anche rintracciato nel repubblicanesimo dei diritti degli stati di Thomas Jefferson e John Taylor, fino a giungere alla sua estremizzazione nell’idea politica di concurrent majority formulata da John C. Calhoun(11). Dopo una lunga fase di abbandono, in seguito alle vicende della guerra di secessione e all’avvento del federalismo cooperativo, questo modello trova una sua riaffermazione nel New Federalism di Richard Nixon e soprattutto negli anni ottanta viene rivalutato e aggiornato dalla idee espresse e dalle scelte operate da Ronald Reagan e dalla sua amministrazione(12).
L’inizio di questo consapevole mutamento prese avvio con la critica radicale alla Costituzione federale, che fu uno dei cavalli di battaglia del movimento progressista(13). Molti degli esponenti di primo piano del movimento sferreranno nei primi decenni del Novecento il loro attacco frontale nei confronti delle norme costituzionali fissate a Filadelfia e delle intenzioni, a loro dire, poco democratiche di coloro che le vollero, le difesero e le interpretarono per primi.
I federalisti e la Costituzione avevano già subito nei primi anni della repubblica forti critiche dagli antifederalisti, come più tardi era arrivato l’attacco da parte di John C. Calhoun, ma costoro difendevano la sovranità degli stati, la sezione meridionale degli Stati Uniti e nel caso di Calhoun, anche, il sistema di vita sociale e la peculiare istituzione della schiavitù(14).
Molti storici ed intellettuali progressisti, invece, fra i quali Wilson, Beard, Croly, Parrington e Commager, tenderanno sostanzialmente a distinguere lo spirito democratico insito nella Dichiarazione d’Indipendenza dal carattere repubblicano e più conservatore che si può riscontrare nella Costituzione federale(15).
Beard, ad esempio, con la sua analisi penetrante, ma non del tutto corretta in termini storici del contesto nel quale nacque la Costituzione, distingue nettamente fra coloro che la vollero, ossia i federalisti (i cui esponenti più importanti miravano a difendere i grandi interessi economico-finanziari dell’aristocrazia della cartamoneta e del patronage) che egli considera quali conservatori antidemocratici, rispetto al partito antifederalista jeffersoniano, che rappresentando le istanze dei piccoli proprietari terrieri e dei debitori viene identificato quale movimento democratico(16).
A giudizio di Parrington, in effetti, la comprensione del vero carattere della Costituzione federale del 1787 costituisce il grande merito della scuola storica legata alla corrente del progressismo.
Dal punto di vista storico, il maggior contributo del movimento progressista alla causa democratica è probabilmente costituito dalla scoperta del carattere fondamentalmente non democratico della costituzione federale. Che un fatto così ovvio fosse rimasto per tanto tempo nascosto, dipendeva da motivi politici facilmente comprensibili. Per un secolo la costituzione era stata un simbolo dell’unità nazionale. Criticarla era considerato sleale. […] Le divisioni di classe presenti al tempo della sua formazione erano ignorate, e dimenticato lo spirito aristocratico dei suoi fondatori(17).
Fra fine Ottocento e inizio Novecento non era più possibile disconoscere tutto ciò. Gli intellettuali e i politici progressisti prendevano atto che la Costituzione tutelava essenzialmente i grandi interessi finanziari e industriali, mentre le istanze democratiche che salivano dai ceti medi venivano sistematicamente frustrati dal sistema dei pesi e contrappesi costituzionali. La Corte suprema, inoltre, appellandosi rigidamente alle norme costituzionali bocciava sistematicamente tutte le leggi che tendessero ad un avanzamento sociale o alla promozione dei diritti positivi dei cittadini.
In questi termini la discussione si incentrò sulla convenienza o meno di apportare modifiche sostanziali ad un documento che, a detta di molti progressisti impediva il normale funzionamento di una democrazia avanzata.
Wilson, ad esempio, non giunse mai alle estremizzazioni di Beard o Parrington, vale a dire considerando la Costituzione come il frutto dei meri interessi economici dei padri fondatori i quali, in pratica, con questo documento avevano realizzato una contro-rivoluzione aristocratica e antidemocratica(18). Egli, in effetti, considerava la Carta fondamentale semplicemente non più adeguata per condurre gli Stati Uniti alla completa formazione di un sistema costituzionale moderno. A lui, quindi, non interessavano tanto le motivazioni economiche di Hamilton o Madison, quanto gli impedimenti che essi avevano costruito sul cammino di una sintesi vitale ed essenziale tra il volere della comunità e il suo governo centrale(19).
La Costituzione sostanziale non si era potuta a pieno affermare nella sua naturale evoluzione poiché si doveva restare ancorati alla Costituzione formale, la quale poteva andar bene alla fine del Settecento, ma non dava più risposte adeguate all’inizio del secolo americano. Il punto centrale dell’analisi comune ai vari autori diviene, in ogni modo, la teorizzazione dell’evoluzione del sistema costituzionale e l’affermazione, propria del movimento progressista, di una living constitution contrapposta alla corrente culturale conservatrice della original intention or interpretation(20).
L’obiettivo fondamentale della corrente filosofico-politica progressista era quello di costruire un’America su solide basi democratiche e protesa alla ricerca di prospettive più egualitarie. Per realizzare tutto ciò occorreva, in definita, che il governo fosse al servizio dell’uomo e non della proprietà. I due fattori fondamentali della complessa realtà americana vale a dire il corporativismo, inteso come sviluppo delle grandi corporations, e il nazionalismo determineranno, in questa prima fase del secolo, una particolarità del contesto istituzionale, sociale ed economico degli Stati Uniti rispetto agli altri sistemi politici occidentali esistenti in Europa, caratterizzati o da una diversa forma di liberalismo politico o dal paternalismo autoritario.
La rivoluzione americana delle corporations, per dirla con Orozco, congiuntamente alla ritrovata forza delle istituzioni politiche federali, rinvigorite dagli esponenti del movimento progressista, non porterà, come nel vecchio continente, all’avvento di un regime reazionario o totalitario. Il nuovo corso del "liberalismo corporativo nord-americano apporterà nei suoi giochi pragmatici tra pubblico e privato, tra libertà e uniformità, tra individualismo e standardizzazione, la forma più avanzata, aggressiva, flessibile e redditizia dell’ideologia e della politica capitalista del XX secolo"(21).
Herbert Croly, l’ispiratore del programma del partito progressista di Roosevelt denominato New Nationalism, nel libro The promise of American Life del 1909, sosteneva come vi fossero sempre state fin dai primi giorni della federazione due tendenze basilari nel pensiero politico americano, quella hamiltoniana e quella jeffersoniana(22). La prima veniva identificata con l’affermazione di un forte governo centrale, e di privilegi speciali nei confronti di una minoritaria aristocrazia finanziaria. La seconda visione politica era dominata dal governo minimo, dalla democrazia liberale e da eguali diritti e opportunità. A giudizio di Croly, la nuova società industriale statunitense di inizio Novecento non poteva fare a meno di una sintesi delle due tendenze.
Per la risoluzione dei nuovi problemi determinati dalla compresenza di "governo politico e governo industriale" negli stessi ambiti sociali, occorreva utilizzare mezzi hamiltoniani per raggiungere fini jeffersoniani. Non bisognava demonizzare il sistema delle grandi corporations, occorreva, invece, prendere atto che il sistema di organizzazione industriale rappresentava un avanzamento dell’economia liberale.
Ci sono due condizioni economiche indispensabili per l’auto-espressione individuale e qualitativa: una è la preservazione, in una certa forma, dell’istituzione della proprietà privata; l’altra è la trasformazione radicale della sua natura ed influenza attuale. […] La lealtà all’interesse nazionale implica la devozione verso un principio progressista. Essa a sua volta chiede, inequivocabilmente, che il principio progressista sia realizzato senza nessuna violazione dei vincoli nazionali fondamentali(23).
La nuova alleanza fra democrazia progressista e nazionalismo non viene da Croly demonizzata, ma occorre comprendere che questo fenomeno è in contrasto "più con le idee politiche di Jefferson che con quelle di Hamilton: il nazionalismo dell’ultimo può essere adattato alla democrazia senza danno essenziale; la democrazia del primo non può essere nazionalizzata senza essere trasformata"(24).
Il progressismo di Woodrow Wilson, allo stesso modo di quello di Louis Brandeis, su questa tematica fondamentale era, invece, maggiormente legato ad un volontarismo solidale e morale che poteva scaturire dai settori sani della società, dall’ottimismo sul valore imperituro delle tradizionali regole liberali e sulla capacità delle istituzioni nazionali di poterle applicare(25). Riguardo a queste due tendenze presenti nel movimento progressista, il realismo politico e l’ottimismo morale, Dessì sostiene, come
uno degli aspetti di maggiore interesse dell’età progressista sia questa compresenza tra il realismo con il quale venivano considerati e denunciati alcuni aspetti della vita sociale e l’ottimismo riguardo alle possibilità di cambiamento attraverso l’azione educativa e la testimonianza morale. In effetti questi due elementi, sebbene in forme diverse, continuarono nella cultura americana ben oltre gli anni del progressismo(26).
Wilson riteneva che alle grandi concentrazioni industriali dovesse essere impedito di corrompere il libero processo politico, attraverso una legislazione federale garante della libertà di impresa. L’imperativo era di riportare a una funzione sociale il capitale finanziario, la comunità nazionale deve, dunque, "studiare la maniera perché il capitale serva gli interessi del popolo nel suo insieme. Non possiamo chiuderci nei nostri affari personali, dobbiamo aprire i nostri pensieri al paese come un insieme e servire tanto l’intelligenza generale quanto il benessere generale"(27).
La sua fede nella ragione, inoltre, generava un’ottimistica visione del mondo in base alla quale il progresso economico e politico del paese sarebbe stato inevitabile e avrebbe condotto, se ben governato, a una società inclusiva, nella quale si sarebbero potuti armonizzare i differenti interessi. A giudizio di Steigerwald i tratti distintivi del pensiero liberale wilsoniano sono proprio questi: la tenacia individuale, la supremazia del bene comune e l’inevitabilità del progresso(28).
Dall’altra parte in quegli stessi anni, forse con maggiore realismo politico, molti si chiedevano come fosse possibile conciliare l’inarrestabile progresso con i tradizionali valori di libertà. La domanda chiave, a questo punto, per identificare i problemi politici e istituzionali scaturiti dalle trasformazioni economico-sociali di questo periodo, e per svelare le carenze dell’originaria Carta fondamentale, sembra porsela proprio Herbert Croly nel libro Progressive Democracy, del 1914. Come potevano gli americani, egli si interrogava, essere uomini liberi in una società complessa come quella moderna caratterizzata da una pervicace economia industriale?(29)
In maniera più esplicita un altro intellettuale progressista Walter Weyl, condirettore della rivista The New Republic della quale Croly era direttore, poteva sostenere che "la vecchia democrazia non forniva risposte ai problemi di un mondo nel quale le principali limitazioni alla libertà erano economiche e non politiche"(30).
Il termine libertà ebbe, indubbiamente, per i cittadini americani dell’età progressista un diverso significato rispetto a come era stato avvertito nelle epoche precedenti. In modo molto differente era stata percepita la conquista della libertà dagli inglesi nelle guerre d’indipendenza, o l’affermazione delle libertà civili e politiche durante il periodo costituzionale o, durante l’Ottocento, l’idea di libertà di contratto in campo economico e di libertà dalla schiavitù da parte dei neri americani. All’inizio del Novecento, ci fa comprendere Foner, tutti i progressisti erano d’accordo che occorresse dare nuovi contenuti al termine libertà.
Ispirata dalla sensazione che, nel nuovo secolo, le interpretazioni tradizionali della democrazia e della libertà fossero obsolete, l’epoca progressista produsse una mole di commentari sociali e un complesso insieme di movimenti finalizzati ad attaccare l’ineguaglianza economica e a trovare un terreno comune in una società oppressa dalle lotte per il lavoro e che stava sperimentando una massiccia immigrazione dall’estero(31).
Le battaglie intraprese per accrescere spazi e forme nuove di libertà - o se fosse stato necessario per dare regole efficaci alle storture causate dall’eccesso di libertà esistente - e le soluzioni prospettate dai maggiori pensatori progressisti, per la risoluzione dei principali mali sociali, furono molteplici e spesso di natura divergente(32). Si andava da coloro che volevano allargare lo spettro della libertà economiche, a coloro che auspicavano un poderoso controllo statale sulle posizioni dominanti l’economia di mercato. Su altri versanti c’erano quelli che portavano avanti la lotta contro la segregazione razziale nel sud del paese o per l’inclusione sociale dei nuovi gruppi etnici giunti in seguito alle ondate migratori e fino a coloro che si battevano per l’abolizione del lavoro minorile nelle fabbriche o che pensavano di instaurare un regime di proibizionismo sulla produzione e vendita degli alcolici.
In mezzo a tutto questo si poteva, comunque, trovare il filo conduttore che conduceva a un gruppo nutrito di intellettuali e politici riformatori, i quali rappresentavano al meglio gli interessi delle classi medie americane, "uomini e donne, spesso legati a organizzazioni sindacali, che cercavano di umanizzare il capitalismo rendendolo più egualitario e di rivitalizzare la democrazia restituendo il potere politico alla cittadinanza e l’armonia civile a una società divisa"(33).
Il punto di partenza comune a tutti gli esponenti del movimento progressista era, pertanto, da tutti individuato nella presa d’atto dell’avvenuta reale trasformazione dell’impresa e della sua organizzazione. Si era di molto affievolita in America la concezione ideale, propria della prima fase della storia della repubblica, di un’economia basata sulle piccole attività economiche personali che impiegavano pochi dipendenti legati al proprietario da vincoli molto stretti. Questo sistema era stato abbandonato per lasciare spazio ad uno nuovo fondato su grandi imprese di centinaia, o migliaia di dipendenti, organizzate finanziariamente in società per azioni e dirette da amministratori non proprietari(34).
Il compito che i riformatori si intestarono, all’inizio del Novecento, fu soprattutto quello di porre in evidenza, nei confronti dell’opinione pubblica americana, questa grande trasformazione realizzatasi nel corso di qualche decennio a partire dalla fine della guerra di secessione. Nello stesso tempo molti di questi intellettuali credettero di dover trovare delle soluzioni ottimali per risolvere i grandi scompensi sociali e politici che si erano determinati.
Secondo molti di questi protagonisti, infatti, un risultato significativo della metamorfosi del tessuto produttivo statunitense fu proprio quello di aumentare il grado di corruzione in campo politico, grazie alla commistione d’interessi fra grande capitale e classe dirigente del paese. Il ceto politico dimostrava di essere un succube strumento di questi crescenti interessi economici legati ai monopoli e ai cartelli, e tutto ciò non faceva altro che alimentare un sistema sociale, economico e politico nel quale regnava un fortissimo grado di inefficienza e corruzione.
I grandi interessi economici consolidatisi nei trusts avevano annullato "l’eguaglianza delle opportunità". Il sorgere di una nuova classe dirigente fondata non altro che sul possesso di una ricchezza anonima e priva di senso di responsabilità sociale e politica, nonché la trasformazione delle imprese economiche in grandi società anonime, avevano provocato un impoverimento e una dispersione della morale sociale […]. Tutti questi elementi dovevano generare un senso di crisi, di fallimento negli americani della fine del secolo; e questa sensazione venne aggravata da altre circostanze verificatesi proprio a quell’epoca: la fine della Frontiera, l’afflusso della "nuova immigrazione" e sotto più di un aspetto, lo stesso movimento imperialistico(35).
