F.A. GIUNTA, Licenza di vivere. Uno spaccato di vita, Foggia, Bastogi, 2005, pp. 203.
Licenza di vivere è la ristampa - rivista e ampliata - di un volume apparso nel 1988, Notizie da Via Daniele, presto esaurito.
Bene sintetizza l’attuale titolo del libro - nella sua valenza metaforica - l’ansia e il "fuoco" esistenziali che hanno posseduto il suo protagonista, che è anche l’autore, Francesco Alberto Giunta.
Siciliano di nascita, il nostro narratore, dopo aver conseguito la laurea all’Università di Catania e, soprattutto, dopo lo choc della seconda guerra mondiale, matura, sempre più incontenibile, il desiderio di salpare da Via Daniele, dal focolare domestico d’origine, per solcare le strade - pericolose ma anche emozionanti - del mondo.
Giunta, nato nel 1925, in questo libro narra proprio la sua avventurosa gioventù negli anni quaranta, a partire dagli studi solitari, dall’ "onta di essere stati sconfitti e non vinti" dagli Alleati, dall’amore per il suo paese natio, Paternò, Civitas fertilissima, al nascente amore per la poesia dell’universo…
Gli accadimenti personali, familiari e sociali di Alberto si mescolano e si sciolgono nelle più generali e complesse vicende storiche coeve, puntualmente richiamate a cornice delle memorie dell’autore.
Come molti suoi familiari e compaesani, il protagonista, a diciotto anni, rischiò più volte la vita sotto i bombardamenti della campagna di guerra. Restò ferito. Risanò. Mentre il suo sogno di fuga - tipicamente giovanile - s’ingigantiva sempre di più.
Il suo pensiero sugli esiti bellici è riassunto in frasi di questo tenore: "I popoli soggiogati furono sì strappati alle dittature e restituiti alla libertà dei vincitori (tra questi le armate del dittatore Stalin!) i quali però, sotto l’etichetta di liberatori, imposero dure ed esose condizioni di armistizio, che quasi soffocarono le ansiose speranze dei vinti nei quali si faceva largo una cocente delusione, amara e balorda".
Alberto ricorda anche gli amori e ("la deliziosa fanciulla di nome Eugenia" e Fiorenza, "la ballerina di fila"), gli amici (con cui si riuniva alla Corda Frates), le tante e disordinate letture…
Poi, con un "arrivederci", si congeda da Via Daniele, con un "chiodo fisso nel cervello: come lasciare Catania… per conoscere il mondo e vedere "visi nuovi e vie nuove"".
La decisione fu quella di trasferirsi in Belgio, a studiare presso l’Università Cattolica di Lovanio (dopo aver ottenuto "dalla Suprema Congregazione S. Uffici la dispensa di leggere libri proibiti ed effemeridi").
L’entusiasmo del giovane farà anche i conti con le difficoltà dell’indipendenza economica: Alberto non si sottrarrà alle umili ma assai formative esperienze lavorative, visiterà Parigi, il Regno Unito, i Paesi Bassi, subirà un intervento chirurgico per ernia lontano dai suoi, pubblicherà il suo primo saggio intorno alla storia della Sicilia su una rivista universitaria ("Escholier de Louvain")…
Fino al conseguimento della Licence (anche di vivere, appunto, come si diceva) e il rientro nell’antica Katàna, in Sicilia.
In appendice, l’autore conclude l’appassionata rievocazione della sua avventurosa "educazione sentimentale" con le note di un suo viaggio d’amarcord avvenuto cinquant’anni dopo, stavolta nelle vesti di conferenziere a un congresso di linguistica.
Dopo tante "incursioni" nel mondo, oggi Giunta risiede a Roma, impegnato in attività letterarie e giornalistiche, ancora col desiderio ardente di vivere e trasmettere emozioni e passioni.
Salvatore Mugno
C. PIRRERA, Epilogo per Paolo il caldo, Messina, Intilla, 2002, pp.133.
Nel 1954, all’età di quarantasette anni, Vitaliano Brancati, una delle colonne portanti della letteratura siciliana e nazionale del Novecento, si ricovera in una clinica di Torino per un intervento chirurgico che lo condurrà alla morte. Fino alla vigilia dell’ingresso in ospedale aveva lavorato al romanzo Paolo il caldo, libro ritenuto, da molti critici, "il suo più tormentato e complesso".
Lo scrittore di Pachino, forse presago della morte imminente, decide di licenziare il testo incompiuto, aggiungendovi una nota in cui sintetizza il finale che avrebbe voluto dare alla sua ultima opera.
Carmelo Pirrera – poeta e narratore nisseno, attivo da un quarantennio sulla scena letteraria, soprattutto siciliana – con questo suo romanzo, Epilogo per Paolo il caldo, ha voluto tendere la mano all’illustre e sfortunato "predecessore", in un gesto di pietà per i suoi personaggi ma anche di simbolico continuum storico tra confrères.
Brancati avrebbe voluto aggiungere ancora qualche pagina al suo romanzo rimasto tronco. Due giorni prima di morire, detta: "Si può anche pubblicare il mio ultimo romanzo Paolo il caldo avvertendo il lettore che mancano ancora due capitoli, nei quali si sarebbe raccontato che la moglie non tornava (più) da Paolo ed egli, in successivi accessi di fantastica gelosia, si aggrovigliava sempre di più in se stesso a sentire l’ala della stupidità sfiorargli il cervello".
