Enzo SCIACCA, Principati e repubbliche. Machiavelli, le forme politiche e il pensiero francese del Cinquecento, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 2005, pp. 238.
Enzo Sciacca, dopo Il problema storico del pensiero politico moderno, la genesi della modernità (Palermo, 2000), recensito su "Rassegna" (n. 15, aprile 2002), torna ad approfondire altri aspetti del suggestivo argomento, proponendoci un valido strumento per lo studio delle forme politiche e della riflessione teorica sulla monarchia assoluta.
L’autore si occupa della ricezione di Machiavelli nella cultura francese della modernità, in riferimento alle forme di governo che il Segretario fiorentino individuò nel binomio repubbliche-principati e nella circolazione delle forme di governo. Egli mette in evidenza il "rapporto dialettico per cui il regno di Francia viene a costituire un ampio e solido materiale per l’interpretazione del principato da parte del fiorentino, che egli restituisce alla cultura francese come un fondamento per l’elaborazione di quel nuovo modello politico" (p. 10). Il volume si apre con la teoria machiavelliana delle forme politiche, prendendo subito le distanze da coloro che hanno sottovalutato Le Istorie fiorentine "ai fini di una complessiva valutazione del suo pensiero politico" (p. 16). Il segretario fiorentino rompe con la tipologia e i "criteri tassonomici" elaborati sino a quel momento; e nei suoi scritti non si trovano significativi riferimenti alla scienza politica del Medioevo. Egli, com’è noto, nel Principe distingue gli stati in repubbliche e principati, mentre nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio propone la teoria polibiana dell’anaciclosi. In riferimento a quest’ultimo aspetto, Sciacca osserva come debbano essere affrontati i rapporti tra Machiavelli e Aristotele, spesso poco evidenziati rispetto alle più note influenze di Polibio: "quello che ci interessa – scrive Sciacca – è come Machiavelli rilevi da Aristotele, a mio avviso, più che da Polibio, l’impalcatura della sua teoria delle forme politiche, relativamente almeno a quell’aspetto di essa che deve essere considerata profondamente innovativa rispetto alla scienza politica tra Quattro e Cinquecento" (p. 19). Nella Politica, Aristotele propone una tipologia di sei forme di governo – tre rette e tre deviate – distinte anche in base al numero di governanti, alla loro "virtù", e ai loro interessi. Lo Stagirita è convinto, inoltre, che ogni sistema politico abbia una sua conflittualità: "i pochi contro i molti, […] i poveri contro i ricchi, ed il cui equilibrio sta nel rispetto delle leggi" (p. 20). Se la classe di governo persegue l’interesse generale, la forma è retta, altrimenti è degenerata. Il conflitto interno al sistema politico è ineliminabile tanto da essere presente anche nella forma mista (politia), commistione di due forme deviate: democrazia e oligarchia.
Attraverso l’esempio della Francia, Machiavelli delinea "uno dei punti maggiormente significativi della concezione delle forme politiche monarchiche del pensiero moderno" (p. 25). Egli, infatti, presenta la contrapposizione tra monarchia legittima (réglée o royale) e il dispotismo che è presente nel pensiero politico francese da Claude de Seyssel sino a Montesquieu. A Machiavelli, l’esperienza politica romana offre la possibilità di analizzare la repubblica democratica fiorentina, "le vicende politiche della sua patria" e in ciò, Le Istorie fiorentine, gli permettono di usare la libertà come criterio storiografico, "come unità di misura e criterio di valutazione di situazioni politiche e istituzionali" (p. 30). Nel Principe emerge la distinzione tra regno e principato: il primo presenterebbe dimensioni più ampie del secondo. E differenti, pertanto, sarebbero i termini re e principe. Sciacca però, a tal proposito, avanza l’ipotesi secondo la quale in Machiavelli il regno sarebbe una specificazione del principato, in grado di "aggregare e frenare" e rispondere alla crisi politica e istituzionale presente in Italia. Il regno di Francia era l’esempio più importante di come re e leggi potessero fungere da freni alla "insolenza dei potenti". (p. 32). Per Sciacca il principato civile costituisce un modello teorico con riferimenti al regno di Francia. Nel principato civile – retto da privato cittadino con il consenso dei concittadini – il popolo e i "grandi" formano i due "umori", i due partiti, e la libertà è intesa come "disunione" dei due umori. È proprio il conflitto tra i due umori a distinguere, secondo Machiavelli, il principato dalla repubblica. In ogni repubblica "è necessariamente presente" la conflittualità. Il principato civile: "discende da due differenti momenti genetici. Il primo si ha allorquando, in una fase di crisi della repubblica, uno dei due umori favorisce la trasformazione di quella in un principato […]; nel caso avverso […] i conflitti saranno ancora più aspri e cruenti e non escluderanno le violenze e persino le scelleratezze, fino a quando il principato non diverrà popolare o una tirannide" (p. 40). Da principe civile, cioè con il consenso dei concittadini, governò Agatocle che aveva preso il potere con azioni scellerate. E principe civile fu Cesare Borgia le cui azioni sono, per Machiavelli, esempio di quella precettistica che deve essere tenuta in conto dal principe. Dalle opere del segretario fiorentino, emergono diversi modelli di repubblica: aristocratico-spartano-veneto e popolare romano ateniese. Si è tanto discusso sul confronto tra il VI libro delle Storie di Polibio e i Discorsi di Machiavelli, il quale, però, se condivide con il filosofo greco il giudizio sulla forma mista, appare più cauto nella circolazione delle forme di governo tanto da poter dire che il suo naturalismo è "profondamente diverso da quello polibiano" (p. 57). E se in entrambi sono presenti l’eptade tipologica e lo schema della esanomia, per Machiavelli, la costituzione mista non sembra avere riscontri nella "verità effettuale" di Firenze e d’Italia caratterizzate da forti instabilità (p. 67).
