Osservazioni introduttive di Franco Ferrarotti

Pur non riconoscendomi uno specialista di Dottrine politiche, ho accettato di buon grado di presiedere questo ‘seminario di studio’, inteso a ricordare la figura e il pensiero di Carlo Curcio, per una serie di motivi, diversi fra loro, come sempre accade, e tuttavia mossi da una sotterranea tensione convergente. In primo luogo, e mi sia concesso di esprimerlo senza credere ad una civetteria, c’è un motivo sentimentale. Siamo qui nel campo quieto, ma non sempre, delle esperienze e dei ricordi esistenzialmente significativi, quelli che pesano e tornano, di tanto in tanto, alla superficie della coscienza nella vita d’una persona. Per me, il nome di Carlo Curcio si lega a quello, indimenticabile, dell’Istituto di Scienze Politiche ‘Cesare Alfieri’ di Firenze, in Via Laura, 48, a due passi da Piazza San Marco. Nelle aule e nei corridoi vedo ancora passare come in un curioso playback, struggente e irreale a un tempo, le amate ombre di tanti colleghi e amici, alcuni scomparsi, altri tuttora attivissimi, dal preside Giuseppe Maranini, dinamico e quasi ‘mercuriale’, al giurista e politologo raffinato Pompeo Biondi, all’economista Galli, al politologo Alberto Spreafico, a Silvano Tosi, autore di un eccellente studio sul ‘colpo di Stato’, all’insigne cultore di diritto pubblico Alberto Predieri, a Giovanni Sartori e ad Antonio Zanfarino, che è oggi qui con noi. Abitavo all’epoca, nei pochi giorni che ogni settimana trascorrevo a Firenze, in Via Boccacio, a san Domenico, nella villa di Gilberto Tinacci Mannelli, sulla strada per Fiesole, in una torre storica che serberò nella memoria finché avrò vita, insieme con il grato ricordo delle serate e delle conversazioni avute con molti amici fiorentini, fra i quali un posto speciale occupano Livio Livi e la sua famiglia, in particolare Livia e Maria Grazia.

A parte quelli personali, vi sono motivi di ordine scientifico che non possono essere sottaciuti. Di questi parleranno ampiamente i colleghi che sono stati tanto generosi o semplicemente temerari da accettare la mia presidenza e i cui nomi sono di per sé una garanzia di acume critico e profondità conoscitiva. [...] Per parte mia, vorrei limitarmi a poche osservazioni introduttive su alcuni nodi centrali del pensiero di Curcio.

Le critiche rivolte alla Rivoluzione francese da quel meticoloso storico delle Dottrine politiche che fu Carlo Curcio potranno, oggi, ad orecchi sprovveduti, suonare scandalose. Ma Curcio non potrà certo essere, per così dire, arruolato fra i sostenitori della Vandea. Semplicemente, sulle generose parole d’ordine della Rivoluzione – in particolare su quella dichiarazione a portata universale, come si è potuto ingenuamente supporre, ‘Liberté, égalité, fraternité’, Carlo Curcio versa, sine ira ac studio, l’acido corrosivo d’una critica storicamente e teoreticamente fondata, che scorge e, anzi, anticipa l’esito paradossale d’una rivoluzione che sbocca nella proclamazione di un ‘imperatore della repubblica’ e fa valere la libertà non per tutti gli esseri umani, ma soltanto per i citoyens francesi, vale a dire per i proprietari d’un lembo almeno del territorio dell’Héxagone. Carlo Curcio si muoveva, in questo senso, nella più bella e consolidata tradizione sociologica, tesa a smascherare i miti della politica, e si collocava autorevolmente nel solco a suo tempo tracciato da Gaetano Mosca e ancor più, con maggior veemenza e decisione, da Vilfredo Pareto.

Nel pensiero di Curcio, che sempre aveva rifiutato i dubbi onori di incarichi e cariche del regime fascista, si dipana un filo rosso, una sorta di basso ostinato che viene riassunto, di tanto in tanto nelle sue pagine, facendo ricorso alla formula ‘fascismo liberale’ e scorgendo nella ‘fase mediana’ una via di sintesi fra individualismo e collettivismo. Un siderossilo, avrebbe forse detto Schopenhauer, ossia: una contradictio in adjecto. Non è così. Ancora una volta, Curcio si mantiene in una posizione temperata dalla ragione storica e da quella tradizione moderata che, soprattutto in nome della Destra storica liberal-cavourriana, aveva dato impulso e infine realizzato l’unità politica della Penisola. In questa prospettiva, la figura di Curcio, per una interpretazione approfondita, è da vedersi a mezza strada fra quella di un ‘cattolico liberale’ come Stefano Jacini e l’estroso atteggiarsi di un ‘liberale cattolico’ come il poeta Giacomo Noventa.

Sarebbe infine imperdonabile tacere delle intuizioni piene d’avvenire che Curcio ci riserva a proposito dell’Europa. Ancora nel pieno della ‘guerra fredda’ fra Stati Uniti e Unione Sovietica, Curcio non solo non consente che si appanni l’idea dell’Europa, ma ne preconizza, anzi, una funzione salvifica non solo per gli europei. Mi permetto qui di citare un passo, tratto da Europa, storia di un’idea (Vallecchi, Firenze, 1958, vol. II, p. 956): "L’idea d’Europa, anche quando è parso che si dovesse cercarla nei meandri di quella intricata foresta che è la storia del pensiero, ha rivelato e rivela sempre questa sua attitudine a salire, a svettare come un immenso pino, nella folta vegetazione della storia. Sotto l’ombrello del pino, siamo, prima o poi, indotti a rifugiarci, per essere riparati e protetti, noi Europei e anche coloro che, vituperando questa vecchia Europa, non possono fare a meno di cercare la sua ombra e la sua protezione".

Quella di Curcio non è, dunque, soltanto l’Europa gaullista delle ‘patrie’. È un’Europa che indica e si regge su un autentico potere europeo, con una sua difesa armata, con una politica omogenea, con una funzione specifica, nel quadro delle grandi regioni del mondo, pienamente articolata. Non era facile, negli anni in cui Curcio intravedeva questa realtà ancora in fieri, elaborarne le caratteristiche portanti e significative. Carlo Curcio ha dato un appuntamento all’evoluzione storica che è puntualmente scattato. Per questa ragione, riflettere sul suo pensiero appare oggi più che mai necessario.

 

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