L’ottocento
Ad una sintesi dei fatti e delle storie particolari riflettenti l’umore del tempo, la Sicilia del 1867 appare una regione profondamente delusa del momento storico raggiunto. Ci si andava rendendo conto amaramente come l’Unità d’Italia conseguita, agognata dalle classi sociali più evolute ed attive, stava significando la fine del mito indipendentista e la definitiva conclusione della condizione e dei privilegi d’un regno per secoli importante e soggetto d’una propria politica nel contesto europeo; condizione che veniva avvertita soprattutto dalle classi sociali più colte. Per il popolo più umile, per gli ex picciotti e garibaldini e per i progressisti in genere il consolidarsi dell’appartenenza al Regno d’Italia significava la fine del sogno d’una possibile rivoluzione sociale mazziniana o addirittura "internazionalista"; per tutti, poi, si andava rendendo sempre più evidente e mortificante il confronto tra la condizione economica e sociale meridionale e quella del più evoluto Nord, sulle cui regole avveniva l’unificazione giuridica, economica ed amministrativa di tutto il territorio del Regno e si conformavano parametri di convivenza e criteri di ordine pubblico.
Nell’autunno del 1866, un’insurrezione popolare antipiemontese era scoppiata a Palermo. I rivoltosi (legittimisti borbonici, componenti clericali, contadini esasperati dalla pressione fiscale, repubblicani, mazziniani e socialisti) si erano impadroniti della città con battaglie portate strada per strada per sette giorni. Ma il 22 settembre la rivolta era stata domata dalle truppe del generale Raffaele Cadorna, commissario con pieni poteri inviato dal Governo, che comanderà a Palermo fino alla fine dell’anno, reprimendo definitivamente ogni aspirazione autonomista o riformista, arrestando migliaia di cittadini, giustiziandone sommariamente centinaia e facendone condannare a morte dai tribunali militari molte decine .
Nel 1867, il Governo era guidato dal toscano Barone Bettino Ricasoli, cui successero il piemontese Urbano Rattazzi ed il savoiardo generale Luigi Federico Menabrea. La condizione della Sicilia come territorio annesso al Regno Sabaudo sembrava inoltre debole nel contesto di un paese economicamente e socialmente disomogeneo. E siccome si trattava prima di tutto, secondo la linea propria della Destra storica, di risanare il bilancio statale, fortemente compromesso, da ultimo, dalle spese straordinarie sostenute per la guerra contro l’Austria del 1866, non era neanche possibile immaginare operazioni di forte redistribuzione delle sostanze attraverso investimenti riequilibratori.
Il 15 agosto fu promulgata la legge per la soppressione degli enti ecclesiastici, la liquidazione dell’asse ecclesiastico e la devoluzione allo Stato dei relativi patrimoni, per lo più situati nel Meridione. Una tale operazione, ispirata dall’intento di rimettere in circolazione terreni ed immobili della c.d. manomorta, onde suscitare maggiore facilità di accesso dei ceti sociali nuovi ad attività economiche legate a beni immobili e, specialmente, al fattore di produzione "terra", finirà, come è noto, col favorire ancora le persone ed i gruppi economici che, per essere già abbienti, poterono pagare allo Stato le cifre richieste per le assegnazioni, aggravandosi così ancora di più la cesura tra ceti possidenti e proletariato misero e vessato: argomento in più di scontento per una "rivoluzione fallita".
Sempre per il fine di sanare il deficit del nuovo Stato, i governi del tempo introdussero misure fiscali straordinarie, quali l’aumento delle imposte sulle proprietà fondiarie e l’imposta sulla macinazione dei cereali (c.d. tassa sul macinato); imposta che, incidendo sui consumi di prodotti di primissima necessità quali il pane e la pasta, sebbene utile per le casse dello Stato, risultò odiosa, gravando pesantemente sull’economia domestica delle popolazioni rurali. Per questo, sin dal gennaio 1869, si verificarono in tutta l’Italia rivolte e sommosse di contadini che costarono molte decine di morti e centinaia di feriti.
Ancora più complessivamente, lo scenario nazionale comprendeva: le polemiche per la sconfitta di Lissa con il relativo processo all’Ammiraglio Persano, la battaglia di Mentana, la infruttuosa spedizione di Garibaldi a Roma.
A Torino, il 9 febbraio del 1867, era uscita per la prima volta la Gazzetta piemontese, quotidiano che, assumendo sin dagli inizi un ruolo informativo da stampa di capitale morale di un Regno che si sentiva ormai consolidato in uno Stato nazionale di lungo avvenire, assumerà presto il titolo La Stampa, per essere strumento di informazione per tutto il Paese. A Palermo, il quotidiano Giornale di Sicilia usciva invece regolarmente ormai da sette anni. A Napoli, nel 1981, inizierà le pubblicazioni il quotidiano Il Mattino.
La consapevolezza che, comunque, anche la Sicilia si trovava ormai nel contesto economico di una grande nazione, nell’ambito della quale il suo tessuto produttivo doveva sostenere una più sofisticata concorrenza, anche al fine di imporsi nei mercati esteri, richiedeva sempre più la puntuale e tempestiva conoscenza di dati e di fatti di valore economico.
Nel clima che si è appena sommariamente richiamato, una tale esigenza veniva raccolta a Palermo da Luigi Pierallini(1), il quale fondava nel 1868 il giornale Avvisatore Marittimo Commerciale(2) che avrebbe avuto, attraverso varie vicende e parziali mutamenti di testata e di orientamenti, mai tuttavia tali da mutarne l’essenza di giornale economico, lunghissima vita; essendo durato fino al 1994.
Si trattò all’inizio di un giornale trisettimanale di dimensioni molto esigue e su carta economica. Spesso si componeva di un solo foglio con caratteri tipografici in corpo otto, privo generalmente di cronache, editoriali e commenti, che veniva distribuito per la città a mano non appena licenziato dalla tipografia. Riportava essenzialmente dati, secondo le voci delle rubriche che sarebbero rimaste immutate per decenni: Movimento del porto, Esportazioni di Palermo, Catania e Messina, Protesti cambiari, Fallimenti, Cronaca del commercio, Dissesti e dissestati, Giurisprudenza commerciale, Telegrammi agrumari, e dando essenziali informazioni sulla domanda di importazione di agrumi e vino da parte di Germania, Francia, Belgio ecc; sulle condizioni che tali prodotti dovevano avere per potere essere esportati; sulla legislazione e le condizioni per l’emigrazione negli USA e nell’America del Sud.
Oltre a tali rubriche, emblematiche di quali fossero i maggiori traffici commerciali e le correnti migratorie da e per la Sicilia (particolarmente indicativa quella sui movimenti nel porto di Palermo), interessante per capire certe contiguità nell’economia del Mediterraneo di allora è la pubblicità fatta ricorrentemente dell’Annuario di Sicilia, di Malta e di Tunisi (Grande guida commerciale, con 300.000 indirizzi) edita da Niccolò Giannotta di Catania.
E’ verso la fine degli anni ottanta che il giornale sembra diventare il prototipo di un giornale contemporaneo. Apparteneva del resto ad un contesto di giornali d’una certa consistenza nella provincia di Palermo dove, nel 1891, si stampavano 54 periodici(3). Sono gli anni in cui si manifesta una delle cicliche crisi del Banco di Sicilia(4), per cui, tra i primi "testi lunghi" il giornale poteva riprodurre, per la curiosità dei lettori operatori economici e politici, le interpellanze in discussione nel Parlamento del Regno sulla conduzione del primo istituto bancario siciliano. Si svolgono inoltre elezioni amministrative, dopo la riforma della legge comunale e provinciale del 1888, che ampliava il diritto di voto, ed il giornale prende per la prima volta, dopo oltre vent’anni di vita, posizione contro i giochi e gli accordi pre-confezionati che, ricorrentemente, destano disamore e delusione in chi crede in una democrazia autentica. Nel novembre del 1890 intervenivano inoltre le elezioni politiche, per le quali il giornale parteggiava esplicitamente per Crispi e per Michele Amato Pojero.
Negli anni novanta, quando ormai usciva quotidianamente, si aggiungeva nella testata l’indicazione Ufficiale per gli atti della Camera di commercio, con l’aggiunta dello stemma del Regno.
Sul piano giornalistico e della tecnica della comunicazione è rilevante, come parametro del formarsi d’una azienda giornalistica moderna, che lo stesso giornale annunci il 10 marzo 1889: "L’Amministrazione dell’Avvi-satore Marittimo Commerciale avverte i signori commercianti che, volendo rendere la propria tipografia atta a qualsiasi richiesta per lavori di lusso e comuni, ha ritirato un’altra macchina di grande formato nonchè un’estesa collezione di tipi inglesi e a fantasia" e, nel numero successivo: "L’Avvisatore Marittimo Commerciale, nato di forma assai modesta e che conta ben ventun’anno di sua laboriosa esistenza, mercè gli aiuti dei suoi cari abbonati, oggi si presenta di un formato regolare, sperando di occupare quel posto che si è procurato col suo zelante ed indefesso lavoro e per appagare sempre più i desideri manifestati da coloro che al commercio appartengono"(5).
Circa i contenuti, nel numero del 1° gennaio 1890, si informano i lettori che "Il giornale entrerà in una nuova fase: non sarà più il giornale esclusivamente commerciale ma tratterà in breve sunto le parti politica ed amministrativa che hanno la loro attinenza col commercio. Toccherà a tratti la cronaca, la vera cronaca, non i pettegolezzi. Farà la bibliografia delle opere di indole commerciale; darà un esatto resoconto delle procedure dei fallimenti e pubblicherà, .....ahi misero, i protesti di tutta la Sicilia ...". Sul problema della pubblicazione dei protesti cambiari, che il giornale riteneva un servizio importante a tutela dell’affidamento degli operatori commerciali, c’era stato il dissenso di molti lettori che contestavano l’opportunità di rendere pubblici fatti appartenenti alla sfera personale; ma il giornale restava fermo sulla propria linea, ritenendola coerente con i servizi da rendere ai propri lettori, sebbene offrisse agli abbonati "tre linee gratis per la giustificazione", ossia un piccolo spazio per chiarire se il titolo protestato fosse stato poi onorato, se si sia trattato di disguido, di omonimia ecc., in modo da potersi ristabilire eventualmente la buona fama degli interessati.
E’ in questo periodo che il giornale, forte dei suoi nuovi "tipi inglesi" ed, evidentemente, d’una più estesa organizzazione redazionale, ingrandisce anche i caratteri di stampa, migliora la carta, muta il sottotitolo in "politico-commerciale-quotidiano" (anche se non esce proprio ogni giorno) e comincia ad offrire anche qualche editoriale e sostanziosi articoli di cronaca. Dal 6 gennaio 1889 cominciò a pubblicare, tra l’altro, tutti i documenti programmatori dei diversi settori che sarebbero figurati nell’Esposizione nazionale che si sarebbe inaugurata a Palermo il 15 novembre 1891, nonché successivamente le cronache ed i commenti, anche con riferimenti alla stampa estera, dell’Esposizione in corso, ivi compreso, con i dovuti omaggi e le manifestazioni di devozione, il resoconto della visita del re Umberto e della regina Margherita, cui il giornale non riteneva doversi rivolgere quei sentimenti di ostilità o di diffidenza che ancora, evidentemente, serpeggiavano tra i siciliani come per una dinastia che aveva "annesso" l’antico Regno di Sicilia.
Ma quello che in queste cronache emerge indirettamente è lo stato di insicurezza che il tessuto industriale e, più in genere, produttivo della Sicilia mostrava nei confronti delle industrie delle regioni italiane del nord. L’Avvisatore riferiva di giudizi espressi, in sede di organizzazione, sulla "inopportunità di un confronto tra produttori manufatturieri delle province continentali d’Italia e quelle dell’Isola nostra: che cosa collocheremo, si osservava, accanto alle manifatture del Piemonte, della Lombardia, della Liguria?"(6) e commentava che invece proprio il confronto avrebbe fatto studiare rimedi ai nostri produttori onde essere competitivi e che v’erano dopotutto anche in Sicilia delle industrie manufatturiere di valore, come quelle della seta di Catania e Messina e quelle della ceramica, che forse avrebbero dovuto solo essere conosciute e avrebbero dovuto meglio impostare la propria attività commerciale.