Il sedicesimo secolo è caratterizzato dalla costruzione di un modello di Stato in cui "superiorem non recognoscens" e che, pertanto, attribuisce al re i poteri che erano stati fino a quel momento riferiti all’imperatore. L’autore precisa come solo di recente la nozione di assolutismo sia stata "de-ideologicizzata" cioè distinta dai termini dispotismo e tirannide. I giudizi sulla monarchia assoluta non furono concordi. Jean Ferrault, Barthélemy de Chasseneux e Charles de Grassaille insistevano sulla "assolutezza della potestas legem condendi del sovrano" (p. 88). Per loro il re di Francia era "imperator in regno suo". I moderati, invece, pur non negando, come Claude de Seyssel, il carattere assoluto del potere del re, vedono nell’equilibrio e nella giustizia i freni capaci di evitare il dispotismo. Infine, per Guillaume de La Perrière - collocato in una posizione intermedia tra i due gruppi - "la monarchia francese è una monarchia assoluta, la cui sovranità non è affatto intaccata dalla presenza di corti sovrane le quali, con il prestigio, accrescono e consolidano la maestà della corona" (p. 125). Egli si allontana dalla tipologia delle forme di governo della Politica di Aristotele per avvicinarsi a quelle dell’Etica Nicomachea in cui compare la timocrazia come costituzione oligarchica, cioè fondata sul censo, e, pertanto, diversa dal governo tenuto dai custodi guerrieri della Repubblica di Platone. Diversa è anche l’idea di forma mista di governo che in La Perrière risulta dalla mescolanza di monarchia, aristocrazia e timocrazia (p. 123).
Sciacca accosta Seyssel a Machiavelli per il "comune debito nei confronti della scienza politica antica" e, soprattutto di Aristotele e Polibio. Seyssel analizza la storia romana per dimostrare i limiti e la inaffidabilità della democrazia e diverge da Machiavelli per il quale le disunioni tra plebe e senato sono state, rispetto ad altre realtà, motivo della grandezza di Roma. Seyssel studia il sistema politico veneziano intravedendo due grossi rischi: la presenza di due partiti e l’esercito mercenario. E dato che la repubblica di Venezia sarebbe "destinata alla corruzione e alla rovina finale", il pensatore savoiardo studia quella che ritiene sia la migliore forma di governo: la monarchia. In Francia, essa si presentava con alcune "specialità" che la rendevano superiore alle altre: la legge salica per la successione al trono e i tre freni della religione, giustizia e polizia. Il primo freno si manifesta come imposizione per il re a vivere secondo la legge cristiana e per i sudditi a obbedire. La giustizia riguarda, invece, gli aspetti istituzionali, il rispetto per le leggi fondamentali. La polizia, infine, è quel freno che si esprime nelle stesse leggi fondamentali e nel concetto di ordine politico. Tali sono i caratteri peculiari della monarchia assoluta di Seyssel che coincide con la monarchia réglée.
L’ultima parte del lavoro di Sciacca tratta la presenza di Machiavelli nel pensiero politico francese del ‘500. Tra il 1544-48 il segretario fiorentino non era ancora considerato il precettore dei tiranni. Le prime traduzioni del Principe risalgono al 1553 con le curatele di Guillaume Cappel e di Gaspard d’Auvergne. Tra Machiavelli e Seyssel, Sciacca colloca il polithique Loys Le Roy in quanto dal primo avrebbe preso l’autonomia della scienza politica, dal secondo la teoria della monarchia réglée (p. 154). Nei due scritti De l’excellence du Gouvernement Royal e Vicissitude, Le Roy affronta il problema delle forme politiche che sono rette se hanno come fine il bene pubblico. La democrazia è la forma più soggetta a instabilità, "turbolenze costituzionali e sociali" (p. 185) e per questo degna della sua diffidenza. Il governo monarchico, invece, nella forma ereditaria, viene esaltato e distinto da quello dispotico e tirannico anche se "come in tutto il pensiero francese del Cinquecento […] i confini tra la monarchia absolue e la dispotica rimangono piuttosto vaghi" (p. 173).
Il volume di Enzo Sciacca - parzialmente tratto dalle lezioni su Il problema delle forme politiche nel pensiero di Niccolò Machiavelli, tenute dall’autore per il corso del dottorato di ricerca Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee nell’anno accademico 2002-2203 – ha, tra le altre cose, il pregio di sollecitare gli studiosi a una migliore conoscenza dei classici per meglio comprendere i metodi e i temi del pensiero politico.
Claudia Giurintano
Eric VOEGELIN, Dall’Illuminismo alla Rivoluzione, a cura di Dario Caroniti, Roma, Gangemi Editore, 2004, pp. 335.
La frase del tedesco Eric Hermann Vilhelm Voegelin (1901-1985), riportata anche ad apertura del libro, potrebbe essere considerata, per uno storico del pensiero politico, la massima verso cui indirizzare il proprio lavoro: "Il compito dello storico delle idee non si può esaurire nel riportare le dottrine di un pensatore o nell’esporre qualche grande sistema teorico, ma deve anche esplorare lo sviluppo dei sentimenti che si cristallizza nelle idee, e mostrare la relazione tra le idee e la matrice dei sentimenti in cui sono radicate" (p. 37 e p. 102). L’autore, professore a Vienna, nel 1938 aveva abbandonato l’Austria per andare negli Stati Uniti dove, appena un anno dopo, aveva iniziato a scrivere una Storia delle idee politiche prendendo come modello l’opera di George Sabine. Lo scopo era quello di dimostrare "sinteticamente le radici dell’ordine politico della civiltà occidentale a partire dal pensiero politico dell’antica Grecia e le cause che avevano condotto parte della cultura europea a un grado di decadenza morale tale da produrre la svolta totalitaria del novecento" (Introduzione, pp. 7-8). L’obiettivo di restare nella sintesi non fu però mantenuto tanto da trasformare quel progetto in un’opera in otto volumi, pubblicati postumi nel 1998 da Ellis Sandoz. Un nono volume, tutto a se stante, fu pubblicato nel 1975, con il titolo From Enlightenment to Revolution, ad opera di John Hallowell che estrapolò dalla Storia delle idee politiche alcuni capitoli, usciti ora in versione italiana con i tipi Gangemi e a cura di Dario Caroniti.