L’epoca della frontiera, quale elemento determinante dei sentimenti di libertà e uguaglianza del popolo americano e del suo spirito d’avventura e di ricerca di nuovi confini per conquistare nuovi spazi di felicità terrena, si era conclusa mostrando caratteri di una incombente situazione di decadenza morale. L’eccezionalità americana, questo allontanamento reale e ideale sempre più grande dalle radici europee, aveva bisogno, a giudizio di Turner, di essere sempre alimentato(36).
Lo sviluppo della nazione americana ha non solo documentato un’avanzata su un’unica linea, ma anche un ritorno a condizioni primitive su una linea di frontiera in continuo spostamento e un nuovo sviluppo in questa zona. Lo sviluppo sociale americano è stato un inizio continuo, un punto di partenza sempre nuovo, su una frontiera mobile. Questa rinascita perenne, questa fluidità della vita americana, questa espansione verso Ovest con tutta la sua gamma di infinite possibilità, il suo contatto continuo con la semplicità della vita primitiva, alimentano e forniscono le forze che dominano il carattere degli americani. […] L’avanzata della frontiera ha significato un movimento regolare che s’allontanava sempre più dall’influsso dell’Europa, uno sviluppo costante di indipendenza su linee prettamente americane(37).
Vi era il timore che senza la lotta dei pionieri alle avversità naturali nei vasti territori da colonizzare del West e senza più la ricerca di una ancora non raggiunta "eguaglianza delle opportunità", venissero messe in crisi alla radice le fondamenta della democrazia americana. Se era vero che lo spostamento della frontiera, attraverso la conquista territoriale dell’Ovest, avesse garantito "all’America e agli americani ricchezza, progresso e identità, la sua fine non minacciava solo l’economia del paese ma anche il suo futuro e le sue istituzioni"(38).
Le aspirazioni democratiche e la filosofia egalitaria quali condizioni proprie del contesto della frontiera americana non potevano essere facilmente adattate ad un paese giunto ad una fase oramai avanzata dello sviluppo industriale e avviato ad essere sempre più circoscritto alle grandi realtà urbane. L’America correva, il forte rischio di una regressione del proprio sistema democratico verso un modello politico dominato da un indifferente individualismo che riduceva la società civile a terreno di battaglia delle potenti lobbies economiche(39).
Il momento politico culminante e di maggiore visibilità del progressismo americano fu certamente la campagna elettorale per l’elezione del Presidente nel 1912. In queste elezioni il vero scontro non si sviluppò come avveniva tradizionalmente tra il candidato uscente, in questo caso il Presidente repubblicano William Howard Taft, e lo sfidante democratico Woodrow Wilson. Infatti, in seguito alla spaccatura ideologica verificatasi fra alcuni dei maggiori esponenti repubblicani, Theodore Roosevelt decise di ricandidarsi alla testa del nuovo partito progressista, il quale era per buona parte costituito dai maggiori esponenti dell’ala sinistra riformista dello stesso partito repubblicano(40).
La competizione elettorale si concentrò, sui due candidati dotati di maggiore carisma e spessore politico, Roosevelt e Wilson, e sui loro programmi elettorali denominati New Nationalism e New Freedom(41). I due programmi erano, in effetti, molto simili e si fondavano sulla lotta contro lo strapotere economico e politico dei grandi monopoli, i quali falsavano la libera concorrenza e penalizzavano i cittadini delle classi medie americane, sia nella loro veste di consumatori sia in quanto attori liberi e consapevoli della vita pubblica.
Nell’elaborazione del suo programma New Nationalism, il cui nome venne ripreso da un suo famoso discorso pronunciato nel 1910, Roosevelt si ispirò, come abbiamo sottolineato, all’opera The promise of American Life di Croly(42). Nel libro di Croly, così come nel programma di Roosevelt, si propugnava un più forte intervento dello stato, l’avvento di uno spirito nazionalista che guidasse l’intero popolo americano e la realizzazione di molte delle riforme prospettate per un decennio dal movimento progressista: le elezioni primarie, il ricorso al referendum popolare, la legge sulla limitazione dell’orario di lavoro, e quelle sull’aumento delle retribuzioni minime per i lavoratori dipendenti, sulla graduale tassazione dei redditi personali e sull’imposizione fiscale delle successioni.
Il New Nationalism, collocava le esigenze nazionali ad un livello superiore rispetto agli interessi dei gruppi di pressione ed ai bisogni delle differenti sezioni del paese rivelandosi, in definitiva, come
una chiara sintesi delle vecchie dottrine rooseveltiane con un pizzico delle più ardite idee progressiste. Si debbono conseguire i fini democratici, affermò Roosevelt, con i mezzi propri della politica di Hamilton, attraverso le principali linee di sviluppo rappresentato da uno stato forte e centralizzato, interventi del governo estesi alla vita economica, azione politica scevra da interessi e sollecitudini particolari(43).
A Roosevelt che voleva sostanzialmente brandire il bastone dello stato per tenere a bada e sotto il proprio controllo le grandi concentrazioni industriali e piegarle ad una politica maggiormente compassionevole nei confronti del popolo americano, si contrapponeva la New Freedom di Wilson(44). Quest’ultimo, aiutato nell’elaborazione del suo programma dalle idee dell’avvocato difensore dei diritti dei lavoratori e consumatori Louis D. Brandeis, proponeva la ricetta del nuovo liberalismo fondato sull’autentica ed effettiva concorrenza, sul libero commercio internazionale, tradotto in realtà dallo smantellamento dei dazi doganali, e sullo smembramento, per mezzo di un’attenta regolamentazione antitrust, dei grandi monopoli(45).
Nell’analisi di Wilson la vita sociale e politica statunitense dei primi decenni del Novecento rappresenta qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato. Si è in presenza di un nuovo ordinamento sociale e di sconvolgimenti economici talmente rilevanti che le vecchie formule politiche non danno più risposte adeguate. Lo sviluppo economico e sociale ha trasformato a tal punto la vita dei cittadini americani che sembra essere nata una nuova nazione differente da quella creata con la nascita dello stato federale. Per questo motivo è necessario che la libertà sia tutelata in forme nuove rispetto al passato(46).
Questo vero liberalismo doveva essere attento alla tutela e alla promozione dei diritti individuali dei cittadini delle classi medie americane, attraverso una precisa legislazione che impedisse alla parte più forte e ricca del paese di sopraffare la più debole rappresentata dalla media borghesia volenterosa e dal crescente numero di lavoratori salariati. Occorreva modificare l’assunto hamiltoniano, secondo il quale il governo degli Stati Uniti dovesse fondamentalmente garantire e proteggere i grandi proprietari contro le macchinazioni dell’elemento popolare. Hamilton, riteneva che lo stesso governo non dovesse essere ostile anzi, avesse l’obbligo di rafforzare i suoi legami con la proprietà fino al punto da riflettere i desideri dei maggiori interessi economici(47).
Da quando vi furono governi, vi fu sempre contesa fra due maniere di governo. Una delle quali maniere, o teorie di governo, ricorda in America il nome di Alexander Hamilton: un grand’uomo a mio vedere, ma non un grande americano. Egli non capì il modo di vivere degli americani. Credeva che le sole persone che potessero capire che cosa sia governo e ne potessero reggere uno, fossero quelle che avevano la più grande partecipazione finanziaria alle imprese commerciali e industriali del paese(48).
Il giornalista e scrittore Walter Lippmann nel suo Drift and Mastery, del 1914, criticò la Nuova libertà di Wilson poiché, a suo giudizio, si trattava soltanto una riproposizione della vecchia teoria jeffersoniana fondata sull’autonomia dell’individuo e sull’eguaglianza delle condizioni rispetto allo strapotere dello stato e, allo stesso tempo, della anacronistica superiorità del sistema della piccola proprietà in un mondo oramai dominato dalla complessità dei processi collettivi e dall’accentramento del potere economico(49).
In termini altrettanto forti Herbert Croly nello stesso anno 1914, avanza la propria critica progressista alla New Freedom, dal momento che il Presidente degli Stati Uniti e gli uomini del suo governo sostengono fiduciosamente che la loro serie di riforme economiche generali tornerà a beneficio del salariato non meno che del produttore locale; ma la cosa non si può sostenere. […] Ciò di cui il salariato ha bisogno non è che l’attuale regime di privilegio venga equilibrato, bensì che venga costituito un nuovo sistema che ponga riparo alle inadeguatezze e ai difetti del vecchio(50).
Tutto ciò era indubbiamente vero, ma l’intenzione di Wilson non era quella di approfondire mere questioni sindacali, ma innanzitutto quella di porre in evidenza le forti disuguaglianze sociali che comportavano un rischio serio per la tenuta delle istituzioni democratiche dell’epoca. Nella New Freedom Wilson, pertanto, si domanda cosa sia il progresso, qual è la sua parabola, e cerca di fornire ai cittadini americani quelle che egli ritiene delle risposte chiare.
Gli americani percepivano chiaramente di non poter controllare il corso degli affari. Erano mutate le condizioni di giustizia ed equità, ma la vecchia politica non era più adeguata. Bisognava essere pronti a rivoluzionare la società politica così come quella economica. Occorreva una rivoluzione pacifica delle largamente maggioritarie classi medie che ripristinasse su nuove basi il perseguimento dell’interesse generale. Un disegno comune a tutti gli esponenti progressisti, che potremmo anche definire jeffersoniano, era, comunque, quello di far tornare l’America ad essere un paese nel quale l’uguaglianza delle opportunità e la democrazia sociale fossero il risultato di un sistema nel quale la politica avesse come scopo di servire i cittadini e non il grande capitale.
Partendo da queste premesse, molti progressisti sostenevano che non si potesse semplicemente tornare alla Repubblica dei principi originari(51). L’anelito progressista doveva trasformare il federalismo americano, tendendo ad adattare il sistema istituzionale della repubblica alle mutate condizioni della società civile e delle strutture economiche. Soltanto un modello fondato su una reale cooperazione fra stati federati e stato federale, con la supremazia di questo ultimo, poteva dare delle risposte efficaci ai problemi dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. Occorreva, pertanto, tornare a comprendere l’antico spirito costituzionale e adeguarlo ai tempi presenti.
Giuseppe Bottaro
NOTE
(1) Questo importante periodo della storia statunitense è molto ben sviluppato, fra gli altri, da Arthur Schlesinger, The Rise of Modern America 1865-1951, New York, 1951, e John L. Thomas, La nascita di una potenza mondiale: gli Stati Uniti dal 1877 al 1920, Bologna, 1988.
(2) Cfr. Samuel P. Hays, The Response to Industrialism 1885-1914, Chicago, 1995. Per una maggiore comprensione dei fermenti culturali, politici ed economici di questo periodo e sui personaggi più importanti cfr. Charles A. e Mary Beard, The Rise of American Civilization, 2 voll., New York, 1933, Richard Hofstadter, L’età delle riforme: da Bryan a Roosevelt, Bologna, 1962, e il terzo vol. di Vernon L. Parrington, Storia della cultura americana. L’avvento del realismo critico 1860-1920, vol. III, Torino, 1969.
(3) Sul movimento progressista e sui profondi cambiamenti intervenuti in seguito alla sua affermazione, nei primi decenni del Novecento, vedi Arthur Mann, The Progressive Era: Major Issues of Interpretation, Hinsdale, Ill., 1975, Arthur S. Link e Richard L. McCormick, Progressivism, Arlington Heights, Ill., 1983, Arnaldo Testi, a cura di, L’età progressista negli Stati Uniti, Bologna, 1984, John W. Chambers, The Tyranny of Change. America in the Progressive Era, 1890-1920, New Brunswick, 2000, e Lewis L. Gould, America in the Progressive Era, 1890-1914, New York, 2001,. Per le riforme politiche ed economiche realizzate nell’età progressista cfr. Lewis L. Gould, Reform and Regulation: American Politics from Roosevelt to Wilson, New York, 1986.
(4) Su queste tematiche vedi Woodrow Wilson, Constitutional Government in the United States, New York, 1908, ristampa a cura di, Sidney A. Pearson, New Brunswick, 2002.
(5) Cfr. Francis Lieber, Political Ethics, Philadelphia, 1838, e Id., Civil Liberty and Self-Government, 2 voll., Philadelphia, 1853.
(6) Orestes A. Brownson, The American Republican, New York, 1865, ed. it., La repubblica americana: costituzione tendenze e destino a cura di, Dario Caroniti, Roma, 2000, John A. Jameson, The Constitutional Convention: Its History, Powers, and Modes of Proceeding, Chicago, 1867, Elisha Mulford, The Nation: The Foundations of Civil Order and Political Life in the United States, New York, 1870, Herbert Baxter Adams, Methods of Historical Study, Baltimore, 1884, Richard Ely, An Introduction to Political Economy, New York, 1889, e Woodrow Wilson, The State: Elements of Historical and Pratical Politics, Boston, 1889.
(7) Cfr. Alexander Hamilton, James Madison, John Jay, Il federalista, a cura di Mario D’Addio e Guglielmo Negri, Bologna, 1980. Sulla concezione pluralista e federalista madisoniana, cfr. Lance Banning, The Sacred Fire of Liberty: James Madison and the Creation of the Federal Republic, 1780-1792, Ithaca, N.Y., 1995.
(8) Sui protagonisti del movimento progressista, e sulle principali tematiche sviluppate, vedi anche Ottavio Barié, a cura di, Il pensiero politico nell’età di Wilson, Bologna, 1961, e Christopher Lasch, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Milano, 1992.
(9) Su questi temi vedi Jane P. Clark, The Rise of a New Federalism: Federal-State Cooperation in the United States, New York, 1938, Edward S. Corwin, The Passing of Dual Federalism, "Virginia Law Review", vol. 36, 1950, pp. 1-24, William Anderson, The Nation and the States: Rivals or Partners?, Minneapolis, 1955, M.J.C. Vile, The Structure of American Federalism, Oxford, 1961, Daniel J. Elazar, American Federalism: A Working Outline, Philadelphia, 1970, William H. Stewart, Concepts of Federalism, Lanham, Md., 1984, Michael P. Zuckert, Federalism and the Founding: Toward a Reinterpretation of the Constitutional Convention, "Review of Politics", vol. 41, 1986, pp. 166-210, e Vincent Ostrom, The Political Theory of a Compound Republic: Designing the American Experiment, Lincoln, 1987.
(10) Cfr. Daniel J. Elazar, The American Partnership: Intergovernmental Cooperation in the Nineteenth-Century United States, Chicago, 1962, e Morton Grodzins, The American System: A New View of Government in the United States, Chicago, 1966.
(11) Sul repubblicanesimo jeffersoniano e tayloriano cfr. Federico Mioni, Thomas Jefferson e la scommessa dell’autogoverno: virtù, popolo e Ward System, Reggio Emilia, 1995, Luigi Marco Bassani, Il pensiero politico di Thomas Jefferson. Libertà, proprietà e autogoverno, Milano, 2002, e Giuseppe Bottaro, L’illusione repubblicana. John Taylor of Caroline, Milano, 2002. Sul pensiero politico di Calhoun vedi Giuseppe Buttà, Democrazia e federalismo: John C. Calhoun, Messina, 1988, e Massimo L. Salvadori, Potere e libertà nel mondo moderno. John C. Calhoun: un genio imbarazzante, Roma-Bari, 1996.
(12) Cfr. Daphne A. Kenyon and John Kincaid, eds., Competition among States and Local Governments: Efficiency and Equity in American Federalism, Washington, D.C., 1991, John Kincaid, From Cooperation to Coercion in American Federalism: Housing, Fragmentation and Pre-emption, 1780-1992, "Journal of Law & Politics", vol. IX, 1993, pp. 333-431, e David B. Walker, The Rebirth of Federalism, Chatam, N.J., 2000.