L’ultimo romanzo di Brancati non è, a nostro avviso, tra i suoi lavori più interessanti; spesso appare prolisso, contorto, privo di mordente. Comprendiamo, tuttavia, la "tentazione" e il tentativo – riuscito, nell’insieme – di Pirrera di dare un seguito e una conclusione alle pagine del grande e, ancora oggi, amatissimo scrittore siciliano.
Pirrera è certamente un abile narratore - come testimoniano anche le sue numerose sillogi di racconti (tra le quali ricordiamo Ipotesi sul caso Majorana, 1982, e Il colonnello non vuole morire, 1985) - e si destreggia molto efficacemente nel suo Epilogo.
Egli riparte dal punto esatto in cui Brancati si congeda, prendendo il testimone della penna ma senza imprigionarsi in un "copione" che, peraltro, era stato appena accennato in punto di morte.
Pirrera dà, in effetti, una sua autonomia e un suo stile al proprio testo, richiamando una Catania e una Sicilia più vicine ai nostri giorni, con allusioni o riferimenti, spesso sapidi e ironici, ad autori e ambienti reali, con sicura eleganza di linguaggio e con costante finezza descrittiva e introspettiva.
Sono pagine belle, interessanti, spesso intrise di commovente tenerezza, che, a loro modo, conferiscono una assai degna "conclusione" al brancatiano romanzo incompiuto: Paolo giunge all’approdo "ragionato" dell’inutilità e dell’infelicità della vita e la sua stupidità tracima, finalmente, nella follia di aggredire con le forbici la portinaia e la donna delle pulizie credute, nel suo delirio, l’atteso scassinatore dell’appartamento in cui si rintanava.
Salvatore Mugno
R. AMBROSINI, R.L. Stevenson, la poetica del romanzo, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 465
Penetrare nella complessità della produzione saggistica e narrativa di R.L. Stevenson per rintracciare un unico progetto artistico è impresa ardua e di difficile realizzazione; Richard Ambrosini è riuscito felicemente nell'intento, volgendo la sua attenzione a quei fenomeni culturali che a fine Ottocento cambiarono il rapporto romanziere-lettore e, creando un circolo ermeneutico che studia tutti gli scritti stevensoniani con rigore critico, li pone in correlazione tra di loro. Sulla scia del suo precedente studio su Conrad, Conrad's Fiction as Critical Discourse, (Cambridge University Press,1991), volto a individuare quella dimensione metanarrativa delle opere conradiane di fine Ottocento, Ambrosini è riuscito con la sua monografia R. L. Stevenson: la poetica del romanzo, a individuare "i meccanismi operanti nella fiction stevensoniana per creare un piacere della lettura entro la cornice storico-letteraria della transizione dai Grandi Vittoriani al romanzo novecentesco" (pp.14-15). Divenuto popolare grazie a saggi e a libri di viaggi caratterizzati da eleganza espositiva, Stevenson decise, in un secondo momento, di dedicarsi al romanzo e nell'attuare questa scelta riformulò la sua poetica, liberandola dai vincoli che la prosa artistica vittoriana imponeva. Questa svolta suscitò accese polemiche tra scrittori e critici letterari dell'Ottocento intorno alla figura di Stevenson; Ambrosini si propone di riscattare il romanziere dall'accusa di avere venduto la sua arte con romanzi di facile fruizione per un pubblico di massa, piegandosi così alle leggi del mercato, e nel contempo si propone anche di fare emergere la continuità tra una prima produzione stevensoniana, imperniata sulla prosa saggistica, e una seconda, basata sulla produzione narrativa e caratterizzata da una ricerca di libertà d'espressione.
Già dai primi saggi di Stevenson, Roads, A Lodging for the Night, Victor Hugo's Romances, e dalle lettere scritte da Stevenson e indirizzate al cugino Bob, a Henry James, a Sidney Colvin, emerge, a detta di Ambrosini, un duplice orientamento del pensiero stevensoniano: da un lato la costante ricerca di forme e stilemi per una rappresentazione letteraria "alta", dall'altro l'esigenza di instaurare un rapporto più diretto con il pubblico.