Lunghi articoli e commossi commenti il giornale pubblicò, ovviamente, in occasione della morte di Ignazio Florio avvenuta il 17 maggio 1891, da cui si possono trarre oggi molte interessanti informazioni su questo grande industriale meridionale(7).
Sul finire del XIX secolo, il giornale seguì anche, dettagliatamente, la lunga crisi nei rapporti commerciali tra Italia e Francia, apertasi nel 1886 con la denunzia da parte italiana del vigente trattato, dopo che la Francia aveva, con evidente disconoscimento degli interessi degli esportatori italiani, aumentato i dazi di importazione sul grano e sul bestiame.
Agli inizi del novecento si presenta ormai, se non con l’aspetto, almeno con le tecniche di impaginazione dei giornali contemporanei, un giornale moderno: le colonne, l’attacco, il catenaccio, la finestra, il fondino, l’occhiello, la spalla ecc.
Un momento di entusiastiche ed esaltanti cronache sui progressi industriali siciliani è quello del 1925, quando "la Sicilia celebra la sua affermazione industriale", come, con titolo a grandi caratteri su nove colonne sotto la testata, il giornale presenta la prima Fiera campionaria siciliana che si inaugurava in uno scenario di grande suggestività, tra le magnolie e le palme del Giardino Inglese, e presentava con sintetiche schede i principali espositori. Sebbene, l’anno successivo, ci si fosse posto il problema dell’avvenire di quella manifestazione, essa fu aperta lo stesso il 20 giugno dell’anno seguente, quando venne ad inaugurarla sua altezza reale il Principe ereditario Umberto(8).
Analoga approvazione il giornale dedicava all’Esposizione agricola ed industriale che si svolse a Caltanissetta nell’ottobre dello stesso 1926.(9)
Passano gli anni della trasformazione dello Stato, con forti mutamenti nel sistema economico: il 3 maggio del 1926 è istituito il ministero delle corporazioni; alla Banca d’Italia è attribuito il controllo dell’intero sistema bancario italiano; il Prefetto Mori è inviato in Sicilia per intraprendere una lotta decisiva contro la mafia; è approvata la Carta del lavoro con cui, tra l’altro, sono soppresi il diritto di sciopero ed il diritto di serrata; sono firmati i Patti lateranensi; hanno inizio i lavori per la bonifica dell’Agro pontino; l’Iri si fa carico del risanamento finanziario delle maggiori banche italiane assumendo partecipazioni al loro capitale. Di tutto ciò vi sono echi nel giornale, il quale, come in un progetto di sviluppo complessivo d’una impresa editoriale, quale ormai appariva, nel 1934 affiancherà all’antica testata un supplemento: La Rivista per tutti, settimanale del giovedì, diretto da Franco Pierallini, figlio del fondatore del Giornale, e da Pier Luigi Ingrassia. Era una sorta di piccolo rotocalco ante litteram, stampato, come si usava allora per i giornali di attualità, in tenui colori seppia, giallo, amaranto, celeste ecc., diverso ogni settimana. Conteneva cronache e critiche del teatro e del cinema, articoli sulla moda, immagini di dive e perfino novelle e poesie, senza tralasciare, dato il tempo che era quello delle sanzioni economiche votate contro l’Italia dalla Società delle Nazioni e della guerra in Etiopia, di esortare i lettori a dare oro alla Patria. Vi collaborarono tra gli altri Enrico Ragusa, Vanni Pucci, Arcangelo Cammarata e Giacomo Armò; scrittori di diversissime provenienze culturali, espressioni, tutti e quattro, di un certo raffinato carattere della cultura siciliana del novecento.(10)
Nel 1935, il giornale verrà soppresso con decreto prefettizio perchè non coerente con la politica economica del regime. Non si sono potuti approfondire quali dati di fatto furono la causa effettiva di questa sanzione nè se ne comprendono le ragioni, dal momento che il giornale, fino al 1935, non appare in una posizione di critica al Governo. A supplire il vuoto creatosi, provvide, comunque nel ’36 l’uscita (dalla stessa impresa editoriale) di un’altro giornale, di taglio perfettamente uguale ad Avvisatore, col titolo Corriere agricolo commerciale della Sicilia, di cui Franco Pierallini fu il direttore amministrativo e Pier Luigi Ingrassia il direttore responsabile. Durerà fino al 1940, quando verrà sospeso a causa della guerra. Nel 1946, come si vedrà, Avvisatore si ripresenterà con la sua antica testata per durare ancora quasi mezzo secolo.
Percorrere tutta la sua storia, attraverso i contenuti, equivarrebbe all’ardua impresa di scorrere la storia d’Italia di oltre un secolo. E poiché quello che qui si vuole offrire è, per quanto possibile, l’immagine d’una impresa giornalistica che riuscì ad avere in Sicilia una lunga e significativa vita, astraendo dalle sue pagine alcuni momenti significativi, si indicano di seguito certi atteggiamenti assunti nei confronti di particolari segmenti di quella storia.
Le colonie
Nel 1884 ha inizio, con serie operazioni militari, la progressiva penetrazione italiana nelle coste del Mar Rosso ed in Abissinia. Si ricorderà che di quell’anno è la conquista di Massaua; dell’inizio del 1887 sarà l’umiliante sconfitta di Dogali; quindi si rafforzerà l’ormai decisa volontà dell’Italia di fondare una sua colonia africana con l’unificazione istituzionale dei possedimenti italiani nella colonia Eritrea. Col Trattato di Uccialli, stipulato con l’Abissinia, l’Italia riconobbe la legittimità del governo di Menelik in cambio del riconoscimento delle conquiste italiane, raggiungendosi così una prima forte situazione di stabilità sul piano internazionale.
Nei commenti alle cronache sulla questione africana e sulle dette progressive tappe, redatti da un giornale economico, si disvela l’interesse e l’occasione originaria della politica coloniale italiana cominciata, come è noto, dall’acquisto nel 1879, da parte di una privata compagnia di navigazione italiana, la Società Rubattino, della Baia di Assab, onde poterla utilizzare come base di scalo per le proprie navi nelle rotte attraverso il Mar Rosso. Il territorio prospiciente la baia sarà poi ceduto allo Stato (1882) per divenire l’originale nucleo di un possedimento con sovranità di diritto internazionale, appunto di carattere coloniale(11).
Quando, nel 1895, la questione coloniale si fece grave per gli sconfinamenti del ras del Tigrè Mangascià e per l’arrivo di informazioni sui preparativi di Menelik, negus d’Etiopia, per attaccare l’Italia con il beneplacito di Francia e Russia e si cominciò a parlare di guerra in Eritrea, il giornale raccolse gradualmente le ragioni degli anticolonialisti. All’inizio, in verità, osservava: "sarebbe una guerra a fondo, non una semplice lezione da infliggere a Menelik [...]; questa campagna importerebbe una forte spesa ma sarebbe minore di quella che richiederebbe lo status quo"(12); quindi, via via che il dibattito nel paese si andò infocando e che la gravità della scelta divenne chiara, notava: "occorrono 150 mila uomini e 1500 milioni di lire, il che in buon volgare vorrebbe dire che tutte le entrate d’un anno, che formano il nostro bilancio di Stato, dovrebbero essere impiegate per far la guerra in Africa [...] mentre qui si arresterebbero le pulsazioni di un grande Stato e, di conseguenza, si monterebbero le barricate". "Ci si cacciò in imprese coloniali, senza esservi sospinti da nessuna intima necessità"(13). Quando però, a metà degli anni venti, la base coloniale italiana in Africa si andò consolidando sviluppandosi un promettente nucleo di affari e di traffici, Avvisatore ne fa il quadro, rappresentando l’opportunità che le due compagnie di navigazione, le cui rotte solcavano il Mar Rosso, la Transatlantica italiana e la Società Florio, potenziassero e migliorassero i propri servizi onde agevolare un già promettente commercio: "La Tripolitania è entrata in una fase politica di assestamento che tutto deve far ritenere duraturo. Conseguentemente, gli italiani cominciano a guardare alla Tripolitania economica, suscettibile di un non indifferente sviluppo agrario, con occhi realistici; la Cirenaica, con l’accordo italo-egiziano e con la prossima presa di possesso di Giarabub, vedrà risoluta la sua situazione politica. Dopo di che occorrerà pensare allo sfruttamento economico della fertile regione, per la quale il ministero delle colonie ha statuito che presto sieno iniziati il lavori del porto di Bengasi [...]. In Eritrea si lavora dal punto di vista economico e politico. Con la cessione dell’Alto Giuba [...], con l’occupazione militare dei sultanati di Obbia e dei Migiurtini, che ha messo fine ad un protettorato che era un nome senza subbietto, noi abbiamo allungato considerevolmente le nostre coste battute dall’Oceano indiano [...] Con la cessione dell’Oltre Giuba siamo entrati in possesso della riva destra del Giuba, di cui possedevamo già la riva sinistra: possiamo fare liberamente quelle derivazioni di acque che occorrono per le piantagioni di cotone che sul Giuba cresce bene…".(14)
Si vede in sostanza come, per il ruolo che allora svolgeva una colonia, l’Italia di Crispi era entrata decisamente nella "filosofia", del resto comune a Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Portogallo ecc., comune ossia ai grandi paesi europei, del necessario completamento d’uno Stato che volesse sentirsi economicamente sicuro, con possedimenti fuori dal proprio territorio.
La grande guerra
Il problema dell’utilità o meno per l’Italia di partecipare alla guerra dichiarata dall’Austria alla Serbia (28 luglio 1914) e presto estesasi con una poderosa offensiva della Germania contro Belgio e Francia, e la scelta del campo in cui prendervi parte fu, tra la fine del 1914 e l’inizio del ’15, un elemento traumatico a livello politico, morale e culturale di grandi proporzioni. Intorno a questo problema si sviluppò un acceso nazionalismo(15) in quasi tutta l’Europa e specialmente in Francia, ove si colorò addirittura di tinte razzistiche, ed ove si assistette al rovesciamento delle posizioni di moltissimi intellettuali da pacifisti, internazionalisti ed estimatori della civiltà tedesca in guerrafondai e fieri nemici della Gemania. In Italia, la questione fu vista soprattutto nell’ottica ancora risorgimentale dell’irredentismo e nella prospettiva del completamento del territorio nazionale. Fortissimi furono i richiami al governo perché si scendesse in guerra, con manifestazioni popolari, articoli giornalistici e dibattiti all’interno dei partiti, pronunciamenti di autorevoli figure della cultura (D’Annunzio) e di movimenti culturali (es.: futuristi) che vedevano la guerra in sé come il rimedio (un lavacro), addirittura morale, per i mali della corruzione, dell’opportunismo, dell’inedecisionismo di tutto un popolo; per non parlare del travaglio che pervase i socialisti, con la nota sofferta evoluzione del pensiero di Benito Mussolini e del suo giornale Il Popolo d’Italia dalla posizione di assoluto neutralismo ad un neutralismo operoso e, quindi, al deciso interventismo. Perfino a Palermo i giovani nazionalisti andavano a gettare sassi contro le finestre del consolato austriaco.
I conflitti che il mutare dei tempi determinano, tra posizioni ideologiche ed opportunità politiche, descrivono del resto la forza della Storia che, si potrebbe dire, talvolta non raccoglie i fatti ma, in un suo tumultuoso fluire, addirittura li determina. Anche nell’Avvisatore ve ne sono tracce.
Il 10 gennaio del 1915, il giornale uscì con la prima pagina interamente occupata da un solo articolo, intitolato in maniera gigantesca L’astensione dell’Italia nel conflitto europeo. Seguiva il sottotitolo: Giova ai franco-belgi, agli inglesi, ai germano-austro-ungarici ed agli italiani. Quindi, con caratteri in corpo 16, si enunciava l’opinione neutralista del giornale, sulla base della contestazione di articoli pubblicati sul quotidiano palermitano L’Ora e su un discorso tenuto da Enrico Corradini(16) all’Hotel des palmes, sulla falsariga di una conversazione che il vecchio Ernest Lavisse(17) aveva tenuto in Francia alla Sorbonne, tendenti a dimostrare che fu solamente la Germania a volere la guerra e quanto fosse opportuno per gli Stati europei appoggiare Francia e Gran Bretagna.
