I. Premesse Ideologiche
Il desiderio di cambiamento che investì tutta l’Europa fra gli ultimi anni del ‘700 e il primo quindicennio dell’ ‘800 fu sicuramente il frutto dell’elaborazione filosofica e ideologica dell’Illuminismo. Tutto il dibattito culturale del ‘700 produsse, nella sua applicazione politica, un tentativo di rinnovamento delle istituzioni che percorse strade ed ebbe risultati diversi nelle varie realtà europee(1).
L’illuminismo, nato come elaborazione filosofica, trovò diretta applicazione nella politica di riforme inaugurata in molta parte d’Europa dai "despoti illuminati", fino a raggiungere le sue estreme e irreversibili conseguenze nella Rivoluzione Francese.
Nascevano nella società di ancien régime nuove istanze da parte di gruppi sociali che chiedevano maggiore visibilità e nuove libertà economiche e politiche, che lo Stato, così come era stato concepito fino ad allora, non poteva assicurare. Ma l’accelerazione di questi processi, avvenuta all’inizio del XIX secolo, fu provocata dall’esito che la richiesta di riforme delle nuove classi aveva avuto negli ultimi anni del secolo precedente. L’elaborazione illuminista, infatti, aveva assunto, con la Rivoluzione francese, una piega violenta ed esasperata, che condusse poi alla ricerca di una via riformista e moderata che garantisse la nascita di nuovi equilibri sociali senza distruggere gli stati dalle loro fondamenta(2). Le dinastie regnanti avevano visto insultata la sacralità della figura del sovrano, le istituzioni francesi occupate da personaggi che mai avrebbero, prima di allora, potuto detenere il potere, la scalata al potere di un giovane corso, che era giunto a cingere la corona imperiale.
Le Costituzioni succedutesi in Francia nel periodo rivoluzionario, d’altra parte, infuocarono in tutta l’Europa gli animi di quei nuovi ceti che, mirando ad un’affermazione sociale ed economica, vedevano nei loro Stati tutti gli impedimenti giuridici e politici che avrebbero ostacolato il miglioramento della loro posizione. Fu il tentativo di ricambio all’interno delle società che provocò una così diffusa ed entusiastica adesione a quei principi giacobini che tanto terrorizzavano i ceti dominanti tradizionali. Per la borghesia emergente la lezione francese mostrava una prospettiva realizzabile e una soluzione favorevole dei problemi esistenti.
Le armate napoleoniche, che dilagarono successivamente in Europa, completarono il compito di diffondere, nonostante l’affermazione in Francia dell’Impero e non certo di una democrazia, quei principi che ineluttabilmente si sarebbero fatti strada durante tutto l’800. Nel continente, dunque, le idee imperanti erano quelle provenienti dalla Francia rivoluzionaria, mentre i principi del costituzionalismo inglese non erano riusciti a penetrare.
Ma vi era un luogo in Europa che era rimasto distante dai fatti che in rapida successione avvenivano, nel quale la realtà politica ed economica era rimasta come cristallizzata da secoli, e la diffusione delle idee procedeva con un passo non solamente più lento, ma sostanzialmente differente. Non erano, infatti, i principi costituzionali francesi ad imporsi, ma quelli inglesi.
Questo luogo era la Sicilia. La classe dirigente siciliana aveva già alla fine del ‘700 una certa familiarità con la cultura politica inglese, tanto che i viaggiatori britannici si stupivano di come la loro lingua fosse piuttosto conosciuta e molti testi presenti nelle biblioteche pubbliche e private in lingua originale(3).
L’interesse, inoltre, non fu solo dei siciliani verso gli inglesi, per ragioni soprattutto economiche e commerciali, ma anche degli inglesi verso i siciliani per quelle necessità politiche e militari che si vennero a creare nel primo decennio del XIX secolo(4).
Già dal XVIII secolo mercanti inglesi avevano raggiunto la Sicilia impiantando basi commerciali, sviluppando i loro affari e offrendo un mercato vitale all’arretrata economia isolana.
La presenza degli inglesi , infatti, rappresentò per l’economia siciliana, e in particolare per la sua parte orientale, un mercato per i prodotti locali, per i vini, per lo zolfo, per quel che restava delle attività tessili.
Al fine di difendere i propri interessi economici e commerciali la presenza militare inglese in Sicilia era diventata sempre più consistente, ed aumentava all’aggravarsi della situazione europea, sempre più instabile a causa dell’avanzata napoleonica.
Era indispensabile per gli inglesi contenere il dilagare della armate napoleoniche, costituendo un fronte nell’Europa meridionale e quindi nel Mediterraneo. Erano Malta, le Isole Ionie, la Sicilia le basi dalle quali partire per opporsi politicamente e culturalmente, oltre che militarmente, alla Francia napoleonica(5).
Ma l’operazione che gli inglesi svolsero nei primi dodici anni dell’ ‘800 in Sicilia era servita a preparare il campo per ciò che sarebbe accaduto tra il 1812 e il 1815.
Alcuni inglesi come, ad esempio, il pubblicista Gould Francis Leckie, che aveva acquistato e conduceva una tenuta modello in Sicilia, non pensavano alla semplice costituzione di basi militari, ma credevano fosse necessario combattere una guerra ideologica, una "War of opinion" che potesse contrastare la popolarità della cultura politica francese(6). Sarebbe stato facile mostrare come la Francia, nella necessità di sopravvivere agli attacchi esterni, avesse abdicato ai principi di libertà e uguaglianza per trasformarsi in un governo militare in cui il potere era concentrato solo nelle mani di Napoleone(7). Leckie partiva da questa discrasia tra i principi rivoluzionari e gli esiti pratici di essi per affermare che, se l’intervento britannico avesse debellato gli strascichi di feudalesimo presenti in Sicilia, l’isola si sarebbe trasformata in un laboratorio politico da mostrare come esempio agli stati italiani peninsulari che si trovavano soggetti alla Francia, la quale, lungi dal presentarsi come il campione della Rivoluzione, si era trasformata in stato autoritario. Questa sarebbe stata la chiave della vittoria: proporre con esempi concreti un’alternativa politica e istituzionale diversa da quella francese, che suscitasse una maggiore fiducia nei vecchi governanti e una sufficiente soddisfazione nei ceti emergenti(8).
Quando Leckie teorizzava queste idee era il 1807 e nei tentativi di Lord Bentinck, qualche anno più tardi, di creare nella penisola italiana un sistema di Stati che insorgesse contro i francesi se ne risente certamente una forte eco. Leckie sperava che ci fosse l’occasione per la Gran Bretagna di espandersi in tutto il Mediterraneo, cosa che avrebbe favorito il commercio inglese e mostrato contemporaneamente a tutta l’Europa che "La Francia conquista per devastare, la Gran Bretagna per far del bene"(9).
Era vero che l’Inghilterra non aveva mai mostrato interesse a conquistare territori europei continentali, e poteva dunque facilmente basare su questo la prima fondamentale differenza con la Francia napoleonica. Le armate francesi dilagavano, mettendo a ferro e fuoco tutta Europa, mentre gli inglesi in Sicilia giungevano discretamente come consiglieri militari, ambasciatori, imprenditori.
Per il nascente movimento patriottico italiano, la Gran Bretagna avrebbe rappresentato un importante alleato, qualora davvero avesse supportato una forma di unificazione e un’evoluzione politica in senso liberale. Oltre che ragioni militari e di diffusione culturale, c’era, appunto, anche la presenza fisica dei mercanti inglesi a spingere affinché la Sicilia diventasse il terreno più idoneo all’attecchire dei principi politici inglesi. Essi erano i protagonisti quasi assoluti del commercio siciliano, ma sentivano le prassi del governo locale discriminatorie nei loro confronti, per questo chiedevano interventi diretti sulla monarchia da parte del governo inglese, chiedevano di essere tutelati nei loro interessi economici, avrebbero voluto trovare in Sicilia quelle strutture politiche che, liberate dai vincoli feudali, agevolassero il progresso economico.