E questa impressione è confermata dalla seconda produzione saggistica del romanziere, quella scritta in difesa dei principi costitutivi del romance: A Gossip on Romance, A Humble Remonstrance, A Note on Realism, e dai saggi composti per Scribner's Magazine. In essi Ambrosini individua la chiave del progetto artistico stevensoniano: creare una produzione letteraria che susciti il piacere del lettore e rispecchi modelli archetipici. L'indagine di Ambrosini focalizza non soltanto le tappe del lungo ed articolato percorso che porta Stevenson ad adottare e rivendicare una teoria letteraria che lo spinge a dedicarsi alla fiction, ma identifica, inoltre, in tale teoria, il presupposto per utilizzare un registro liguistico adeguato alla trattazione di argomenti semplici, libero dalle convenzioni stereotipate nell'epoca Vittoriana. Nell'ambito di questa teoria, Ambrosini colloca le finalità cui deve mirare, secondo Stevenson, il romanziere: omettere dalla narrazione dettagli superflui che possano distogliere dall'"essential interest of the situation" e creare scene attraverso le quali il lettore riesca a collocarsi nella storia e a vivere l'avventura attraverso un personaggio, illudendosi di partecipare alle varie fasi della vicenda narrativa. E' evidente, dunque, che il romanziere fosse consapevole dell'impossibilità di racchiudere la realtà, ricca di sfaccettature, in un romanzo psicologico-realista; posizione, questa, che differisce da quella assunta da H. James in merito alla diatriba, allora in corso tra gli scrittori inglesi, sul realismo d'importazione francese. Nell'analizzare la copiosa produzione saggistica di Stevenson, Ambrosini si dedica soprattutto a far risaltare la continuità del pensiero stevensoniano: in molti saggi vengono infatti enunciate le teorie che avrebbero condotto alla creazione di Treasure Island e agli altri romanzi. Anche quelli che, forse ancora oggi, ad una lettura superficiale sono considerati i tipici espedienti della letteratura di genere (romanzo d'avventura, horror), emergono, grazie allo studio di Ambrosini, per quello che realmente erano: precise tecniche e strategie narrative che Stevenson aveva assunto come principi teorici fin dall'inizio della sua carriera e che aveva diffusamente elaborato ed enunciato nella sua produzione saggistica ed epistolare. Sia l’adozione di queste tecniche, sia l’approdo alla letteratura popolare, lungi dal rappresentare un tradimento dei principi artistici di Stevenson, sono in realtà l'applicazione di teorie che l’autore aveva più volte riformulato nei suoi saggi. Stevenson, in sostanza, finì coll’adottare consapevolmente, per la sua letteratura popolare, e dopo averlo a lungo cercato, uno stile fatto di convenzioni e meccanismi tipici del prodotto di massa per raggiungere quel "piacere della lettura" che era diventato il suo obiettivo da sempre fin da quando, bambino, ascoltava i racconti della sua governante o scriveva le sue prime storie. Treasure Island, ancora visto solo come uno dei più famosi romanzi d'avventura per ragazzi, è in realtà la storia della fascinazione del male e della lotta contro di essa, tema che ritornerà, ad ulteriore dimostrazione della continuità presente in tutta la produzione letteraria di Stevenson, nell'altro capolavoro The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde. In esso, però, accanto al tema della seduzione del male, troviamo anche il tema del doppio, un altro motivo dominante dell'opera di Stevenson, di cui Ambrosini ricostruisce la genesi. Stevenson, infatti, affrontò il concetto del doppio sotto diversi aspetti e potremmo definire avvincente il modo in cui Ambrosini ci porta a riconoscere la presenza di questo tema in tre romanzi. Dopo aver portato alla luce con il Dr. Jekyll la condizione di uomo sdoppiato nella classica contrapposizione tra bene e male, Stevenson affronta, in Kidnapped la condizione di un'altra entità sdoppiata, il suo paese, la Scozia, percorso da profonde divisioni religiose e culturali per poi arrivare a produrre, con The Master of Ballantrae: A Winter's, una perfetta sintesi tra il tema del doppio, la scissione dell'identità scozzese e la fascinazione del male. La parte dedicata a quest'opera si segnala, tra le altre cose, per il modo in cui Ambrosini aiuta ancora una volta il lettore a scorgere, nell'opera della maturità stevensoniana, i temi e i motivi dei romanzi precedenti e nello stesso tempo un'anticipazione di quelli che saranno presenti nelle opere dell'ultimo periodo della sua vita. I capitoli che Ambrosini dedica agli ultimi anni di Stevenson sono forse tra i più interessanti di tutta l'opera: dall'esperienza nei Mari del Sud nacquero delle riflessioni originali sullo scontro tra culture diverse nel Pacifico, espresse soprattutto nei racconti The Wrecker, The Beach of Falesà e The Ebb- Tide. Ancora una volta Ambrosini scorge una continuità nella scrittura stevensoniana, non certo quell'improvvisa maturazione che molti critici, tra cui Vanessa Smith, Rod Edmond e Neil Rennie, hanno voluto vedere nelle sue ultime opere. Il romanziere si sofferma soprattutto sulla ricerca di strumenti adeguati ad una rappresentazione del Pacifico e così facendo scopre un modo nuovo di rappresentare la realtà dando il massimo risalto ai popoli indigeni polinesiani per raffigurare un quadro ben diverso da quello esotico e distorto mostrato dagli scrittori europei. Ambrosini ricorda che Stevenson fu il primo scrittore europeo a guardare nel lato oscuro dell'uomo bianco, superiore e civilizzato; un lato oscuro che era già stato portato alla luce con The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde e quindi, per fare solo un esempio, il realismo di The Beach of Falesà non rappresenta una svolta nè tantomeno una scoperta di nuovi temi e stili, ma una rivisitazione di motivi già trattati in forme diverse. E a ulteriore riprova di quanto abbiano nuociuto a Stevenson le definizioni affrettate e riduttive, Ambrosini lamenta come proprio Stevenson, che era stato "il primo autore occidentale a svuotare l'impalcatura storico-culturale che in letteratura aveva cantato le gesta del colonialismo" (p.152) e che aveva tentato di liberare le "boys' stories" dal paternalismo, dal razzismo e dai buoni sentimenti che le contraddistinguevano, abbia visto immediatamente inserire Treasure Island nella cornice dell'ideologia colonialistica e sia rimasto prigioniero anche di questo luogo comune. In realtà Ambrosini ricorda che, durante la sua permanenza nel Pacifico, Stevenson si impegnò come nessun altro scrittore occidentale a difesa dei popoli colonizzati, anche se non manca un'accurata analisi dei limiti incontrati dallo scrittore nel riportare, nelle sue fiction coloniali, il punto di vista dell'altro, cioè dell'indigeno.