Successivamente, il 14 gennaio, la posizione del giornale era resa più chiara in una "Appello ai nazionalisti italiani": "L’Austria, cari amici nazionalisti, è stata per secolare tradizione l’alleata fedelissima del Trono di S. Pietro e nelle ultime elezioni il vostro partito è entrato alla camera dei deputati con i voti dei cattolici…"; poi aggiungeva che si vociferava che l’Italia sarebbe entrata in guerra contro l’Inghilterra per ottenere Malta, ma erano fandonie; mentre, se di problemi di completamento dello Stato nazionale si trattava, ossia della riunione alla madre Patria di Trento e di Trieste, un tale obiettivo poteva essere raggiungibile per via diplomatica(18): "Auguriamoci che oggi l’Italia –a rovescio del piccolo e prode Piemonte, che aveva rischiato pochissimo per conseguire molto - non abbia a rischiare moltissimo per conseguire poco"(19).
Ma quando, dopo il fatidico 24 maggio, la notizia dell’entrata in guerra dell’Italia percorreva ormai tutta l’Europa, suscitando le passioni e le avversioni che la Storia registra, il giornale (28 maggio) titolava:"La parola al cannone e si esprimeva con (forse sofferta) ma decisa lealtà patriottica: "L’ora delle recriminazioni, dei commenti, delle critiche è passata né dobbiamo più ricordarci d’aver tanto parlato [...]. Quanti hanno giovinezza d’anni e forza di vita debbono correre al fronte, perché sarebbe viltà aver propugnato la causa ideale per tradirla in questo istante in cui la Patria ha bisogno di tutte le sue migliori energie: Avanti fratelli, alle frontiere! E la parola al cannone; e che esso rombi con veemenza…verranno poi la pace e la concordia, ma quando saremo vittoriosi su tutte le vette, sul mare nostro e quando il tricolore d’Italia sventolerà su tutte le terre d’oltre Alpi ed oltre il mare!"
Da questo momento il giornale è coerente con la linea scelta di fedeltà alla Patria comunque, senza ricordare più, neanche nel buio momento di Caporetto, "d’aver tanto parlato contro la guerra". Sprona invece a sostenere anche quello che fu chiamato il "fronte interno della guerra" ossia la partecipazione ed il sostegno in tutti i modi possibili dei combattenti da parte di quelli che non erano al fronte (donne, anziani, ragazzi, esonerati ecc.): "L’Italia non fa la guerra esclusivamente con le armi, ma la fa anche civilmente, mediante la sua preparazione e la sua difesa civile, alla quale tutti, senza distinzione di caste o di sesso, concorrono con slancio ed abnegazione pari a quelli dei soldati nelle trincee; e sono tesori di denaro, di offerte, di doni che si profondono e si accumulano per lenire la miseria delle famiglie dei richiamati e quelle dei caduti; per meglio rafforzare la Croce rossa e gli aiuti ai feriti. Così dunque la guerra dell’Italia è la più bella, la più santa, la più generosa che mai sia stata vista, essendo cementata una concordia senza pari fra tutto il popolo, che solamente ha sul cuore la Patria ed il Re". Ed il 18 agosto del 1916 si esultava per la presa di Gorizia e se ne spiegava il significato emblematico per tutta l’azione bellica del Paese.
Il giornale che, comunque, continuava ad essere l’informatore sui dati utili agli operatori economici (protesti cambiari, movimenti dei porti, listini di prezzi, giurisprudenza commerciale, dati sulle esportazioni ecc.) avvertiva il clima di guerra e i numeri di quel tempo ne presentano i caratteri che interessarono tutta la società italiana: dagli ampi spazi bianchi per i mancati visti della censura militare, alla triplicazione del prezzo della carta, agli articoli in cui si spiegava quali erano e sarebbero state le ripercussioni della guerra sul commercio e sull’industria. A descrivere in maniera suggestiva quella condizione possono servire ora certe istruzioni su come economizzare: per esempio, utilizzando le arance avariate per le marmellate e per le spremute o per farne addirittura vino ed aceto. Spesso comparivano nel giornale le esortazioni ad aiutare i prodotti nazionali: Se volete un’Italia ricca e forte, proteggete la produzione nazionale!
Il clima di attesa e l’atteggiamento nei confronti del sorgente fascismo
Dalla lettura di decine di commenti ai fatti politici successivi al 1895 (scandalo della Banca romana, compromissioni di Crispi, disoccupazione, violenze nel Paese, incertezze nei partiti, ecc.) emerge nel giornale la constatazione di un clima complessivo di attesa e di incertezza. Considerandosi genericamente la situazione nazionale, il 5 gennaio 1895 il giornale osservava, partendo dalla recente storia della Francia: "dopo che il consolato democratico e l’Impero avevano spazzato via le opposizioni interne ed esterne e fatto sventolare il vessillo glorioso della libertà in tutta Europa, si era avuto un certo ordine. Ma le reazioni successive, i mutati ordinamenti popolari, i disastri prodotti da quella guerra che invase in questa seconda metà del secolo XIX tutti gli strati sociali, portarono seco loro la necessità impellente e nazionale di rinnovare i corpi amministrativi, legislativi ed esecutivi. Eccoci ora al momento psicologico in cui si trova ogni nazione, di risolvere col problema sociale anche quello della riforma parlamentare dopo le recenti crisi in Ungheria, in Austria, Spagna, Serbia, Grecia, Francia, Germania e Italia e, francamente anche nella gran Bretagna e negli USA, ove questo bisogno si è manifestato anche senza le gravi scosse cui andò soggetta la Francia repubblicana e l’Italia monarchica. Chi sarà il gran Maestro, il Messia, il Cristo rivendicatore contro i sinedri tenebrosi di questa riforma sociale, politica, mondiale, che si impone pel bene pubblico alle coscienze?"
La psicosi dell’attesa emerge in maniera più ragionata, commentandosi certi atteggiamenti revisionistici del Governo nei confronti della Chiesa cattolica. L’8 marzo 1895, un editoriale è intitolato Amoreggiamenti col Vaticano e vi si informa di certe invocazioni che Crispi andava facendo dell’aiuto che può dare al Paese "il principio religioso contro il mostro dell’anarchia"; anche "il Marchese Di Rudinì si fa innanzi e si mostra desideroso di offrire al Vaticano il simbolico ramo di olivo".
Certo, dice il giornale, occorrerà trovare soluzioni per nuove relazioni fra Stato e Chiesa: "Forse il Papa si risolverà a togliere il Non expedit (ossia il divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica dello Stato italiano n.d.r.), sedotto dalle palinodie tardive dei vecchi giacobini" ma "il dualismo fra lo Stato e la Chiesa, più profondo da noi che altrove, perchè generato dal conflitto del principio nazionale, in nome del quale sorse la nuova Italia, e il principio universale rappresentato dal papato, durerà probabilmente fino a che nella situazione politica italiana non avvengano profonde modificazioni". Vedremo come le "profonde modificazioni" interverranno un quarto di secolo dopo e che ..., "il Messia", atteso sin dal 1895 e che la Chiesa chiamerà "uomo della Provvidenza", troverà nel 1929 il modo di instaurare definitivamente relazioni nuove e pacifiche tra Stato e Chiesa.
Il succedersi, in dieci mesi del 1922, di tre governi (il gabinetto Bonomi, durato appena due mesi ed i due gabinetti Facta) fu il sintomo della grave crisi che in quegli anni attraversava il sistema parlamentare; crisi che rifletteva il profondo travaglio dei partiti e le forti aspirazioni e preoccupazioni di cui erano portatrici le varie tradizionali categorie sociali (operai, contadini, industriali, proprietari terrieri, ex combattenti, ecc.) di fronte all’inerzia dell’azione governativa ed alle prospettive di possibili radicali e drammatici cambiamenti che il nascente comunismo prometteva, sulla falsariga della Rivoluzione russa dell’ottobre 1917.
Su questo sfondo, dal 1919, l’Italia viveva una vera guerra civile, con le sue quotidiane vittime ed il suo esteso e cruento disordine nelle piazze e nelle campagne. Era, dunque, nell’aria, ancora più evidentemente che per il passato, l’attesa di qualche evento che potesse ricondurre ad un clima di normalità il Paese.
Questo "evento", come è noto, fu rappresentato dalla fermezza con cui il fascismo, raccogliendo anche una notevole parte dei fermenti del nuovo mondo sociale e culturale, non si propose per un qualsiasi ricambio della compagine governativa ma per una "rivoluzione".
Ad una settimana dalla Marcia su Roma, Avvisatore riassumeva i termini della situazione ed ipotizzava le prospettive in un articolo che, letto oggi, risulta fortemente evocativo di quella condizione di vigilia e di quella Storia: "Roma, pur tanto abituata alle commozioni politiche, patisce in questo momento un senso che par quasi angoscia, ma ansia tormentosa lo è di certo: si sente nell’aria che qualche cosa di grave matura, lentamente ma inesorabilmente, in questo principio d’autunno insolitamente triste, accidioso e funebre. Da per tutto, al caffè come in tramvai, nelle halles degli alberghi gremitissimi, come nelle sale sgargianti di falsa luce, dove furoreggia il tango, avverti un senso d’irrequietudine che si appalesa in un incrocio di domande e risposte, di induzioni e previsioni, le più pazze, le più cervellotiche; ma tutte paurose: "il Ministero si dimette prima dell’apertura del Parlamento o si ripresenta?" ... "Non credo, pare che Facta, preoccupatissimo pel grande convegno fascista in Napoli pel 24, voglia cavarsela dal rotto della cuffia!". "Succederà Giolitti o avremo il colpo di Stato, con la marcia su Roma e gli inevitabili conflitti sanguinosi?" "Certo, la imponente adunanza fascista di Napoli ( si calcola saranno circa quarantamila i fascisti che parteciperanno al convegno) è una minaccia seria per la Capitale; dato che il fascismo impaziente di arrivare potrebbe decidersi a rompere le righe ... e allora ?".
L’articolo concludeva: "L’Italia non può, e non deve perire così: gravemente ferita e dilaniata una prima volta, dai guerrafondai che preparavano il lauto banchetto per loro e per i pescicani, lasciarla oggi in balia dei nuovi e forse più terribili marosi sarebbe un secondo e più mostruoso delitto. L’Italia deve rimanere in piedi e deve progredire. Il pericolo che la sovrasta è costituito dallo sfrenarsi delle fazioni, e le fazioni devono tacere. Il fascismo non può essere considerato come fazione; perchè esso -potenzialmente- è la Nazione stessa: dopo avere abbattuto il comunismo, ridotto all’impotenza il socialismo, ricacciato indietro il Partito popolare, assorbito i postulati della democrazia e del liberalismo, attirato gran parte del movimento sindacalista, esso proclama di volere governare, ed è in condizione di potere dettare le sue leggi. Ora una fazione non può giungere a tanto, in un paese di circa quaranta milioni d’uomini qual’è il nostro. Se a tanto è pervenuto, segno è che la grande maggioranza degli italiani, pur non essendo regolarmente inscritta nei ruoli del fascismo, sente e pensa che deve essergli accordato credito, nel momento in cui esso assume di potere e di volere salvare la Nazione dal baratro in cui minaccia di precipitare. Anche i più scettici, gli ammalati cronici di pessimismo dicono: lasciamo che i fascisti si provino"(20).
Il giornale raccoglieva evidentemente un sentire molto diffuso alla vigilia del 28 ottobre del 1922 ed il senso del portato della Storia; traendo, come una parte di italiani più grande degli aderenti al fascismo, fiducia - perfino una fiduciosa curiosità - da quella sofferta traiettoria che aveva condotto Benito Mussolini da una base socialista anarchicheggiante e pacifista alla "guerra purificatrice" ed esaltatrice dell’Italia; dall’abbandono dell’inevitabilità della lotta di classe al concetto di una rivolta ideale nazionale rigeneratrice. E ciò, mentre montava il pericolo d’una rivoluzione di tipo bolscevico e del radicalizzarsi dei vari blocchi sociali. Il cammino dei fascisti, d’altra parte, si presentava ispirato da una cultura di tipo idealista: dal Futurismo di Marinetti(21) all’irruente interventismo di D’Annunzio, all’attualismo ed all’idealismo di Gentile e si manifestava con ardimento, impeto giovanile, coraggio, entusiastico pragmatismo; al cospetto della vecchia classe liberale degli Orlando, dei Giolitti e dei Salandra, irrimediabilmente compromessa negli affari e nelle clientele provinciali più o meno limpide, cui era assai difficile chiedere di suscitare negli italiani fiducia o un qualsiasi moto di orgoglio nazionale.