Quella che più comunemente viene indicata come "l’occupazione inglese della Sicilia" aveva notevoli ripercussioni nella realtà politica, economica, sociale e culturale dell’isola.
In particolare in Sicilia la presenza inglese faceva da catalizzatore per un processo di implosione politica che avrebbe reso evidente e portato alle estreme conseguenze il contrasto per il monopolio del potere tra monarchia e baronaggio(10).
L’arrivo massiccio degli inglesi in Sicilia, dunque, si innestava in una situazione sia interna che internazionale di grande fermento. La classe dirigente siciliana aveva consolidato le proprie posizioni a difesa delle istituzioni tradizionali, e al tempo stesso la Gran Bretagna inaugurava quella "politica siciliana di lungo termine"11) che nel 1806 evidenziava l’enorme importanza della Sicilia all’interno dei progetti inglesi riguardo al Mediterraneo: iniziava nell’isola il "decennio inglese".
Erano trascorsi molti anni dalla fine del viceregno di Caracciolo, l’elaborazione politologica aveva fatto un grande cammino verso il consolidamento del potere aristocratico, e tutto ciò, insieme alla massiccia presenza inglese, fece maturare quelle richieste di cambiamento delle quali si fece portatore il cosiddetto "partito inglese", i cui animatori furono intellettuali e baroni illuminati come Balsamo, Castelnuovo, Belmonte ecc….
Nasceva concretamente l’idea di trasformare la Sicilia in quel "laboratorio politico" all’interno del quale realizzare la trasformazione delle istituzioni siciliane prendendo a modello il sistema inglese(12).
Ma mentre l’ambasciatore Drummond auspicava cambiamenti graduali del sistema siciliano, i militari come il colonnello John Moore sostenevano che le riforme dovessero essere introdotte anche con l’uso della forza, e che bisognasse coinvolgere in esse i baroni, "alleati naturali" dell’Inghilterra in questo progetto(13).
E proprio questo continuava con forza a sostenere Gould Francis Leckie, che nei suoi scritti, affermava che il cambiamento in Sicilia fosse indispensabile e improcrastinabile, poiché la guerra antinapoleonica in Italia si configurava come "war of opinion"(14). Additando la Sicilia come esempio, dunque, sarebbe stato possibile contrastare la preponderanza ideologica francese nell’Italia dei regni napoleonici. Ma per far questo e per consentire agli inglesi di mantenere il controllo sulla Sicilia bisognava ottenere "il consenso degli abitanti" che chiedevano le riforme(15).
Ai motivi commerciali e strategici si aggiungevano dunque in quegli anni ragioni squisitamente teoriche riguardo alla percezione che soprattutto i siciliani avevano delle carte costituzionali inglese e siciliana.
Per il "Governo di Tutti i Talenti", nato da un’insolita alleanza tra whigs e tories nel 1806-1807, la Sicilia doveva diventare, insieme ad altre isole, una base militare in tempo di guerra e commerciale durante la pace futura, che rendesse agevole all’Inghilterra una presenza stabile nel Mediterraneo.
Era inevitabile, per il raggiungimento di questo scopo, che in Sicilia si realizzassero cambiamenti politici, sociali ed economici di vasta portata.
Era infatti concetto diffuso e accettato che, in Inghilterra come in Sicilia, le Costituzioni fossero nate nello stesso periodo, emanate da due principi normanni e fondate sulle stesse basi feudali. Solo la diversa applicazione nelle due realtà politiche durante i secoli aveva provocato tutte le differenze che esistevano nell’‘800(16). Niccolò Palmeri afferma che "ricondurre la Costituzione siciliana al suo antico essere ed adottare la Costituzione inglese, non erano che due maniere diverse di esprimere la stessa cosa"(17), confermando come molta parte dei politici siciliani fosse convinta che la distanza esistente dal punto di vista economico, politico, culturale, giuridico, si spiegasse semplicemente con una errata o mancata applicazione di norme giuste, che, correttamente applicate, avevano riportato altrove risultati eccellenti. Lo stesso abate Balsamo, estensore materiale delle Basi, era convinto che la sua opera consistesse essenzialmente nel riportare la Costituzione siciliana alle sue origini, semplicemente riadattandola alle esigenze del tempo. Esisteva comunque qualcuno, come Tommaso Natale, che trovava assurdo tentare di adattare alla realtà siciliana leggi che si applicavano in Inghilterra, dove, l’uso secolare e la piega assunta dagli eventi storici aveva dato vita ad una realtà politica totalmente diversa(18). Infatti, le Carte siciliana e inglese avevano percorso strade talmente differenti che nell’ ‘800 la loro comune origine non era quasi più rintracciabile. Ciononostante, buona parte degli intellettuali siciliani era convinta che fosse sufficiente imporre ed applicare delle buone leggi per ottenere immediatamente uno stato moderno ed efficiente abitato da buoni cittadini.
Dimenticavano che mentre la Gloriosa Rivoluzione aveva posto in Inghilterra la base di uno Stato moderno e aveva inciso profondamente sulla Costituzione, in Sicilia leggi e istituzioni avevano mantenuto inalterato l’assetto medievale delle origini, non creando alcuna premessa per la fondazione di uno Stato moderno, che, teoricamente, sarebbe dovuto sorgere spontaneamente dall’adozione della Costituzione britannica(19). Ciò che parimenti veniva dimenticato era che la costituzione inglese era formata da un insieme di atti non coevi che avevano contribuito a creare la legge fondamentale, non era un documento organico, schematizzato e scritto. La Costituzione siciliana, invece, nacque come uno scritto organizzato secondo principi moderni e con lo scopo esplicito di costituire la legge fondante e fondamentale dello Stato(20).
L’idea di applicare senza alcuna mediazione la Costituzione britannica non teneva in nessuna considerazione le condizioni di profonda arretratezza in cui versava la Sicilia sotto ogni profilo. Le strade diverse che le due Costituzioni avevano percorso avevano portato in Inghilterra al sistema del governo di gabinetto, in Sicilia, invece, l’unica funzione rimasta ai tre bracci in cui era diviso il Parlamento era quella di determinare i donativi e richiedere grazie(21).
Il Parlamento siciliano non aveva conquistato nuove prerogative, né ampliato le esistenti(22), come nei secoli era accaduto in Inghilterra, ma anzi se le era viste progressivamente ridurre. Lo scontro diretto tra Corona e baroni, i due maggiori poteri esistenti in Sicilia, diventava così inevitabile. La Sicilia era rimasta divisa in ceti, corporazioni, città demaniali e feudali, non esisteva possibilità di pensare ad uno Stato composto da un popolo con elementi fondamentali comuni che potessero far sentire i siciliani uniti. Troppe e troppo diverse le esigenze delle varie zone e classi sociali.
Pertanto, l’unico elemento unificante era l’idea di Nazione. Era il fondamento ideale rintracciabile anche andando indietro nei secoli, perché ad essa erano stati conferiti poteri e privilegi e per questo motivo era l’unica istituzione che potesse garantire l’indipendenza del regno(23). Solo la Nazione, considerata sinonimo di Parlamento, storicamente investita della missione di interloquire col sovrano per conto e nel nome di tutta la popolazione, poteva ergersi a difesa del regno e rifondarlo. D’altra parte il potere centrale era da secoli assente nell’isola, ne restava un’ombra rappresentata dal viceré, che non operava in altro senso che nella ricerca di scendere a patti con i baroni per ottenere da essi senza problemi i donativi.
L’unico che tentò di importare in Sicilia quel riformismo illuminato che alla fine del Settecento imperava in tutta l’Europa fu Caracciolo(24). Ma mentre nel continente si affermava l’idea dello Stato come apparato burocratico, con un’amministrazione efficiente al servizio del sovrano, in Sicilia non esistevano ancora istituzioni organizzate che potessero garantire l’applicazione delle direttive impartite dal potere centrale. Gli intendenti, gli incaricati del potere centrale, che in molta parte d’Europa avevano snellito, migliorato, reso più moderna ed efficiente la pubblica amministrazione, non c’erano mai stati in Sicilia. Questo, se da una parte aveva lasciato inalterate le obsolete strutture amministrative feudali, dall’altra non aveva permesso la nascita di quel ceto di amministratori capaci e preparati che avrebbe condotto gli stati verso il progresso e la modernizzazione, e questo probabilmente creava un elemento di stagnazione ancor più grave.