Dall’Illuminismo alla rivoluzione si apre con l’analisi del Settecento. L’autore giudica le definizioni di "secolo della rivoluzione" e della "Ragione" come "negazioni del valore cognitivo delle esperienze spirituali" poiché "affermano l’atrofia del trascendentalismo cristiano". Si trattò di una "ribellione apostata" capace di dare vita a un movimento di idee che avrebbe condizionato la struttura politica occidentale (p. 39). Il Settecento aveva sostituito la Chiesa e l’Impero con le "nuovi fonti di autorità" rappresentate dai "corpi mistici delle nazioni" (Introduzione, p. 9). L’eliminazione della Chiesa e dell’Impero, "intesi come poteri pubblici, fu accompagnata dalla crescita di nuove entità sociali che […] tendevano a sostituire la realtà dell’umanità cristiana che andava dissolvendosi" (p. 40). Per Bossuet, nel XVII secolo, l’universalità della storia consisteva nella "guida provvidenziale dell’umanità verso la vera religione" (p. 41). E con il trasferimento del centro dell’universalità dal sacro al profano, il cristianesimo finiva per essere inteso come evento nella storia portando alla scomparsa del dualismo "tra storia sacra e profana". Le due storie si riunivano nella storia secolarizzata "dove secolarizzazione indica l’atteggiamento col quale la storia, inclusi i fenomeni religiosi cristiani, viene concepita come un susseguirsi di eventi umani intramondani, mentre, allo stesso tempo, viene mantenuto il credo cristiano in un ordine della storia umana universale e carico di significato" (p. 43).
Tra gli intellettuali illuministi Voltaire aveva avuto il merito di iniziare una lettura della storia "non più semplicemente improntata a un astratto passato da ricordare, ma come senso della vita di tutti gli uomini e della nostra propria" (Introduzione, p. 10). Secondo il filosofo francese, il significato della storia non poteva più essere metastorico ma immanente: "Voltaire – scrive l’autore – parla dell’estinzione, della rinascita e del progresso dello spirito umano. L’estinzione corrisponde alla Caduta, la rinascita alla Redenzione, il progresso a un Terzo Regno della perfezione spirituale. Gli argomenti che fanno parte del sistema sono il medioevo (estinzione), l’epoca dell’inizio della tolleranza, che parte da Enrico IV (rinascita), e l’era dello stesso Voltaire (progresso)" (p. 46). Una riorganizzazione della storia, questa, che prelude quella di Saint-Simon e di Comte della legge delle tre fasi: religiosa, metafisica, positivo-scientifica. Il filosofo illuminista evocherebbe il nuovo mito dell’utile e, secondo Voegelin, proprio "l’affermazione del principio dell’utile" costituisce "l’ossatura di una nuova religione". La ragione di Voltaire è il simbolo che designa un complesso di sentimenti e di idee; essa non è un’idea filosofica ma un insieme di "conoscenze raccolto da fonti molto differenti" (p. 58). Voegelin ritiene che sia stata la pretesa dell’età dei lumi di creare un mondo demitizzato a produrre una religione "umana" "che si risolve nel culto di personalità violente, libere da ogni vincolo morale e civile" (Introduzione, p. 17).
La seconda e terza parte del volume (pp. 69-106) è dedicata a Helvétius, la cui figura, osserva l’autore, non essendo della statura di Montesquieu, di Hume o di Rousseau, non aveva ricevuto la stessa "attenta, minuziosa considerazione" (p. 69). Voeglein coglie in Helvétius un debito nei confronti di John Locke – da cui egli avrebbe tratto la critica all’innatismo delle idee morali e l’esigenza di creare un nuovo fondamento della morale - e nei confronti della tradizione dei moralisti francesi, soprattutto, di Pascal.
Nella crisi del pensiero occidentale, Voegelin inserisce i controrivoluzionari Joseph de Maistre e Louis de Bonald nei quali, a suo avviso, rivoluzione e controrivoluzione finiscono per coincidere a causa della confusione tra storia sacra e profana. La Rivoluzione francese appare negli scritti di Maistre in una visione apocalittica nella quale l’evento rivoluzionario diventa "un momento di passaggio tra un’età e un’altra nella quale si fronteggiano direttamente Dio e il Demonio in uno scontro frontale" (Introduzione, p. 23). Ma, nella crisi del pensiero occidentale non vanno collocate tutte le forme di pensiero che si ebbero dopo la Riforma. Voegelin, infatti, si guarda bene dal collocarvi G.B. Vico, poiché questi diede il via al progresso delle scienze storiche e, distinguendo tra genitum (il verum increatum) e factum (il verum creatum), avrebbe reso possibile la distinzione tra storia sacra e storia profana (scienza del verum creatum).
Tra i pensatori del XIX secolo, Voegelin avverte la necessità di considerare in modo "più appropriato" Auguste Comte sia in quanto "filosofo della storia", sia come "dittatore spirituale dell’umanità" (p. 167). Questi viene considerato la prima grande figura della crisi occidentale; il pensatore che "appartiene al nostro presente storico […] come Marx, Lenin e Hitler" (p. 107). Secondo l’autore, la comprensione della storia poteva apparire maggiore anche grazie "alla migliore conoscenza di Comte e all’esperienza politica" tratta dalla realizzazione pratica dei progetti comtiani. Il filosofo positivista "voleva estirpare il cristianesimo e la metafisica della civiltà occidentale" ma il suo "desiderio di distruzione era nascosto sotto il programma scientista e dal sogno della repubblica occidentale". In Michael Bakunin, invece, si palesa l’esistenza distruttiva del rivoluzionario poiché il presente deve cancellare il passato sin dalle fondamenta e il futuro non deve essere immaginato "dagli uomini ancora contaminati dal passato" (p. 225).