(13) Sulla Costituzione federale del 1787 e sul dibattito politico e intellettuale dal quale essa scaturì vedi Clinton Rossiter, 1787: The Grand Convention, New York, 1966, Forrest McDonald, Novus Ordo Seclorum: The Intellectual Origins of the Constitution, Lawrence, 1985, e Michael Kammen, The Origins of the American Constitution: A Documentary History, New York, 1986.
(14) Cfr. Giuseppe Buttà, Democrazia e federalismo: John C. Calhoun, Messina, 1988. Il movimento antifederalista jeffersoniano fu in realtà composto da personalità molto rilevanti, e le teorie che da esso scaturirono sono, ancora oggi, considerate come uno dei fattori trainanti nei primi decenni del processo politico del federalismo statunitense. Su queste tematiche, fra gli altri, vedi Noble E. Cunningham, The Jeffersonian Republicans: the Formation of Party Organitation, 1789-1801, Chapel Hill, 1957, N.K. Risjord, The Old Republicans: Southern Conservatism in the Age of Jefferson, New York, 1965, e soprattutto Herbert J. Storing, The Complete Anti-Federalist, 7 voll., Chicago, 1981. Più in generale sulle controversie politiche fra federalisti e antifederalisti nel periodo successivo all’entrata in vigore della Costituzione, cfr. Lance Banning, After the Constitution, Party Conflict in the New Republic, Belmont, California, 1989, Stanley Elkins e Eric McKitrick, The Age of Federalism, the Early American Republic, 1788-1800, New York, 1993.
(15) Cfr. Woodrow Wilson, Constitutional Government in the United States, New York, 1908, Herbert Croly, The Promise of American Life, New York, 1909. Charles A. Beard, An Economic Interpretation of the Constitution of United States, New York, 1913, Vernon L. Parrington, Storia della cultura americana, Torino, 1969, Henry S. Commager, Lo spirito americano, Firenze, 1952.
(16) Su queste tematiche cfr. dello stesso Charles A. Beard, Economic Origins of Jeffersonian Democracy, New York, 1915.
(17) Vernon L. Parrington, Storia della cultura americana. L’avvento del realismo critico 1860-1920, vol. III, cit., pp. XXXV-XXXVI.
(18) "La nuova scuola critica fu storica piuttosto che giuridica. Si preoccupò anzitutto delle origini e dovette tener conto delle teorie politiche e degli interessi di classe di chi aveva elaborato il documento nel secolo XVIII. Smise di considerare i padri fondatori come superuomini, dediti altruisticamente a un alto dovere patriottico: volle vederli nella loro qualità di abili statisti, carichi di pregiudizi aristocratici, che timorosi di perdere il controllo della nuova impresa repubblicana s’erano preoccupati di elaborare un meccanismo che ponesse gravi restrizioni alla volontà maggioritaria". Ivi, pp. XXXVI-XXXVII.
(19) Cfr. David E. Marion, Alexander Hamilton and Woodrow Wilson on the Spirit and Form of a Responsible Republican Government, cit., pp. 309-328.
(20) Cfr. Sidney A. Pearson, Reinterpreting the Constitution for a New Era: Woodrow Wilson and the Liberal-Progressive Science of Politics, New Brunswick, 2002, p. XXXIX.
(21) Josè L. Orozco, La rivoluzione americana delle "corporations". Filosofia e politica, a cura di Giuseppe Buttà, Roma, 2005, p. 21.
(22) Cfr. Herbert Croly, The Promise of American Life, New York, 1909. Croly fu uno degli intellettuali più noti del movimento progressista e uno dei maggiori propugnatori di un esecutivo forte quale rimedio alle ingiustizie a allo sfruttamento delle classi sociali più deboli. Nel 1914, insieme con Walter Lippmann e Walter Weyl, due altri noti giornalisti, Croly fondò la rivista The New Republic che divenne ben presto l’organo ufficiale del movimento progressista. Su questi temi cfr. Charles Forcey, The Crossroads of Liberalism. Croly, Weyl, Lippmann and the Progressive Era 1900-1925, New York, 1961, e D.W. Levy, Herbert Croly of the New Republic: The Life and Thought of an American Progressive, Princeton, N.J., 1985.
(23) Herbert Croly, The Promise of American Life, cit., pp. 209-211.
(24) Ivi, p. 214.
(25) Sul progressismo di Wilson e più in generale sul suo pensiero politico cfr. Arthur S. Link, Woodrow Wilson and the Progressive Era, 1910-1917, New York, 1954, John M. Blum, Woodrow Wilson and the Politics of Morality, Boston, 1956, Earl Latham, eds., The Philosophy and Policies of Woodrow Wilson, Chicago, 1958, e Niels A. Thorsen, The Political Thought of Woodrow Wilson, 1875-1910, Princeton, 1988. Sulla figura di Brandeis vedi Alpheus T. Mason, Brandeis. A Free Man’s Life, New York, 1946.
(26) Giovanni Dessì, Walter Lippmann. Informazione/Consenso/Democrazia, Roma, 2004, pp. 32-33.
(27) Woodrow Wilson, The Banker and the Nation, "Discorso alla Convenzione Annuale dell’Associazione Americana dei Banchieri", Denver, 1908.
(28) Cfr. David Steigerwald, The Synthetic Politcs of Woodrow Wilson, "Journal of History of Ideas", vol. 50, 1989, pp. 465-484.
(29) Cfr. Herbert Croly, Progressive Democracy, New York, 1914, p. 384.
(30) Walter E. Weyl, The New Democracy, New York, 1912, p. 3.
(31) Eric Foner, Storia della libertà americana, Roma, 2000, p. 193.
(32) Cfr. Arthur S. Link e Richard L. McCormick, Progressivism, Arlington Heights, Ill., 1983, e Lewis L. Gould, Reform and Regulation: American Politics from Roosevelt to Wilson, New York, 1986.
(33) Eric Foner, Storia della libertà americana, cit., pp. 193-94.
(34) Cfr. H. V. Faulkner, Politics, Reform and Expansion, 1890-1900, New York, 1959.
(35) Ottavio Barié, a cura di, Il pensiero politico nell’età di Wilson, Bologna, 1961, p. 9.
(36) Cfr. Massimo Teodori, Raccontare l’America. Due secoli di orgogli e pregiudizi, Milano, 2005, pp. 12-15.
(37) Cfr. Frederick J. Turner, La frontiera nella storia americana, Bologna, 1967.
(38) Giuseppe Mammarella, L’eccezione americana. La politica estera statunitense dall’Indipendenza alla guerra in Iraq, cit., p. 86.
(39) Su queste tematiche vedi l’introduzione al vol. III di Vernon L. Parrington, Storia della cultura americana. L’avvento del realismo critico 1860-1920, vol. III, cit.
(40) Nelle stesse elezioni si ripresentò per la terza volta anche il candidato del partito socialista Eugene Debs. Occorre sempre distinguere fra il progressismo quale movimento culturale e politico di stampo riformatore, animato dai maggiori intellettuali americani del primo ventennio del Novecento, e il partito progressista che, nel 1912, fu sostanzialmente una creazione di Roosevelt e dei suoi seguaci repubblicani.
(41) Per una comparazione fra queste due spiccate personalità di inizio ventesimo secolo e per la loro importanza nella storia degli Stati Uniti cfr. John M. Cooper, The Warrior and the Priest: Woodrow Wilson and Theodore Roosevelt, Cambridge, Mass., 1983. Sulla figura di Roosevelt cfr. John M. Blum, The Republican Roosevelt, 1954, George E. Mowry, The Era of Theodore Roosevelt and the Birth of Modern America, 1900-1912, New York, 1962, William H. Harbaugh, The Life and Times of Theodore Roosevelt, 1975, e Lewis L. Gould, The Presidency of Theodore Roosevelt, Lawrence, 1991.
(42) Herbert Croly, The Promise of American Life, cit..
(43) Richard Hofstadter, Theodore Roosevelt: il conservatore progressista, in La tradizione politica americana, cit., p. 228.
(44) Woodrow Wilson, The New Freedom: A Call for the Emancipation of the Generous Energies of a People, New York, 1913, ed. italiana, La nuova libertà. Invito di liberazione alle generose forze di un popolo, Milano, 1914
(45) Sul ruolo economico, sociale e politico dei grandi monopoli e sul loro rapporto con la democrazia liberale americana fra fine Ottocento e inizio Novecento cfr. Josè L. Orozco, La rivoluzione americana delle "corporations". Filosofia e politica, cit.
(46) Cfr. Woodrow Wilson, La nuova libertà, cit., pp. 9-10.
(47) Per ciò che concerne le linee di politica economica hamiltoniana vedi il cap. II, La minaccia monarchica, del mio L’illusione repubblicana. John Taylor of Caroline, Milano, 2002, pp. 33-62.
(48) Woodrow Wilson, La nuova libertà, cit., p. 45.
(49) Walter Lippmann, Drift and Mastery. An Attempt to Diagnose the Current Unrest, Englewood Cliff, N.J., 1961, pp. 82-83. Nell’ultima parte del primo mandato di Wilson, Lippmann cambierà idea sulla politica del Presidente ed elogerà pubblicamente le sue idee liberali e radicali. Quando, poi, Wilson spinse sulla politica delle riforme invocate dai progressisti e decise di nominare Louis Brandeis alla Corte suprema, Lippmann divenne un fervente sostenitore del Presidente. Sulla complessa figura di Lippmann cfr. Giovanni Dessì, Walter Lippmann. Informazione/Consenso/Democrazia, Roma, 2004.
(50) Herbert Croly, Progressive Democracy, New York, 1914, cap. V. in Il pensiero politico nell’età di Wilson, a cura di Ottavio Barié, Bologna, 1961, pp. 94-95.
(51) Cfr. John P. Diggins, Republicanism and Progressivism, "American Quarterly", vol. 37, 1985, pp. 572-598.
Nella Francia di fine ‘700 Jacques Necker fu certamente uno dei personaggi politici di primo piano. Il nome di Necker, ginevrino calvinista, che ricoprì la carica di ministro delle finanze di Luigi XVI, appare spesso nelle cronache della Rivoluzione francese.
Durante i regni di Luigi XV e Luigi XVI i ministri provenivano esclusivamente dall’ aristocrazia. Dal 1774 al 1789 dei trentasei ministri con portafogli, uno solo non era nobile, francese e cattolico ma borghese, straniero e protestante: Jacques Necker(1).
Necker era stato un banchiere e nella sua professione aveva dimostrato un innato fiuto per gli affari che gli aveva permesso di fare della sua banca una vera e propria potenza finanziaria, introducendo nuove modalità di credito e di prestito controllato e garantito.
François Furet afferma che: "Necker fu un vero figlio della borghesia protestante ginevrina"(2). E la vicinanza di una donna come la moglie, Suzanne Curchot, agevolò il ginevrino in un’ascesa continua.Vi fu poi un’altra donna in casa Necker che, a sua volta, è ricordata quale protagonista indiscussa della cultura del periodo: Germaine, figlia di Jacques e Suzanne, meglio conosciuta come M.me de Staël.
A Parigi gli incontri e le frequentazioni che Necker ebbe proprio nel salotto di casa sua furono molteplici e di altissimo livello. Il venerdì sera si recavano in casa Necker Grimm, D’Alembert, Helvétius, Diderot(3) che disquisivano di questioni economiche e filosofiche.
In questo periodo Necker rivestì la carica di Ministro della repubblica di Ginevra a Parigi, incarico di poco conto ma che gli permise di entrare in contatto con quell’ambiente politico di cui fu poi elemento di spicco quando, dopo la caduta di Turgot, venne chiamato alla direzione delle finanze del regno e, successivamente nel 1781 e tra il 1788 ed il 1789, a ricoprire la carica di ministro delle finanze di Luigi XVI.
Jacques Necker si rivela profondo conoscitore del contesto in cui opera e, nonostante assista pressoché impotente ai profondi sconvolgimenti provocati dalla Rivoluzione, non mancherà di sintetizzarne le tappe, di sottolinearne le degenerazioni auspicando interventi correttivi.
Dall’ analisi del trattato sui grani del 1775, opera dal titolo Sur la législation et le commerce des grains, si possono rilevare le principali questioni che Necker riteneva di importanza fondamentale per mantenere stabile il sistema politico dell’ Ancien Regime. Sistema politico che avrebbe dovuto intercettare nuove istanze e bisogni governando, come Necker intuì, le nuove dinamiche economiche e finanziarie che, a partire dalla seconda metà del ‘700, rappresentano i fondamenti dell’ economia di mercato.
Proprietà, armonia e conflitto tra le classi sociali, distribuzione e prezzi delle risorse alimentari, commercio, mutualità tra le diverse parti di uno Stato, sono concetti che Necker analizza con un approccio estremamente pratico ed originale.
Gli effetti che ogni intervento in campo legislativo produce, diventano oggetto di riflessione da parte di un "tecnico" che crede fortemente nel ruolo dello Stato e della politica in campo economico.
Con il saggio Sur la législation et le commerce des grains Necker sottolineò l’importanza del commercio, in alternativa alle restrizioni delle libere esportazioni del frumento(4).
Nell’ opera in questione vengono criticati alcuni principi liberisti come la soppressione delle restrizioni alla libera esportazione del commercio del frumento e le misure fiscali sulla nobiltà e sul clero espressi nel programma di risanamento economico presentato dal Ministro delle Finanze R. J. Turgot(5).
Questo saggio, che rispondeva a domande del dibattito economico-finanziario del tempo, gli valse un’accreditata reputazione d’economista e non stupisce il fatto che la pubblicazione del libro di Necker ebbe larga diffusione in Francia.
Datato 1775, fu successivo all’Elogio di Colbert, premiato nel 1773 dall’Accademia francese, che aveva proiettato Necker negli ambienti intellettuali del regno di Francia.
Per la materia affrontata il trattato del 1775 si inseriva nel dibattito europeo sulla questione dei grani che rappresentava un aspetto centrale per l’ economia del tempo(6).
Necker si occupa di un argomento che riveste un’importanza particolare nell’economia generale del suo pensiero.
Nel XVIII secolo il grano è senza dubbio la principale derrata alimentare da cui dipende il principale bisogno degli individui, il nutrimento; per cui si determina un rapporto diretto tra il possesso del grano ed i diritti propri della natura umana. Nella società costituita ciò incide sulla stabilità dell’ ordine pubblico.
Il n’est point de question dans l’économie politique, qui présente à l’esprit des objets, de méditation plus profonds et plus étendus que celle des grains; elle tient aux plus grands principes de la société, elle ramène aux droits les plus anciens de la nature humaine, et l’on ne peut se lasser d’étudier une matière si intéressante dans l’ordre publie(7).
Secondo Necker le opere aventi come oggetto di studio le passioni umane e gli effetti prodotte da queste, non sempre individuano i veri bisogni e le motivazioni che spingono gli uomini verso le rivolte.
La maggioranza della popolazione è costretta a vivere solo per lavorare.
Moltissimi uomini privi di proprietà sono legati ad un signore che gli cede gli avanzi in cambio di prestazioni d’opera.
Questo è il rapporto che intercorre tra gli individui ed esso, sempre secondo Necker, si riproduce uguale a se stesso(8).
Necker si cimenta nello studio dell’ interesse generale della società, alla luce delle premesse di cui sopra. Egli è consapevole che, sul bisogno di cibo, la legislazione di uno Stato può entrare in forte contraddizione con il suo assetto e non ottenere gli effetti sperati.