Al contrario a gestire l’amministrazione periferica in Sicilia erano ancora i feudatari, cioè i più agguerriti avversari del potere centrale, con esso in continuo attrito. La corona non aveva fatto nulla per creare amministrazioni periferiche efficienti e quindi non poteva esistere quella classe di funzionari che negli altri stati europei si era formata e aveva costituito la nuova classe della cosiddetta "nobiltà di toga"(25). Il potere centrale aveva sempre cercato di non dispiacere troppo ai baroni, e a questo fine aveva lasciato inalterate le obsolete strutture amministrative. Erano i feudatari, i baroni quelli che assicuravano i donativi al Re, egli dunque non voleva assolutamente contraddirli. D’altra parte, i baroni non avrebbero attaccato il sovrano se non a tutela dei propri personali vantaggi. Solo gli energici interventi caraccioliani avevano smosso le melmose coscienze del ceto dirigente siciliano, che aveva difeso tenacemente i propri privilegi e si era liberato dell’ingombrante viceré ottenendo che fosse inviato a Palermo il più accomodante e diplomatico Caramanico. La Corona era la prima responsabile delle condizioni in cui il Regno di Sicilia versava: era stato il desiderio di mantenere l’appoggio dei baroni a lasciare l’isola in condizioni arretrate e poverissime, anacronistiche perfino, permettendo la sopravvivenza di quelle strutture medievali che garantivano il perpetuarsi di una classe dirigente che altrove, così concepita, non aveva più funzione, ma che in Sicilia fu l’unica a trovarsi nella posizione di rifondare lo stato su principi moderni.
L’assenza di un apparato burocratico moderno, però, faceva mancare il presupposto fondamentale per la nascita di uno Stato costituzionale, nel quale il potere della Corona non fosse avvertito come personale(26), la "spersonalizzazione" dell’azione dello stato era elemento fondamentale nella modernizzazione degli apparati amministrativi. Nei paesi in cui questo era accaduto l’esecuzione delle leggi era appunto spersonalizzata, e aveva acquistato autonomia rispetto al potere che le emanava, dando vita non solo ad amministrazioni efficienti, ma anche ad una numerosa e preparata classe di funzionari. Tutto questo in Sicilia non poteva accadere. Il potere centrale latitava, si mostrava interessato solo a garantirsi i donativi e mai a migliorare veramente le condizioni dell’isola(27), i feudatari, fieri difensori delle loro prerogative, non ebbero mai interesse verso il cambiamento se non quando le sentirono minacciate, non esisteva nessun altro ceto sociale che avesse la forza di intervenire in maniera incisiva(28).
Questo probabilmente costituisce la più grave anomalia del sistema siciliano: i feudatari, che negli altri paesi erano già in gran parte scomparsi, nell’isola si porranno a capo del movimento "rivoluzionario". Un’anomalia di grande importanza che, a causa dell’assenza di un’operosa borghesia, condurrà la parte più retriva di una società a condurre una protesta che porterà alla rifondazione di uno stato.
La Sicilia restò, dunque, in uno stato di torpore fino a quando Caracciolo non mostrò di voler insidiare lo strapotere dei baroni e di non tenere nella dovuta considerazione le prerogative del Parlamento(29). Solo allora le forze in campo riuscirono ad essere compatte, in realtà solo per un breve momento, in difesa della loro stessa sopravvivenza.
Già nel corso del XVIII secolo, la presenza di Caracciolo aveva allarmato il baronaggio, costringendo gli aristocratici ad uscire allo scoperto a difesa dei privilegi che il viceré cercava, con la sua opera riformatrice, di insidiare. Certamente il viceré non ritrovava in Sicilia quella classe media operosa sulla quale avrebbe voluto basare le sue riforme(30), ma soprattutto si scontrava col baronaggio che non voleva rinunciare ai propri privilegi. Caracciolo reputava il Parlamento come un retaggio medievale, che dava la possibilità alla riottosa aristocrazia siciliana di perpetuarsi, senza permettere al potere sovrano di razionalizzare l’azione dello stato secondo i moderni dettami del dispotismo illuminato.
"Il problema politico – ha osservato Giuseppe Buttà – era quello del superamento del vecchio regime e della struttura particolaristica che impediva l’evoluzione dei rapporti sociali nonché lo sviluppo dell’economia siciliana in relazione anche alle nuove esigenze e ai progressi che si compivano negli altri paesi. Al centro della questione si poneva chiaramente il Parlamento come espressione sia del vecchio regime feudale, sostanziato dagli abusi più gravi e dai privilegi più anacronistici, sia, però, di una concezione del sistema politico, di una idea della sovranità del tutto opposta a quella assolutistica e dispotica che sosteneva la linea politica dell’illuminista Caracciolo e il pensiero del Gregorio. Il limite intrinseco del riformismo caraccioliano fu quello di pensare ad una soluzione del problema che doveva travolgere insieme ai privilegi anche le istituzioni, entrate ormai nella coscienza di ampi strati della società che, pur non condividendo i privilegi e il potere dell’aristocrazia, si sentivano tuttavia attaccati alle ‘libertà’ siciliane"(31).
Nonostante l’aristocrazia, punta sul vivo dal tentativo di Caracciolo di creare un catasto, ebbe alla fine partita vinta, il viceré ebbe un grande merito: stimolò quegli studi politici ed economici che prepararono l’avvento della Costituzione del 1812(32).
"Il conflitto aperto dal Caracciolo contro il feudalesimo – sostiene ancora Buttà – aveva i caratteri di un conflitto costituzionale; la lotta per il potere ultimo tra Corona e Parlamento che, con la dominazione spagnola era venuto a cessare, si riaccendeva ora sia pure sotto la specie di una difesa conservatrice del privilegio aristocratico e di una spinta modernizzatrice della Corona. In Sicilia ‘l’autorità del principe era limitata […] senza che il popolo fosse libero’; tuttavia non la libertà del popolo era l’obiettivo illimitato della ‘monarchia pura’, di uno Stato cioè che esaltava il fiscalismo e l’arbitrio del potere come strumento di razionalizzazione e di progresso della società, anche se personalmente il Caracciolo pensava che, nella costituzione monarchica, rimanesse al popolo ‘il diritto d’essere ben governato e perché non può egli essere giudice e parte, deve ubbidire, ma all’istesso tempo può protestare".(33) In ogni caso, "l’opera politica del Caracciolo riuscì a demolire gran parte dell’impalcatura giuridica su cui poggiava il privilegio feudale, anche se poco modificò nei rapporti reali che sostanziavano la feudalità"(34).
La mancanza di una classe dirigenziale esperta e preparata impedì che le riforme approntate funzionassero e portassero frutti. Non poteva certo bastare da solo il fatto che si ponessero le premesse legali del decentramento affinché esso si realizzasse. Il titolo della Costituzione che va sotto il nome di Consigli Civici e Magistrature Municipali, per esempio, prevedeva un’ampia autonomia e organi di decentramento dotati di grandi poteri, sulla carta, ma nella realtà questo fu uno dei provvedimenti che causarono maggiori scontri tra governo e Parlamento. L’idea era quella di ricreare il modello del self-government inglese basandosi sulle antiche università del Regno, ma, mentre in Inghilterra quel modello esisteva e funzionava da secoli, in Sicilia esso non aveva avuto applicazione e non aveva dato luogo alla formazione di una classe di funzionari che potessero rendere funzionanti ed efficienti le autonomie locali(35). L’altro modello possibile era ancora una volta di origine francese: un sistema locale basato su funzionari di nomina regia. Nella Sicilia costituzionale, però, troppo grande era l’aspirazione a sottrarre potere all’esecutivo e troppo il desiderio di prendere le distanze dal modello francese per poterlo prendere almeno in considerazione(36). Tuttavia, forse, il sistema degli intendenti avrebbe potuto dare frutti migliori e creare nel tempo una classe dirigente idonea a gestire le neonate istituzioni locali. La scelta del sistema dell’autogoverno, invece, che prevedeva il minore controllo possibile da parte del potere centrale, causò un’enorme difficoltà nell’applicazione delle nuove regole e un immobilismo provocato dall’incapacità di gestire i nuovi poteri in un regime deficitario di risorse umane. L’idea di applicare la Costituzione inglese cercando in essa la panacea per tutti i mali siciliani, fu l’errore più grave del partito costituzionale, che continuò ad insistere su questa via abdicando, in alcune circostanze della breve avventura costituzionale, anche ai propri poteri e ai propri diritti. Quelli che dovevano costituire l’anima delle istituzioni che essi stessi avevano fondato delusero il loro maggiore sostenitore, Lord Bentinck, ma soprattutto, non ebbero la maturità politica e la lungimiranza per porre basi più solide e durature alla loro opera.