Con l’analisi "della dialettica invertita" di Marx e della genesi del socialismo gnostico, si chiude il volume di Voegelin. Questi osserva come i sostenitori di Marx abbiano inciso sull’accessibilità dell’opera marxiana tanto da non dare alle stampe i manoscritti ritenuti da loro poco importanti. Così, sul Marx filosofo e storico, prevalse il "Marx dei marxisti, il padre della rivoluzione russa", l’autore del Manifesto e fondatore della Prima Internazionale. Alle radici dell’idea marxista, Voegelin trova la "malattia spirituale, la rivolta gnostica", un animo chiuso "in modo demoniaco alla realtà trascendente" (p. 326).
L’estensione del "segmento utilitaristico dell’esistenza" contribuì a introdurre nella civiltà moderna l’elemento della cultura magica. E la tendenza a limitare il campo dell’esperienza umana agli ambiti della ragione, della scienza e dell’azione pratica, condusse a quel crescendo rappresentato dal sogno di creare il Superuomo a fronte della "misera creatura fatta da Dio". Fu questo, "il grande sogno – scrive Voegelin nell’Epilogo – che prima appariva in modo immaginario nelle opere di Condorcet, Comte, Marx e Nietzsche e poi pragmaticamente, nei movimenti comunista e nazionalsocialista" (p. 329). Il sogno degli illuministi di un progresso immanente si tradusse, nel Ventesimo secolo, in un "incubo vivente" delle ideologie totalitarie, dei "movimenti di massa politico-gnostici". E quando l’orrore nazista fu definitivamente sconfitto, Voegelin continuò a restare negli Stati Uniti, nel paese simbolo della cultura occidentale, a testimonianza, come scrive Caroniti, della sua volontà "di attuare […] la ricostruzione dal luogo in cui i veleni etnico-nazionalisti, che avevano dilaniato l’Occidente, apparivano sbiaditi fino a dissolversi" (Introduzione, p. 31). La sua attenzione - ricorda John H. Hallowell nella prefazione all’edizione del 1975 riportata nell’edizione in questione - fu rivolta al ruolo del mito nella storia e alle relazioni tra mito, filosofia e rivelazione, lasciando una lezione perennemente valida che consiste nel rifiutare "di accettare che le idee che si devono ricercare [nelle] opere abbiano qualcosa dell’esistenza o dell’autenticità che prescinda dai sentimenti e dalle esperienze che le hanno originate".
Claudia Giurintano
Giuseppe Acocella, Per una filosofia politica dell’Italia civile, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2004, pp. 396
Il libro di Giuseppe Acocella è articolato e complesso. Esso comprende una serie di saggi scritti nell’arco di un trentennio allo scopo di proporre una originale interpretazione della filosofia civile fra Otto e Novecento. Attraverso il pensiero di vari autori, Acocella intende ripercorrere l’itinerario che "ha forgiato la filosofia civile e l’etica sociale dell’Italia contemporanea". La tesi di fondo espressa dall’autore è che "la filosofia politica del Risorgimento italiano" appaia inadeguata per esprimere compiutamente le aspirazioni, le questioni, i bisogni della società italiana sia prima che dopo l’unificazione. La realtà italiana di quel periodo non può essere rappresentata sic et simpliciter dall’ordinamento statale e dal suo rigoroso normativismo. È necessario tener conto del processo di evoluzione che ha moltiplicato le fonti del diritto, ha dato vita ad una pluralità di ordinamenti giuridici, a nuove forme organizzative (partiti, sindacati ecc..).
Il primo capitolo tratta della filosofia civile nella vivace cultura napoletana. Attorno alla rivista "Il progresso delle scienze, delle lettere e delle arti", pubblicata dal 1832 al 1836 e diretta da Giuseppe Ricciardi, s’incontravano alcuni tra i più eminenti studiosi, scrittori politici napoletani. Tra questi si ricorda Giuseppe Ferrigni de’ Pisone, giurista il quale abbozzò una prima storia del pensiero politico italiano. Il suo intento era quello di "rivendicare il pensiero italiano dalla straniera servilità"; ossia una storia delle dottrine politiche italiane che rivendica la sua autonomia disciplinare. D’altra parte lo sforzo degli scrittori de " Il Progresso" è proprio quello di definire l’autonomia e la specificità di ciascuna scienza, riscoprendo il valore originale della politica. Luigi Dragonetti ritiene che l’economia politica (definita economia sociale) è "la scienza ordinatrice della società", ed è la vera scienza politica. Non sono le costituzioni o le forme di governo a costituire l’oggetto della vera scienza politica. Pertanto i grandi scrittori di politica come ad esempio Aristotele o Montesquieu non hanno potuto dare soluzioni ai problemi. La storia degli scrittori di politica, dunque, deve coincidere con la storia degli scrittori di economia, giacchè questa è la scienza politica per eccellenza. L’autore che più di altri ha saputo congiungere economia e diritto politico è Giandomenico Romagnosi, considerato punto di riferimento obbligato per l’evoluzione della scienza giuridica.
Le riflessioni di Dragonetti sulla "politicità" dell’economia imponevano di includere pieno iure tra gli scrittori politici quelli di economia sociale. Anche su questo tema altri prestigiosi collaboratori de "Il Progresso" riproposero la questione dell’originalità del contributo italiano alla scienza della politica. Tra questi sono ricordati Luigi Blanch, Matteo De Augustinis e G.N. Durini; in particolare questi ultimi vedono in Antonio Serra da Cosenza (1600) colui che diede inizio alla scienza economica, precedendo di un secolo e mezzo Adam Smith.
Il pensiero di Stefano Cusani, figura di rilievo della cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, è preso in considerazione in quanto già nel 1839 sottolineava il ruolo unificante della filosofia concludendo che "la storia della filosofia, la quale disegna come in una tela tutto lo svolgimento progressivo dello Spirito Umano, non è che la manifestazione di quel potentissimo bisogno che ha l’uomo di conoscere e di sapere" (p. 39).