I principi astratti dell’ economia non sempre si adattano con le effettive esigenze del contesto in cui operano. Lo stesso rapporto di causa-effetto che dovrebbe scaturire dall’ adozione di un provvedimento legislativo è spesso confuso.
Parafrasando Montesquieu, Necker sostiene che una legge che va bene in un paese con una determinata popolazione, con le sue consuetudini, con un suolo fertile può rivelarsi deleteria per le sorti di una popolazione di un paese con caratteristiche diverse(9).
Ma i diversi approcci politici, frutto di sensibilità e usi diversi, costituiscono un solo aspetto delle differenze tra i vari paesi.
Guardando alla società nel suo complesso ci si rende subito conto che essa è costituita da diverse classi che hanno interessi e obiettivi divergenti.
I proprietari hanno come principale interesse quello di disporre del grano come di una rendita. Essendo un prodotto della terra che gli appartiene, essi lo considerano il frutto delle loro cure. I mercanti considerano il grano come una merce che si vende e si acquista. Il loro interesse è quello di subordinarne la compravendita alle leggi del commercio. Il popolo, spinto dal bisogno, considera il grano come l’elemento più importante per la sopravvivenza.
Diritto di proprietà, libertà o umanità sono rispettivamente le parole d’ordine che esprimono la volontà di proprietari, mercanti e popolo:
Ces trois classes d’ hommes font retentir les noms les plus imposans pour la défense de leurs prétentions: le seigneur de terre invoque les droits de la propriété; le marchand, ceux de la liberté; le peuple, ceux de l’ humanité(10).
Tra i diversi interessi diffusi nella società si ha l’intervento del legislatore. Questi deve andare oltre l’apparenza e trovare la soluzione per chi, senza voce, reclama i diritti più elementari. Alleviare le sofferenze dei più deboli e indifesi è il compito cui è chiamato il legislatore che deve porsi quale difensore degli oppressi senza pretendere nulla in cambio(11).
Necker in una nota al primo capitolo del trattato sui grani cita la lettera inviata al re dal parlamento di Tolosa che recita:
Puisse votre majesté se convaincre qu’il ne manquera à la plus grande prospérité de la France, que la liberté indéfinie du transport des grains chez le étrangers; qu’ il nous soit permis de remettre sous les yeux de votre majesté cette maxime remarquable, enfermèe dans l’ arrêt du conseil de votre majesté, du 14 septembre dernier: Que plus le commerce est libre, animé et étendu, et plus le peuple est promptement et abondamment pourvu(12).
Necker esplicita subito la sua intenzione: si vuole aprire una riflessione considerando il rapporto che intercorre tra il grano e la prosperità di uno Stato(13).
Ogni legge, ogni intervento istituzionale ha come fine la prosperità e, se si dovesse smarrire la via che conduce a tale obiettivo, si aprirebbe la strada ad anni di dispotismo.
Ma cosa è la prosperità di uno Stato?
È lo stesso banchiere a precisarlo sottolineando i caratteri complessi della società in cui vive:
S’ il n’y avoit eu qu’une société sur la terre, la prospérité de l’état et le plus grand bonheur de ses membres eussent été des expressions synonymes. Mais la formation de plusieurs sociétés désunies d’intérêt et d’ affection, oblige a bientôt chacune d’entre elles de joindre au soin de son bonheur, la sollicitude nécessaire pour le conserver. Alors la prospérité d’un état dut dépendre nécessairement de la réunion du bonheur et de la force(14).
Desiderio di felicità e forza sono gli assi su cui poggia la prosperità dello Stato. Giustizia ed equità rendono gli uomini felici, mentre la forza garantisce l’ordine politico e il rispetto delle scelte e delle funzioni del sovrano. Secondo Necker, proprio perché le funzioni del sovrano riguardano la produzione delle ricchezze e quindi il commercio e l’ industria, è uno sbaglio considerare il potere politico e la felicità della popolazione come elementi separati.
Queste considerazioni ci mettono in luce un Necker ostile alla libertà assoluta in materia di commercio dei grani. Infatti, come ha fatto rilevare Giuseppe Ricuperati, Sur la législation et le commerce des grains non è soltanto una risposta alla politica economica dei fisiocratici poiché, contrapponendo alle tesi degli "économistes" le esigenze dell’industria, Necker scopriva non soltanto gli interessi di questa, ma anche quelli (più complessi) dei lavoratori e soprattutto della grande maggioranza dei non proprietari. Se il bene generale deve essere superiore a quello dei proprietari, occorre che lo Stato limiti i privilegi della proprietà, correggendo almeno gli abusi più gravi che ne sono nati. La liberalizzazione del commercio dei grani, nella misura in cui favoriva una parte piccola della società, contro l’interesse generale, doveva essere abolita, senza alcuna preoccupazione di intaccare i diritti della proprietà. Lo Stato, in questo caso, mettendosi dal punto di vista degli interessi dei lavoratori, evitava che l’ ingiustizia potesse spingere il popolo, alla rivolta. Necker non è un utopista, né un economista originale ma è soprattutto un acuto osservatore della realtà(15).
Questa prosperità non è sinonimo di una società idilliaca, ma è rappresentata dalla sicurezza della proprietà che viene garantita all’ uomo nella società(16).
L’ economia politica è vista dal banchiere ginevrino come la scienza che si occupa della prosperità di uno Stato e si misura attraverso parametri precisi: la ricchezza e il numero di abitanti(17). La crescita demografica si verifica quando si raggiunge la giusta armonia tra le differenti classi.
L’Ancien régime si contraddistingue per la rappresentazione, nelle istituzioni, di una società che riproduceva se stessa attraverso uno schema consolidato che si manifesta, ad esempio, nella composizione degli Stati generali.
L’armonia tra le classi era considerata di fondamentale importanza dallo stesso Necker e non a caso il ginevrino si impegnò, nel 1788, in prima persona per il raddoppio del Terzo Stato.
L’Assemblea nazionale rimprovererà Necker per non essersi schierato a favore del voto per testa, ma ciò avrebbe snaturato l’ idea di armonia stessa che il ministro dell’ economia aveva in mente(18).
L’autore del trattato sui grani non lascia indefinito neanche il significato della parola ricchezza. Essa è misurabile attraverso le quantità di oro e di argento possedute dallo Stato. La ricchezza di una nazione può, in alcuni casi, aumentare in maniera direttamente proporzionale con la crescita demografica, in altri casi accade invece il contrario.
La Francia in particolare ha visto crescere la propria ricchezza in misura maggiore di tutti gli altri Stati europei.
Con un’importazione di grani maggiore rispetto alle esportazioni e una popolazione numerosa e operosa nel campo commerciale e manifatturiero, ha attirato a sé notevoli quantità di oro e d’ argento provenienti dalle Indie, dalle Americhe e dalla Cina(19).
L’indispensabilità del grano per la sussistenza degli individui porta Necker a presentare, senza giri di parole, la derrata alimentare come il più importante oggetto di scambio economico mentre il parametro demografico è considerato di maggiore rilevanza rispetto a quello monetario. Su questo punto egli afferma che se non fosse così, la repubblica di Genova avrebbe in Europa un ruolo straordinario, ma così non è: "Si les richesses mobiliaires dont les différens membres d’un état peuvent disposer, suffisoient pour constituer la puissance, la république de Gênes joueroit un plus grand rôle en Europe"(20).
Chi possiede denaro è inoltre maldisposto nei confronti delle imposte del sovrano, volendo usufruire direttamente di tutti i vantaggi che procura la disponibilità di moneta, e la forza (puissance) di uno Stato non trova basi solide nella classe sociale dei proprietari. Per il governo è dunque indispensabile guardare alla popolazione nel suo complesso per assicurare allo Stato basi solide per l’accrescimento della ricchezza complessiva.
Necker insiste nell’ affermare che non vi è alcun rapporto tra la ricchezza (disponibilità di moneta) e la felicità di uno Stato.
La moneta altro non è che un effetto dell’economia di scambio, del commercio. Al ginevrino sembra davvero assurdo sostenere il contrario visto che l’invenzione della moneta è da attribuire ad un sentimento negativo della natura umana. Gli uomini infatti, continua Necker, hanno trasformato la moneta da un mezzo ad un fine e ciò, oltre che ad aver distolto l’attenzione dai bisogni primari, ha creato fratture sociali nette tra chi accumula e dispone di moneta e chi deve lavorare per il suo sostentamento(21).
L’accrescimento della popolazione è invece un requisito fondamentale per la felicità di un regno ma, considerate le dinamiche economiche e sociali, solo la classe dei proprietari ne trarrebbe giovamento.
La maggiore offerta di lavoro porterebbe ad un abbassamento del livello medio dei salari per cui si genererebbe una maggiore povertà diffusa ed un aumento della miseria(22).
Eppure, continua Necker, la natura umana non aspira ad accumulare ricchezza pecuniaria ma a soddisfare i bisogni ed i piaceri più semplici.
Duemila uomini ridotti al minimo hanno in sé una maggiore felicità di mille magari meglio nutriti e vestiti:
Sous cet aspect, deux mille hommes réduits au simple nécessaire, réunissent (s’il m’est permis de m’exprimer ainsi) une plus grande quantité de bonheur, que mille un peu mieux vêtus ou plus délicatement nourris; et telle est, sans doute, la vue bienfaisante de la nature, lorsqu’elle entraîne les hommes vers l’accroissement de l’espèce humaine(23).
La stessa natura arresterà la crescita di una popolazione che eccede rispetto alle sussistenze a disponibili(24). L’analisi che qui viene fatta da Necker parte dalle stesse considerazioni che diventeranno centrali nelle teorie di Malthus(25). L’esportazione dei grani entra così in stretto rapporto con la popolazione di una nazione. Un paese di grandi dimensioni, quale la Francia, deve avere al suo interno tutte le risorse necessarie per il sostentamento dei suoi abitanti e l’agricoltura è la fonte primaria di sussistenza della popolazione.
Un regno che vende il prodotto della sua terra o uno che non opera nessun commercio dei grani avranno entrambi una popolazione imperfetta.
È la necessità di dare risposte alle esigenze che la "realtà effettuale" delle cose richiede a ricondurre il nostro personaggio dentro gli schemi di quel pragmatismo che sarà una costante nel pensiero del 1700 e dei secoli successivi.
L’eccesso di ineguaglianza della proprietà viene considerata da Necker nemica dei progressi in agricoltura. Se tutti avessero in possesso una parte delle terre, ogni individuo avrebbe soddisfatto il proprio bisogno al nutrimento. Le arti e le manifatture, in un contesto di disuguaglianza, hanno il merito di far accelerare i progressi in campo agricolo. I proprietari soddisfano alcuni dei loro piaceri scambiando il prodotto superfluo della terra proprio con ciò che si ottiene grazie alle manifatture e alle arti(26).
Nelle colonie inglesi d’America, osserva Necker, non si conosce, vista l’estensione delle terre, la quantità di grani effettivamente producibile. Le arti e le manifatture sono allo stato embrionale e tanti prodotti importanti sono incompatibili con il clima di queste zone. Ostacolare qui l’esportazione dei grani significherebbe danneggiare tutta la popolazione e scoraggiare l’agricoltura. La Polonia, invece, supplisce con il commercio di manifatture ad eventuali restrizioni all’ esportazione dei grani dettate da un sistema sociale che privilegia un assetto latifondista.
Diversa è la situazione francese. Le terre sono fertili, la popolazione è numerosa, le arti e le manifatture sono diffuse e si intrattengono rapporti commerciali con le colonie. Ne consegue che non esiste al mondo alcun paese meno bisognoso di esportare il proprio grano. Piuttosto che cercare a tutti i costi di esportare il grano francese, sarebbe opportuno stabilire un continuo scambio dentro i confini nazionali con i prodotti delle arti e delle manifatture.
In queste considerazioni Necker riprende il tema della sua opera precedente, l’Elogio di Colbert, scritta apparentemente per tessere le lodi del ministro di Luigi XIV, ma che in realtà sintetizza la visione politico-economica dell’autore.
Potenziare le arti e le manifatture non significa togliere braccia all’agricoltura. Al contrario una più ampia varietà di prodotti manifatturieri soddisfarebbe un maggior numero di piaceri dei signori, incoraggiando l’agricoltura(27).
Dicono che egli (Colbert) abbia danneggiato l’agricoltura a beneficio delle manifatture, confondendo i rami con il tronco e gli effetti con le cause. Io non crederò facilmente a un errore così grossolano da parte di un grande uomo e contesto una sentenza annientatrice della sua gloria. Istruiti dalle sue azioni, guidati dai suoi principi, noi abbiamo scoperto, al contrario, che l’agricoltura, le manifatture e il commercio non sono affatto funzioni rivali, ma si aiutano reciprocamente e concorrono al medesimo fine(28).
In Francia dopo Colbert, a detta del nostro autore, la poca lungimiranza dei successivi ministri ha portato all’assoluta liberalizzazione del mercato dei grani e ciò, alla luce delle considerazioni fatte, ha arrecato solo un danno alla nazione.
A fronte delle leggi proibitive vigenti in tutta Europa, sono state permesse le esportazioni senza alcuna limitazione. Il risultato di una politica economica permissiva ha nociuto, insiste Necker, alla popolazione francese, la più numerosa, che ha sofferto per l’aumento del prezzo dei grani.
Inoltre il territorio francese è molto esteso e spesso si sono verificate speculazioni da parte dei venditori che, agevolati nelle vie di comunicazione con i paesi confinanti, hanno messo in vendita i grani fuori dal regno francese(29).
Il prezzo dei grani rappresenta certamente un parametro che non sfugge alla riflessione di Necker. Viene definito come l’effetto del rapporto esistente tra venditori e compratori, tra domanda e offerta. Attorno al prezzo del grano si esprimono gli stati d’animo della società: i proprietari delle terre giudicano la prosperità di uno Stato in base alla possibilità di vendere i grani a prezzi elevati, mentre chi vive del proprio lavoro addossa proprio ai prezzi elevati la causa dei propri mali(30). Permettere costantemente l’esportazione dei grani determina un livello medio dei prezzi più alto rispetto ad una situazione di proibizione assoluta.
In un simile contesto le oscillazioni del prezzo dei grani di un regno saranno continue perché legate ad un rapporto di reciprocità con gli altri regni in cui verrà allocato il prodotto.
La Francia, come abbiamo già visto, si trova circondata da Stati che hanno limitato il commercio con l’estero. Necker sottolinea che di fronte ad una situazione di emergenza causata da un raccolto scarso, il regno di Luigi XVI dovrebbe importare il grano occorrente da paesi lontani e collegati da pessime vie di comunicazioni.
Si determinerebbe una realtà desolante che, turbando la pubblica opinione e gettandola nell’ inquietudine, porterebbe ad aumenti vertigini del prezzo della derrata alimentare(31).
L’introduzione della moneta ha, da un lato, semplificato e agevolato gli scambi, ma nello stesso tempo ha permesso una rottura degli equilibri tra le classi dando la possibilità a ciascun gruppo sociale di approfittare della propria condizione.
Il sovrano maschera le imposte con il valore nominale della moneta che diventa sempre meno facilmente rapportabile alla reale ricchezza dei sudditi. Dal canto loro proprietari hanno mostrato sempre meno scrupoli nel mantenere al livello minimo di sussistenza i salari di chi lavora le terre e gli aumenti improvvisi dei prezzi contribuiscono ad inasprire i rapporti tra individui di una stessa società.