II. La breve stagione parlamentare
Sarebbe toccato proprio a Lord Bentinck, inviato nel 1811 e investito di ampi poteri sia diplomatici che militari, tentare di risolvere la questione siciliana.
Il suo arrivo coincise col momento di maggiore tensione tra corte e baroni e fu la sua presenza a permettere la nascita della Costituzione del 1812 e l’attivazione di quel "laboratorio politico" auspicato dagli "inglesi di Sicilia" (Coleridge, Leckie) negli anni precedenti, fino a proporre all’erede al trono il famoso "sogno filosofico" che tanta sfortuna portò a Bentinck.
Ma prima di allora, prima del cambiamento alla guida del gabinetto di San Giacomo che mutando la politica estera estromise Lord Bentinck da tutte le questioni italiane, il plenipotenziario inglese era stato l’arbitro assoluto dei destini siciliani: nel dicembre del 1811 tornava in Sicilia con nuove istruzioni e da questo momento le difficoltà per la Corona non fecero che aumentare. Il cambiamento istituzionale era divenuto inevitabile sia a causa della resistenza opposta dall’aristocrazia isolana, sia per le pressioni esercitate sulla corte da Bentinck. Questi, dopo aver accertato durante l’estate l’impossibilità a collaborare con la Corona, in seguito al suo viaggio in Inghilterra aveva ricevuto da parte del proprio governo "carta bianca" col solo limite di "conservare il regno" alla dinastia borbonica: "se fosse stato necessario, avrebbe potuto deporre il re, e mettere sul trono il principe ereditario; se questi si fosse rifiutato, avrebbe potuto far dichiarare Re di Sicilia il suo primogenito minore, assistito da un consiglio di reggenza formato da siciliani"(37). Bentinck aveva anche ricevuto poteri discrezionali per allontanare il re e la regina da Palermo o dalla Sicilia se si fosse reso necessario: "la cosa essenziale era che in Sicilia si venisse ad una rappacificazione col Paese e che si desse vita ad un governo nazionale, che approvasse una nuova Costituzione ispirata a principi liberali"(38). Per la politica inglese, infatti, la Sicilia, così come la Spagna, doveva costituire la testa di ponte contro l’impero napoleonico. In Sicilia l’intervento inglese portò alla svolta decisiva con la liberazione dei baroni e il ritiro del re. Bentinck, infatti, aveva minacciato in armi Re Ferdinando se non avesse liberato i Baroni resistenti, allontanato i napoletani dal governo, abolito la tassa dell’un per cento – che penalizzava anche gli importanti traffici dei suoi connazionali nell’isola – e conferito a lui stesso il comando dell’armata di Sicilia(39). Nel febbraio del 1811, infatti, la Corona, scavalcando il Parlamento, aveva imposto una tassa dell’1% su tutti i pagamenti in denaro effettuati in Sicilia. Come ha osservato John Rosselli, "non vi era ombra di dubbio che si trattasse di un atto incostituzionale"(40). Da ciò nacque la protesta dei 43 baroni costituzionali, e la protesta meno ufficiale dei mercanti inglesi che sarebbero stati colpiti direttamente da questo provvedimento economico, e, pertanto, chiedevano in loro difesa un intervento deciso del governo inglese.
Sulla spinta ideale di questi avvenimenti e dell’atto di forza del Re che aveva fatto imprigionare i firmatari della petizione, il Parlamento che si aprì l’anno successivo cominciò i suoi lavori con l’entusiasmo e l’instancabilità dei neofiti. Durante il periodo precedente numerosi erano stati i progetti approntati per la riforma dello Stato, molto si era parlato e scritto di quegli indispensabili cambiamenti che avrebbero reso la Sicilia uno stato finalmente moderno, efficiente, avanzato.
Dopo le azioni sconsiderate della Corte, dopo la deportazione dei baroni resistenti, dopo che la Gran Bretagna si era pronunciata decisamente a favore delle riforme, fu inevitabile che l’apertura del Parlamento del 1812 assumesse un significato di cesura netta tra vecchio e nuovo. In realtà non sarebbe potuto essere altrimenti, poiché il sovrano, totalmente screditatosi con l’arresto dei baroni, subiva lo scetticismo internazionale specie inglese. Ciò, di fatto, ne imponeva l’allontanamento dal potere e supponeva l’assunzione di responsabilità politiche della nobiltà isolana, unico ceto in grado di farlo. Il cosiddetto "partito inglese" assunse, dunque, la guida delle riforme, poiché il movimento costituzionalista siciliano trovava in esso la sua più matura espressione(41). Non sarà inutile sottolineare ancora una volta come i baroni fossero gli unici nella possibilità di incidere sullo stato, gli unici ad avere voce per chiedere e ottenere il cambiamento, gli unici a poter agire "politicamente".
Già dalla protesta del 1811 era stato il "partito inglese" a dare il via a quella catena di avvenimenti che sarebbe sfociata nella riforma costituzionale. Da esso erano venuti fuori i ministri, e i personaggi di spicco, che occuparono la scena politica durante la vigenza della Costituzione. Inoltre, rappresentava una linea di continuità con la tradizione politica siciliana, nella quale i baroni, rappresentanti della Nazione, si ergevano a difensori dei suoi privilegi(42). Coesistevano in esso istanze spiccatamente conservatrici insieme a quelle riformiste, che attraversavano la componente nobiliare della società siciliana. Ma è inevitabile ammettere che l’interpretazione di tutto il processo costituzionale, apertosi con la protesta e conclusosi con l’abolizione di fatto della Costituzione, passi per la comprensione delle varie anime che agitarono il "partito inglese"(43).
Esisteva una "destra", costituita da Belmonte, Aci, San Marco, Cattolica, che tentava di approntare riforme che comunque non alterassero troppo incisivamente le strutture sociali, che riuscissero a conservare istituti come il fedecommesso, che erano avvertiti come baluardi della nobiltà e della preponderanza sociale dei baroni. Al "centro" del "partito inglese" si collocavano personaggi come Castelnuovo e Balsamo, più disposti a rinunciare ad alcuni privilegi, ma ugualmente diffidenti nei confronti di un ampio elettorato attivo che desse vita ad una rappresentanza piuttosto estesa che non avrebbe potuto scongiurare "i pericoli e le sequele di una torbida ed anarchica democrazia"(44). A "sinistra" si trovavano i cosiddetti "radicali" di Aceto e Airoldi, i quali, invece, affermavano che, con un’assemblea elettiva numerosa, sarebbe stato impossibile per la Corona ricorrere ai soliti artifici della corruzione o delle minacce(45).
I "patrioti"si impegnarono tutti e tutti insieme sin dal febbraio del 1812, all’indomani dell’istituzione del vicariato, a redigere il progetto di riforma costituzionale. Infatti, il primo punto del loro programma prevedeva proprio la creazione di una nuova Costituzione. Nessun leader tra i costituzionali pensò di redigere una Costituzione completamente nuova, ma Balsamo, Belmonte e Castelnuovo, ancora in buon accordo, convennero che occorreva attenersi a quella vecchia il più possibile(46). Escludendo immediatamente le eccessivamente democratiche Costituzioni spagnola e francese, la scelta cadde su quella inglese(47), avvertita anche come la più vicina alla tradizione siciliana. I costituzionali giunsero perfino a sostenere che, la Costituzione che stava per porsi in essere, non fosse altro che "che l’antica Costituzione della Sicilia, regolata e resa più analoga ai bisogni ed ai lumi della moderna società"(48).