Ma quando il giornale vede come, a regime ormai avviato, i vecchi sostenitori dell’ordine democratico liberale si affrettino, smentendo le proprie posizioni politiche, la propria storia e sè stessi, nelle furbizie di un umiliante vassallaggio non imposto e non decoroso, non può fare a meno di esporre la propria critica, sia pure quando l’uomo che si umilia innanzi al vincitore si chiama Vittorio Emanuele Orlando.
Il 16 novembre, il discorso di Benito Mussolini in parlamento, in sede di presentazione del nuovo governo, era stato molto chiaro: s’era trattato del famoso "discorso del bivacco", in cui il Duce, tra riferimenti ad un ristabilimento della normalità e della legalità e richiami alle potenzialità della forza di decine di migliaia di fascisti convenuti in armi a Roma il 28 ottobre, aveva fatto ben capire che quello che stava cambiando non era un governo ma un sistema ed un ordine costituzionale e sociale.
Orlando parlò pochi giorni dopo, a Partinico, ad una folla da grandi occasioni, invocando la fiducia nel fascismo e Avvisatore commentò: "All’Onorevole Orlando -uno degli umiliati nella storica seduta del 16 novembre- spettava un assai arduo compito: cioè quello di approvare la violazione delle norme costituzionali, compiuta dall’onorevole Mussolini, con la forza di uno stupro; atto che abbiamo per altro augurato salutare per lo Stato. Compito arduo, particolarmente per l’illustre nostro concittadino, in quanto egli -uomo squisitamente parlamentare, non meno per temperamento che per cultura e per tutta una vita vissuta- è il più grande maestro di diritto costituzionale che oggi vanti l’Italia; onde nella mente di lui, certamente, vibrò il pensiero della folla idiota che, sia pure a traverso la glorificazione del fascismo -in quanto esso ha dato finalmente all’Italia un Governo - attendeva dalla sua parola alata una rivendicazione vigorosa, sostanziale più che formale o nebulosa, del regime parlamentare. Ma egli scacciò quel pensiero, come si fa di un tafano importuno, perchè lo pressava un’urgenza, non per se - badiamo bene!- ma per i suoi fidi di quaggiù(22)"; i quali, sbaragliati dall’evento fascista, udendo lo scroscio delle vecchie impalcature politiche che minacciano di rovinare, nell’ora così grave di ansie si sono rivolti a lui, come al Messia. Ed egli allora – egli, il maestro del diritto costituzionale, l’uomo squisitamente parlamentare - fu costretto di convenire che mentre il fantasma elettorale picchia alla porta col manganello fascista, correre dietro al giure può essere un magnifico esercizio accademico, ma non giova all’uomo politico".
Si trattava, notò il giornale, di rinnegare la stessa posizione che lo Statista aveva assunto, quale sostenitore della democrazia parlamentare, nel momento del pericolo, a difesa dello Statuto, per innestare nel nuovo corso la base della propria fortuna politica. Egli, in sostanza, "rifiutò di assumere il potere, perchè andare al governo in quelle condizioni (cioè sottostando alle rigide norme costituzionali) non significava comandare ma obbedire. Quindi egli rifiutò per non violare le norme consuete alla funzione costituzionale: quelle medesime che l’onorevole Mussolini genialmente calpestò sotto i suoi scarponi chiodati: quelle medesime che il Fascismo mise da parte per la salvezza della Nazione".
D’onde la delusione: "l’onorevole Orlando non aveva bisogno di affrettarsi a piegare reverente la fronte, anzi a umiliarla davanti al duce del fascismo - la qual cosa egli ha fatto col discorso di Partinico -, perchè egli aveva una personalità sua, circondata di prestigio grande e di stima, da poter far prevalere in qualsiasi ora elettorale. Non così i giannizzeri del suo seguito. E sono essi che lo hanno spinto alla inutile dedizione, costringendolo a uccidere ignominiosamente (la parola è cruda ma è la sola che troviamo rispondente al nostro pensiero) barbaramente in lui tutto un passato di cultore del diritto costituzionale e d’uomo squisitamente parlamentare"; per cui non restava che assistere "al malinconico tramonto di una fama politica che era ragione d’orgoglio legittimo per noi di Sicilia(23)".
Subito dopo però, sebbene rimanesse ferma la valutazione positiva sull’avvento del Regime ("In sostanza, la lotta tra il fascismo ed il socialismo più o meno comunista è una lotta fra quelli che vogliono distruggere la patria e coloro che la vogliono difendere"), il giornale osservava come l’azione fascista in Sicilia non fosse autentica e non fosse ancora efficace.
In Sicilia, dice il giornale, c’è tutto da rifare e c’è soprattutto bisogno d’una purificazione ambientale nella vita quotidiana perchè, manca la nuova classe dirigente, risultando quella formatasi dopo la Marcia su Roma il frutto d’una operazione trasformista (cfr. quanto detto a proposito di V.E. Orlando) e perchè è vero quello che scriveva in quei giorni il quotidiano Impero di Roma, che "il fascismo siciliano ha una fisionomia sui generis, definibile fascismo feudale" perchè "pochissimi siciliani per l’idea fascista hanno affrontato rischi ed hanno esposto la loro pelle". Il che, possiamo ora aggiungere, si deve considerare quando si valuta il perché, dopo il 1943, in Sicilia non si sia sviluppato neanche un antifascismo comparabile con quello delle regioni settentrionali.
Il Giornale dunque, nei primi mesi del nuovo corso, si esprimeva in tutta una serie di articoli paradigmaticamente così: "Nessun dubbio che l’opera del fascismo, malgrado qualche inevitabile esuberanza, sia stata e continui ad essere salutare per il Paese. Or noi vorremmo che il fascismo – al quale deve interessare la cosiddetta penetrazione nel Mezzogiorno - pensi sul serio a iniziare qui la sua opera di moralizzazione e di rinnovamento".
E, andando ai casi concreti, proseguiva: "A Palermo abbiamo un’Amministrazione civica in pieno sfacelo, per cui tutti i servizi pubblici sono in grande sconquasso, basti citare l’annona che non funziona affatto, in modo che una gerla di camorristi domina e dissangua la popolazione, malgrado che [...] i generi all’ingrosso abbiano avuto una sensibile diminuzione ... però a tutto profitto degli insaziabili rivenditori al minuto. Il fascismo dovrebbe quindi imporre lo scioglimento del nostro Consiglio comunale, dato che in seno ad esso non è stato possibile trovare una soluzione che costringa il nefasto cav. Di Scalea(24) a lasciare il suo ufficio. Un atto d’imperio del fascismo in tal senso sarebbe salutato dalla cittadinanza con la più grande simpatia, ed aprirebbe i cuori alle migliori speranze per la restaurazione dell’ordine e della moralità. Il popolo desidera ardentemente vedere il fascismo siciliano all’opera, e le sue legittime aspettative non dovrebbero andare deluse"(25).
In altri articoli si rappresentarono direttamente al Capo del Governo, in occasione del ritiro generalizzato del porto d’armi che suonò come sfiducia in un popolo immaginato come, tutto intero, dedito al delitto, tutti i meriti dei siciliani nei confronti della Patria comune, ivi compresi i trecento milioni di scudi d’argento, frutto della incorporazione da parte dello Stato dei beni ecclesiastici, serviti a costruire infrastrutture nel nord. Si rievocava allora tutto l’antico orgoglio siciliano per la sua illustre storia; quando, per esempio, i siciliani "veri munificenti signori, fecero risplendere la Corte ed il Senato siciliano: di fastigi, di sfarzo, di luce, di intellettualità e di sapere, tanto da schiacciare e confondere la miseria, la deficienza e la burocrazia della Corte dei Savoia, quando nel 1713 la nostra Sicilia, per il trattato di Utrecht, venne assegnata a quel Principe".
Ora si chiedeva: "Noi che fummo e che siamo con voi, Eccellenza, noi che nel campo della nostra attività, della nostra azione fisica e cerebrale, siamo per l’ordine, per la disciplina e per il lavoro, noi, e tutti coloro che si elevano dal campo partigiano campanilistico, vi chiediamo d’emanare ordini precisi, categorici ed imperativi, affinché i vostri funzionari, più realisti del re, non facciano scattare quel malcontento che serpeggia contro di loro, e che potrebbe scoppiare producendo disastri non prevedibili, nè facilmente riparabili, acuendo ed aumentando aspirazioni prettamente siciliane"(26).
Il giornale esprimeva dunque fede nella rivoluzione nazionale ma anche preoccupazione per la necessità d’un riscontro nei fatti dei buoni propositi che l’avevano originata.
Alcuni anni dopo, nel gennaio del 1925(27), dopo il duro discorso di Mussolini alla Camera, del 3 gennaio, in cui, rivendicando gli sforzi compiuti per una normalizzazione del Paese e la volontà di reprimere ogni illegalità, comprese quelle fasciste, dichiarava d’essere pronto a ricorrere alla forza per vincere ogni residua resistenza, Avvisatore faceva appello al Governo cui denunziava gli sperperi di denaro e le consorterie che dominavano nel Comune di Palermo, facendo i nomi dei componenti la camarilla, tra cui indicava quello contro cui aveva già espresso, come s’è visto, tutta la sua riprovazione, ossia l’ex sindaco ed ora senatore Giuseppe Lanza Tasca di Scalea (mentre si rimpiangeva la gestione del Conte Salvatore Tagliavia); ma avvertiva anche, dato che Palermo da diversi anni era ormai amministrata da commissari prefettizi, che "solo un’amministrazione ordinaria può sollevare Palermo dallo stato di evidente inferiorità in cui si trova di fronte alle altre città italiane. [...] Ritardare le elezioni amministrative significa rimandare la soluzione di questi problemi, con grave danno della pubblica cosa [...]. Il governo nazionale – che ha ripetute volte mostrato la sua consapevolezza della necessità di rinascita del mezzogiorno- e l’onorevole Mussolini, le cui simpatie per la Sicilia sono note, non possono non riconoscere il diritto che ci fa reclamare il ritorno dell’amministrazione ordinaria al nostro Comune".
Ma la storia ci insegna che il governo meditava altre più drastiche soluzioni: il 4 febbraio 1926 entrava in vigore la legge di riforma delle amministrazioni locali che aboliva i consigli elettivi e sostituiva la figura del sindaco elettivo con quella del podestà, di nomina governativa(28): forse perché, come diceva il giornale, "siamo in tempo di rivoluzione"; oppure perché, come aveva detto altra volta il Principe di Salina, in Sicilia non c’è stata alcuna rivoluzione.
Il governo di Mussolini, comunque, continuava ad apparire utilmente decisionista. Dalla lettura dell’Avvisatore questa impressione traspare dagli editoriali pubblicati in occasione dell’abolizione, nel 1926, del privilegio conservato dal Banco di Sicilia dopo l’unificazione del Regno di emettere biglietti di banca; problema dibattuto nei precedenti decenni da ogni governo e mai risolto: "Il governo Mussolini lo ha affrontato con la medesima forza con cui suole affrontare tutte le questioni in cui è in ballo la vita economica e morale del Paese, e lo ha risolto con uno dei suoi consueti atti di esemplare prontezza, ai quali ci siamo ormai abituati" perché "il regime attuale, che non tollera sovrapposizioni di poteri e che taglia risolutamente la testa a tutte le camarille di qualsiasi natura, con un semplice provvedimento ha compiuto un gesto solenne togliendo il terreno sotto i piedi alla "Banda crispina" che "imperava al Banco di Sicilia e che ne reggeva i destini: i posti dei consiglieri erano terribilmente ed accanitamente contesi, perché offrivano oltre che la possibilità di laute prebende personali, anche la facilità di creare una fitta rete d’interessi politici ed economici convergenti verso gli astri maggiori"(29).