Il saggio su Francesco De Sanctis prende in esame il dibattito sviluppatosi nel ‘900 sulla sua opera e in particolare sul suo pensiero morale. L’autore, - considerato oltrechè storico, psicologo, moralista e filosofo tra i maggiori che l’Ottocento italiano abbia avuto, - si muove in un confronto tra storicismo vichiano ed hegelismo. In lui è centrale la relazione tra ideale e reale, tra pensiero e azione, sebbene alcuni critici, e tra questi Benedetto Croce, abbiano voluto separare l’impegno civile dalla riflessione filosofica e letteraria. Si giunge alla conclusione che De Sanctis abbia vissuto problematicamente le influenze di Hegel e di Vico.
Vittorio Imbriani ha una visione evolutiva della storia, determinata non dal pensiero individuale d’un uomo, ma da una intera civiltà. Tuttavia ogni nuovo passo di civiltà e di progresso deve sempre tener conto del passato. Egli contrappone alla legge scritta la consuetudine popolare. Ciò che dà fondamento alla legge è naturale. La natura è la storia. Imbriani rifiuta la Ragion di Stato, non condivide lo stato così come si era configurato nei primi anni dopo l’unificazione. È avverso alla sinistra e al principio della democrazia perché porta con sé, in primo piano, una "plebe" incapace di divenire libera. Coscienza critica della realtà del suo tempo, Imbriani fu considerato un reazionario non tanto per la sua concezione della storia, ma per non aver percepito la comparsa di nuovi soggetti sociali sulla scena della politica. Ciò lo condusse alla rottura con De Sanctis che, invece, come altri uomini del Risorgimento, valutava positivamente il 1848 proprio per la centralità e il ruolo di protagonista assunto dal popolo.
Significativa la presenza di Agostino Magliani nella vita pubblica italiana della fine dell’Ottocento durante i governi presieduti da Depretis. La concezione etico-politica di Magliani va ricondotta alla formazione culturale maturata all’interno della scuola giuridica napoletana. Le sue idee furono espresse in vari articoli che egli pubblicò sulla rivista "Nuova Antologia". Il tema centrale della sua riflessione è il rapporto tra finanza e libertà politica. Richiamando "la sentenza verissima del Montesquieu, che esistono rapporti necessari tra la natura delle imposte e quella delle istituzioni politiche" (p.104), Magliani giunge alla conclusione che l’attività economica incontra un limite preciso nella legittimazione politica dello stato, "nessuna buona finanza si può fare senza una buona politica, nessuna buona politica si può fare senza una buona finanza" ( p.107).
Il secondo capitolo del libro tratta il pensiero etico-civile di Ruggiero Bonghi (Napoli 1826 - Torre del Greco 1895) scrittore politico e parlamentare. Attraverso il rapporto epistolare (14 lettere) tra il pensatore napoletano e Cesare Bardesano di Rigras tra il 1855 e il 1861, l’autore ricostruisce i rapporti tra gli esuli meridionali, entusiasti del liberalismo moderato di Cavour e il ceto di politici funzionari piemontesi. Nel volume Storia dell’Europa durante la Rivoluzione francese, l’antigiacobino Bonghi esamina le idee che avevano generato la Rivoluzione francese, evento tragico di tutta la storia contemporanea. Un posto di primo piano occupa l’Enciclopedia, vera sintesi delle correnti francesi miranti ad affermare la raison nella storia. Secondo l’interpretazione di Bonghi tra i quattro autori presi in considerazione, Diderot, Montesquieu, Voltaire e Rousseau, quest’ultimo è il vero "giacobino", il precursore della Rivoluzione e delle sue nefaste conseguenze. Interessanti i temi affrontati da Bonghi nei discorsi parlamentari: questione sociale, crisi e degenerazione del sistema parlamentare, riforma elettorale, crisi morale, tutte problematiche volte alla ricerca di un’etica civile capace di coniugare stabilità delle istituzioni e fermenti sociali.
Giambattista Vico rappresenta una pietra miliare nel panorama culturale napoletano del 1600. Autori, i più diversi, successivi a lui, saranno profondamente influenzati dal suo pensiero, e in modo particolare dal suo concetto di storia. Tra questi Acocella ricorda Stefano Cusani, per il quale la lezione vichiana, se accolta, avrebbe assicurato la continuità e l’originalità della filosofia italiana. Secondo Cusani "l’ordine degli avvenimenti, chiamata Provvidenza presso alcuni, e legge dell’intelligenza umana presso alcuni altri, è quella legge che Iddio stesso ha imposta al mondo morale, e che non differisce dalle leggi del mondo fisico" (p.211).
L’incidenza del vichismo sulla formazione e sul pensiero sturziano è apertamente manifestata dallo stesso Sturzo. "Anch’io - scrive il sacerdote calatino citato da Acocella - debbo a Vico, fin dai primi passi nello studio della filosofia e del diritto, il mio orientamento al concreto storico, perché anzitutto imbevuto di storia, la storia fu la mia prima passione giovanile" (p.215). Per Sturzo è Vico il grande filosofo della storia, colui che ha saputo intuire la "processualizzazione" storica. Il pensatore siciliano definisce la sua sociologia storicista e - nell’affrontare il discorso sulla formazione del mondo umano (dalla famiglia alla struttura politica), che conduce allo sviluppo di una coscienza sociale e della razionalità - richiama frequentemente la filosofia vichiana a suffragio delle proprie tesi.
Errico De Marinis nella ricostruzione dell’evoluzione della sociologia designa Vico quale padre della nuova scienza. Per aver concepito una teoria evolutiva della storia, e la connessione tra diritto naturale e processo storico, il filosofo napoletano merita di essere affiancato ai grandi precursori di questa nuova disciplina.
Nel corso della costante ricerca per la fondazione di una economia nuova che superasse l’individualismo liberale, Ugo Spirito attinge, in una prima fase, allo storicismo relativistico di Simmel e Sombart. Successivamente nelle critiche che Spirito rivolge a Sombart è implicita una diretta e radicale riserva nei confronti di Vico. Tuttavia, secondo Acocella, anche per Ugo Spirito lo storicismo vichiano costituisce un importante punto di riferimento.