La Costituzione siciliana del 1812 costituì un unicum tra le Costituzioni contemporanee, che si richiamavano tutte più o meno da vicino al modello francese. Tuttavia, essa si collocava, come quella spagnola dello stesso anno, al margine del venticinquennio rivoluzionario, aperto dalla Rivoluzione Francese e chiuso dal congresso di Vienna, e pertanto era destinata ad avere vita breve. L’influenza della Rivoluzione Francese con tutto ciò che aveva causato in Europa stava per esaurirsi, e di conseguenza anche queste esperienze costituzionali, animate da principi diversi, sebbene coeve, seguirono lo stesso destino(49). Ma, mentre la Costituzione spagnola era spiccatamente democratica e radicale, e si collocava in continuità diretta con le aspirazioni dell’Ottantanove, la Costituzione Siciliana può considerarsi quasi "l’anello di congiunzione" tra il periodo rivoluzionario e la Restaurazione(50). In effetti la carta siciliana si collocava nello spazio tra le costituzioni giacobine, quasi atti di rivendicazione, che tenevano in grande considerazione la sovranità popolare e i diritti, e le costituzioni della Restaurazione(51): la Costituzione siciliana si presentava come la più moderata e compromissoria tra le carte coeve.
Secondo il giudizio di Romeo, la Costituzione può dirsi "la soluzione che il settore più avanzato della vecchia classe dirigente diede, o propose, del problema posto dall’apparizione della nuova borghesia agraria nella vita politica ed economica del paese"(52). Certamente costituisce un momento di progresso nella storia della Sicilia, ma è un progresso limitato dalla "scarsa maturità" del baronaggio in rapporto alle nuove esigenze sociali. Romeo afferma il valore progressivo della Costituzione del 1812 ma ne sottolinea con altrettanta forza i limiti dovuti al persistere di un’economia e di "un mondo etico sostanzialmente feudale, mentre l’Europa veniva rinnovata dalle armate rivoluzionarie"(53).
La carta siciliana è sicuramente una Costituzione innovatrice e si colloca tra quelle rivoluzionarie, ponendosi in aperta rottura con il regime precedente, ma non ha il valore e la potenza evocatrice di quella spagnola, che diventa un manifesto ideologico. La Costituzione Siciliana è la più rispettosa dell’ordine sociale e politico preesistente, è frutto di compromesso e continua transazione tra le parti politiche(54), la sua collocazione temporale, a margine del periodo cui appartiene, dimostra come anche il mondo intellettuale siciliano fosse arretrato rispetto alle idee che circolavano in Europa, avendo come conseguenza che l’esperimento costituzionale siciliano ebbe inizio quando le affini esperienze europee terminavano(55).
Riguardo alla suddivisione cronologica i lavori del Parlamento del 1812, proclamatosi "assemblea costituente"(56), possono considerarsi divisi in tre fasi: una prima, che va dal gennaio al giugno del 1812, fu quella preparatoria. Durante questo periodo venne elaborata la nuova Costituzione, da sottoporsi per il placet a Sua Altezza Reale. Il progetto, materialmente redatto dall’abate Balsamo, venne sottoposto a Lord Bentinck, il quale in una lettera a Castlereagh lo approva: "Lessi lo schema di una Costituzione modellata su quella inglese, ma con grande moderazione e saggezza modificata ed adattata allo stato di una società degradata, con taluni salutari limiti alla libertà di stampa, e la temporanea sospensione del processo per giuria"(57).
Durante la seconda fase, da giugno a novembre, del primo Parlamento della nuova era, ancora suddiviso secondo la tradizione in tre bracci, si tenne una lunga sessione parlamentare durante la quale furono dibattute le leggi sulla divisione dei poteri, sulla riforma amministrativa, sulla libertà di stampa e sulla carta dei diritti, che insieme alle Basi costituirono il nucleo fondamentale della nuova Costituzione di Sicilia.
Il terzo periodo fu quello successivo alla chiusura del Parlamento (novembre 1812-maggio 1813), durante il quale fu attuata la riforma amministrativa e fu convocato per l’anno successivo il Parlamento costituzionale di nuova concezione(58). L’ultimo Parlamento "vecchio rito" fu anche quello che creò i successivi. Fu quindi un’istituzione che sotto quella forma sarebbe sparita a creare quella che l’avrebbe soppiantata. In questo si manifestava già un’incoerenza di fondo: i baroni non si sarebbero mai privati di quei privilegi che avevano permesso la loro sopravvivenza come casta, se non per tentare di puntellare ancor meglio la loro preponderanza sociale. Ancora di più: non avrebbero rinunciato a nulla se non col fine di difendere, a scapito delle altre classi e del sovrano, i propri interessi. Il baronaggio rinunciò "ai propri secolari privilegi" ma, per dirla col Pontieri, "non senza disinteresse"(59). Per questo motivo alla chiusura del Parlamento cominciarono i dissidi interni al "partito inglese" sulla Costituzione appena nata.
Fu lo stesso Castelnuovo a consigliare al Vicario di non approvarne tutte le parti, e segnatamente quella sulla riforma amministrativa, giudicata eccessivamente democratica(60). Dopo un primo momento di apparente accordo di tutte le componenti parlamentari, quindi, vennero fuori quei dissidi che avrebbero provocato, fin dalla sua apertura, l’ingovernabilità del primo Parlamento costituzionale, quello del 1813. Persino per le elezioni dei rappresentanti alla Camera dei Comuni, eletti per la prima volta, non mancarono i dissidi. Bentinck aveva incoraggiato i costituzionali, sottolineando l’enorme importanza di questa prima elezione dei rappresentanti dei Comuni. Ma nella formazione del nuovo Parlamento "le elezioni furono per la maggior parte l’opera del caso"(61). Il primario obiettivo del governo Castelnuovo era quello di smantellare totalmente e definitivamente l’edificio feudale. I suoi maggiori oppositori in ciò erano certamente i belmontisti, per questo motivo fu tentata l’alleanza con i democratici. Nessuno vide di buon occhio il legame di Castelnuovo con Gagliani, né all’interno del suo gruppo, né fra i belmontisti che lessero l’alleanza elettorale solo come attacco personale contro di loro(62). Solo Bentinck aveva approvato, anzi caldeggiato un ampliamento delle basi parlamentari del gabinetto Castelnuovo: "ciò che più sentitamente consigliavo era di unire il Gabinetto dei Pari con i rappresentanti più rispettabili dei Comuni, che avrebbero potuto dare sostegno maggiore ai nobili e alla Corona"(63). Ma presto i lavori dell’assemblea si arenarono per quello che accadeva dentro e fuori dal Parlamento, così che l’unico periodo di produzione legislativa fu durante il mese di agosto.
Effettivamente i baroni continuarono per tutta la legislatura, come avevano già fatto nella fase elettorale, ad avvertire i democratici, all’interno del Parlamento, come un corpo estraneo imposto da Castelnuovo, e a pensare che con essi fosse impossibile collaborare. Le idee democratiche, d’altronde, andavano verso un assetto politico volto all’allargamento delle basi popolari dello Stato, in luogo della visione aristocratica dei costituzionalisti che desideravano che il Parlamento fosse espressione di un’elite che si assumesse la responsabilità delle sorti della Sicilia. Una dirigenza ristretta, per il semplicissimo fatto che solo un ristretto numero di siciliani era in grado e perciò aveva il diritto e il dovere di assumersi responsabilità politiche. D’altra parte la genesi stessa della Costituzione mostrava di essere sottesa da questa concezione.