Quello che comunque emerge dalle cronache e dai commenti degli anni venti e trenta è la convinzione, probabilmente raccolta da un clima generale (se è opinione degli storici che a metà degli anni trenta il fascismo raggiunse un alto consenso popolare), che quello che si stava vivendo era un tempo di rivoluzione, ossia una trasformazione profonda tendente a mutare radicalmente istituzioni e sistema economico e sociale.
Negli anni trenta il giornale, pur seguendo la sua solita linea (informazioni sulle produzioni ed esportazioni, normative fiscali, fallimenti, problemi dei trasporti, regolamenti postali ecc.), quando deve parlare della politica generale, specialmente se riguardante il tessuto economico complessivo, come è nel 1934, quando deve spiegare il sistema corporativo e la sua filosofia di assunzione degli interessi individuali nell’ambito dell’ interesse nazionale, si inserisce nel più ampio discorso delle rivoluzioni europee: "La soluzione russa, basata sull’abolizione del capitalismo, fallì non solo dal punto di vista pratico perchè portò allo sfacelo e alla miseria, ma anche dal punto di vista della dottrina, perchè degenerò nel capitalismo di Stato. Ad ogni modo, Italia e Russia hanno il merito comune di aver compreso la grave, improrogabile necessità che una soluzione si imponeva [...] Da noi si era storicamente più avanti ed un popolo capace di maturare la grande rivoluzione poteva dare la mente capace di creare quella formula magica che sintetizza (nella Carta del Lavoro) la teoria della dottrina corporativa". Ma anche in occasione del plebiscito del 25 marzo 1934, per il quale si approvava il "ritorno" nella lista nazionale di rappresentati del commercio, dell’industria e dell’artigianato, secondo la linea ormai corporativa dello Stato, si parlava di importanza della consultazione per il proseguire della "rivoluzione".(30)
La riforma agraria, lo zolfo e il petrolio
Da giornale economico, Avvisatore affrontava tra l’altro il problema della "riforma agraria", sin dai tempi del progetto di legge di Crispi del 1894, ultimo atto dell’orientamento riformistico e per certi versi giacobino dello statista siciliano, suggerito anche dai recenti moti dei Fasci dei lavoratori, ma, come è noto, non andato poi in porto per il forte conservatorismo che allora animava la classe politica di governo.
Con l’avvento del fascismo, almeno fino al 1940, accantonato l’orientamento d’un drastico frazionamento dei latifondi a vantaggio d’una diffusa proprietà contadina, si dette corso alla cosiddetta politica di "sbracciantizzazione", col favorire la diffusione dei rapporti di colonìa parziaria, e ad una massiccia opera di bonificamento dei terreni, per la quale il fascismo sviluppò un’organica e complessa legislazione.
Era passato, del resto, il tempo della Battaglia del grano, bandita da Mussolini il 14 giugno del 1925 onde rendere il Paese autosufficiente almeno per il prodotto fondamentale nell’alimentazione: il pane, ed aveva dato buoni risultati, registrandosi nel 1931 una produzione di 81 milioni di quintali di frumento. Avvisatore la giudicava favorevolmente, tanto da suggerire una "battaglia dell’organizzazione commerciale."(31) Evidentemente sembrava però al governo di allora l’agricoltura il settore in cui più urgentemente occorreva intervenire con profonde modifiche di struttura per rispondere a secolari malesseri sociali d’una grandissima massa di italiani ed era la bonifica integrale, che sarebbe iniziata nel 1928, la politica cui dedicare l’ impegno degno di una battaglia.
Corriere agricolo commerciale (che in quegli anni sostituiva Avvisatore) spiegava allora la politica di "bonificamento" sulla base delle tre condizioni costanti: crescita demografica, necessità di arresto dell’inurbamento ed elevazione del tenore di vita delle popolazioni rurali. Nel numero 14 del 1935, descrivendosi l’azione del Governo, intesa a bonificare terreni paludosi, dissodare aree mai coltivate, captare acque, aprire nuove strade che rendessero penetrabile il latifondo e costruire borghi e case rurali, il giornale così esprimeva i due aspetti fondamentali della politica fascista: "intensificare l’agricoltura, sia con gli ordinari e perfezionati mezzi della tecnica e della sperimentazione e con una quotidiana lotta che valesse a strappare ogni lembo del suolo nazionale al dominio degli elementi avversi; sia con la disciplina delle emigrazioni interne, perchè la popolazione rurale, e cioè quella che più mantiene spiccata la tendenza all’accrescimento, potesse ritrovare nell’attaccamento alla terra le ragioni della sua vita. Voleva significare, sopratutto, una rivalutazione politica e morale del contadino e dell’agricoltura, considerando l’uno e l’altro come elementi di primo rango nella comunità nazionale"(32).
C’era, del resto, bisogno della spiegazione degli elementi di fondo della politica di "bonificamento", dato che tutto il nuovo modo di presentarsi, anche visivamente, delle campagne in via di bonificamento o già bonificate, con le loro migliaia di nuovissime case coloniche, con i borghi rurali in costruzione ed i bevai e le strade, appariva ai ceti che avevano dominato incontrastamente per generazioni nel latifondo, un fatto rivoluzionario e certamente pericoloso, vedendosi minacciate le "dovute" distanze sociali, attestate da modi immutabili del vivere. Questa politica ebbe perciò anche i suoi critici, espressisi talvolta con la superiorità dell’ironia; per cui troviamo nella stampa del tempo articoli che spiegavano il senso di quelle opere edili complesse – e per di più in uno stile architettonico nuovo - in aree che apparivano sperdute e desolate(33).
Carlo Emilio Gadda descrisse il fenomeno, in un articolo del 1941 sulla Nuova Antologia, in cui è riservata ammirazione per queste realizzazioni dello Stato che, "esprimendo in azione la volontà e le direttive del Duce, guardano al latifondo siculo come a problema di bonifica integrale". Diceva: "Le case rurali, che ospitano le famiglie coloniche a mano a mano recuperate a un miglior lavoro ed immesse nel latifondo trovano e troveranno presidio nei borghi. Essi vengono costituiti in centri del vivere civile e dovranno appunto investirsi di tutti i compiti e gli attributi del capoluogo, senza presentare tuttavia rinnovato l’inconveniente che si vuole ovviare in ogni modo: cioè quello di una fitta popolazione di contadini che si stipa nel villaggio in condizioni di scarsa igiene, di estrema povertà, ad una distanza di chilometri dal luogo del lavoro. Il borgo della colonizzazione non ospiterà contadini: ma soltanto gli artigiani indispensabili (meccanici, artigiani stipettai, muratori, calzolai...) e le botteghe delle derrate d’alimento o di vario commercio e gli uffici, i posti sanitari, le scuole. Il borgo deve esser visto come una cittadina sfollata: piccola capitale funzionalistica senza stento e senza gravezza di plebe. La plebe sana è nei campi, al lavoro. Ecco una chiara idea, delle più positivamente innovatrici [...]. I previsti ampliamenti verranno a completare la struttura del borgo con uno o più edifici per gli ammassi dei prodotti agricoli, con piccoli magazzini di deposito per macchine e strumenti agricoli, concimi, sementi, sacchi, legname d’opera"(34).
Quando Gadda fece la sua descrizione dei borghi rurali nella Nuova Antologia, ne erano già stati costruiti otto ed altri erano in costruzione; erano state completate circa 2.500 case coloniche ed altre centinaia erano in via di costruzione. Il Corriere agricolo commerciale della Sicilia, annunziava su nove colonne: "Ventimila case coloniche segneranno l’auspicata fine del latifondo insulare: acquedotti, strade, fognature ed opere pubbliche assicurano una immediata sicurezza di lavoro nelle zone di bonifica".(35)
Verrà poi la guerra, con l’interruzione di un tale disegno, ma nei primi tempi della Repubblica e della Regione siciliana, l’opera di bonifica continuerà attraverso l’Ente nazionale di colonizzazione del latifondo siciliano, sebbene la furia distruttrice dei siciliani stessi, negli anni dell’occupazione anglo-americana, si fosse abbattuta anche contro i borghi già completati ed arredati. Avvisatore annotava: "non fa certo onore a nessuno il non avere impedito, non provvedendo alla custodia, la distruzione dei locali ed il saccheggio del magnifico arredamento. Qui non era in gioco un regime ma lo Stato: qui c’era solo la incosciente, sadica voluttà di torbidi elementi, di portare la distruzione contro una conquista piena di promettenti sviluppi per l’onesto lavoro dei "campi""(36).
Si sa come sia toccato, poi, alla neo istituita Regione siciliana completare l’opera di bonificamento ed affrontare il più spinoso dei problemi della questione agraria: lo scorporo dei latifondi, che avverrà con la legge regionale n. 104 del 1950, modellata sulla "legge stralcio"(37) dello Stato e che assegnerà a braccianti agricoli 102 mila ettari di terra. L’Avvisatore, il 30 novembre 1950, titolava: L’autonomia ha dato alla Sicilia una riforma agraria migliore della legge stralcio(38) e spiegava: "All’alba del 21, dopo quindici ore di seduta continua, l’Assemblea regionale ha varato la sua legge: ha votato a favore tutta la maggioranza compatta. Si sono opposte le estreme sinistre e le estreme destre. Come abbiamo detto, questa legge ha un contenuto essenzialmente produttivistico: i piani di miglioria sono al centro della riforma, e tutti i proprietari sono tenuti ad operare i miglioramenti imposti dall’Ente per la riforma agraria siciliana".
Se il problema dell’agricoltura poteva indurre a drastiche riforme, ad investimenti di straordinarie proporzioni e quindi ad incentivi che potessero assicurare un avvenire di progressiva conversione dell’economia rurale ed indurre a drastiche riforme e ad investimenti di straordinarie proporzioni a fini produttivi di tutto l’apparato, fatto di terre, lavoratori, tecniche ed infrastrutture, in vista, dopo il 1957, anche della sorgente politica agricola comune della Comunità economica europea, il tema dello zolfo si presentò subito, nel dopoguerra, con aspetti drammatici, senza serie vie di uscita. E prospettive pessimistiche il giornale registra negli anni cinquanta e fino a quando, proprio con l’aiuto della C.E.E., il settore, che aveva costituito una base produttiva fondamentale e perfino una componente dell’ambiente e del costume siciliano, sarà liquidato per sempre con espropriazioni e con l’esodo assistito dal posto di lavoro di migliaia di addetti(39).
A fronte di un settore produttivo in via di dissolvimento, si aprivano negli anni cinquanta le rosee prospettive di nuovi giacimenti e di più importanti impianti industriali: il petrolio. Già nel 1950, a tre anni dalla propria istituzione, la Regione siciliana legiferava per una disciplina della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi, più aderente agli interessi della Sicilia di quanto potesse essere la vigente normativa statale(40).
Quindi il primo petrolio sgorgato ad Augusta nel 1954, la discesa in Sicilia della Gulf-Italia e dell’ENI di Enrico Mattei ed i problemi (allora serii) della scelta tra le imprese private e l’Ente di Stato.
Su questi argomenti, nei giorni 24, 25 e 26 gennaio 1958 si svolse a Gela un importante convegno, rimasto "storico", intitolato Petrolio di Sicilia. Ad esso parteciparono le più eminenti personalità del mondo politico ed industriale che avevano un ruolo in quella che fu in quegli anni la grande speranza della Sicilia; speranza rivolta alla nascita di industrie estrattive, raffinerie ed indotto: tra essi Enrico Mattei, presidente dell’ENI, Nicolò Pignatelli Aragona, presidente della Gulf Italia Company, Salvatore Aldisio, già alto commissario per la Sicilia, Domenico La Cavera, esponente della Confindustria, Angelo Moratti, industriale del settore petrolifero, Francesco Caltagirone e gli uomini politici aventi allora un ruolo guida nella Regione, tra cui il presidente dell’Assemblea regionale Giuseppe Alessi, Mario Fasino, Vincenzo Carollo, Emanuele Macaluso.