Le pagine dedicate a The Ebb-Tide, che concludono l'opera del romanziere, costituiscono forse la sezione più importante e originale del testo e mostrano Stevenson che si concentra nuovamente su problemi di scelte stilistiche per adeguare la sua poetica alla raffigurazione delle comunità bianche nelle colonie. Allineandosi alla posizione di Israel Zangwill, un importante leader sionista del tempo, il quale sostenne che la caratteristica fondante di The Ebb-Tide fosse la sintesi tra romanzo psicologico e d'avventura, Ambrosini rintraccia in questo racconto un ampliamento dei limiti della fiction stevensoniana in quanto il romanziere sceglie di utilizzare una pluralità di linguaggi, abolisce la narrazione in prima persona, e rappresenta simbolicamente il setting, anticipando così il realismo simbolico di Conrad. Prospettive per ulteriori linee di studio della poetica stevensoniana vengono, infine, suggerite nell'ultimo capitolo in cui il critico dimostra che le circostanze storiche e culturali per le quali Stevenson non è stato tenuto nella giusta considerazione dagli accademici inglesi, costituiscono, in realtà, le basi per una rivisitazione e rivalutazione della sua produzione. La poetica del romanzo si conclude con un capitolo dedicato alla fortuna critica di Stevenson nel Novecento ed è impreziosita da una bibliografia che fa di essa uno strumento insostituibile di consultazione e di apprendimento per gli studiosi.
Ambrosini sollecita quella coscienza critica letteraria sul romanziere della quale si fa egli stesso propulsore e garante custode. Rivalutandone la dimensione etica ed estetica, Ambrosini ci offre uno studio serio e accurato di Stevenson ma soprattutto tenta, a mio avviso riuscendoci in pieno, di restituire la giusta dignità ad uno scrittore "il cui nome viene oggi per lo più associato a scienziati dalla personalità scissa, pirati con il tricorno in testa o brume scozzesi" (p.256).
Ida Correale
Si sono divisi i testi in monografie, saggi ed articoli apparsi su periodici, studi pubblicati in volumi collettanei, antologie, scritti vari, recensioni, articoli apparsi su quotidiani, voci del Dizionario di politica e dispense per corsi di lezioni. Rispettando la successione cronologica dei vari scritti, si sono ordinate le monografie in base agli argomenti trattati ed i saggi in funzione delle riviste (secondo l’anno di pubblicazione) su cui sono apparsi.
I. MONOGRAFIE
I.1. Scritti su estetica e teoria dell’arte:
- Tre ritratti. Botticelli, Ariosto, Montagne, Napoli, Morano, 1921.
- L’estetica italiana contemporanea, Napoli, Morano, 1922.
I.2 Scritti su idealismo, liberalismo e Risorgimento:
- La vita dell’idealismo (Saggi pubblicati su "L’Idea", fra 1921-22).
- Le origini dell’idea liberale in Italia, Napoli, Alberto Morano, 1922.
- L’idea liberale, Napoli, Alberto Morano, 1922.
- L’esperienza liberale del fascismo, Napoli, Alberto Morano, 1924.
- Il pensiero politico di Bertrando Spaventa, Napoli, Alberto Morano, 1924.
- G.B. Vico. L’estetica, Bologna, Cappelli, 1925.
- L’eredità del Risorgimento, Firenze, La nuova Italia, 1931.
- La politica italiana del ‘400. Contributo alla storia del pensiero borghese, Firenze, Nuovissima, 1932.
- Dal Rinascimento alla Controriforma. Contributo alla storia del pensiero politico
italiano da Guicciardini a Botero, Roma, Colombo, 1934.
- Motivi sociali nel pensiero italiano del secolo decimottavo, s.n.t. [1937].
- La politica dei Romani, Roma, U. Quintily, 1937.
- Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul socialismo e sul liberalismo, con una introduzione intorno ai miti ed una conclusione sull’utopia, Roma, Cremonesi, 1940.
- Ideali mediterranei nel Risorgimento, Roma, Urbinati, 1941.
- Il Partito nazionale fascista, Roma, Istituto delle Relazioni Culturali con l’Estero [I.R.C.E.], 1943.
- L’idea fascista nella storia del pensiero politico italiano, Roma, I.R.C.E., 1943.
- Utopisti italiani del Cinquecento, Roma, Colombo, 1944.
- Machiavelli nel Risorgimento, Milano, Giuffrè, 1953.
- Tradizione e spirito della Spagna, Roma, Casa editrice Gismondi, 1957.
- Tradicion y espiritu de España, Sevilla, Ediciones Montejurra, 1960.
- Cesare Alfieri e le origini della scuola fiorentina di scienze politiche, Milano, Giuffrè, 1963.
- L’utopia come modello in un poligrafo italiano del Cinquecento. […] Per le nozze di Sily Giugliano e Nicola Parisio, Firenze, G. Troya, 1968.
- Nazione e autodecisione dei popoli. Due idee nella storia. Premessa di Rodolfo de Mattei, Milano, Giuffrè, 1977.
I.3. Scritti sul diritto corporativo e sul diritto del lavoro:
- Il Mezzogiorno, Firenze, Bemporad, 1928.
- Il problema metodologico nel diritto corporativo. Roma, Edizioni del ‘Diritto del Lavoro’, 1928.
- L’ordine corporativo, "L’industria umbro-sabina", 1929, nn. 3-4 (giugno-luglio), [pubblicato come volumetto, con nuova paginazione, sotto lo stesso tit.: Foligno, R. Stabilimento Feliciano Campitelli, s.d.].
- L’ideale del lavoro [conferenza tenuta all’Istituto fascista di cultura di Perugia, il 16 maggio 1929] ibid., nn.7-9 (ottobre-dicembre) [pubblicato come volumetto, con nuova paginazione, sotto lo stesso tit.: Foligno, R. Stabilimento Feliciano Campitelli, s.d.].