L’etica sociale, nella crisi dello stato liberale, è il tema trattato nel quarto capitolo. Il raffronto tra Aristide Gabelli e Piero Gobetti li vede accomunati dall’idea che l’etica protestante deve essere alla base di una rinascita civile dell’Italia. Gobetti non trascurò di considerare l’incidenza del popolarismo sturziano grazie al quale le masse cattoliche abbracciarono la democrazia.
Giovanni Amendola dà spazio alla centralità dell’azione individuale e alla sua eticità. Le funzioni individuali sono essenzialmente etiche e la storia risulta dall’incontro delle azioni etiche dei singoli individui. Anche Carlo Rosselli si occupa di etica e, in modo particolare, nel suo Le memorie di Henry Ford tratta dell’etica puritana nella civiltà industriale.
Acocella conclude questa rassegna di saggi con un capitolo interamente dedicato a Giuseppe Capograssi, filosofo cattolico della prima metà del ‘900. Fondamentale nella speculazione filosofica di Capograssi il concetto di persona. L’originalità del suo personalismo risiede nell’idea che l’individuo, nel mondo sociale, sia in costante relazione con le istituzioni intese come "organismi etici collettivi". Altrettanto importante la sua concezione dello stato. Fu critico nei confronti dello stato corporativo che non si limitava ad avere una funzione conciliativa e pacificatrice, ma intendeva formare una nuova realtà sociale: non più "stato soggetto alle realtà sociali, essenzialmente formato da esse, […] ma stato a se stante, vera forma sostanziale" (p. 380). Il giurista Capograssi, a parere dell’autore, restituisce lo stato alle sue vere funzioni di definitore e gestore di tutti gli interessi nazionali. Egli è per uno stato costituzionale democratico nel quale l’autonomia regionale si pone a difesa dell’individuo e delle singole realtà sociali.
Rosanna Marsala
Carmelo Sciascia Cannizzaro, Il Risorgimento di Macaluso, Agrigento, Centro Studi Giulio Pastore, 2005
La provincia italiana, fra le tante variegate ricchezze, vanta uno stuolo di appassionati di storia locale, lontani dalle cattedre e, in gran parte, ignora, che costituiscono preziosi punti di riferimento per ricostruire accadimenti e personaggi minori che hanno avuto una parte, spesso importante, nel corso della storia nazionale. È ciò che è possibile ricavare dalla lettura dell’ultima ricerca fatta dal canicattinese Carmelo Sciascia Cannizzaro, non nuovo a queste imprese, sul suo concittadino Vincenzo Macaluso, eminente, quanto sconosciuta figura del Risorgimento siciliano. La ricerca in questione trae lo spunto dal dibattito, sempre attuale, sulle vicende dell’unificazione nazionale, sulle sue conseguenze sulle popolazioni meridionali e, in particolare, sui siciliani e sui problemi rimasti irrisolti.
Il protagonista della vicenda, figlio della borghesia agraria, pur cresciuto in un ambiente fortemente condizionato dalla presenza di un alto esponente della classe dirigente borbonica, parente e contiguo di casa, quel Gioacchino La Lomia che fu prima Direttore del Dicastero di Grazia e Giustizia e poi Ministro della Real casa, sposò giovanissimo le idee rivoluzionarie e repubblicane e fu tra i primi, appena ventitreenne, ad inalberare il vessillo tricolore durante i moti palermitani del ‘48. Condannato a morte dal restaurato regime borbonico, fu restituito all’attività forense mercè l’intervento dell’autorevole La Lomia. Ma la sua irriducibile intolleranza verso il sistema persecutorio instaurato dal capo della polizia borbonica, Maniscalco, lo portò a patrocinare, senza riserve, la causa del suo compagno di lotta Lorenzo Minneci con la conseguenza di rimediare un’altra condanna alla pena capitale, ancora una volta condonata tramite l’autorevole parente, ma con l’obbligo del domicilio coatto ad Agrigento. Per niente rassegnato, riprese la via della cospirazione attirandosi la stretta sorveglianza del regime, nel corso dell’organizzazione di un’insurrezione, nel 1859, che, partendo da Agrigento, avrebbe dovuto coinvolgere Caltanissetta e quindi si sarebbe diretta verso Palermo. Per dare consistenza all’operazione e reclutare volontari alla causa, ricorse anche alla gestione in gabella di miniere di zolfo a Comitini, una delle quali di proprietà della patriottica famiglia Ricci Gramitto, a cui apparteneva la madre di Pirandello, dove trovò uno stuolo significativo di aderenti. Il segnale convenuto fu l’innalzamento di tre bandiere tricolori nei territori di Grotte, Aragona e sulla montagnola, chiamata "La Pietra" di Comitini. Il pericolo che in quel periodo incombeva sul regime borbonico, a causa della diffusione degli ideali unitari, fece dispiegare contro i sospettati, tutte le misure repressive di cui era capace la polizia dell’epoca che riuscì, dopo alterne vicende, a catturare il patriota canicattinese. Rinchiuso nelle carceri della Vicaria e condannato a morte per la terza volta, fu salvato dall’arrivo di Garibaldi che, tra l’altro, lo inserì nei quadri dirigenti della rivoluzione, affidandogli l’incarico di Commissario straordinario della provincia di Girgenti.