Nel clima di quegli anni, in cui la scoperta del petrolio a Gela e nella Sicilia meridionale suscitava speranze e sogni, per cui i giornali parlavano già di Sicilia, Texas d’Europa e di prospettive di una poderosa trasformazione economica dell’Isola, il convegno costituì un momento di riflessione e di confronto molto chiaro tra le diverse posizioni dalle quali il ruolo della Sicilia industriale era visto. Rinviando per un’analisi completa agli atti del convegno(41), può dirsi che a Gela, nel 1958, si scontrarono due diverse concezioni: quella dell’industria privata e del libero mercato (Pignatelli) e quella degli enti pubblici economici e delle aziende a capitale pubblico (Mattei)(42).
Su questo scontro, si giocherà tra pochi mesi la partita che porterà, nella Regione, alla crisi del governo La Loggia, alla provvisoria umiliazione dei fanfaniani siciliani, ritenuti troppo legati ai c.d. "monopoli del Nord", ed all’esperienza dei significativi, sebbene effimeri, governi di intento sicilianista di Silvio Milazzo(43).
Avvisatore, ovviamente, seguì per anni tutto lo sviluppo della questione. Ma, particolarmente interessanti restano ora acuni articoli, anche per una certa evocatività del clima di grandi speranze di riscatto della Sicilia che contengono, alcuni articoli. Il 23 febbraio 1955, per esempio, si informava: "Nuove prospettive per l’economia siciliana: l’ENI effettuerà ricerche petrolifere nel sottosuolo di Gela e di Castelvetrano"; e l’1 luglio 1955: "Tutto il mondo parla del petrolio siciliano", in cui si esprimeva, comunque e malgrado le critiche delle opposizioni, fiducia per la particolare attenzione che i governi di allora dedicavano al problema: "Sotto l’impero delle vecchie leggi statali sulle ricerche minerarie, nessuno era venuto in Sicilia con capitali e mezzi strumentali efficienti da permettere il rinvenimento del petrolio. La Sicilia, una volta ottenuta l’autonomia, si è data una propria legge che, estendendo il diritto di ricerca e di sfruttamento del petrolio a tutte le imprese italiane e straniere in grado di offrire serie garanzie di impegno finanziario e di capacità tecnica, è valsa a permettere il rinvenimento del petrolio"44).
Il secondo dopoguerra
Soppresso nel 1936, nel 1946 il giornale riprese le pubblicazioni, sotto la direzione di Vittorio Pierallini, nipote del fondatore, con la sua originaria testata e con il sottotitolo Settimanale commerciale-agricolo-industriale-marittimo, spiegandosi altresì nella testata che il giornale avrebbe pubblicato gli atti ufficiali delle federazioni provinciali dei commercianti e degli industriali della Sicilia.
Nell’editoriale di presentazione (Riprendiamo il cammino) si manifestava una responsabile e preoccupata soddisfazione per la fine della guerra e del regime fascista. Si diceva, tra l’altro: "Dieci anni sono stati per noi di attesa, durante i quali la nostra fede nei principi della libertà e del diritto si è ritemprata nella lotta di tutti i giorni, quando tra rigo e rigo dei nostri scritti si poteva leggere il segreto pensiero, l’amarezza di una soggezione che, opprimendo il popolo, ci lasciava vivere in quel grigiore che caratterizzò un ventennio di uniforme, livellatrice politica di dittatura..." Certo non si meditava sul favore che il Regime aveva riscosso al suo nascere ed al suo affermarsi anche dall’Avvisatore nel periodo1919-1925 (v. retro). Si proseguiva: "Ben duro è stato il prezzo di questa riconquista e ben lontani siamo ancora da quella libertà che avevamo bramato e per la quale abbiamo tanto sofferto in una attesa di amare rinunzie... La politica resta monopolio di un esarcato scaturente da un cosiddetto Comitato di liberazione, che non ha alcun fondamento" e notava l’emergere, come nei più tristi momenti di sbandamento di un popolo, delle solite furbizie e squallide sopraffazioni: "il processo epurativo che s’è fatto strumento di nuove ingiustizie nella sua stolta concezione giuridica; la nuova stampa che tenta di superare e dominare mediante l’ingiuria ed il turpiloquio"(45).
Ancora agli inizi del 1946, effettivamente, l’avvenire politico della Sicilia era incerto e confuso. Se si leggono i rapporti degli agenti segreti degli Stati Uniti, dal luglio del ’43 al 1947, se ne ha un quadro abbastanza chiaro e perfino suggestivo. Pesavano: l’insufficienza delle produzioni agricole, l’estrema povertà del popolo, il lento e confuso delinearsi delle posizioni dei neo costituiti partiti politici, l’acuirsi e poi il declinare della guerriglia separatista, le preoccupazioni dei latifondisti sull’avvenire dei loro privilegi, il diffuso brigantaggio e l’esplicita collaborazione dell’Alta mafia nella politica e, perfino, nelle questioni riguardanti l’ordine pubblico e la repressione della delinquenza comune(46). Ma i rapporti segreti dicevano che "le notizie della stampa sono da ritenersi in gran parte inesatte ed alterate a scopo scandalistico, oppure, per alcuni giornali di partito, a scopo allarmistico, onde distrarre la pubblica opinione da problemi più impellenti" (era forse questo che disorientava i redattori di Avvisatore) e concludevano cinicamente con questa sintesi: "può dirsi che la situazione in Sicilia è grave per l’Isola, preoccupante per l’Italia, insignificante per la sicurezza degli alleati"47).
Ma in quel periodo, in cui la fine della guerra e della dittatura poteva indurre ad una ubriacatura di rivincite, l’Avvisatore che, individualmente, aveva probabilmente motivi di rivalsa da far valere, si mostrò abbastanza equanime e sereno nella diagnosi sul momento storico in cui rivedeva la luce. Non perdeva la fede nello Stato e nella continuità del valore superiore dell’interesse nazionale.
Non fu separatista e mostrò invece dubbi sull’effettività di una condivisione popolare dell’autonomia regionale e sulle capacità di una sana e proficua autogestione della Sicilia. Esortò ad una serena ricostruzione: "Cessi la campagna di odio e di diffamazione", inducendo così al problema d’una pacificazione tra gli italiani, ed ebbe modo di riflettere sul significato della celebrazione del 25 aprile, già nel 1947 chiamata "Festa della liberazione".
Agli inizi di maggio del 1947, scriveva: "del dramma nazionale, che s’insanguinò di fosca tragedia per quei popoli su cui più duro era pesato il giogo dei governi e più larga si era stesa l’illusione, è necessario che resti un ricordo, che sia monito per qulli che verranno dopo di noi. Questo ricordo non è consacrato nel 25 aprile, che, abbracciando un duplice evento e un duplice significato, non può essere espresso con una parola sola"; perchè al disopra della fine della dittatura e della guerra, "restava, in qualunque modo, una sanguinosa sconfitta delle armi italiane e un fatale avvilimento di alcuni elementi sociali, a cui avevamo per tradizione affidato l’onore della nazione: che questo fosse causato dall’aberrante avventura del regime ventennale, che fosse alimentato da movimenti incerti, oscuri, incoscienti, colpevoli, avviliti di tradimento, attenuati da rischiose rinunzie, rientra nello studio dello storico futuro, ma quello che restava era duro, avvilente, disonorante".
"Si può, tutto questo, festeggiare?" si chiedeva il giornale, e concludeva che "si ha sempre il diritto di versare una lacrima, in mezzo a tanta gioia che dimentica, in un sol giorno, che anche se ci siamo liberati di un regime che portò alla catastrofe, non siamo più quelli che eravamo nel 1918!"
E, commentando la strage di lavoratori compiutasi a Portella delle Ginestre il 1° maggio 1947 per mano della banda Giuliano (almeno secondo la versione ufficiale), si chiedeva, inducendo a trarre insegnamenti dall’appena concluso esercizio di morte: "uccidere: come poté questa parola balenare per un attimo solo nell’anima di chi certamente ha visto per anni la morte passare e dominare sovrana su ogni principio?"
I primi numeri del nuovo Avvisatore testimoniano anche la rinascita della vita produttiva di Palermo: riprendeva l’industria vetraria con l’inagurazione di un nuovo stabilimento; iniziava il nuovo collegamento navale commerciale tra Palermo, Cagliari, Livorno e Genova; si inaugurava (8 ottobre 1946) la Fiera del Mediterraneo mentre al nord riapriva i battenti la Fiera di Milano; si accresceva in Sicilia la produzione del rayon; il Ministero del tesoro decideva il ritiro delle am-lire mentre, in un contesto più frivolo (ma emblematico d’una resurrezione ed evocativo d’un clima), gli inserti pubblicitari del giornale avvisavano che al teatro Nazionale si sarebbero esibiti il comico Tino Scotti con il Trio Lescano e che era prossima l’inaugurazione del Casinò municipale di Palermo nella terrazza Kalesa (auto pubbliche ogni mezz’ora da piazza politeama e da piazza Verdi).
Generalmente, comunque, non si espose in campagne elettorali dirette, salvo che nel 1955 allorchè espresse attenzione particolare in favore del Partito nazionale monarchico(48). Successivamente, si limitò a esporre posizioni alquanto articolate(49), piuttosto ortodosse nei confronti dell’area politico-ideologica governativa, sebbene criticasse spesso, come fu diffusamente negli anni ottanta sia in molti giornali che nelle sedi accademiche e, vanamente, tra le stesse basi elettorali dei partiti, il degrado amministrativo, il frazionismo partitico, l’instabilità governativa ed il clientelismo (anche allora si aspettava forse un demiurgo o una rivoluzione; ma quella volta si trattò poi di fingere solamente l’avvento d’una Seconda Repubblica).
Negli stessi anni, si intuiscono dalla pubblicità accolta nelle sue pagine ma soprattutto dalla frequenza di certi servizi redazionali collegamenti con forti soggetti del tessuto produttivo italiano: Fiat, Banco di Sicilia, IRFIS, Rasiom, Sicilcassa, Enel ecc.
Nello stesso periodo e fino alla conclusione della sua storia, il giornale estese ancor più il campo dei propri interessi: sia verso quello giuridico che verso quelli artistico e culturale in genere(50).
Il nuovo Avvisatore avrà momenti di maggiore o minore splendore, mostrando fasi di maggiore o minore robustezza editoriale. Politicamente, si mostrerà per lo più anticomunista; il che non era allora che la conseguenza dell’essere organo degli industriali e del non avere ancora (almeno nei primi decenni dopo la guerra), i comunisti italiani, rinunziato completamente alla prospettiva di una profonda trasformazione del sistema capitalistico e liberistico e mantenendo il partito socialista l’ispirazione marxista e, nell’economia, orientamenti dirigistici e tendenti ad una diffusa partecipazione pubblica a capitali di impresa.
Dalla cronaca alla storia
Passavano gli anni, la democrazia si consolidava, l’autonomia siciliana, invidiata dalle altre regioni per l’ampiezza dei suoi poteri, pareva godere di possibilità di spesa illimitate (contributi in tutti i settori, eserciti di impiegati stabili e precari, opere pubbliche faraoniche; enti pubblici economici, veri immensi centri di potere; partecipazioni ai capitali d’una infinità di imprese improduttive) finchè non si apprese, anche da Avvisatore, sul finire degli anni novanta che la situazione finanziaria della Regione era seriamente critica. L’integrazione europea progrediva tra alti e bassi, inducendo con le sue regole gli Stati membri a perseguire una politica economica liberista, di mercato e di concorrenza(51); l’agricoltura veniva fortemente assistita e, tuttavia, la sicurezza sociale sembrava ormai raggiungere traguardi inimmaginabili.