La nuova Carta era frutto di un accordo tra gli aristocratici, i quali non avevano chiesto alcuna legittimazione pubblica prima di agire. I baroni non ne avvertivano il bisogno, poiché si sentivano, per la loro posizione di nascita, i soli depositari di quel sapere e di quella saggezza che permetteva loro di agire in nome di tutte le componenti dello stato: essi erano la "Nazione". Non si erano chiesti quale fosse il bene della Sicilia, avevano semplicemente dato per scontato che coincidesse con il loro e cioè con il ripristino del ruolo di corpo intermedio tra sovrano e popolo(64). Il tutto senza minimamente preoccuparsi di consultare quel popolo del quale si sentivano rappresentanti. Ma che i programmi e le aspirazioni non coincidessero né con le esigenze dei nuovi ceti emergenti, né, ovviamente, con quelle del popolo minuto non fu dal Parlamento costituente minimamente preso in considerazione.
Gli articoli approvati dal primo Parlamento elettivo di Sicilia furono dunque pochi, non solo per il poco tempo, ma anche perché il repentino cambio di maggioranza non aveva permesso che si approntasse un piano di attività legislativa(65). Fu votato l’esercizio provvisorio limitatamente ai mesi di settembre e ottobre, autorizzato il pagamento all’armata britannica di 150.000 pezzi di Spagna, confermata la Lista civile, rinnovato il soldo alle truppe, stabilite le modalità di denuncia delle rendite fondiarie (riveli), modificata la legge sui Consigli Civici riguardo la possibilità di fissare il prezzo dei generi di consumo(66). A differenza della produzione legislativa della sessione parlamentare precedente furono votate quelle leggi che era impossibile continuare a rinviare. Tuttavia fu lasciato in sospeso il problema dell’esercizio finanziario o, per lo meno la sua discussione fu solo rinviata ai mesi successivi.
Ma più significativo delle leggi approvate fu il programma del partito democratico, la cui forza andò aumentando, dopo la crisi di luglio, fino a diventare il partito di maggioranza alla Camera dei Comuni(67). Nel luglio del 1813, infatti, Palermo fu percorsa da una rivolta popolare dovuta alla crisi alimentare, che si aggiungeva alla minaccia della peste proveniente da Malta attraverso le navi dell’Inghilterra, le cui truppe non rispettavano esattamente le disposizioni della Deputazione di Sanità e anche per questo diventavano sempre meno popolari(68). Il Consiglio di Stato prese provvedimenti impopolari e chiuse le Camere senza seguire la procedura corretta e istituendo una corte militare per processare i responsabili della rivolta(69). I moti di piazza, provocati essenzialmente dal carovita, erano stati interpretati come opera di emissari francesi, che si diceva sobillassero il popolo e finanziassero i democratici. Quello che era solo un tumulto provocato dalla fame si trasformò in crisi politica, screditando ulteriormente il governo che non aveva trovato modo migliore per sedare la rivolta che fare eseguire due condanne capitali(70).
Il programma politico dei democratici inseguiva uno scopo principale: una correzione in senso democratico della Costituzione del 1812 che permettesse una predominanza del potere legislativo sull’esecutivo. Ma soprattutto un ampliamento dei poteri della Camera dei Comuni, investita del potere dall’elettorato e dunque di esso autentica rappresentante(71). Il Governo, secondo la lettera della Costituzione, era svincolato da una maggioranza parlamentare, non doveva presentarsi alle Camere per ottenerne la fiducia(72). Questo rientrava nella posizione conservatrice della dirigenza costituzionale che propendeva "per una preminenza del gabinetto su tutto il sistema"(73).
In realtà l’errore più grave dei democratici fu quello di non riuscire a conquistare alla propria causa la campagna e le masse cittadine. Così la loro azione fu animata soprattutto dalla necessità di resistere da una parte al governo e dall’altra ai suoi alleati britannici che tentavano di imporlo con la legge marziale. Non compresero l’importanza dell’occasione che gli inglesi avevano offerto, e sottovalutarono il rischio di un rovesciamento di alleanze che, isolando il partito costituzionale, abbandonava le istituzioni in balia dei personaggi più reazionari(74). I democratici si rifiutarono di votare una legge finanziaria completa, cercando di apportare alla Costituzione delle modifiche sostanziali. Di "ritocchi" e "rettifiche" alla Costituzione avevano parlato sia il Vicario che il più avanzato gruppo di Aceto(75), i democratici chiedevano certamente più incisivi cambiamenti. Soprattutto chiedevano l’abolizione totale dei fedecommessi, l’ammissione alle magistrature municipali dei "ricchi" pur senza rendita(76), l’organizzazione delle magistrature e l’istruzione pubblica. Un vero e proprio programma da realizzarsi durante una legislatura durante la quale i democratici fossero stati forza di maggioranza. In effetti detennero quasi sempre la maggioranza dei seggi ai Comuni, ma in realtà, non riuscendo ad introdurre democratici nell’esecutivo, non agirono come partito di governo né riuscirono a portare a termine i loro programmi(77).
Quando il Parlamento si chiuse, in ottobre, e fu imposta una sorta di pacificazione politica grazie alle armi inglesi. Si assistette ad eccessi di ogni genere, ad incarcerazioni per abuso di libertà di stampa e a sostituzioni d’ufficio di magistrati municipali in odore di giacobinismo sostituiti da uomini di partito(78). I parlamentari della legislatura del 1814 furono di specchiata fede costituzionale, grazie ai maneggi del ministro Bonanno, il quale non agì affatto come il suo predecessore Castelnuovo, ma usò ogni mezzo per assicurare al "partito inglese" una salda maggioranza. Tutta la legislatura fu occupata dai ricorsi dei democratici verso quelle elezioni reputate illegali, con un Parlamento totalmente bloccato che non riusciva a dar vita a nessun progetto di legge rilevante. Fu prolungato l’esercizio finanziario per tutta la durata della sessione parlamentare senza riuscire a condurre in porto un compiuto piano di finanze. Finché nel giugno, per non essere scavalcato dai realisti o essere escluso dai democratici, Belmonte fece quella proposta che riportò il re al potere(79).
Col ritorno del sovrano e la partenza di Bentinck furono ripristinati i ministri Ferreri, il duca Avarna di Gualtieri, Naselli e il Duca Lucchesi Palli, cancellando il periodo della legge marziale e il gabinetto appena licenziato(80). Il re ottenne che il Parlamento si sciogliesse e cominciò a prepararsi la via per il suo rientro a Napoli. Nel primo Parlamento costituzionale, indipendentemente dai risultati, si erano visti gli sforzi compiuti per tenere in vita le traballanti istituzioni appena nate, in quello successivo, invece, le discordie interne, i maneggi illegali, le personali invidie avevano reso inutile ogni tentativo di gestire l’assemblea affinché svolgesse la sua attività. Ancora una volta mancava un piano di finanze e il riordino dei codici e delle magistrature, mentre erano stati del tutto abbandonati i progetti di riforma in senso democratico dell’accesso alle magistrature municipali e le leggi sociali sull’istruzione.
Nell’autunno del 1814 si aprì il terzo Parlamento, che fu caratterizzato da una fervida attività legislativa, che vide la proposta di moltissimi progetti di legge di enorme importanza. Fu proposta la censuazione dei beni ecclesiastici e demaniali, progetto che avrebbe avuto un grande peso economico, ma fu avvertito come un attentato alla proprietà privata. Si cercò di disciplinare i contratti di enfiteusi. Un’altra proposta fu la regolamentazione dei conventi e della vita monacale, al fine di limitare l’istituzione di nuovi conventi e monasteri. Si approntò il piano di riordino della magistratura, e la legge per l’Alta Corte. Vennero finalmente fissate norme precise per la convocazione dei consigli civici, il quorum per la validità delle decisioni assunte, diritti e doveri di consiglieri e capitani, le conseguenze penali o multe in denaro cui sottoporre i consiglieri assenteisti. Finalmente si creava una legge che desse una risposta certa a tutti i dubbi applicativi che avevano agitato le precedenti tornate elettorali, e al tempo stesso permesso l’ingerenza governativa e le pressioni dei Capitani di Giustizia.