Particolare interesse riveste la seconda parte del libro, prestandosi ad una chiave di lettura che ripropone, con nuove ed inedite argomentazioni, il tema dei difficili rapporti dei siciliani con lo stato unitario e apre ulteriori squarci verso la ricerca della verità storica che i libri di scuola, ispirati alla logica del vincitore, non ci hanno compiutamente dato. Vincenzo Macaluso, rompendo, peraltro, lo stereotipo del siciliano immerso nel suo secolare fatalismo, pur avendo accettato l’inevitabilità della monarchia sabauda ai fini della ricomposizione dell’Italia sotto un’unica bandiera, rinunciando a prebende ed onorificenze che la politica di Cavour non faceva mancare a quanti si prestassero ad isolare i democratici, iniziò una battaglia che durò sino alla morte avvenuta nel 1892 a Roma in solitudine ed in miseria. Nel 1861 diede vita al periodico "La Pietra", in ricordo della bandiera issata nel 1848, e, quasi a ribadire le forti ragioni che lo ispiravano, nel clima che già cominciava a delinearsi, lo sottotitolò: "meno immoralità, meno ingiustizie, meno dispotismo". Per rendere ancora più incisive le sue battaglie, trasferì la redazione del suo giornale prima a Firenze e poi a Roma, nelle capitali cioè dove si organizzava il nuovo Stato, denunciando, in maniera clamorosa, gli abusi e la corruzione del sistema. Macaluso si accorgeva che, man mano che il moderatismo si andava assestando sulle strutture del nascente Stato, tendevano ad emergere non solo uomini fino alla fine fedeli ai Borbone, ma anche personaggi che spacciavano come benemerenze le carcerazioni per delitti infamanti e che avevano dato nel passato saggi della loro capacità di ordire trame e delazioni, organizzare omicidi, favorire sporchi affari, con la conseguenza - come amaramente scrisse Macaluso - di dover vedere "il perverso protetto e l’uomo onesto conculcato, l’assassinio fomentato, l’assassinato invendicato, il borbonico in galla ed il liberale ingiuriato, conculcato, oppresso e financo pubblicamente estinto". Queste riflessioni vennero corroborate dalla sua esperienza di funzionario di prefettura, sempre rimosso dopo poco tempo dall’assunzione dell’incarico, con l’accusa di tramare contro il governo, prima a Girgenti, poi a Noto e infine a Lagonegro. Le prefetture divengono ai suoi occhi l’emblema delle delazioni, degli abusi, della rozza applicazione delle leggi, della corruzione, delle persecuzioni. Tutto ciò, unito all’incapacità dei vari funzionari inviati dal governo piemontese per governare le province siciliane, costituisce la miscela alla quale si deve gran parte della sfiducia delle popolazioni meridionali nei poteri dello Stato. Indicativo, al riguardo, appare l’episodio relativo al prefetto di Girgenti Enrico Falconcini, destituito dall’incarico dopo soli cinque mesi dalla nomina, in seguito ai durissimi giudizi sul suo operato espressi dai parlamentari dell’opposizione. Egli, per giustificarsi scrisse l’opuscolo Cinque mesi di prefettura in Sicilia pubblicato a Torino del 1863 che, ripubblicato recentemente dalla Sellerio, con la prestigiosa prefazione di Andrea Camilleri, è divenuto un classico per mettere in evidenza le difficoltà incontrate da un uomo di legge in una terra affetta da endemiche condizioni di sottosviluppo e di degrado sociale. Pressocché ignorato è invece il pamphlet pubblicato da Vincenzo Macaluso nello stesso anno e nella stessa Torino Rivelazioni politiche sulla Sicilia e gravi pericoli che la minacciano in risposta ad Enrico Falconcini ex Prefetto di Girgenti. Sciascia Cannizzaro coglie l’occasione per mettere l’uno di fronte all’altro due uomini, uno del nord, l’altro del sud, che hanno molte cose in comune, ma che divergono profondamente, sulla valutazione della realtà e, soprattutto sull’applicazione dei principi liberali. Con il suo scritto, infatti, il patriota canicattinese si scaglia contro la perversa applicazione delle misure dello stato d’assedio, fonte inesauribile di abusi e soprusi, contesta l’uso di imporre all’Isola funzionari non siciliani, condanna la riscossione delle odiate decime. Tutti temi questi, ripresi con altri scritti collegati alla questione della leva obbligatoria, ai provvedimenti di soppressione degli ordini ecclesiastici ed alla vendita dei loro beni, al manifestarsi di fenomeni mafiosi per i quali egli ebbe a fare delle specifiche e circostanziate accuse.
A distanza di tanti anni ci si chiede con l’autore se un diverso approccio ispirato ai principi sostenuti dal Macaluso, avrebbe dato alla Sicilia un diverso assetto ed uno sviluppo che l’avrebbe posta sullo stesso livello delle altre regioni del Nord, anche se a gettare pesanti dubbi sulle capacità della classe dirigente siciliana contribuiscono cinquant’anni di autonomia che non sembra abbiano contribuito a superare lo svantaggio iniziale. Siamo dunque in presenza di una doppia verità o dobbiamo concludere, concordando con Leonardo Sciascia che "la Sicilia è una terra difficile da governare perché difficile da capire"? In questa terra dove alligna predominante il fatalismo e l’acquiescenza agli andazzi, anche i più perversi, tuttavia, Vincenzo Macaluso continuò, mai domo, mai piegato dalle persecuzioni, le sue battaglie, proponendosi come un modello di positività degno di essere additato alle nuove generazioni.
Gabriella Portalone
Franca ALAIMO, Le Utopie del Viaggio - La poesia di Tommaso Romano, Firenze, Vallecchi, 2005.
La prima, immediata impressione che si ricava leggendo Le utopie del viaggio – La poesia di Tommaso Romano scritto da Franca Alaimo per i tipi dell’antica e prestigiosa Vallecchi, è il disagio di fronte all’abusato e talora condiviso giudizio in virtù del quale il critico sarebbe uno scrittore fallito o, almeno, mancato. Scrittore che, ove eserciti il proprio mestiere partecipando delle purtroppo diffuse camarille, spesso cade o in lodi del tutto immeritate o in acrimoniosi giudizii; quando non esibisce una propria inopportuna e prevaricatrice "creatura". L’analisi che Franca Alaimo esercita sulla poesia di Tommaso Romano, infatti, nasce da un affettuoso e lucido distacco, da una partecipe e amorosa obiettività, da una subìta ma proficua sintonia del sentire. E qui, non a caso ci imbattiamo nella figura dell’ossimoro, una delle principali caratteristiche dello stile e, prima ancora, del percepire e vivere la realtà di Tommaso Romano.