- Il diritto sindacale corporativo e l’unità del mondo giuridico, ‘Il diritto del lavoro’, 1929, fascc. 7-8 [pubblicato come volumetto, con nuova paginazione, sotto lo stesso tit.: Roma, Edizioni del "diritto del lavoro", 1929].
- La politica demografica del fascismo, Milano-Verona, A.. Mondadori, 1938.
- L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia e l’assistenza fascista alla madre e al bam- bino, Roma, Pallotta, 1940.
- Organi e funzione dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, Roma, Pallotta,1940.
I.4. Scritti sull’idea di Europa:
- L’Italia e l’Europa. Lineamenti e sviluppo della politica italiana, Roma, Editrice de "Il primato", 1932.
- Verso la nuova Europa, Napoli, Chiurazzi, 1934, pp. 119.
- Nazione. Europa. Umanità. Saggi di storia dell’idea di nazione e del principio di nazionalità in Italia, Milano, Giuffrè, 1950.
- Europa. Storia di un’idea, Voll. I-II. Firenze, Vallecchi, 1958.
II. PUBBLICAZIONI SU PERIODICI
"L’idea. Quaderno mensile di critica idealista"(1) (1921/1922):
- Ibid., Serie I, n. 1 (5 novembre, 1921): Filosofia vivente, pp. 1-8; La vita dell’idea- lismo. I, pp. 7-22; Introduzione alla filosofia dell’amore, pp. 23-30 (continua); Pre- testi. L’idealismo italiano, pp. 31-37;
- Ibid., n. 2 (5 dicembre 1921): Elogio della filosofia, pp. 41-44; La vita dell’idealismo. II: Cartesio, pp. 45-53; Introduzione alla filosofia dell’amore, pp. 54-57 (fine); Note di estetica. Il reale e il fantastico, pp. 58-62; Preferenze. Vauvenargues, pp. 63-67; Pretesti. La poesia dell’autunno, pp. 68-70; Hegel e la filosofia del diritto, pp. 71-73;
- Ibid., n. 3 (5 gennaio 1922): La morte e la vita di Dio, pp. 81-86; La vita dell’idea- lismo. III. Berkeley, pp. 87- 93; L’idea del diritto in Rousseau ed Hegel, pp 94-100; La filosofia dell’azione, pp. 101-107; Pretesti. L’ideale della vita nel pensiero ita- liano del Rinascimento, pp. 108-112;
"La Politica italiana". Rivista quindicinale di cultura politica diretta da Carlo Curcio (1923):
- Direzioni [I. Politica e storia; 2. Liberalismo e democrazia; 3. La patria; 4. I partiti; Conclusione], ibid., I, 1923, n. 1 (20 aprile), pp. 1-2 [questo primo, ed ultimo, numero (formato quotidiano) contiene articoli di Romolo Murri, Ugo Marchetti, Giuseppe Bottai, Francesco Coppola, ed inoltre ampie rubriche: Problemi del giorno, Rassegne della quindicina (La quindicina politica, La quindicina estera, La quindi- cina economica), Rassegne della stampa (La stampa estera, La stampa italiana), Libri e idee].
- Protezionismo e metallurgia [senza firma], ibid., p. 8.
"Critica fascista" (1924/1942):
- Oltre l’equivoco liberale, ibid., II, 1924, n. 20 (15 ottobre), pp. 653-655.
- Il Fascismo e la Monarchia, ibid., n. 22 (15 novembre), pp. 695-697.
- Verso un’epoca nuova, ibid., III, 1925, n. 1 (1 gennaio), pp. 4-6.
- Parte seconda, ibid., IV, 1926, n. 4 (15 febbraio), pp. 61-62.
- Il tramonto dei partiti e la trasformazione della società italiana, ibid., n. 23 (1 di- cembre), pp. 445-446.
- Rassegna estera e coloniale (nella rubrica: Rassegne di Politica e Cultura), ibid., V, 1927, n. 5 (1 marzo), pp. 95-96; n. 6 (15 marzo), pp. 118-119; n. 7 (1 aprile), pp. 136-137; n. 8 (15 aprile), pp. 157-158; n. 9 (1 maggio), pp. 177-178; n. 10 (15 maggio), pp. 196-197; n. 11 (1 giugno), pp. 215-216; n. 12 (15 giugno), pp. 235-236; n. 13 (1 luglio), pp. 255-256; n. 14 (15 luglio), pp. 276-277; n. 15 (1 agosto), pp. 297-298; n. 16 (15 agosto), pp. 317-318; n. 17 (1 settembre), p. 336; n. 18 (15 settembre), pp. 356-357; n. 19 (1 ottobre), p. 376; n. 20 (15 ottobre), pp. 397-398; n. 21 (1 novem- bre), pp. 417-418; n. 22 (15 novembre), pp. 435-436; n. 23 (1 dicembre), pp. 456- 457; n. 24 (15 dicembre), pp. 475-476.