Ma la Costituzione era già condannata. Da una parte la dirigenza siciliana non aveva fatto abbastanza per difenderla, ma soprattutto la congiuntura internazionale non dava più speranza al sogno della Costituzione siciliana. Ciò che restò di essa fu soltanto l’abolizione dell’ordinamento feudale, il resto fu sostituito da uno statuto di decentramento burocratico(81). La monarchia, inoltre utilizzò gli strumenti della nuova suddivisione amministrativa per impiantare su di essa la formula degli intendenti napoleonici(82). Il risultato maggiore fu forse quello di aver introdotto attivamente sulla scena politica una classe diversa dalla nobiltà. Essa continuò, anzi, costituì ancor di più la più accesa oppositrice del potere centrale. La borghesia siciliana, al contrario, cominciò a istaurare quei collegamenti con il movimento risorgimentale nazionale che la proiettarono nel Risorgimento(83).
III. L’eredità sulla vita politica dell’Ottocento
Tuttavia, come osservava Niccolò Palmieri, "i Siciliani a forza di discutere sui diritti de’ baroni vennero tratto tratto conoscendo i dritti loro"(84).
La Costituzione del 1812, secondo Buttà, ebbe infatti "il valore di una rivoluzione copernicana e stabilì il primo contatto con il pensiero e la civiltà politica dell’Inghilterra. Locke, Hume, Blackstone, Bolingbroke furono gli autori ai quali maggiormente si guardò da uomini come Polo Balsamo, Domenico Scinà, Niccolò Palmieri, Giovanni Aceto, mentre gli avvenimenti politici incalzanti ponevano a fronte l’esplosione rivoluzionaria francese con le ormai consolidate tradizioni liberalcostituzionali inglesi. Tutto ciò dovette dare una spinta decisiva al compimento della scelta costituzionale da parte della nobiltà, mentre la borghesia, che prima aveva guardato al riformismo assolutistico, venuto questo ad interrompersi, faceva necessariamente confluire la sua iniziativa politica con quella dell’aristocrazia. Le stesse Considerazioni del Gregorio agirono in senso antiassolutistico ‘rafforzando […] l’interesse per i vecchi ordinamenti isolani e promuovendo perciò il risveglio della coscienza costituzionale’ e il democratismo isolano, tranne qualche estrema frangia giacobinica non pensò mai ad un sovvertimento violento delle istituzioni e dell’ordinamento sociale. Non è un caso dunque che Castelnuovo e Belmonte affidassero a Paolo Balsamo l’incarico di preparare un progetto di costituzione; egli rappresentava infatti il momento di congiunzione della nuova cultura mediata attraverso Locke e Montesquieu, con l’istanza politica di una riforma della società e dello Stato"(85).
Tornando alla struttura della Costituzione e al suo destino, bisogna aggiungere che nei pochi anni della sua vigenza, l’elaborazione interna necessaria ad un sistema appena nato, con tutte le scosse del caso, in Sicilia durò veramente poco. Troppo pochi anni perché il neonato ordinamento potesse strutturarsi o la classe politica più innovatrice formarsi compiutamente.
Bisogna sottolineare come l’ala radicale avesse avuto un’enorme vittoria, avendo reso il governo, totalmente privo di iniziativa politica, prigioniero del Parlamento, al quale venne anche attribuita la direzione della finanza pubblica.
All’articolo II delle Basi, infatti, si legge: "Che il potere Legislativo risiederà privativamente nel solo parlamento. Le leggi avranno vigore, quando saranno da Sua Maestà sanzionate. Tutte le imposizioni di qualunque natura dovranno imporsi solamente dal Parlamento ed anche avere la Sovrana Sanzione"(86), e al primo paragrafo del capitolo I del titolo I, Potere Legislativo, si afferma che "Il potere di far le leggi, interpretarle, modificarle, ed abrogarle risiederà esclusivamente nel parlamento. Ogni atto legislativo però avrà forza di legge, e sarà obbligatorio, tosto che avrà la Sanzione del Re"(87), così che solo un’iniziativa dell’assemblea avrebbe potuto sottrarre il governo ad eventuali empasse future. Al sovrano restava solo il potere di placet o di veto, senza possibilità di apportare modifiche(88). In realtà, era stato il baronaggio che, nel tentativo di limitare i poteri della Corona, aveva ampliato quelli dell’assemblea(89), rendendola, come si vedrà in avanti, per certi versi incontrollabile, e che aveva sottratto qualsiasi potere di iniziativa legislativa all’esecutivo, cioè al re(90), benché nella Costituzione inglese egli fosse parte integrante del potere legislativo. Nonostante ciò in realtà i due poteri avevano la possibilità di osteggiarsi a vicenda(91): le camere potevano, come fecero, rimandare indefinitamente la discussione di determinati argomenti – i Comuni con le leggi finanziarie – , appartenendo solo ad esse il potere di iniziativa, e il re, da parte sua, poteva negare quante volte avesse voluto il placet, bloccando il sistema.
La Costituzione del 1812 rappresentò, secondo Romeo, "Il trionfo di una concezione ispirata alla moderna libertà sul mondo delle ‘libertà’ antiche", e contemporaneamente agì in direzione di porre "le fondamenta di una redistribuzione della proprietà terriera più conforme ai nuovi rapporti economici stabilitisi nell’isola". Tuttavia, egli intravedeva nella poca "coscienza dell’aristocrazia baronale" il limite fondamentale del valore della carta costituzionale siciliana(92).
Secondo Buttà, sebbene il testo costituzionale rappresenti "lo sbocco necessario" dell’aristocrazia siciliana e del partito democratico, pure esso è espressione compiuta del repentino "crollo del vecchio regime e la svolta liberale del sistema politico" dell’isola. Alla luce di quanto accadde all’indomani della sua pubblicazione, però, come sosteneva polemicamente Michele Amari, vi era forse l’opportunità che "non fosse il Parlamento a fare la nuova costituzione ma che si aggiungessero nuovi capitoli all’antica o che essa si fosse fatta accordare dal potere regio"(93).
Giuseppe Buttà, giudica riduttivo valutare la Costituzione "dall’esito della lotta politica in un periodo così breve come quello in cui la Costituzione ebbe vigore". Certamente, un Parlamento che per tre legislature di seguito, tutte cessate prima del loro termine naturale, ridiscuteva la Costituzione, "se vedeva esaltato il suo potere costituente, si trasformava però in un pericoloso meccanismo di esasperazione del conflitto anziché in un organo ordinario di direzione politica". Anche la divisione tra "cronici" e "anticronici" non rappresentò una normale articolazione in partiti interna al Parlamento, ma "la contrapposizione dei moderati che appoggiavano la Costituzione e degli estremisti ultrademocratici e ultraconservatori che convergevano nell’attaccarla per poterla trasformare e asservire ai propri fini"(94). Il senso dell’esperimento costituzionale non si limitò ai pochi anni di attuazione, ma rappresentò a lungo uno spartiacque nella successiva storia siciliana e nelle vicende dei protagonisti di quella vicenda politica: "Il Principe di Castelnuovo, protagonista tra i più importanti della lotta politica in Sicilia dal 1810 al 1815, non aveva dimenticato ancora nella sua tarda età il tradimento che nel 1816 la monarchia borbonica aveva perpetrato contro la Sicilia non solo abolendo di fatto la Costituzione del 1812 ma decretando anche la fine dell’indipendenza del Regno; così egli, nel suo testamento, dava sfogo alla sua amarezza e alla sua disillusione istituendo un legato di quarantamila once per "quell’uomo di stato che indurrà il re a restituire alla Sicilia la sua Costituzione""(95).
La Costituzione del 1812 – osserva ancora Buttà – "morta con l’insperata gloria di una morte violenta", era pure rimasta non solo un ideale politico che guidò e finalizzò la lotta politica in Sicilia fino almeno al 1848, ma, cosa ancora più importante, essa era ormai vivente nella società di cui aveva radicalmente modificato i rapporti giuridici, sociali e politici, abolendo finalmente la feudalità con una soluzione certamente aperta alle istituzioni e alle idee liberali e costituzionalistiche più mature in quell’epoca(96).