Al proposito, non va dimenticato quanto ebbe a scrivere un altro grande siciliano, Gesualdo Bufalino: "L’ossimoro non è una ridondanza, ma una contrazione, non uno scialo, ma un’economia". E la prova di una grande umiltà, si direbbe ove si potesse aggiungere qualche parola alla perfetta definizione di Bufalino, umiltà dell’uomo che indaga una realtà complessa, difficile interpretare, un uomo il cui giudizio nutre la trepida professione del dubbio, nonché l’intelligente ricorso alla produttiva, ubertosa sinestesia, cioè all’accostamento di categorie solo in apparenza competenti a sfere sensoriali diverse, laddove concorrano in realtà a efficacemente fotografare il mondo intorno a noi.
La critica (meglio: l’analisi puntuale) di Franca Alaimo, quindi, non come biliosa rivincita o manifestazione paraninfa subalterna all’opera, ma quale opera essa stessa dalla dignità autonoma, però "baciata" dalle misteriose sintonie che, fortunatamente, talvolta si instaurano fra spiriti affini. Tutto è còlto con levità marmorea: nel trascegliere i lemmi che "significhino" (o esserne divinamente, misteriosamente trascelti?); nell’esplorare la magia – unica degna di interrompere la sacralità del silenzio – che alcune parole fra loro accostate suggeriscono attraverso l’armonia che sprigionano; nel profumo di certe immagini evocate con sapiente ingenuità; nei colori che, così, diventano fragranze, mentre le fragranze si vestono di memorie e le memorie si traducono in speranza di futuro. Dal tutto emerge poi, inconfondibile, la solitudine - fisica e dell’anima - figlia di un’aristocratica e perciò stesso dolorosa insularità. E la scelta dell’evocare, che equivale a definire con pregnanza, non fuggire dalla responsabilità dell’affermare. E l’onomatopea dello spirito a riprodurre i misteriosi suoni del mondo attraverso la conoscenza, la sintesi, l’amore nei confronti della parola deposta sulla pagina come nota sul rigo di un pregevole spartito. A regalarci, infine, poesia.
Il quadro che Franca Alaimo traccia di Tommaso Romano appartiene ad un uomo geniale e combattivo che però non si sottrae agli obblighi che derivano dal vivere immerso nella cultura e integrato nella società che lo circonda. Obblighi che lo costringono alla condizione di uomo dalle due vesti, e a coniugare la naturale e quasi goliardica disposizione all’ironia con la rigida serietà del ricercatore. I ruoli culturali che Romano ha assolto a Palermo – e non solo – tangibilmente raccontano una vita brillantemente vissuta sul doppio registro della scanzonata intelligenza critica e della mai definitiva e ultima solennità.
Ora il vero Tommaso Romano si manifesta nella vita spirituale ricca, contrastata, fertile, profonda. La vita di un uomo che ha acquistato a caro prezzo le certezze che orientano la fatica di ogni giorno. E che ha gettato alle ortiche la seconda veste, la veste dell’ufficialità che gli andava stretta, per dedicarsi alla ricerca perenne, inesausta, ineludibile, dolorosa del vero.
A rendere più pertinente e puntuale il percorso che Franca Alaimo traccia e ci suggerisce nei confronti di Tommaso Romano soccorre la comune, inevitabile vocazione al sapere, all’indagare, al viaggio intellettuale che entrambi possiedono (o dalla quale, ancora una volta, sono posseduti); vocazione che direi risulta speculare, da parte di Franca Alaimo, a quella cui Tommaso Romano ha improntato le proprie esplorazioni nel mondo senza confini della conoscenza. E la fertilità dell’incontro culturale fra i due strordinarii personaggi si appalesa, in tutta evidenza, in questo prezioso piccolo libro.
Quali le frequentazioni culturali di Tommaso Romano? Citando a caso, come il clamore suggerisce alla memoria, ecco uno scenario europeo, attuale e mondano, sul quale si esibiscono Leopardi, Goethe, Borges, Guénon, Stirner, Heidegger, Eliade, Junger, Pessoa, Gozzano, Parronchi, Caproni, Luzi…(e con alcuni dei citati personaggi contemporanei la frequentazione è stata anche personale). Il tutto sullo sfondo del futurismo nella sua peculiare accezione siciliana.
Altri sono i maestri della scuola di cristianesimo che hanno fatto di Tommaso Romano un miles Christi. Altri gli autori. Nelle loro pagine c’è il fuoco che impasta le terre non europee, le terre del Meridione. Sant’Agostino, San Tommaso, Teresa de Avila, Francisco de Vitoria, Bartolomé de Las Casas, Aparisi y Gujarro, compongono la prima veste il primo e più vero ethos di Tommaso Romano. E – fra i contemporanei – Francisco Elias de Tejada, Cornelio Fabro, Giulio Bonafede, Nicola Petruzzellis, Attilio Mordini, Silvio Vitale, Francesco Grisi.
Puntuale e preziosa, infine, è la conclusione di Franca Alaimo nell’individuare le "linee portanti" della poesia di Tommaso Romano:
"- Il procedere del pensiero attraverso il fuoco dell’antitesi e la conseguente ricerca di una ricomposizione armoniosa nella gioia segreta dello spirito;
- la consapevolezza della dinamicità della Tradizione all’interno della mobilità degli eventi storici;
- la forza sintetica del simbolo che dà vita a un’immaginazione tutta permeata di sacro;
- il ruolo ordinatore della ragione nei confronti degli impulsi irrazionali;
- l’accettazione della dimensione concreta della vita e il dovere di coniugarla con i fini etici ed estetici;
- il conforto dei sentimenti profondi e delle passioni feconde come la musica, la poesia e le altre arti;
- il sogno di un’umanità eletta capace di scrivere quel libro della sapienza, di cui parla Borges, e il conseguente culto dei maestri di ogni tempo e luogo".
A proposito di Borges: non ci sembra impertinente chiudere con una sua massima: Ormai i fatti non interessano più nessuno: sono solo il punto di partenza per il ragionamento e la fantasia.
Piero Vassallo