- Rassegna estera e coloniale (nella rubrica: Rassegne di Politica e Cultura), ibid., VI, 1928: n. 1 (1 gennaio): La relazione di Mussolini al consiglio dei ministri. - Pro- blemi e sviluppi libici. - La rivolta rossa di Canton, p. 16; n. 2 (15 gennaio): La guerra fuori legge e l’ultima utopia americana. - I sovrani dell’Afganistan a Roma. - Italia e Turchia, pp. 36-37; n. 3 (1 febbraio), La conferenza panamericana e la po- litica degli Stati Uniti. - La missione uruguaiana e il ministro degli esteri romeno a Roma. - L’arrivo del nuovo ambasciatore di Francia, pp. 57-58; n. 4 (15 febbraio): Italia, Romania e Piccola Intesa. - Dalla conferenza dell’Avana alle discussioni franco tedesche per il Reno, pp. 77-78; n. 5 (1 marzo): Italia, Austria e Alto Adige. - Il problema della sicurezza e dell’arbitrato a Ginevra. - Il nuovo Gabinetto Iugo- slavo. - L’occupazione della Giofra in Tripolitania e l’inaugurazione della II Fiera di Tripoli, pp. 97-98; n. 6 (15 marzo): La risposta del Duce a Seipel e la campagna pangermanista contro l’Italia.- Ginevra, la Piccola Intesa e l’incidente di S. Got- tardo. - La conferenza per Tangeri e l’Italia. - L’occupazione di Zella e Gialo in Tripolitania , pp. 117-118; n. 7 (1 aprile): La conferenza per Tangeri. - Il torneo gi- nevrino per il disarmo. - L’occupazione di Merada in Libia, p.136; n. 8 (15 aprile): La politica dell’Italia e la sua portata internazionale. - Parker Gilbert e la revisione del piano Dawes. - La tensione anglo-egiziana, p. 157; n. 9 (1 maggio): L’amicizia italo-polacca.- Italia e Ungheria. - Un patto d’arbitrato tra Italia e Stati Uniti. - Le elezioni politiche in Francia. - Il viaggio dei Sovrani in Tripolitania. - La tutela del lavoro italiano all’estero, pp. 177-178; n. 10 (15 maggio): La nuova rete consolare italiana e la tutela degli italiani all’estero. - Il Giappone e la Cina. - Nei Balcani. - La chiusura dell’incidente anglo-egiziano.- La Francia dopo le elezioni, pp. 197- 198; n. 11 (1 giugno): Il bilancio delle nostre colonie. - Le elezioni tedesche, pp. 215-216; n. 12 (15 giugno): Il discorso del Duce al Senato. - L’Italia e l’Europa. - Piccola Intesa e Balcani. - La politica dei trattati. L’Italia e il mondo, pp. 236-237; n. 13 (1 luglio): La Piccola Intesa. - Gli avvenimenti iugoslavi, pp. 256-257; n. 14 (15 luglio): I rapporti italo-austriaci.- Il nuovo ministero tedesco. - Il ritorno di Venizelos. - Nuovi trattati commerciali, p. 277; n. 15 (1 agosto): L’Italia a Tangeri. - Il patto contro la guerra e l’adesione dell’Italia. - Operazioni in Tripolitania, pp. 296-297; n. 16 (15 agosto): La nuova intesa franco-inglese. - Il nuovo Gabinetto iugoslavo e la morte di Radicembre - Il trattato italo-abissino, p. 316; n. 17 (1 set- tembre): La ratifica delle convenzioni di Nettuno e i rapporti italo-iugoslavi.- Il trattato italo-finlandese, p.336; n. 18 (15 settembre): La proclamazione di Ahmed Zogu a Re d’Albania. - La firma del patto Kellog e la IX Assemblea della Società della Nazioni, pp. 356-357; n. 19 (1 ottobre): Il trattato Italo-greco, pp. 376-377; n. 20 (15 ottobre): Il compromesso navale anglo-francese e l’atteggiamento dell’Italia. - I lavori di Ginevra e le trattative per lo sgombero della Renania. - L’incoronazione di Ras Tafari a Re, pp. 396-397; n. 21 (1 novembre): La pubblicazione dei documenti sul compromesso navale. - Il problema delle riparazioni e la revisione del patto Dawes, pp. 416-417; n. 22 (15 novembre): Le elezioni presidenziali americane. - La crisi francese. - Provvedimenti per le colonie, pp. 436-437; n. 23 (1 dicembre): Il problema delle riparazioni. - La nuova situazione in Romania, pp. 456-457; n. 24 (15 dicembre): Italia e Francia. - L’Italia e la pace, pp. 476-477.
- La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia, ibid., VI, 1928, n. 9 (1 maggio).
- La politica internazionale e l’Italia, ibid., VII, 1929, n. 1 (1 gennaio), pp. 6-8.
- Gli avvenimenti dell’Afganistan, ibid., n. 3 (1 febbraio), pp. 60-61.
- Il problema universitario, ibid., n. 8 (15 aprile), pp. 148-150.
- Mussolini e la stabilizzazione della pace europea, ibid., n. 12 (15 giugno), pp. 230-231.
- Aspetti dell’imperialismo inglese, ibid., n. 19 (1 ottobre), pp. 375-377.
- Aspetti dell’imperialismo inglese. Il mandato sul Tanganika, ibid., n. 21 (1 novem- bre), pp. 415-417.
- Il disarmo navale e l’Italia, ibid., 24 (15 dicembre), pp. 482-483.
- I giovani di fronte alla Rivoluzione, ibid., VIII, 1930, n. 3 (1 febbraio), p. 45.
- Guerra e dopoguerra, ibid., XX, 1942, n. 15 (1 giugno), pp. 202-203.
"L’Arduo" (1925):
- L’estetica di Poe, ibid., 1925.
"La Montagna" (1925):
- Trattatello intorno alle origini i mezzi ed i fini delle rivoluzioni [su Vincenzo Cuoco], ibid., 1925.
- Dizionarietto politico per l’anno 1925, ibid., s.d. [ma 1925], pp. 9-10; (segue sul fasc. seguente: pp. 9-10).
- Maurras, ibid., s.d. [pp. 9-10].