Cristina D’Urso
NOTE
* Estratto della tesi dal titolo Rappresentanza politica e sistema elettorale nella Costituzione siciliana del 1812, elaborata nell’ambito del Dottorato di Ricerca in Storia del Costituzionalismo e del Repubblicanesimo, XVII ciclo, Università degli Studi di Messina, Coordinatore e Tutor Prof. Giuseppe Buttà .
(1) E. Sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo in Sicilia (1812-1815), Catania, Bonanno, 1966, p. 34.
(2) Ibidem.
(3) Ivi, p. 35; cfr. anche F. Renda, La Sicilia nel 1812, Caltanissetta, Sciascia, 1963.
(4) E. Sciacca, Riflessi, cit., p. 36
(5) C. R. Ricotti, Il costituzionalismo britannico nel Mediterraneo (1794-1818): Alle origini del modello siciliano, in "Clio", 1995, p. 13.
(6) C. R. Ricotti, Il costituzionalismo, cit., pp. 5-63, p. 22.
(7) E. Sciacca, Riflessi, cit., p. 37.
(8) J. Rosselli, Lord William Bentinck and the British Occupation of Sicily 1811-1815, Cambridge University Press, Cambridge 1956; trad. it.: Lord William Bentinck e l’occupazione Britannica in Sicilia 1811-1814, a cura di M. D’Angelo, Palermo, Sellerio, 2002, p. 67.
(9) G. F. Leckie, Historical Survey of the Foreign Affairs of Great Britain,(1808), citato in J. Rosselli, Lord William Bentinck, cit., p. 67.
(10) M. D’angelo, Tra Sicilia e Gran Bretagna, in J. Rosselli, Lord William Bentinck, cit., pp. 16 e segg.
(11) Ivi, cit. p. 17.
(12) Sul "partito inglese" e sul "laboratorio politico" cfr. G. Giarrizzo, la Sicilia dal Cinquecento all’Unità, in . D’Alessandro – G; Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità, Utet, Torino 1989.
(13) M. D’angelo, Tra Sicilia e Gran Bretagna, cit., p. 19.
(14) C. R. Ricotti, Il costituzionalismo, cit., p. 13.
(15) G; F. Leckie, Historical Survey of the Foreign Affairs of Great Britain, (1808).
(16) E. Sciacca, Riflessi, cit., p. 39.
(17) N. Palmeri, Saggio storico e politico sulla costituzione del Regno di Sicilia infino al 1816, Lausanne 1848; con introduzione di E. Sciacca, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, 1972, p. 156.
(18) Citato in E. Sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 40: "La Sicilia non è la magna Britannica né che la cappa di un enorme gigante non poteva mai adattarsi alla statura di un pigmeo".
(19) E. Sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 42 e sgg.
(20) Ivi, p. 115.
(21) Sulla storia del Parlamento cfr. C. Calisse, Storia del Parlamento in Sicilia dalla fondazione alla caduta della monarchia, Torino 1887; L. Genuardi, Parlamento Siciliano, in Atti delle Assemblee Costituzionali italiane dal Medioevo al 1831, Bologna 1924; A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel Medioevo e nell’età moderna, Milano 1962; G. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, in Storia della Sicilia, Napoli 1977, vol. VII.
(22) E. Sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 43.
(23) Ivi, p. 79.
(24) R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950., p. 60.
(25) E. Sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p 46.
(26) Ivi, p. 46.
(27) G. Aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti con l’Inghilterra nell’epoca della Costituzione del 1812, Palermo 1848; rist. con Introduzione di F. Valsecchi, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, 1970, pp. 70
e segg.
(28) R. Romeo, Il Risorgimento, cit., p. 16.
(29) Ivi, p. 62.
(30) "ho trovato in tutti i paesi […] la classe di mezzo, essere la più capace" Lettera cit. in B. Croce, Il marchese Caracciolo, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, 1943, p. 96.
(31) G. Buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, in Storia della Sicilia, Napoli, 1977, VII, pp. 41-42.
(32) Ivi, p. 44.
(33) Ivi, p. 42.
(34) Ibidem.
(35) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p 47
(36) Ibidem.
(37) f. renda, Dalle riforme al periodo costituzionale, cit., p. 276.
(38) Ibidem.
(39) n. palmeri, Saggio storico e politico, cit., p. 150.
(40) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., pp. 61-62.
(41) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 99.
(42) Ivi, p. 100.
(43) Ivi, p. 101.
(44) P. Balsamo, Sulla istoria moderna del Regno di Sicilia, cit., p. 115.
(45) Ivi, p. 116.
(46) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., p 104.
(47) P. Balsamo, Sulla istoria moderna del Regno di Sicilia. Memorie segrete (1816), Palermo 1848; rist. con Introduzione di f. renda, Palermo, Edizioni della Regione Siciliana, 1969, p. 95
(48) g. aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti coll’Inghilterra, cit., p. 9.
(49) e. sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo, cit., p. 12.
(50) Ibidem.
(51) Ivi, p.13.
(52) r. romeo, Il Risorgimento, cit., p. 153.
(53) Ivi, p. 154.
(54) e. sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo, cit., p. 13.
(55) Ibidem.
(56) g. aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti coll’Inghilterra, cit., p. 166. Aceto definisce questo un gravissimo errore dei costituzionali, poiché, se avessero avuto la forza di imporre una costituzione già fatta, piuttosto che farla deliberare alla Nazione, non sarebbero incorsi in quei compromessi che snaturarono la Costituzione e ne causarono il fallimento.
(57) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., p. 116.
(58) f. renda, La Sicilia nel 1812, Sciascia, Caltanissetta 1963, p. 212.
(59) e. pontieri, Ai margini della costituzione siciliana del 1812, in XX congresso della Società Nazionale per la storia del Risorgimento, Roma 1933, p. 131.
(60) f. renda, La Sicilia, cit., p. 284.
(61) g. aceto, Della Sicilia e dei suoi rapporti coll’Inghilterra, cit., p. 139
(62) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., pp. 188-189.
(63) Ivi, p. 187.
(64) f. renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 218 "… allargare così l’influenza dell’aristocrazia a spese della monarchia e del terzo stato".
(65) Ivi, p. 349.
(66) Costituzione del Regno di Sicilia, raccolta de’ bills e de’ decreti de’ Parlamenti di Sicilia 1813,1814 e 1815, per servire di continuazione alla Costituzione Politica di questo Regno formata nell’anno 1812. Generale Parlamento I, pp. 5 e segg.
(67) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 174.
(68) f. renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 327.
(69) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., p. 194
(70) f. renda, La Sicilia nel 1812, cit., p. 329.
(71) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 175.
(72) Costituzione del Regno di Sicilia, Tit. II, Potere esecutivo. Nessun articolo o paragrafo parla del legame tra governo e maggioranze parlamentari.
(73) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 175.
(74) f. renda, La Sicilia, cit., p. 342-343.
(75) e. sciacca, Riflessi del Costituzionalismo, cit., p. 182.
(76) Ibidem.
(77) Ivi, p. 185.
(78) f. renda, La Sicilia, cit., p. 487.
(79) j. rosselli, Lord William Bentinck, cit., p. 247.
(80) Ivi, p. 249.
(81) f. renda, La Sicilia, cit., p. 546.
(82) Ibidem.
(83) Ivi, p. 547.
(84) n. palmieri, Saggio storico e politico, cit., p. 58; g. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, cit., pp. 42-43.
(85) g. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, cit., p. 45.
(86) Costituzione del Regno di Sicilia, art. II, Basi.
(87) Costituzione del Regno di Sicilia, Tit. I, cap. I. § 1.
(88) g. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, cit. p. 46.
(89) e. sciacca, Riflessi del costituzionalismo europeo, cit., p. 115.
(90) Ibidem.
(91) Ibidem.
(92) r. romeo, Il Risorgimento, cit., pp. 152 e segg.
(93) g. buttà, Il Parlamento siciliano tra tradizione e riforma, cit., p. 45.
(94) Ivi, p. 48.
(95) Ibidem.
(96) Ibidem.