Una lettura superficiale di questo fenomeno farebbe pensare che chi se ne avvantaggerebbe sarebbero i proprietari che, aumentando i propri guadagni, alzerebbero il loro tenore di vita. Ma la realtà delle cose è più complessa e Necker considera la società nel suo insieme comprendendo che ciò, oltre a provocare il malcontento della maggioranza della popolazione, spingerebbe il sovrano ad aumentare quelle imposte che gravano sulla classe dei proprietari. L’aumento del prezzo dei grani danneggia tutti gli stipendiati del regno (soldati, marinai e personale al servizio del re).
Il potere di acquisto di questi verrebbe compromesso, ciò si bilancerebbe attraverso un aumento degli emolumenti che sarebbe a sua volta possibile solo grazie a maggiori tassazioni che annullerebbero quel vantaggio usufruito dai proprietari inizialmente(32).
Intaccare l’armonia tra le classi di una società numerosa e complessa come quella francese è dunque ciò che non dovrebbe mai essere fatto.
A Necker importa dimostrare che a causa di alcune scelte politiche compiute, ad esempio per mezzo di una legge liberalizzatrice del 1764(33), di cui il ginevrino tratterà dettagliatamente in seguito, l’equilibrio del sistema economico e sociale è stato compromesso.
Il grano viene anche considerato in rapporto agli altri prodotti della terra.
Tra questi Necker considera soprattutto i vini. Favorire l’estensione dei vigneti non rappresenta, per il banchiere, un ostacolo alle coltivazione di grani. Spesso i terreni adibiti a vigneti non risultano compatibili con la coltura dei grani ed inoltre la Francia ha avuto in dono dalla natura un suolo che permette standard qualitativi elevati.
Una supremazia indiscussa di tale produzione sugli altri paesi non può essere inibita da politiche restrittive in campo commerciale(34).
La politica commerciale di uno Stato deve tenere in considerazioni tutte le variabili e tutti i beni che sono oggetto di scambio.
È sorprendente l’ attenzione che Necker dedica al sistema economico nel suo complesso. Ogni idea teorica viene vagliata in relazione agli effetti concreti che ne derivano. Tutto ciò che muove interessi contrari all’armonia generale è considerato frutto di una confusione tra gli interessi del commercio e dei mercanti, tra quelli dell’agricoltura e dei proprietari.
Il governo di un regno non deve restringere il campo di intervento ad un aspetto particolare ma occorre, a monte di ogni intervento, una visione d’insieme della società, delle sue classi e dei suoi interessi generali(35).
L’elevato prezzo dei grani, causato dalle esportazioni, getta in uno stato di inquietudine quella maggioranza della popolazione di cui fanno parte anche gli artigiani. La preoccupazione di veder ridotte le possibilità di guadagno, pregiudicano la tranquillità di questa categoria che cercherà di collocare altrove il prodotto del loro lavoro. Ma subentrano, in questo caso, le spese di trasporto che, incidendo sul prezzo finale del prodotto, accrescono gli svantaggi della concorrenza delle produzioni nazionali degli altri paesi e, nel medio periodo, le industrie, presso cui sono collocati gli operai, altra categoria sociale, sarebbero costrette a chiudere.
In più, per quanto attiene a particolari produzioni del settore tessile, molto spesso le materie prime provengono dall’estero e ciò comporta uno svantaggio nei confronti di quei paesi che le estraggono all’interno(36).
A partire dai prezzi costantemente alti del grano, Necker conduce un’analisi a largo spettro che evidenzia gli effetti dannosi per la prosperità della nazione e della sua popolazione.
Necker è dell’avviso che coprire i costi dei prodotti importati con le manifatture è quanto di più conveniente per uno Stato(37).
Il valore delle manifatture è dato dal lavoro in esse impiegato e, in minima parte, dalla materia prima di cui sono composte che per lo più si estrae dalla terra. A cospetto della vendita del grano, principale bene per la sussistenza, non emergono dubbi sulla convenienza del mercato di manifatture su quello dei grani.
Necker vuole mettere in evidenza gli effetti che, a causa del continuo aumento dei prezzi dei grani, si producono sulla stabilità della società. Il popolo è abituato a non interessarsi delle leggi sul commercio, del tenore di vita condotto dai proprietari ma si ribella di fronte all’ impossibilita di acquistare il pane.
Abbiamo visto che gli uomini che vivono del loro lavoro hanno come unico interesse quello di alimentarsi e continuare nel loro lavoro per poter vivere. I vizi e l’ozio dei proprietari non vengono considerati frutto di un’ingiustizia sociale, ma propri di una categoria sociale che non ha nulla in comune con la natura di chi non possiede nulla:
Au sein du travail et de l’indigence, il supporte tranquillement le spectacle de l’ oisiveté, de l’abondance et du bonheur apparent des riches; il s’habitue à les envisager comme des êtres d’une nature différente; leur pompe et leur grandeur sont une sorte de magie qui lui impose...(38).
La tolleranza nei confronti della disuguaglianza sociale ha come contropartita un’estrema intolleranza agli aumenti repentini dei prezzi del grano. Le privazioni di mille piaceri non sono nulla per il popolo che è però pronto a ruggire come un leone e ad infiammarsi, spinto dall’ inquietudine, per il cibo.
Il governo non ha altra scelta se non quella di evitare che si arrivi ad una profonda ed insanabile rottura dell’ ordine sociale. Prevenire l’aumento dei prezzi è l’imperativo categorico cui deve piegarsi una saggia legislazione che metta tra le priorità la felicità pubblica e la prosperità del regno.
Le teorie astratte, a detta di Necker, servono solo a confondere, in materia di amministrazione, questi principi(39).
Da semplici calcoli si arriverebbe con facilità alla consapevolezza delle precauzioni da prendere, eppure si vuole sottomere le passioni degli uomini alle regole generali: ecco il J’accuse di Necker.
Sarebbe errato pensare che l’ autore del trattato sui grani abbia intenzione di denunciare una realtà socio-economica ingiusta e che si faccia portatore delle istanze popolari. Necker è convinto che le disuguaglianze siano qualcosa di assolutamente normale e che l’ ignoranza e la rozzezza del popolo fanno sì che le cose non cambieranno mai. Al ginevrino, di fatto conservatore, sta a cuore la stabilità dell’ ordinamento politico-sociale e giammai un possibile ribaltamento dei rapporti di forza tra chi possiede e chi vive del proprio lavoro.
In un contesto immaginario in cui la proprietà non esistesse, Necker afferma che attraverso l’istruzione tutti potrebbero affinare le proprie facoltà conoscitive per migliorare la realtà ma l’ ordine sociale reale è altra cosa. Qui l’accesso all’ istruzione è interdetto a coloro i quali necessariamente occupano tutto il loro tempo nel lavoro. Il popolo insomma non partecipa attivamente ai processi decisionali perché privo di conoscenze intellettuali. Al contrario esso è tenuto in disparte e ingannato continuamente su ciò che è bene o male per sé(40).
L’Inghilterra costituisce, in parte, un’eccezione. Qui si trovano salari mediamente più alti e un accesso dal basso ai processi decisionali governativi più concreto: "le peuple est moins peuple". In più la rarità di festività, molto diffuse invece in Francia, comporta che, ad esempio, tre giornate lavorative debbano servire al mantenimento di ogni individuo per almeno quattro giorni(41).
Il differente numero degli abitanti, la qualità degli eletti e delle istituzioni rappresentative, il diverso approccio del governo nei confronti della miseria contribuiscono a rendere chiare le diversità di fondo tra i due regni.
Nella parte centrale del trattato sui grani, l’origine, le prerogative ed i limiti della proprietà, correlate al commercio dei grani, sono oggetto di analisi da parte di Necker.
Nel 1754 Jean Jacques Rousseau, illustre concittadino di Necker, aveva scritto nel Discours sur l’origine et le fondaments de l’inegalitè parmi les hommes:
"Il primo che, dopo aver recintato un terreno decise di dire questo è mio! e trovò persone tanto stupide da credergli, questo fu il primo fondatore della società civile"(42).
Rousseau fissava così l’origine della proprietà, ma non sembra avere il consenso del futuro ministro di Luigi XVI che scrive:
La propriété héréditaire est une loi des hommes; elle fut établie pour leur bonheur, et c’est à cette condition qu’elle est maintenue. Celui qui, dans l’origine des sociétés, mit quelques pieux autour d’un terrain, et y jeta la semence que la nature avoit produite d’elle-même dans un autre endroit , n’ auroit jamais pu obtenir, à ce seul titre, 1e privilège exclusif de ce terrain pour tous ses descendans, jusqu’à la fin des sîecles...(43).
L’ereditarietà è ciò che garantisce la proprietà; essa, a sua volta, permette che la società civile non sia esposta a continue rivoluzioni.
I proprietari, così come abbiamo visto, hanno l’ interesse di far produrre alla terra ciò che necessita per il loro sostentamento e per far ciò impiegano braccia in cambio di salari. Il ciclo economico, conosciuto da Necker, non avrebbe potuto aver inizio o non potrebbe continuare se l’ereditarietà della proprietà venisse messa in discussione(44).
I risvolti sociali che comporta la proprietà sono alla base delle regole che la collettività si è data.
Il pensiero di Locke(45), inerente il diritto di proprietà, sembra essere il miglior modello interpretativo delle parole usate da Necker.
Per il ginevrino se da un lato la proprietà è inviolabile e sacra, dall’altro essa deve ottemperare al raggiungimento del bene pubblico. Non avrebbe alcun senso che in un paese la categoria dei proprietari non scambiasse il prodotto della terra con il lavoro dei nullatenenti o che ogni scambio avvenisse in linea generale con abitanti e prodotti di paesi stranieri. Così facendo non si andrebbe verso la prosperità del regno.
La confusione che si genera quando gli interessi dei proprietari si sovrappongono alle prerogative della proprietà produce questo inconveniente(46). Il ginevrino sottolinea che la libera esportazione dei grani è figlia di questo equivoco i cui effetti sono deleteri per la Francia più che in ogni altro regno se si considerano il numero degli abitanti e le potenzialità del mercato interno:
Après cette confusion, on fait de la plus petite fantaisie des propriétaires une idole publique, et l’on contraint à l’adorer au nom respecté de l’agriculture... Il n’est aucun pays où les obstacles à la liberté constante d’exporter des grains, soient plus indifférens qu’en France au bonheur des propriétaires. Ce royaume joint à une population immense une réunion surprenante de toutes sortes d’établissemens d’industrie, une variété féconde de productions, tant par son sol que par ce-lui de ses colonies, deux milliards d’argent monnoyé des richesses de toute espèce entassées par le temps; quel plus vaste champ de commerce!(47).
Con il principio della libertà di disporre della proprietà senza alcuna limitazione si crede di difendere la pubblica felicità, ma in realtà accade il contrario. Privare un regno dei prodotti utili al nutrimento dei suoi abitanti per venderli all’ estero ottenendo in cambio denaro, è ciò che Necker biasima:
Or, de toutes libertés , la plus dangereuse, et celle dont le fruit pour l’individu est hors de toute proportion avec le dommage général, c’est la liberté de vendre des grains aux étrangers, quand la société peut courir risque d’en manquer(48).
La richiesta di una libertà assoluta in campo commerciale proviene da quei settori della società che, partendo da una posizione privilegiata, vogliono accrescere il loro dominio sui chi è svantaggiato(49). Occorrono pertanto delle leggi restrittive in modo che vengano limitati questi inconvenienti.
Infatti, continua Necker, quando in economia si considerano sempre positivamente le libertà e sempre un male le proibizioni, ci si allontana dai principi della materia sostituendoli con le primordiali attitudine della specie umana fatta di infamia, di debolezza e di dedizione all’ubbidienza(50).
L’ interesse dei mercanti è di destinare, in cambio di maggiori provvigioni, il grano nei paesi stranieri. Ma questa pratica deve essere limitata per incoraggiare invece il mercato francese interno e quello con le sue colonie. Anche se i guadagni di questi uomini fossero inferiori, osserva Necker, i vantaggi complessivi per le manifatture, le industrie e per la maggioranza della popolazione sarebbero enormi e accrescerebbero la felicità pubblica. Soltanto chi ha come fine i propri interessi personali e non quelli del regno si appella alla libertà nel commercio dei grani:
la liberté, la propriété, le commerce, les hauts prix, l’argent, l’agriculture, et tant d’autres mots de ralliement, auxquels on veut soumettre toutes les combinaisons économiques, ont tous également besoin d’être contenus dans de justes limites; le bien et le mal, la. vérité et l’erreur dépendent du degré de sagesse ou d’exagération qu’on donne aux idées; et comme un seul terme ne peut jamais exprimer ces modifications et ces nuances; toutes les fois qu’on se fait le défenseur d’un mot ou d’un principe exclusif, on court grand risque de se tromper et de passer le but; il faut laisser cette manière aux hommes qui, ayant le désir et le soupçon de la grandeur, sans en avoîr la force, veulent, sans se fatiguer, tenir dans leurs mains les rênes du monde(51).
Tutto ciò non deve far pensare che Necker sia a favore delle leggi proibitive sul commercio dei grani. Il pragmatismo e la concretezza circa gli effetti che si producono spingono il ginevrino a diffidare da principi e orientamenti assoluti. Il grano è una merce deteriorabile e permetterne lo spreco, alla luce di una politica proibitiva, non è cosa conveniente per nessuno. Inoltre se le riserve di questa derrata fossero eccessive si avrebbero ripercussioni sui prezzi che, abbassandosi, priverebbero i proprietari dalla possibilità di soddisfare i loro piaceri. Si comprendono le ripercussioni negative che ne deriverebbero per tutto il sistema economico e sociale. Occorre trovare il giusto equilibrio tra tutte le variabili in campo attorno cui ruota il mercato dei grani e, per esprimere questo concetto, Necker usa parole precise:
C’est ainsi que dans la question des grains, oit n’a discuté pendant long temps que la liberté ou la gêne absolue; il est temps de chercher entre ces deux extrêmes quelques modifications raisonnables(52).
Necker nell’indagine sul commercio dei grani riflette anche sui vantaggi e sugli inconvenienti legati al mercato interno di uno Stato.
Territori vasti come il regno Francese possono presentare province in cui vi è abbondanza di grani e province che ne sono prive. È abbastanza sensato immaginare un rapporto di mutualità tra le parti del regno che, entrando in rapporti commerciali, abbia come fine quello di aiutare la popolazione a soddisfare il bisogno di cibo.
Per inciso va rilevato che, a differenza di quanto accade oggi, i territori nazionali, sebbene unificati politicamente, avevano una amministrazione estremamente frammentata. Passare da una provincia all’altra di un regno comportava il pagamento di dazi cui non facevano eccezioni le merci ed in particolare il grano. La derrata alimentare, oltre ad essere oggetto di scambio internazionale, veniva venduta nelle diverse zone di uno Stato che, per diversi motivi, ne erano sprovviste. La poca fertilità della terra di alcune zone della Francia o la scarsità di un raccolto erano le cause principali di una penuria che creava non pochi problemi alla popolazione. Chi, nella società, aveva intrapreso come attività lucrativa quella di farsi carico della mediazione tra venditori e compratori di grano, erano i mercanti. Costoro disponevano sia di capitali monetari sia di una particolare propensione al commercio.
Necker conosce benissimo l’attività ed il ruolo che i mercanti svolgono all’ interno del sistema economico e ne analizza i possibili comportamenti da cui, di conseguenza, si generano effetti positivi o negativi per la popolazione. Ciò che il ginevrino considera estremamente dannose sono le speculazioni. Esse si possono verificare nell’ attività di mediazione nella compravendita. A dire il vero è lo stesso Necker che, tramite la sua banca, molto probabilmente tra il 1763 ed il 1764, si dedicò ad una serie di operazioni speculative sia sul commercio dei grani sia attraverso operazioni di vera e propria finanza.