Ma era soprattutto lo sfondo del tessuto sociale che diventava sempre più incomparabile con quello dei primi decenni del giornale. Nessuno dei partiti politici aveva ormai più intenti rivoluzionari; il socialismo ed il comunismo non sono più i partiti del proletariato; Vittorio Emanuele Orlando è celebrato con intitolazioni di vie e scuole in tutta l’Italia per i suoi meriti democratici e scientifici; il potente Banco di Sicilia cessa d’essere siciliano e… d’essere potente; delle imprese coloniali italiane, non riuscendo a valutarne storicisticamente il ruolo, ci si vergogna; gli intellettuali, sul finire degli anni ottanta, cominciano ad ammettere l’inattualità del fascismo e la storicizzazione del problema. Ma succedono anche: la strage di Piazza Fontana, quella di Brescia; quella di Bologna... La rivolta di Reggio Calabria, che non ha più nulla a che fare con gli scioperi e le rivolte socialiste e del proletariato, sebbene sia sempre una ribellione allo Stato; gli italiani residenti nella ex colonia italiana Libia, che, come riferiva Avvisatore negli anni venti, avrebbe potuto costituire un sbocco per attività agricole e commerciali degli italiani, nel 1970 sono costretti a rientrare in Italia (con la Libia torneremo poi amici!); in Etiopia, nel maggio del 1990, i guerriglieri del Fronte democratico rivoluzionario conquistano Addis Abeba e viene instaurata la democrazia; la Somalia è continuamente scossa da guerre civili ed il 2 luglio del 1993 tre soldati italiani della missione Onu vi sono uccisi ed altri feriti; negli anni ottanta, Avvisatore comunica che il petrolio siciliano copre ancora solo il 2% del fabbisogno italiano(52); passano gli anni degli "opposti estremismi"con le loro ecatombi di giovani e passano le "brigate rosse" con le loro stragi; passa il tempo dell’assalto della mafia ai vertici dello Stato, col suo sangue e con i suoi misteri; ma passano anche decenni di pace per l’Italia; si eleva il livello culturale generale; L’Italia si consolida un paese industriale ad economia di mercato, vive attivamente la politica comunitaria e, come il resto del mondo occidentale, "progredisce" sempre più. Si scopre che anche la Sicilia è nord per stranieri e che i tunisini che lavorano nella pesca e nell’agricoltura siciliane sono ormai più di ventimila(53).
Sul finire degli anni ottanta, ci si interrogava sulla validità della situazione politica, economica e sociale del Paese alla stregua delle premesse. Certo era assai diversa da quella dei primi anni del giornale ed anche da quella immaginata dai costituenti del 1946. E sebbene fosse diffuso un certo malessere circa le disfunzioni delle istituzioni, nessuno avrebbe più parlato seriamente di un possibile colpo di Stato né di attendere un "demiurgo" come negli anni che precedettero il ’22. Basterà, nel 1993, convenire, senza grandi scuotimenti, che si sta passando dalla prima alla "seconda Repubblica" e progettare riforme: la riforma della Costituzione, la riforma della sanità; riforma delle autonomie locali; riforme fiscali; riforma delle leggi elettorali; riforma del diritto di famiglia; riforma del sistema radio ed audiovisivo; riforma della scuola; riforma delle pensioni; riforma della giustizia…passeranno anni, decenni e Avvisatore registra i vari pensieri e le varie necessità. Gli antichi nomi dei partiti politici, derivanti da ideologie consolidate nel novecento, finiscono improvvisamente nel 1993 all’esplodere della grave questione morale rivelatasi in quegli anni. Muta talmente tutto che anche la stampa di informazione, quella fatta di carta, di notizie e di idee, vede attenuare il suo ruolo: la televisione diventa un mezzo essenziale della politica: pare avverarsi quasi la profezia di Orwell. La stampa periodica siciliana, in particolare, comincia a non reggere più alla concorrenza della televisione e delle grandi imprese nazionali che straripano nel sud con la forza dei sistemi finanziari che hanno alle spalle.(54) Non si tratta più di idee, di notizie e di buona prosa, ma di tecnica ed investimenti. I dati normativi e finanziari arrivano poi anche per quel sistema informativo dai caratteri d’una vera rivoluzione chiamato Internet. Cose certo inimmaginabili nei decenni precedenti; perché è sempre inimmaginabile quale sarà il mondo di domani; né serve la conoscenza della Storia; la quale, se non si è attenti a ricostruirne il senso in ogni suo segmento, lontano dalle passioni, non serve a farci sapere neanche un po’ di verità sul passato.
In una siffatta condizione, sempre più mutevole ed incomprensibile, nel n. 1 del 1993, Avvisatore, celebrando il 127° anno di vita, accenna a difficoltà di continuare, ma durerà ancora due anni. Nel numero uno del 1994, che orgogliosamente annunzia l’inizio del 128° anno di vita e reca sulla testata l’indicazione Fondato a Palermo da Luigi Pierallini nel 1867, si osserva: "Al consueto entusiasmo con il quale ci accingiamo alla gran fatica e al legittimo orgoglio per avere aggiunto un’altra perla alla lunga collana del più antico settimanale dell’Isola, si mischiano sentimenti che turbano: timore, smarrimento, rabbia. Il delicato momento che il Paese sta vivendo getta un’ombra su tutte le attività e non può non farci riflettere sulle concrete possibilità che la nostra testata (certamente non immune dai riflessi negativi della recessione e della crisi politica che già hanno piegato non poche iniziative imprenditoriali) possa gettare la spugna proprio alle soglie del ventunesimo secolo. A questa condizione [...] si aggiunge quella peculiare dell’essere parte integrante del tessuto politico, sociale ed economico della Sicilia, di una Terra che in misura maggiore soffre per gli esiti di una bufera che non ha risparmiato realtà ben più forti e temprate. L’essere noi siciliani si traduce nella fatica di portare un fardello molto più pesante rispetto a quello che i nostri confratelli del resto d’Italia portano: decenni di errori di conduzione politica, d’immobilismo, di assenza di programmazione ci hanno condotto in un vicolo cieco dal quale non è pensabile uscire senza danni e ferite".
Il delicato momento che gettava "un’ombra su tutte le attività del Paese" lo si può evocare sinteticamente con questi dati degli anni 1993 e 1994: Bettino Craxi si dimette da segretario nazionale del P.s.i., in seguito a sospetti sulla moralità della sua conduzione; si dimettono dal governo il liberale Francesco De Lorenzo ed il democristiano Giovanni Goria perché coinvolti in scandali finanziari; sono arrestati alcuni alti dirigenti della Fiat; è arrestato Primo Greganti, ex funzionario del P.c.i.; è arrestato Michele De Mita, fratello dell’ex segretario nazionale della D.c., per illeciti nella ricostruzione dell’ Irpinia, dopo il terremoto che l’aveva colpito; si dimette il ministro del bilancio Reviglio per un avviso di garanzia nell’ambito dell’inchiesta sui fondi neri dell’E.n.i.; è arrestato Franco Nobili, presidente dell’I.r.i. Si indaga su abusi nella sanità e viene coinvolto l’ex ministro De Lorenzo; è arrestato Giuseppe Garofano ex presidente della Montedison e scoppia lo scandalo Enimont con la sua "maxitangente" miliardaria; si uccide in carcere Gabriele Cagliari ex presidente dell’E.n.i.; si uccide Raul Gardini, ex presidente della società Ferruzzi; per abuso di ufficio e corruzione è arrestato il presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò; esplode lo scandalo dei fondi neri dei servizi segreti. Quindi, nel 1994, sembra aprirsi una stagione nuova nella politica (nuove persone, nuovi partiti, nuovi simboli) e Silvio Berlusconi, un grande industriale di Milano, lancia il nuovo partito Forza Italia ed assume la Presidenza del Consiglio: è incriminato subito il suo braccio destro, amministratore delegato della sua maggiore impresa, Marcello dell’Utri, per uno dei soliti scandali; il 22 novembre, lo stesso Berlusconi riceverà un avviso di garanzia per fatti legati ad uno scandalo in cui è coinvolta la Guardia di finanza; il 21 maggio 1994 Giulio Andreotti, lo statista che per quasi mezzo secolo è stato al governo dell’Italia in vari ruoli, è rinviato a giudizio per concorso in associazione mafiosa, quindi sarà incriminato quale mandante dell’uccisione del giornalista Mino Pecorelli; Craxi e Martelli, quest’ultimo già ministro della giustizia, sono indagati per uno scandalo di fondi segreti; Antonio Gava, già ministro dell’interno, è arrestato… Eppure, perfino Avvisatore, che aveva mostrato scoraggiamento, raccoglieva elementi di ottimismo dalla vittoria del "si"al referendum indetto da M. Segni per aprire la via ad una riforma elettorale in senso maggioritario.(55)
Col 31 dicembre 1994, dopo 128 anni di vita, il giornale usciva dalla scena dell’informazione: per l’obsolescenza determinata dall’invasione di più moderni mezzi di comunicazione. Oggi le sue annate, di cui abbiamo indicato la collocazione in biblioteche pubbliche, restano a concorrere nella documentazione di un periodo della nostra Storia, ed a proporre tra l’altro l’eterno problema: se nella storia si possano individuare i segni d’un continuo miglioramento della condizione umana in tutti i sensi.
Perché è curioso quello che dissero negli anni sessanta Herman Kahan, fisico, futurologo e tecnico militare, e Antony J. Viener, fisico e filosofo, entrambi statunitensi. Nello studiare come potrebbe essere il mondo di domani, dicevano, che ormai pochi di noi sembrano tornare all’ingenuo ottimismo dell’illuminismo, alla fiducia razionalistica nel progresso della storia. Essi notavano infatti che l’uomo ha sviluppato un enorme potere di cambiamento sul mondo che lo circonda e che l’idea che prevaleva nel vecchio umanesimo era che ciò fosse un "progresso"; viceversa questo grande potere esercitato sulla natura minaccia(56) di diventare esso stesso una forza di natura, fuori dal nostro controllo, così come l’intelaiatura sociale delle azioni oscura e minaccia non soltanto gli obiettivi umani di tutto il nostro tendere verso un "perfezionamento" ed un "miglioramento", ma anche le varie reazioni confuse ed ideologiche contro tale processo.
NOTE
(1) Nella direzione del giornale, a Luigi Pierallini successe nel 1929 il figlio Franco e nell’amministrazione il fratello Vincenzo; nel 1946 il figlio del primo, Vittorio, e quindi, dal 1980, assunse la direzione responsabile Lia Nasta, moglie di Vittorio, il quale restava direttore editoriale. Negli ultimi anni comparvero nel giornale inchieste di Marina Pierallini, figlia di Vittorio, il quale è morto nell’estate del 2004.
(2) Fascicoli di Avvisatore si trovano presso la Biblioteca centrale della Regione siciliana, coll. Giorn. 23, da 1889 a 1935 e da 1946 a 1947; presso la Società siciliana per la Storia Patria, da 1919 a 1994 (con lacune e con la pausa dal 1935 al 1946, riempita dai fascicoli di Corriere agricolo commerciale della Sicilia, di cui fu direttore amministrativo Franco Pierallini e direttore responsabile Pier Luigi Ingrassia). Con Avvisatore non va confuso L’Avvisatore commerciale (coll. in Biblioteca centr. Reg. sic. in Giorn. 656), periodico fondato a Palermo nel 1871, diretto da Ferdinando Urso e stampato nella tipografia di Gaetano Priulla, che col n. 16 aggiunse il sottotitolo "Giornale di agricoltura, industria e commercio", col n. 51 quello di "Politico, artistico e letterario" e che, dal n. 64, mutò il sottotitolo in "Giornale quotidiano politico, artistico, letterario, di agricoltura, industria e commercio". Non si ha notizia che sia durato oltre il n. 81 del 1871.
(3) Cfr. i dati statistici pubblicati a suo tempo dal Ministero agricoltura, industria e commercio, riprodotti in Ircac (a cura), L’economia siciliana a fine ottocento; Analisi ed. Bologna 1988, pag.319, ove si informa che al 31 dicembre 1891 nella provincia di Palermo si pubblicavano 54 periodici, fra i quali 17 politici, 1 politico-religioso, 7 amministrativi ed economici, 7 agricolo-industriali, 9 letterari o storici, 2 religiosi, 2 di scienze matematiche, 5 di medicina, 1 di musica e drammatica, 1 di moda. Tutti questi periodici si pubblicavano a Palermo, eccettuato il Bollettino del Comizio agrario di Cefalù che si pubblicava in questa città.
(4) Per questo ed altri episodi della storia del Banco di Sicilia, v. Giuffrida R., Il Banco di Sicilia, Palermo 1973.