"Bylichnis" (1925):
- La bellezza del misticismo, ibid., 1925, pp. 365-373.
"Il Giornale della cultura italiana" (1925):
- La politica di Vico e i tempi nostri, ibid., I, 1925, n. 6, pp. 1-8.
- Il dramma della Destra, ibid., n. 4 (15 febbraio), pp. 67-68.
- Ritratto politico del piccolo borghese italiano, ibid., n. 7 (1 aprile), pp. 129-130.
- Il Mezzogiorno e la nuova politica nazionale, ibid., n. 14 (15 luglio), pp. 261-265; n. 15 (1 agosto), pp. 281-285; n. 16 (15 agosto), pp. 310-314.
- L’Internazionale bianca, ibid., n. 20 (15 ottobre), pp. 385-386.
- La legge contro i fuoriusciti, ibid., n. 23 (1 dicembre), pp. 443-444.
"Educazione politica" (1925):
- De Monarchia, ibid., 1925, X.
"Lo Stato Corporativo". Rivista di dottrina e di prassi sindacale (1926/1927):
- Le Classi nello Stato corporativo, ibid., I, 1926, n. 1 (novembre), pp. 10-16.
- Le funzioni extraeconomiche delle associazioni sindacali, ibid., n. 2 (dicembre), pp. 1-20.
- L’extraeconomicità dei sindacati, ibid., II, 1927.
"Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto" (1926/1968):
- Il concetto di legge nel pensiero italiano del secolo XVI, ibid., VI, 1926, fasc. III (luglio-settembre), pp. 387-398.
- Cattolici al bivio, ibid., n. 6 (15 mar), p. 113.
- I nuovi ‘antichi e moderni’, ibid., n. 21 (1 novembre), pp. 400-401.
- Lineamenti filosofico-giuridici dell’ordinamento corporativo, ibid., VII, 1927, fasc. III (maggio-giugno), [nella rubrica: Note e discussioni] , pp. 335-339.
- La modernità di Machiavelli, ibid., fascc. IV-V (luglio-ottobre), pp. 431-442.
- La trasformazione dello Stato, ibid., VIII, 1928, fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 68-73.
- L’eredità romana nel pensiero politico italiano del Medio Evo, ibid., fasc. II (marzo- aprile), pp. 179-224.
- Il rinnovamento dell’idea di diritto nel pensiero italiano del Rinascimento, ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 285-304.
- Per una metodologia della storia delle dottrine politiche, ibid., IX, 1929, fasc. VI, pp. 830-845.
- Per la teoria generale dello Stato fascista, ibid., X, 1930, fasc. II (marzo-aprile), pp. 275-283.
- Pluralismo giuridico e unità dello Stato, ibid., XI, 1931, fasc. VI (novembre-dicem- bre), pp. 656-662.
- La coscienza dello Stato. Note per la storia del concetto di nazione, ibid., fasc. II (marzo-aprile), pp. 201-234.
- Machiavelli nel Risorgimento, ibid., XIV, 1934, fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 12-48.
- L’ottavo Congresso internazionale di filosofia [nella rubrica: Notizie], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 767-771.
- La politica di Baldo, ibid., XVII, 1937, fasc. II (marzo-aprile), pp. 113-139.
- Enrico Ruta (1869-1938) [necrologio], ibid., XXIV, 1947, S. III., fascc. II-IV (aprile- dicembre), pp. 226-229.
- Sul pensiero giuridico e politico di Leibniz, ibid., XXIX, 1952, S. III., fasc. III (luglio- settembre), pp. 283-290.
- Sulla concezione kantiana del progresso umano, ibid., XXXI, 1954, fasc. II (aprile- maggio), pp. 285-289.
- Friederick Meinecke, ibid., pp. 297-304.
- Intorno a P.S. Mancini e al principio di nazionalità, ibid., 1955.
- Il Giannone ieri ed oggi [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VI (novem- bre-dicembre), pp. 779-785.
- Fortuna e sfortuna di G.B. Vico, ibidem, fasc. II (marzo-aprile), pp. 230-233.
- Sul pensiero politico e la storia politica di Firenze nel Cinquecento [rec. a Rudolf von ALBERTINI, Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern, Francke Verlag, 1955], ibid., XXXIV, 1957, n. 1 (gennaio-feb- braio), pp. 87-91.
- Etica coloniale e dignità umana, ibid., XXXV, 1958, fasc. V (settembre-ottobre), pp. 598-603.
- Sulle origini della storiografia delle dottrine politiche, ibid., pp. 494-516.
- Idea dell’Italia, ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 711-717.
- Paolo Treves tra ‘ragion di Stato’ e Restaurazione, ibidem, ibid., fasc. II (aprile-giu- gno), pp. 182-193.
- Uno storico del pensiero politico agostiniano, p. Ugo Mariani [nella rubrica: Profili], ibid., fasc. III (luglio-settembre), pp. 316-325.
- Il sapere come prassi e come libertà [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., XLII, 1965, fasc. II (aprile-giugno), pp. 324-330.
- Repubbliche e principati ‘immaginati’ prima del Machiavelli, ibid., fasc. IV (ottobre- dicembre), pp. 645-672.
- Verso una nuova utopia [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., pp.717-725.
- Una storia delle idee politiche e sociali [a proposito di: Kurt SCHILLING, Storia delle idee politiche e sociali, Milano, Garzanti, 1965], ibid., XLIII, 1966, S. III, fasc. II (aprile-giugno), pp. 331-344.
- La storia delle dottrine politiche di Gaetano Mosca, ibid., XLIV, 1967, fasc. II (aprile- giugno), pp. 215-238.