La liberalizzazione del commercio interno, sancita dalla legge del 1763, e soprattutto la perdita delle colonie americane diedero modo a Necker di approfittare delle circostanze ottenendo cospicui guadagni.
Per quanto concerne questo ultimo aspetto sembra che il ginevrino abbia avuto, in anticipo, cognizione di alcuni dettami del trattato di Parigi che prevedevano il rimborso di titoli canadesi, da parte della Francia, ad un prezzo uguale a quello di emissione purché tale rimborso venisse richiesto da cittadini inglesi. Giocando sui tempi, Necker acquistò i titoli svalutati dai francesi, li trasferì a Londra da dove poi venne richiesto alla Francia il rimborso tramite mediatori bancari. Si stima che questa operazione finanziaria fruttò guadagni del trecento per cento(53).
Storici dell’ economia quali Fernand Braudel ed Ernest Labrousse parlano di un Necker dedito a "les opérations de commando dont la vie commerciale et relative puissance de capitaux bancaires multiplient les occasion: spéculations sur le blés, sur les denrées exotique; les coups de bourse"(54).
Ad ogni modo in un contesto politico che liberalizzi il mercato interno dei grani, sono le possibili speculazioni dei mercanti a destare le maggiori preoccupazioni di Necker.
L’attività dei mercanti può risultare utile nel caso in cui questi acquistano i grani nel periodo immediatamente successivo alla raccolta per poi rivenderlo quando le quantità disponibili iniziano a scarseggiare.
Tali operazioni, sebbene portano ad una lievitazione dei prezzi, non vengono considerate particolarmente dannose poiché i grani acquistati dopo la raccolta corrono a prezzi molto bassi:
S’il fait ces achats avec modération, et lorsque les prix sont bas, il est encore utile ; car il spécule à la fin de l’automne, époque de la plus grande abondance, pour revendre vers le milieu du printemps , époque ordinaire des renchérissemens; il prévient une trop grande inégalité dans les prix, de l’année, puisqu’ il les soutient au commencement par ses achats, et les modère à la fin par ses ventes…Les marchands sont donc utiles toutes les fois qu’ils transportent des blés d’un lieu dans un autre, et toutes les fois aussi qu’ils achètent pour revendre, fût-ce sur le lieu même, pourvu qu’ils ne fassent leurs achats qu’à l’ époque et dans les années où les prix sont bas(55).
Il problema, continua Necker, nasce nel momento in cui, volendo accrescere i propri guadagni, i mercanti intervengono nella compravendita dei grani quando i prezzi sono alti già in partenza. Il guadagno dei mercanti avverrà a scapito dei compratori che pagheranno carissimo il grano. L’interesse generale entra così in contrasto con quello particolare dei mercanti incrinando l’ armonia generale. Complessivamente il regno avrà a disposizione una quantità costante di grano, ma la presenza della figura dei mercanti, indispensabile per il trasporto del prodotto alimentare da una provincia all’ altra, è motivo di continui aumenti dei prezzi. Necker fa notare che le variabili che concorrono a questo tipo di speculazione, dannosa per l’ordine pubblico, sono tante:
L’ étendue de ces profits dépendra de l’habileté des spéculateurs, de la rareté plus ou moins générale de la denrée’, de la rapidité plus ou moins grande de la concurrence, de la force de l’esprit d’imitation. De telles opérations de la part des marchands sont très fâcheuses, puisqu’elles haussent les prix pour leur seul intérêt, au risque de troubler l’ordre public, et au grand détriment du peuple, qui souffre toujours, ainsi que nous l’avons montré, des renchérissemens et des révolutions dans les prix(56).
L’inquietudine della pubblica opinione è causata, sempre secondo il ginevrino, non dalla consapevolezza delle quantità di grano disponibili o da valori ben definiti, ma è frutto dell’ immaginazione. La speranza o il timore alimentato dalle impressioni che si propagano nella società, attraverso il ruolo e le notizie date dai mercanti, muovono il mercato facendo, in base alle circostanze e alle convenienze di questi, aumentare o diminuire il prezzo dei grani(57).
Non va inoltre trascurato il numero dei mercanti presenti nel mercato.
In controtendenza con gli assiomi dei liberali, Necker non ritiene conveniente per i consumatori un presenza quantitativamente eccessiva dei mediatori della compravendita. Per il ginevrino non ha rilevanza, nella determinazione del prezzo finale dei grani, la concorrenza che scaturisce tra i mercanti. La diminuzione del numero dei venditori ovvero dei proprietari dovuta proprio al ruolo che giocano i mercanti, porta con sé una nuova concorrenza, quella tra i mercanti, che non è di fatto così conveniente per i consumatori:
moins il y a de vendeurs., plus ils peuvent s’entendre et former alliance contre les acheteurs. Or l’intervention des marchands dans le commerce des grains, diminue le nombre des vendeurs avec lesquels, les consommateurs ont à traiter(58).
Se non vi fossero i mercanti, il numero dei venditori sarebbe uguale al numero dei proprietari.
L’ intervento dei mediatori non fa altro che diminuire il livello concorrenziale nella vendita dei grani e, inoltre, il prezzo finale del prodotto sarà gravato dalla provvigione spettante a questa categoria di lavoratori.
Il tutto, avviene a scapito del compratore finale. Secondo Necker chi sostiene il contrario non fa altro che sommare il numero di proprietari con quello dei mercanti, facendo credere che il numero dei venditori aumenti.
La liberalizzazione del commercio che avrebbe dovuto favorire i consumatori, in realtà, produce effetti opposti(59).
Questo discorso è valido sia se si analizza il mercato di uno Stato con altri Stati, sia se si parla di commercio interno ad un singolo Stato.
Il trasferimento dei grani da una provincia all’ altra è suscettibile delle stesse regole e produce effetti simili al commercio tra Stati(60).
Gli svantaggi per i consumatori vengono alimentati in considerazione del fatto che, se in generale il bisogno di vendere e comprare determinano il prezzo di un prodotto, i mercanti, disponendo di denaro liquido e cioè di una fonte di credito, possono accumulare grani in modo da farne lievitare il prezzo(61).
Comportamenti di questo tipo venivano comunemente ritenuti ininfluenti sui prezzi della derrata poiché la massa totale dei grani, essendo di notevoli proporzioni, avrebbe ammortizzato ogni speculazione mantenendo il prezzo finale su livelli accettabili.
Necker contesta questa idea sottolineando ancora una volta come le caratteristiche della Francia, popolazione e territorio in testa, possono mal sopportare contraccolpi destabilizzanti per l’ ordine pubblico.
Se una legge non può contenere in sé quella flessibilità, intesa come capacità di adattamento, necessaria a far fronte ai bisogni umani inscindibilmente legati ai cicli della natura, che fare? È questa la domanda che si pone il banchiere ginevrino:
Mais est-il quelque modification assez constamment convenable pour qu’on puisse l’ordonner par une loi perpétuelle? ou si toute loi ne peut être assez flexible pour remplir les conditions demandées par le bien Public, faut-il la changer toutes les années? Peut-on enfin établir un système à l’abri d’inconvénients? ou doit-on se contenter d’éviter les grands écarts? Ce sera l’objet de nos recherches(62).
Privare uno Stato del surplus prodotto, attraverso la libera esportazione dei grani, è il peggior torto che si possa perpetrare al bene pubblico. Occorrono piuttosto degli interventi legislativi regolatori, rispetto ai quali Necker si sofferma, esaminando, anche attraverso una puntuale lettura dei risultati ottenuti in passato, i pro e i contro di una politica economica che determini il prezzo sopra il quale l’esportazione di grani debba essere vietata, le quantità esportabili, i tempi in cui sia permesso esportare grano ed i luoghi ossia mercati in cui avviene la compravendita.
Riferendosi alla questione dei prezzi è la legge francese del 1764 che viene presa di mira. Con questa legge si vietava l’esportazione del prodotto se il prezzo del grano avesse superato le trenta lire per ogni sestiere. Secondo Necker questa norma è inutile. È la quantità superflua dei grani che può bilanciare l’ineguale rapporto di forza esistente tra venditori e compratori. Far uscire il grano dal regno al di sotto di un determinato prezzo può infatti portare, nel medio periodo, ad aumenti vertiginosi dei prezzi. La causa di ciò risiede in uno squilibrio tra le quantità di grano che a fine annata saranno basse, e la domanda
… la loi qui a mis obstacle à cette sortie tant que les blés n’ étoient pas à trente livres, devient un dommage réel pour le royaume, puisque c’est autant d’argent de moins qu’il reçoit en échange de ses productions(63).
Risulta, pertanto, impossibile stabilire per legge un prezzo che, tenendo conto delle quantità di grano prodotte, sia conveniente ad un regno, visto che il Legislatore non può prevedere se ci sarà una buona raccolta o meno(64).
Una legge può invece regolare il periodo in cui i grani possono essere esportati.
Ma a riguardo il ginevrino esprime il suo disappunto. Un’imposizione come questa non mette a riparo da quegli stessi inconvenienti propri di una politica liberale e/o proibitiva:
Celui qui seroit mis à la sortie des grains n’en pêcheroit pas qu’on n’en exportat dans les temps de cherté générale, et le peuple croiroit bientôt que c’est pour enrichir le fisc qu’on favorise ce commerce; on ne sauroît trop éloigner tout motif de confusion dans les idées du peuple sur le seul objet qui remplisse sa pensée, le pain et le blé(65).
L’Inghilterra era l’ unico paese ad aver adottato una legge che riconosceva delle sovvenzioni a coloro i quali esportassero i grani ad un certo prezzo.
Guglielmo d’Orange fu il promotore di una simile legislazione. Necker, su questo aspetto particolare della legislazione inglese, oltre a focalizzare la sua attenzione sui risvolti concreti della legge, si sofferma anche sulle motivazioni che spinsero Guglielmo a legiferare in tal senso. Avendo già dalla sua parte il partito dei Whigs, il sovrano inglese cercò un’apertura politica nei confronti dei Tories. Questi erano rappresentanti di proprietari terrieri che avrebbero usufruito delle sovvenzioni previste dalla norma.
Necker offre al lettore una riproduzione della società del suo tempo. Una società contraddistinta da una spaccatura sociale che in campo legislativo non viene superata ma piuttosto accentuata:
Qu’on prenne garde aussi que toutes les lois qui conviennent aux propriétaires sont toujours plus vantées que celles qui sont favorables, au peuple cela est naturel: toutes les idées, celles même qui sont répandues dans les livres, ne se forment et se fortifient que par le commerce des gens instruits et capables de penser; le peuple en est écarté: il n’a donc aucune influence sur les opinions; et les s’ élèvent toutes de la classe des propriétaires. On y remarque sans doute un grand nombre de personnes capables de préférer le bien public à leur convenance particulière; mais comme, sans y penser, chacun généralise son espèce, les propriétaires finissent par se persuader qu’eux seuls composent l’état(66).
La lettura degli avvenimenti, senza trascurarne la concatenazione, diventa un metodo per capire la portata di un fenomeno. Le idee, afferma Necker, si perpetuano con la tradizione(67).
Un simile giudizio sarà il motivo dominante di tutte le riflessioni del futuro ministro di Luigi XVI e non solo. Lo stesso Edmund Burke leggerà la Rivoluzione del ‘89 in quest’ ottica, tracciando così il confine tra il pensiero conservatore e radicale soprattutto in ambito costituzionale(68).
Tornando alla legge inglese e ai suoi effetti, notiamo che il punto su cui batte la critica di Necker è dato proprio dal prezzo finale a cui arriverà il grano.
Le sovvenzioni per l’esportazione avranno come conseguenza l’aumento dei prezzi. In mancanza di premi ai produttori, il grano venduto a ventisette lire sarebbe, ad esempio, stato venduto a ventiquattro lire.
Le quantità superflue del prodotto non faranno così da calmiere dei prezzi, dimostrando che un simile espediente ha solo il fine di far alzare il prezzo dei grani all’ interno del paese favorendo il ceto dei proprietari. "Sarebbe meglio – afferma Necker – incoraggiare con dei premi la coltura dei terreni abbandonati piuttosto che l’esportazione"(69).
Se si guarda ancora alla storia dell’Inghilterra, si nota come questo paese sia diventato superiore nelle attività commerciali per una serie di circostanze che Necker mette in evidenza. Innanzitutto è stata ovviata la mancanza di manifatture attraverso una serie di accordi economici con Russia e Portogallo. In secondo luogo l’Inghilterra ha portato avanti una politica atta a tenere lontane commercialmente la Francia e la Spagna. A questo si aggiunga la superiorità indiscussa che l’isola britannica possiede sul mare e che le ha permesso un commercio privilegiato, continuo e sicuro con le colonie asiatiche ed americane. Infine, non va trascurata l’istituzione di una forte moneta cartacea che ha permesso, visto il cambio favorevole, un pagamento più semplice e svincolato da altri fattori. Il regno inglese, che vede al suo interno mano d’opera a costo più alto, la scarsezza di produzioni agricole particolari e una teorica difficoltà di natura geografica in campo commerciale, ha potuto così permettersi persino di porre dazi sull’ingresso dei vini francesi. I premi sull’esportazione dei grani fanno parte, in Inghilterra, di un puzzle politico-economico complesso ed hanno avuto tutt’al più il compito di equilibrare il prezzo rispetto al corso del vasto mercato inglese.
A queste considerazioni viene aggiunta la variabile demografica che incide sugli aiuti economici da elargire ai produttori:
La Hollande contient un million d’ habitants, l’Angleterre six, la France vin 24; ainsi, à égalité de récolte, quand la Hollande ou tout autre état semblable, à besoin d’ un secours extraordinaire de cent mille setiers pour modérer ses prix, il en faut six cents a l’Angleterre et deux millions quatre cents à la France ; cependant, il s’en faut bien que cette disproportion dans les besoins soit balancée par une semblable disproportion dans les ressources; car, s’il n’y avoit, par hasard, que trois cent mille setiers à vendre dans les marchés de l’Europe, et, que les seuls acheteurs fussent les trois nations que nous venons de nommer, la Hollande parviendroit à s’emparer du tiers de ces blés, vu que, pour l’acquisition d’une telle provision, elle seroit égale en force à la France. et à l’Angleterre; alors cependant, elle atteîndroit à son but, tandis que les deux autres royaumes; en obtenant la même quantité, ne seroient pas secourus.
Ainsi, plus un pays est peuplé, plus il doit être timide dans les lois d’exportation, parce qu’il éprouve nécessairement de plus grandes difficultés que les autres états, lorsqu’il veut obtenir des secours proportionnes à ses besoins(70).
Il mercato della Francia aveva conosciuto diverse restrizioni anche all’interno del proprio territorio.
Le carestie o l’abbondanza dei raccolti sancivano il divieto di trasportare grano da una provincia all’ altra o meno, ne determinavano le quantità di scorta o ne permettevano la libera esportazione all’ interno del regno.
Con una legge del 1770, subito dopo abrogata, si stabiliva la libertà interna del commercio, ma si dettavano alcune condizioni che, a giudizio di Necker, contraddicevano l’ idea stessa di libero commercio. A chi esercitava il commercio del grano era richiesta l’iscrizione presso i tribunali ed era proibito commerciare al di fuori dei mercati pubblici.
Queste misure avrebbero dovuto, secondo il legislatore, evitare abusi e speculazioni(71) ma, continua Necker, sono piuttosto dettate da indecisionismo politico e miopia in materia economica(72). "La timidezza della legge" nasce da quell’incertezza legislativa che rispecchia i timori della pubblica opinione francese pessimista e timorosa del futuro, dei propri diritti e permeata da quel sentimento d’ingiustizia proprio delle società fondate sul censo che mortifica la sacralità della proprietà(73).