(5) La redazione del giornale era allora in Piazza Marina, 59; quindi passerà in via Chiavettieri, 40 ed in via Q. Sella, 35. Abbastanza esteso si presentava lo spazio degli inserti pubblicitari: oltre alla solita reclame del Ferro-China Bisleri, un classico in tutta la stampa del tempo, si notino anche per gli aspetti di costume: il negozio palermitano di cappelli inglesi di John Arthur & C.; la farmacia Petralia di Porta Macqueda, 459-464 che, oltre ai farmaci, vendeva le acque minerali Vichy e Recoaro; la sartoria Truden & figlio; le casseforti di Vienna Daneu; il rinforzante egiziano per capelli "Dei padri missionari"; la Drogheria Florio di Piazza S. Giacomo La Marina, 72; la Profumeria Augusto Hugony; i rimedi del dottor Tenca per le malattie veneree, ecc."
(6) Avv. 27 gen. 1891.
(7) Avv. 19/5/1891, e ss.
(8) Avv. 24 e 31 mag. 1926; Anche in questo caso, certe produzioni esposte sono ora fortemente evocative di un tempo: i grafofoni Rosmilia, "il non plus ultra delle macchine parlanti", prodotti dall’industria del ragioniere Guardione; le spugne Wedekind di importazione dalla Germania; il Passatutto, per fare velocemente il passato di pomodoro, macchina brevettata dalla ditta Noto e Cudia; i Mobili Barraja, "molto apprezzati dai ministri Nava e Di Scalea"; i mobili in legno curvo della ditta Waekerlin & C. prodotti a Catania, "come era nei primi anni di questa moda per le c.d. sedie di Vienna".
(9) Avv. 3 sett. 1926.
(10) Enrico Ragusa, noto personaggio del novecento palermitano, definito da Mario Taccari in Palermo l’altro ieri (Flaccovio ed 1966): "poeta, narratore, teatrante, conferenziere, mordace, svelto di penna e di battuta". Vanni Pucci (1877-1964), scrittore, commediografo, poeta dialettale; scrisse particolarmente per la scuola; ha lasciato molti racconti, che meritano d’essere recuperati all’attenzione dei lettori. Arcangelo Cammarata (1901-1977) fece parte del movimento cattolico fiorito negli anni venti tra San Cataldo e Caltanissetta, che dette forza a casse rurali cooperative e circoli culturali e che porterà alla nascita della Democrazia cristiana. Dopo lo sbarco degli anglo - americani, fu prefetto di Caltanissetta ed il primo sindaco democristiano di San Cataldo. (cfr. Giurintano C., Arcangelo Cammarata e il movimento cattolico tra le due guerre, in questa Rivista, n. 19/2003, pag. 97). Giacomo Armò (1900-1943), giornalista, poeta, drammaturgo, diresse importanti riviste letterarie di rilievo nazionale.
(11) Cfr., per es., Avv. 14-15 dic.1891; 13-14 genn.1892.
(12) Avv. 10 /8/1895.
(13) Avv. 18 ott. 1895.
(14) Avv. 12 maggio 1896.
(15) V., per es., Silvestri M., La decadenza dell’Europa occidentale;Rizzoli ed., vol.I, pag. 420.
(16) Enrico Corradini (1865-1931) fu uomo politico e scrittore, servendosi della letteratura nella sua lotta politica. Nel 1910 fondò l’Associazione nazionalista; del nazionalismo italiano fu l’ideologo ed il capo sicchè il fascismo lo considererà un suo precursore, anche per le sue idee sul superamento sia del socialismo che del liberalismo verso una "lotta di classe tra le nazioni".
(17) Ernest Lavisse (1842 – 1922), storico francese, insegnò nella facoltà di lettere di Parigi e fu membro dell’ Accademia di Francia. Fu grande sostenitore della scuola laica e repubblicana e studiò con passione, lasciando numerose opere al riguardo, la storia della Prussia e la figura di Federico II, di cui rilevò soprattutto i caratteri psicologici.
(18) Il 6 maggio, l’Austria aveva proposto all’Italia la cessione di una parte del Trentino ma ciò era stato giudicato insufficiente dal Governo che, viceversa, denunziava il trattato di "triplice alleanza".
(19) Avv. 8 maggio 1915.
(20) Avv. 20 ottobre 1922.
(21) Si ricordi al riguardo questa proposizione del manifesto futurista: "Noi vogliamo glorificare la guerra –sola igiene del mondo - , il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore."
(22) Il Comitato provinciale fascista di Palermo aveva in quei giorni avvertito che non avrebbe accettato il travaso nei ranghi fascisti degli elementi della vecchia politica, con un ordine del giorno che così disponeva tra l’altro: "in nessun caso si verrà all’ assorbimento nelle sezioni di quegli elementi della politica locale che seppur in determinati paesi hanno la maggioranza, non sono però sostenuti dalla massa onesta del popolo e che, se per il passato a tali elementi si sono rivolti per fini elettorali candidati politici di altri partiti, ciò non avverrà in seno al Fascio, qualunque possa esserne la conseguenza"; mentre il Comitato si dichiarava deciso "a provocare provvedimenti governativi che valgano a combattere la delinquenza e le consorterie camorristiche che pesano con sistemi terroristici nella vita pubblica di molti paesi della Sicilia e turbano l’economia dell’Isola." Il problema dell’onorevole Orlando parve dunque al giornale quello del "salvataggio dei naufraghi", ossia l’operazione di accreditamento presso il nuovo ordine della sua base elettorale e clientelare che nulla aveva avuto in comune con il movimento fascista.
(23) Avv. 9 dicembre 1922.
(24) Trattasi di Giuseppe Lanza Tasca, dei principi di Scalea, nato il 20 giugno 1870 e morto il 20 ottobre 1929. Ricoprì le cariche di sindaco di Palermo, dal 19 maggio 1920 al 21maggio 1924, e di senatore del Regno. Il periodo della sua amministrazione è ricordato per il completamento della via rotabile che porta sul Monte Pellegrino, della via Roma fino alla Stazione, e per l’inizio della costruzione del nuovo porto.
(25) Avv. 26 febbraio 1923; 5 agosto 1923.
(26) Avv. 26 febbraio 1923.
(27) Avv. 8 gen. 1925, Sperpero del denaro del contribuente; ivi: Gli affaristi municipali in tripudio.
(28) Primo podestà fu, fino al 1929, Salvatore Di Marzo (1875 – 1954), discepolo di V.E. Orlando e grande giurista, professore di diritto Romano a Catania, Pisa, Palermo e Roma, dove ricoprì anche la carica di rettore. Dal 1929 al 1932 fu senatore del Regno e sottosegretario all’Educazione nazionale.
(29) Avv. 1 apr. 1926.
(30) Avv. 24 marzo 1934. Questo numero contiene un intervento, in verità piuttosto retorico, di un esponente della gioventù fascista, che poi sarebbe diventato un noto storico: Gaetano Falzone.
(31) Avv. 13 mar. 1926.
(32) Avvisatore, 20 luglio 1939.
(33) Spinello Perticone S., Il villaggio agricolo come base della colonizzazione, in L’Ora 31 dicembre 1942.
(34) Gadda C. E., I nuovi borghi della Sicilia, in Nuova Antologia, 1941.
(35) Corriere agric. comm., 20 luglio 1939.
(36) Avv. 30 novembre 1950;
(37) Legge 21 ottobre 1950, n. 841.
(38) 20 maggio 1950 Tepedino G., Latifondo, incubo e miraggio del povero contadino siciliano; Avv. 7 ottobre 1950.
(39) V., per es., Avv. 10 ottobre 1955, Frisella Vella G., L’avvenire dello zolfo: lo zolfo ha un avvenire incerto e 16 novembre 1955, Un problema grave: il prezzo dello zolfo.
(40) Cfr. legge regionale 20 marzo 1950, n. 30 e le successive l.r. 30 giugno 1952 e l.r. 5 agosto 1957, n. 51.
(41) Petrolio di Sicilia (a cura di Orlandi G.) Atti del Convegno internazionale di Gela, 24 / 26 gen. 1958.
(42) Significative al riguardo sono queste espressioni di Alessi nel corso del convegno "La Sicilia ha un suo problema ed è quello di svegliare l’attenzione degli operatori economici sulle sue possibilità: possibilità di natura, possibilità di geografia, possibilità umane, e ciò non soltanto come atto di solidarietà nazionale e di sua compartecipazione attiva ai progressi dell’Italia, ma anche come atto di responsabilità verso le sue popolazioni residenziali, per il loro sempre più alto tasso di incremento demografico [...]. Per la Sicilia, la scelta non è, dunque, tra gruppi privati e aziende di Stato, bensì tra chi si dimostra più vicino e solidale alle istanze e ai bisogni dell’Isola e chi, invece, se ne distacca, con l’atteggiamento colonialista di chi prende e se ne va, lontano o vicino dallo stretto non ci importa, ma se ne va portandosi via le nostre speranze e lasciandoci le delusioni. Noi non dobbiamo qualificare l’iniziativa secondo la natura privatistica o pubblicistica del ricercatore o coltivatore, secondo l’origine del capitale, italiano o straniero, siculo o continentale. Noi dobbiamo effettuare la scelta legislativa ed amministrativa secondo l’orientamento, secondo l’interesse che questo capitale prende per i problemi dell’Isola, secondo l’attitudine al suo naturalizzarsi e propagarsi nell’Isola che lo pone, sopra ogni altra caratteristica, al servizio della Sicilia e perciò dell’Italia." In Alessi: Il pensiero politico cattolico e le origini dell’Autonomia siciliana (a cura di Palmeri G. e Alessi D.), Assemblea regionale siciliana, Palermo 2004, p. 327.
(43) Oltre le tante opere ormai note riguardanti la storia dei governi Milazzo (Grammatico, .Menighetti , Nicastro, Marino, Spampinato, Chilanti, Santalco ecc.), recentemente: Portalone Gabriella, Sturzo e l’operazione Milazzo, Olschki, Firenze 2004.
(44) Cfr. Avv. 22 giugno 1955; 29 giugno 1955; 21 settembre 1955, nonchè per gli sviluppi successivi, 8 giugno 1983.
(45) Avv. 8 ottobre 1946.
(46) C.f.r. Mourner e Bullfrog, 5 aprile 1945, in Tranfaglia N., Come nasce la Repubblica, Bompiani 2004, p. 159; in cui si riferisce, tra l’altro, che "Calogero Vizzini, il capo dell’alta mafia, sembra aver pronunziato le seguenti parole: Ora basta! La Sicilia desidera tranquillità nelle campagne e nelle strade. Alcuni elementi sono stati già eliminati, altri devono ancora cadere. Il fascismo ha diffamato la Sicilia con le leggi speciali di pubblica sicurezza. Eravamo considerati una colonia penale. Il prefetto Mori e i suoi agenti sono i responsabili del degrado morale, economico e politico della Sicilia. Ma, al giorno d’oggi, gli americani debbono poter giudicare la Sicilia come un gioiello nel Mediterraneo.
(47) Ivi, JK 23 del 16 febbraio 1946, p. 178.
(48) V. Avv. 20 aprile 1055; 18 maggio 1955, in cui si raccomandano i candidati del Partito nazionale monarchico Pivetti e Guttadauro.
(49) V. Avv. 19 gennaio 1983.
(50) In quel periodo vi comparvero, per es., le firme del giurista A. Piraino Leto; dei costituzionalisti A. Romano, G. Corso, V. Riggio; di A. Fusco, impiegato in quel tempo nel progetto d’una originale riforma burocratica; di vari critici e letterati quali Salvatore Orilia, Piero Violante, Albano Rossi, Lorenzo Fertitta, Bruno Cedronio; del filosofo Giulio Bonafede; dello storico Francesco Pillitteri; dell’economista Gaetano Cusimano, nonchè una serie di servizi di Marina Pierallini, esponente della quarta generazione della famiglia che, per oltre un secolo, ha tenuto in piedi l’impresa giornalistica di Avvisatore.
(51) Nei numeri usciti tra gli anni 1980 e 1990 sono riprodottì molti documenti e relazioni, anche ufficiali, sulla politica agricola ed industriale della C.E.E.
(52) Avv. 1 giu. 1983.
(53) Avv. 19 genn.1983.
(54) Cfr. Palmeri G. Giornali di Palermo, Palermo, Ila-Palma ed., 2002.
(55) Avv. 18 e 25 apr. 1993.