La scelta di fissare a monte il prezzo del grano risulta irragionevole per gli stessi motivi che abbiamo riscontrato in materia di commercio con gli Stati esteri.
Necker puntualizza ancora una volta che le quantità di grano variano di anno in anno e, non solo non è possibile prevedere i ritmi della Natura, ma in più una legge del genere non potrebbe concretamente considerare alcuni costi (come quelli di trasporto ad esempio) aggiuntivi.
Lo stesso intervento da parte del Governo attraverso aiuti economici o la diretta gestione delle mediazioni tra le diverse parti del Regno, al fine di evitare aumenti eccessivi dei prezzi dettati da annate in cui è scarso il raccolto, alla lunga insospettirebbe la pubblica opinione creando malcontento. Il governo verrebbe accusato di essere esso stesso fautore di speculazioni.(74)
Una distribuzione di denaro mirata, che oggi definiremo di carattere assistenzialista, in modo che gli abitanti della provincia colpita dalla carestia possano acquistare il grano, aggraverebbe la situazione perché ricevere l’ elemosina non è cosa gradita e soprattutto l’aspettativa di veder scendere i prezzi del prodotto non verrebbe soddisfatta.
Necker diffida continuamente il lettore dal credere che una legge permanente possa ovviare alle miriadi di situazioni negative in cui il sistema economico-commerciale può incappare:
Tu ne tueras point, tu ne déroberas point, tu ne rendras point dé faux témoignage, sont des lois éternelles dont la simplicité absolue est conforme a la simplicité du principe qui les a dictées: ce sont des lois faites pour les hommes de tous les pays et de tous les siècles mais il n’est rien qui puisse moins s’accorder avec cette simplicité, que la législation sur les blés. Comment la même gêne, la même liberté, le même système, pourroient-ils convenir à tous les temps, lorsque ces temps, en matière de blés, n’ont aucun rapport ensemble? L’année abondante rappelle sans cesse, l’idée du superflu, l’année disetteuse présente continuellement la crainte de manquer du nécessaire. On ne peut donc empêcher qu’une loi permanente, en traversant des circonstances si dissemblables, ne soit nécessairement imparfaite, quand elle est absolue(75).
Non produce alcun vantaggio, infine, una legislazione che preveda i cosiddetti premi di immissione. Questa misura serve ad incoraggiare i mercanti nell’ acquisto di grano nei regni viciniori anche se il prezzo è alto. Così facendo, al fine di contrastare dunque la scarsezza di derrate all’ interno del regno, vengono premiati quei mercanti che altrimenti non avrebbero avuto profitti congrui dalla compravendita.
La critica di Necker nei confronti di questa pratica è netta:
Ces primes ont leurs inconvénients, ainsi que leur avantage. D’abord, aucune loi permanente ne peut rien prescrire sur ces sortes d’encouragements, puisque leur mesure doit dépendre de celle des prix dans toute l’Europe; ces primes ne peuvent donc être déterminées que par l’administration; mais elle, a besoin de plusieurs connoissances préliminaires pour déterminer le moment où ces rétributions seront convenables, et le degré d’ étendue qu’on doit leur donner; il faut qu’ elle soit éclairée sur les besoins du royaume; il faut qu’elle ait observé si la cherté qui règne au dehors est générale, ou particulière à quelques pays; il faut qu’elle en examine la causé, afin de juger si cette cherté sera passagère ou durable. Sans ces connoissances, et beaucoup d’autres encore, le gouvernement donneroit des primes au hasard, et il feroit des sacrifices d’argent, non seulement inutiles, mais encore dangereux(76).
Ancora una volta si vuole dimostrare che le variabili legate al sistema economico-commerciali sono svariate e nessuna legislazione permanente può essere efficace. Determinare a priori il numero di mercanti, che sarà proporzionato rispetto alle somme messe a disposizione dal regno, può rappresentare anche un modo per aprire la professione ad un numero sempre crescente di individui.
Su questo aspetto, chi si aspetterebbe dal ginevrino un giudizio positivo rimane deluso. Necker difende la logica del privilegio assoluto portando come esempio il caso della Compagnia delle Indie che permette, attraverso il ristretto numero di mediazioni e mediatori (mercanti) e tenendo basso il livello concorrenziale, di non fare lievitare i prezzi dei prodotti importati e di tenere alti i prezzi di quelli esportati(77).
Il relativismo applicato alle logiche economiche del commercio porta il banchiere sia a scagliarsi contro i privilegi sia a difenderli.
La contraddizione è solo apparente se si tiene conto del fatto che la riflessione di Necker non perde mai di vista gli effetti che si avrebbero, intervenendo o meno di volta in volta, con una legge particolare che prevede aiuti economici, imposte, obblighi e restrizioni, sul prezzo del grano.
Se si attuasse di anno in anno una legislazione particolare sarebbero evitati gli inconvenienti propri di una legge permanente.
Lo stesso Necker ne è convinto, ma la questione centrale su cui pone l’attenzione è data dalle qualità del legislatore.
Il talento, la capacità e la possibilità di agire in ogni momento a seguito della minuziosa analisi delle circostanze, sono le caratteristiche che il legislatore dovrebbe possedere:
S’il y avoit constamment à la tête de l’ administration, un homme dont le génie étendu parcourût toutes les circonstances, dont l’éprit moelleux et flexible sût y conformer ses desseins et ses volontés; qui , doué d’une âme ardente et d’une raison tranquille fût passionné dans la recherche du bien et calme dans, le choix des moyens; qui, juge, intègre et sensé des droits des différentes classes de la société, sût tenir d’une main assurée la balance entre leurs prétentions; qui se faisant une juste idée de la prospérité publique, la secondât sans précipitation, et considérant les passions des hommes comme un fruit de la terre...(78) [...] "Ah! s’il existoit un administrateur capable de varier sans cesse les lois sur les grains d’une manière conforme au bien de l’état, et de n’ètre pas effrayé par cette entreprise, on devroit peut-être à ses vertus de le préserver d’un semblable écueil(79).
Ritorna, anche in questo scritto, il discorso fatto nell’Elogio di Colbert:
Bisogna, per farsene un’idea, riunire l’estensione alla profondità, la facilità all’esattezza, la rapidità all’adeguatezza, la sagacia alla forza, l’immensità alla misura. Così davanti allo spirito di amministrazione, tutti gli altri spariscono. Lo spirito di società si limita a considerare gli oggetti successivamente sotto differenti aspetti e attraverso dei rapporti ingegnosi, ma immediatamente intuibili. Bisogna che questo spirito non presenti che combinazioni semplici, affinché esse siano proporzionate all’attenzione dell’istante che deve coglierle. Lo spirito di amministrazione è di ben altra tempra: gli oggetti che deve collegare, le relazioni che deve cogliere, sono a grande distanza esso deve aspirare all’omaggio delle nazioni e dei secoli e deve proporzionare le proprie scelte all’estensione dei loro lumi. Così, l’uomo dotato di questo spirito, nel prendere coscienza delle proprie forze, è pressoché solo; non può condurre gli altri fino ai limiti di ciò che egli vede e la sua grandezza è una grandezza sconosciuta: spesso, nondimeno, il segreto non è confidato che al succedersi dei tempi. Il tempo e la posterità sono gli unici giudici....bisogna che egli scopra, con un solo sguardo, lo scopo e i mezzi, i rapporti e le contraddizioni, le risorse e gli ostacoli: bisogna, per così dire, che l’universo si dispieghi davanti a lui(80).
L’istituzione di un consiglio permanente con la facoltà di modificare le leggi sul grano annualmente, se all’apparenza permetterebbe di porre rimedio agli inconvenienti di cui sopra, in realtà è impossibile da attuare:
D’ailleurs, les opérations de l’esprit qui tiennent à un coup d’oeil vaste et rapide, à la fécondité des ressources, à cette mesure surtout si peu connue, ne peuvent jamais être partagées(81).
Se da un lato ogni intervento legislativo è messo sott’accusa poiché non conduce al superamento delle incertezze, dall’altro la libertà assoluta nel commercio dei grani non è esente dalle critiche di Necker che si esprime così:
Qu’en effet une heureuse abondance, ou un amour excessif pour la liberté en économie politique, détermine à n’imposer aucune limite au commercé des grains, et que chacun se livre à ce commerce a sa fantaisie; un moment arrivera où les spéculations inconsidérées des marchands, les haut prix , les mouvements populaires, les craintes des disette, commanderont au gouvernement d’abroger cette loi(82).
Le modifiche legislative devono essere saggiamente apportate di anno in anno in base alle circostanze: è questa la soluzione prospettata da Necker, il suo punto di vista, su cui gravita il trattato sui grani.
In particolare, per il regno di Francia, si propone la proibizione dell’esportazione dei grani. Una proibizione però, si affretta a puntualizzare il ginevrino, non assoluta ma che preveda alcune eccezioni.
Il banchiere conosce le regole del mercato e non esclude a priori le possibilità che le circostanze positive possono offrire:
Car, ainsi que nous l’avons fait observer, ce seroit une imprudence fâcheuse que de s’engager à ne jamais laisser sortir des grains; ce seroit renoncer peut - être à profiter de l’abondance, en ne donnant pas le moyen d’échanger une denrée superflue et périssable, ou contre d’autres biens plus ou moins passagers, ou contre des richesses permanentes telles que l’or et l’ argent(83).
Per Necker l’esportazione dei grani deve avvenire quando si verificano alcune condizioni.
Occorre che il prezzo del grano, all’interno del regno, sia relativamente basso e che vengano messe da parte delle scorte equivalenti al consumo mensile tra febbraio e giugno.
Il motivo di questa misura sta nel fatto che, a seguito della raccolta del grano i prezzi siano, per circa tre mesi, relativamente bassi e che poi crescano fino al periodo della successiva mietitura (tra luglio e novembre in relazione alla parte del regno che si consideri).
La consapevolezza diffusa della presenza di sufficienti, e mai eccessive, provvigioni preserverebbe da inutili e dannose inquietudini e da aumenti dei prezzi.
Viene poi consigliata l’ esportazione delle farine piuttosto che della materia prima e la revisione decennale della legge che detta queste condizioni(84).
Inoltre, andrebbe sempre permessa la fuoriuscita dal regno dei grani importati(85). Ciò non intaccherebbe in nessun modo il prezzo del grano all’ interno del regno ma, al contrario, gioverebbe all’ erario.
Per quanto riguarda poi la circolazione dei grani all’ interno del regno, il discorso fatto da Necker tiene in considerazione i prezzi e le distanze tra le varie province. Ne consegue così la necessità di includere nel mercato le figure dei mediatori (mercanti).
Il punto di partenza del ragionamento è che la circolazione delle quantità del prodotto eccedenti debba essere sempre permessa.
La stessa speculazione che scaturirebbe dalla presenza di profittatori è vista positivamente nei momenti in cui i prezzi sono bassi(86).
Un simile giudizio nasce dalla tendenza di autogiustificare le operazioni bancarie e speculative di cui lo stesso Necker e la sua banca furono protagonisti(87).
È il livello dei prezzi che consiglia di tollerare la presenza di piccoli speculatori che si pongono quali mediatori tra i proprietari delle terre e gli acquirenti del grano, permettendo di conseguenza la compravendita al di fuori dei mercati pubblici.
Il suffiroit, ce me semble, que le prix jusqu’auquel il seroit permis de vendre et d’acheter, sans aucune gène ni restriction, fût au-dessous de trente livres le setier; car il me paroît convenable d’étendre la liberté du commerce intérieur aussi loin qu’ il est possible, sans un grand danger(88).
Nei momenti in cui i prezzi del grano sono invece alti, un numero eccessivo di speculatori creerebbe non pochi problemi facendo crescere a dismisura un sentimento di inquietudine tra la popolazione. Questa inquietudine deve essere tenuta sempre sotto controllo, governata e domata attraverso l’intervento legislativo che non deve avere in sé, come abbiamo visto, quei caratteri di assolutezza astratta e illimitatezza. Occorre piuttosto evitare che il malcontento e l’inquietudine dell’ opinione pubblica si riversino contro i proprietari delle terre. Ogni intervento deve essere finalizzato a contenere il livello dei prezzi e per far ciò si deve colpire per prima cosa la speculazione, riducendo il numero dei mercanti.
La compravendita sarà allora permessa solo nei mercati pubblici dove, senza alcuna mediazione, i proprietari e gli acquirenti effettueranno la compravendita.
La presenza dei mercanti, secondo Necker, tornerà ad essere utile e sarà tollerata quando occorrerà trasportare il grano dal nord al sud della Francia.
Tale circostanza richiede l’ impiego di capitali ed energie di cui i mercanti sono provvisti e, per il bene della provincia in cui il grano deve essere trasportato, non bisogna porre restrizioni(89). Se applicate al commercio dei grani, libertà di mercato e proibizione rappresentano due facce della stessa medaglia. L’importanza di questa fonte primaria per l’alimentazione dell’ essere umano non sembra mai essere persa di vista dal ginevrino che, analizzandone le diverse circostanze in ambito commerciale, dà risposte concrete ed immediate che muovono da una visione della società nel suo complesso.
In ragione di una forza intrinseca riconosciuta alla proprietà che si veste, in questa parte del trattato, di sacralità(90), colpisce l’immagine utilizzata nella descrizione del rapporto esistente tra proprietari e coloro i quali vivono del loro lavoro che vede i primi nelle vesti di leoni e i secondi come animali indifesi(91).
La propensione della classe proprietaria sarà quella di accrescere il loro potere economico e relegare "la classe de la nation qui vive de son travail" al minimo occorrente per vivere e continuare a lavorare.
Il fine dei proprietari si concretizza a partire dal momento in cui viene stabilito il prezzo del grano e del lavoro.
Necker descrive in maniera puntuale i rapporti di forza che vigono all’interno della società del suo tempo. Ha contezza delle degenerazioni che nascono da una posizione di assoluta preminenza di un gruppo minoritario di cui la Francia di Luigi XVI, salito al trono nel 1774, era ormai un esempio dai contorni nitidi. Sembra che abbia già un’idea chiara delle contraddizioni di quella società sull’orlo di una crisi irreversibile che, nel giro di una quindicina d’anni, con lo scoppio della Rivoluzione francese, sarà la causa dello sconvolgimento degli assetti dell’ Europa del XIX secolo.
Dappertutto, secondo Necker, si assiste alla stessa scena: chi vive del proprio lavoro è sostanzialmente tenuto ai livelli minimi di sussistenza(92).
Se, come si è visto, le prerogative della proprietà devono essere rispettate, non resta che intervenire attraverso una legislazione sociale che possa contenere l’impoverimento di contadini, di compagnons(93) e della maggioranza della popolazione in rapporto al prezzo dei grani. Sono gli aumenti eccessivi del prezzo che mettono a dura prova i precari equilibri, o latenti conflitti che dir si voglia, che caratterizzano la società d’Ancien Regime. Infatti, il sistema agricolo del tempo entrava fortemente in crisi nel momento in cui si fosse verificata un’ annata di scarso raccolto.
Miseria diffusa, condizioni di vita durissime, alto tasso di mortalità sommate all’ impossibilità di comperare del pane produrranno, sempre più frequentemente nell’ ultimo ventennio del XVIII secolo, sommosse e sollevazioni popolari.
Necker sa benissimo che nessuna legge può contenere i rimedi per supplire l’alternanza delle annate, buone o cattive in riferimento alla raccolta dei grani. Eppure, osserva il ginevrino, la Francia nel corso degli ultimi cinquant’anni ha esportato quantità di grano tra l’ 1% e il 2% del consumo totale e ciò lascerebbe supporre che l’interesse dei proprietari, supportato da una buona compensazione tra annate di cattivo e di buon raccolto, non abbia pregiudicato l’ andamento dei prezzi. Prezzi che, nonostante ciò, sono cresciuti frequentemente tra il 25% ed il 100%.
La causa di ciò e imputabile agli abusi di un’ eccessiva libertà o proibizione in materia di esportazioni. Ed è su questo punto che bisogna intervenire e Necker consiglia cosa è giusto fare.
Occorrono quantità di prodotto superfluo né troppo grandi né eccessivamente scarse che, se accumulate quando il prezzo è basso e vendute quando questo cresce, concorrono a calmierare i prezzi. Bisogna contrastare le speculazioni e non ostacolare il commercio tra una provincia e l’ altra.
In tempi di carestia è opportuno concedere i cosiddetti premi di immissione e si potrebbe persino accordare ai panettieri un guadagno più alto quando il prezzo è basso e viceversa(94). Questi interventi vengono considerati alternativi rispetto ad alcune proposte che volevano invece eliminare, ma attraverso particolari indennizzi, il diritto di mercato che gravava sui proprietari a vantaggio dei vari signori, in virtù di antiche concessioni o di coloro i quali partecipavano, a vario titolo, alla misura dei grani ed esigevano pertanto una paga che scaturiva dalle loro funzioni e, molto spesso, dagli interessi che riscuotevano per aver investito capitali.
Colpire questo diritto non avrebbe significato nulla per il popolo che, indirettamente, avrebbe pagato ugualmente il corrispettivo di tale rendita attraverso una nuova imposta(95).
L’ intervento del sovrano che non può esimersi dalle responsabilità che gli competono, può spaziare, secondo le circostanze, dalla concessione di premi di immissione a chi importa dai paesi esteri del grano, alla nomina di commissari a lui fedeli che impongono prezzi e luoghi per la vendita.
Ma una volta superate le difficoltà, Necker raccomanda il ripristino delle libertà(96).
Alcune considerazioni riguardanti esclusivamente la città di Parigi che nel regno rappresenta il centro propulsore di tutti i fenomeni, chiudono l’analisi del ginevrino. La capitale ha una popolazione di circa seicentomila persone che fa sì che ogni piccola inquietudine o malcontento possano degenerare in maniera catastrofica. In ragione di ciò, massima deve essere l’attenzione prestata dal governo alle rimostranze che spesso sono frutto dell’ immaginazione ma possono produrre effetti drammatici.
Il costo del trasporto, che incide sul prezzo finale del grano mediamente più alto e la maggiore quantità di ricchezza presente a Parigi devono mantenere un equilibrio che rischia di essere messo in discussione continuamente. Cercare di tenere bassi i prezzi del grano forzatamente vorrebbe dire attirare un maggior numero di abitanti che non contribuirebbero a rendere più stabile l’ordine(97).
Il ruolo che gioca la pubblica opinione non va perciò mai sottovalutato.
Ogni decisione presa in materia economica non deve entrare in conflitto con le aspettative della popolazione e la precipitazione è considerata come cattiva consigliera dell’ amministratore saggio e ispiratrice dei "législateurs de pays sauvages"(98).
L’esame della questione dei grani non deve essere sovrapposta alla teoria monetarie. Il denaro, considerato un’invenzione utile in campo commerciale, ha le sue regole che si fondano su principi e osservazioni che sovente non tengono in considerazione le questioni politico-sociali che possono sorgere.
Necker critica chi si crede in possesso delle cognizioni tecniche in campo economico e le applica in maniera asettica e astratta in un ambito delicato come quello trattato in questa sua opera. Occorre, piuttosto, avere un quadro d’insieme.
Una saggia legislazione sulla circolazione dei grani deve essere orientata a quella moltitudine che vive del proprio lavoro e che non è chiamata al processo di formazione delle leggi.
La giustizia e la libertà necessitano di una continua osservazione e meditazione sugli effetti che scaturiscono da ogni intervento in relazione ai tempi e alla situazione reale.
La felicità dello Stato collima con la salvaguardia dei deboli contro i potenti e il requisito essenziale per un’amministrazione di buon senso è la moderazione:
Que la méditation ne cesse donc jamais de s’ exercer sur cet important objet; puisse-t-il en résulter un jour une lumière générale et des vérités permanentes , qui , en assurant le repos et la prospérité de l’état, deviennent en même temps la sauvegarde des foibles contre les puissans. Je les ai cherchées, ces vérités , sans esprit de parti, sans humeur et sans crainte; mais je n’ose faire hommage que de mes efforts; il en est une, cependant, dont je crois être sur, c’est que la modération est la condition essentielle de toute administration sage, et de toute législation durable en matière de subsistances(99).
Antonio Tomarchio
NOTE
(1) Cfr. A. Mathiez - G. Lefebvre, La Rivoluzione francese, 1962, Torino, Einaudi, vol. I, p. 21.
(2) F. Furet - D.Richet, La Rivoluzione francese, agosto 1974, Bari, ed. Laterza, pp. 50-52.
(3) Cfr. H. Lüthy, La Banque Protestante en France, 2 voll., 1961, Paris, vol. II, p. 397.
(4) Madame de Staël, Considerazioni sui principali avvenimenti della Rivoluzione Francese, trad. di E. Omodeo, Biblioteca Storica diretta da A. Omodeo, Milano, Ispi, 1943, p. 96.
(5) A. Polari - M. Giappichelli, Dalla guerra dei Trent’ anni alla seconda metà del secolo XIX, Prato, Giunti, 1995, p. 213.
(6) Basti qui ricordare i numerosissimi contributi dei fautori della "libéralisation" e dei loro avversari, i fautori della regolamentazione. Da parte fisiocratica e liberista l’ Avis au peuple sur son premier besoin, ou Petits traités économiques (1768), le Lettres sur les émeutes populaires qui cause la cherté des bleds, et sur les précautions du moment (l768) e i Résultats de liberté et de l’immunité du commerce des grains, de la farine et du pain (l768) dell’ Abate Baudeau; le Observations sur les effets de la liberté du commerce Grains et sur ceux des prohibitions... (1770) di Dupont de Nemours; L’interêt général de l’état (1770) di Mercière de la Rivière; le Lettres sur les Grains... (1771) di Turgot e il Du commerce des bleds (l 771) e le Lettres sur le commerce grains (1774) di Condorcet. A difesa della regolamentazione, i Dialogues di Galiani pubblicati a Parigi nel 1770; il Du pain et du bled (1774), la Lettre à l’auteur des Observations sur le commerce des grains (l 775) di Linguet ed il Du commerce des grains di Mably.
(7) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, Paris, 1775, cit. p. 1.
(8) "Vivre aujourd’hui, travailler pour vivre demain, voilà l’unique intérêt de la classe la plus nombreuse des citoyens. Nés sans propriétés, ils ne peuvent être nourris qu’en méritant, par leurs services, une modique part an superflu du riche...". Ivi, cit. p. 2.
(9) "La législation des grains, qui semble ordonnée dans un pays par les lois de la nature, en bouleverserait un autre doué d’un sol moins fécond, situé différemment, et gouverné par des moeurs opposées". Ivi, pp. 3-4.
(10) Ivi, p. 5.
(11) Ivi, p. 7.
(12) Ivi, nota pp. 9-10.
(13) "Pour prendre un parti sur cette importante question il faut nécessairement la considérer dans son rapport avec la prospérité de l’état". Ivi, p. 10.
(14) Ivi, p. 11.
(15) G. Ricuperati, Il pensiero politico degli illuministi, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, vol. IV tomo II, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1975, pp. 346-348.
(16) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit., p. 13.
(17) Ivi, p. 14.
(18) Su ciò si veda A. Mathiez - G. Lefebvre, La Rivoluzione francese, 1962, Torino, Einaudi; F. Furet - M. Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione francese, cit; A. Prosperi - P. Viola, Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 2000.
(19) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit. pp. 16 -17.
(20) Ivi, p. 18.
(21) Ivi, pp. 22-24.
(22) Ivi, pp. 25-26.
(23) Ivi, cit. p. 27.
(24) Ibidem.
(25) A. Roncaglia, La ricchezza delle idee, Bari, Laterza, 2001, pp. 172-179.
(26) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit., p. 30
(27) Ivi, pp. 36-38.
(28) J. Necker, Elogio di Colbert, cit. p. 77.
(29) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit. p. 46.
(30) Ivi, p. 63.
(31) Ivi, pp. 65-66.
(32) Ivi, pp. 80-81.
(33) Questa legge, abrogata tre anni dopo, stabiliva che solo quando il grano veniva venduto in Francia ad almeno trenta lire al sestiere, l’esportazione veniva permessa.
(34) Ivi, p. 89.
(35) Ivi, p. 97.
(36) Ivi, pp. 98-100.
(37) Ivi, p. 116.
(38) Ivi, p. 127.
(39) Ivi, p. 129.
(40) Ivi, p. 130.
(41) Ivi, p. 132
(42) Si veda E. Sciacca, Il problema storico del pensiero politico moderno, Palermo, Lombardi Editore, 2000, p. 228 ed in particolare J.J.Rousseau, Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, a cura di V. Giarratana, Roma, Editori Riuniti, 1968.
(43) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit. p.142.
(44) Ivi, p. 143.
(45) Per quanto attiene la figura ed il pensiero di John Locke si veda J. Yolton, John Locke, Bologna, Il Mulino, 1990.
(46) "On commence par confondre l’importance du propriétaire (fonction si facile à remplir) avec l’importance de la terre…" J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit., p. 146.
(47) Ivi, p. 147.
(48) Ivi, p. 150.
(49) Ivi, p. 151.
(50) Ivi, p. 152.
(51) Ivi, p. 155.
(52) Ivi, p. 159.
(53) Cfr. G. De Diesbach, Necker la faillite de la vertu, Paris, Perrin, 2004, p. 37.
(54) F. Braudel - E. Labrousse, Histoire économique et sociale de la France, Paris, 1970, vol. II, p. 702.
(55) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit., pp. 161-162.
(56) Ivi, p. 164.
(57) Ivi, p. 166.
(58) Ivi, p. 167.
(59) Ivi, p. 171.
(60) Ivi, p. 172.
(61) Ivi, pp. 175-176.
(62) Ivi, pp. 196-197.
(63) Ivi, pp. 201-202.
(64) Ivi, pp. 202.
(65) Ivi, p. 204. Il pragmatismo spinge Necker a prendere le distanze da quei principi astratti di cui sono portatrici le politiche liberali e quelle proibitive in materia di grani.
(66) Ivi, p. 206.
(67) Ivi, p. 208.
(68) Per quanto concerne il giudizio di E. Burke sulla Rivoluzione francese si veda E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione francese, ed. Ideazione, 1998.
(69) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit. p. 210 (la traduzione è mia).
(70) Ivi, p. 217.
(71) Ivi, p. 225.
(72) Ivi, p. 227.
(73) Ivi, p. 231.
(74) Ivi, pp. 235-236.
(75) Ivi, p. 240.
(76) Ivi, pp. 241-242.
(77) Ivi, p. 244.
(78) Ivi, p. 251.
(79) Ivi, p. 255.
(80) J. Necker, Elogio di Colbert, cit. p. 70.
(81) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit. p. 255.
(82) Ivi, p. 257.
(83) Ivi, p. 266. Trattenere forzatamente il grano superfluo significherebbe non poter ottenere in cambio denaro. In questo modo ne risentirebbero le finanze del regno che perderebbero l’ opportunità di crescere.
(84) Ivi, p. 267 e ss. In merito al prezzo del grano Necker osserva che questo parametro è indicativo dell’ andamento del mercato. Il prezzo che egli ritiene congruo deve mettere al riparo dai malumori del popolo, che vedrebbe aumentare i prezzi all’ interno del regno, e dei proprietari delle terre che così trarrebbero un guadagno accettabile. Si noti inoltre che, quando il ginevrino afferma che le farine, e non il grano, dovrebbero essere esportate, appare la teoria del valore-lavoro di Locke. Necker, in polemica con la fisiocrazia, ritiene il commercio e le manifatture delle attività che devono essere attenzionate, incoraggiate e sostenute: "L’agriculture, les manufactures et le commercé sont les trois sources de la prospérité d’un état; mais les lois de leur mouvement ne sont pas les mêmes: les travaux répétés du laboureur secondent la fertilité de la terre; l’action continuelle et multipliée des ouvriers d’industrie accroît la somme et la valeur des richesses; mais les négocians qui ne sont que les gens entre les besoins et les productions, peuvent servir l’état autant par la mesure et la simplicité de leurs opérations, que par le nombre et l’étendue de leurs entreprises". Sullo stesso argomenti si legge nell’Elogio di Colbert "Ecco dunque l’agricoltura, le manifatture e il commercio che sembrano formare una benefica catena di benfatti e unirsi per estendere la popolazione e moltiplicare i godimenti. L’agricoltura fa nascere le sussistenze, le manifatture le trattengono, facendole servire per intero alla popolazione nazionale, e il commercio, con i suoi capitali e la sua intelligenza, favorisce insieme i prodotti della terra e quelli dell’industria" ivi, p. 77.
(85) Cfr. J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit, p. 293.
(86) Ivi, p. 294. Le speculazioni vengono invece considerate dannose se il livello dei prezzi dovesse essere alto: "Les achats de blés faits par de simples spéculateurs et sans aucune destination, peuvent convenir à la société... Ces mêmes achats peuvent être funestes dans le temps des hauts prix...". Ibidem.
(87) Non bisogna dimenticare che la speculazione e l’attività bancaria camminano di pari passo e se da un lato Necker tenta di circoscriverne la possibilità, dall’ altro la giustifica, anche se in maniera astratta, in perfetto stile calvinista. Si veda a riguardo G. De Diesbach , Necker la faillite de la vertu, Paris, Perrin, 2004, p. 34.
(88) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit. p. 295. L’armonia tra diversi interessi e categorie economiche presenti nella sociètà è il fine cui bisogna tendere soprattutto un paese con una popolazione come quella francese.
(89) Ivi, p. 299.
(90) Il punto non è, secondo Necker, mettere in discussione la proprietà e le prerogative di questa ma individuare il giusto rapporto tra quantità di grano necessarie e superflue. Ivi, p. 297.
(91) "Ce sont des lions et des animaux sans défense qui vivent ensemble". Ivi, p. 316.
(92) Ivi, p. 312.
(93) I compagnons erano gli apprendisti sottomessi ai maestri delle corporazioni. Appartenenti alle classi meno abbienti, dovevano patire una rigorosa obbedienza alle regole gerarchiche delle varie corporazioni per sperare di esserne cooptati all’interno.
(94) Ivi, p. 308.
(95) Lo stesso Necker partecipava a speculazioni di questo genere investendo i capitali della sua banca. Su tale argomento si veda H. Grange, Les idées de Necker, Paris, C.Klincksieck, 1974.
(96) È da notare che le leggi che intervengono in materia vengono chiamate da Necker "lois sociales". Cfr. J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit. pp. 316, 318-319.
(97) Ivi, pp. 321-324. Sulla stratificazione sociale della Francia e sul rapporto tra Parigi ed il resto della Francia si veda A. Forrest, La Rivoluzione francese, Bologna, Il Mulino, 1999; A. Prosperi- P. Viola, Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese, Torino, Einaudi, 2000.
(98) J. Necker, Sur la législation et le commerce des grains, cit. p. 327.
(99) Ivi, p. 335.