- Rileggendo la ‘repubblica’ di Platone , ibid., XLV, 1968, S. IV, fascc. III-IV (luglio- dicembre), pp. 498-523.
"Sud" (1927):
- L’emigrazione italiana nel Mediterraneo, ibid., I, 1927, n. 1 (15 gennaio), pp. 32-36).
- La funzione del Mezzogiorno nel Mediterraneo, ibid., n. 2 (20 marzo), pp. 82-91.
- La coscienza mediterranea negli scrittori del Risorgimento (I-IV), ibid., nn. 3-4 (marzo-aprile), pp. 121-131 [continua, ma cambia tit. nei seguenti nn. 5-6].
- La coscienza mediterranea dell’Italia negli scrittori del Risorgimento (V-IX), ibid., nn. 5-6 (maggio-giugno), pp. 182-189. [sotto questo tit. sono pubblicati il prece- dente articolo e questo che ne è la continuazione: Roma, Edizioni di "Sud", 1927].
"Vita Nova" (1927):
- La crisi e la trasformazione del diritto, ibid., settembre, 1927.
"Zeitschrift für Politik" (1930):
- Die geistigen Grundlagen der korporativen Ordnung in Italien, ibid., XX, 1930, heft 6 (Sept.), pp. 399-411.
"Lo Stato". Rivista di scienze politiche, giuridiche ed economiche (1930/1942):
- Fascismo e università, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., I, 1930, fasc. I (gen- naio-febbraio), pp. 60-61.
- Motivi di lotta ideale, ibid., pp. 62-64.
- Crisi dello Stato e forze economiche, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., fasc. II (marzo-aprile), pp. 209-210.
- Recenti dottrine italiane di diritto internazionale, ibid., pp. 210-215.
- I movimenti delle classi sociali, ibid., p. 215.
- Sindacalismo antico, ibid., pp. 215-216.
- Il Consiglio legislativo rumeno, ibid., p. 217.
- Il contratto di lavoro in Russia, ibid., pp. 217-221.
- La proprietà e il socialismo, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 345-346.
- Umanismo e diritto, ibid., p. 246.
- Studi sociali, ibid., pp. 346-347.
- Teorie del lavoro, ibid., pp. 347-348.
- Il problema della nazionalità, ibid., p. 349.
- Politica corporativa, ibid., fasc. IV (luglio-agosto), pp. 429-437.
- Tendenze nuove della dottrina tedesca: C. Schmitt, [nella rubrica: Note e discussio- ni], ibid., pp. 480-484.
- I fuorusciti italiani di fronte al diritto, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., p. 485.
- Le riforme costituzionali ed amministrative fasciste, ibid., p. 486.
- Un teorico dello Stato, ibid., pp. 486-489.
- Sorel e il fascismo, ibid., p. 489.
- Teorie anti-individualiste, ibid., pp. 489-490.
- Un corporativista italiano di trent’anni fa [G. Velio Ballarini], (nella rubrica: Note e discussioni), ibid., fasc. V (settembre-ottobre), pp. 587-589.
- Un critico della Rivoluzione francese [Edmund Burke], (nella rubrica: Rassegna delle riviste), ibid., pp. 590-592.
- Sempre intorno alla crisi dello Stato, ibid., pp. 592-593.
- Per una riforma dello Stato, ibid., pp. 593-594.
- Il Partito e lo Stato, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VI (novembre- dicembre), pp. 675-677.
- Delusioni bolsceviche, ibid., pp. 682-684.
- Colonie e problema sociale, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., p. 685.
- Psicologia e politica, ibid., pp. 685-686.
- Democrazia e forze dello spirito, ibid., p. 686.
- La crisi della giuria popolare, ibid., pp. 686-687.
- Intorno al concetto di rivoluzione, ibid., pp. 687-688.
- I problemi del diritto corporativo , ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 412-422.
- L’ostetrica del diritto. Note per la storia del concetto di rivoluzione, ibid., fasc. (no- vembre-dicembre), pp. 720-754.
- La marcia sul mondo, ibid., II, 1931, fasc. I (gennaio), pp. 19-30.
- La Rivoluzione e la cultura, ibid., pp. 52-55.
- Democrazia e dittatura, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., p. 63.
- Pluralismo e unità, ibid., pp. 63-64.
- Sul parlamentarismo, ibid., pp. 64-65.
- Corporativismo cattolico, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., fasc. II (feb- braio), p. 139.
- Intorno alla dittatura, ibid., pp. 139-140.
- Le forme organizzative della società, ibid., pp. 140-141.
- La crisi dello Stato e la sociologia, ibid., p. 141.
- Compromessi impossibili, ibid., fasc. III (marzo), pp. 216-218.
- La decomposizione storica del liberalismo, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., pp. 223-225.
- La politica sociale, ibid., p. 225.
- Per la ‘Rerum novarum’, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. IV (aprile), pp. 285-287.
- La crisi della sovranità?, ibid., pp. 306-307.
- Oltre i confini, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., pp. 308-309.
- La democrazia e la crisi della fede politica, ibid., pp. 309-310.
- Federazione di Stati e Stato corporativo, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. V (maggio), pp. 365-368.
- La formazione dei concetti nel diritto pubblico, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., pp. 376-377.
- La tendenza oligarchica nei partiti, ibid., pp. 377-378.
- Il concetto di nazione e quello di rappresentanza, ibid., p. 378.
- Il Fascismo come rivoluzione integrale, ibid., p. 379.
- Una profezia di Nietzsche, ibid., pp. 379-380.
- La ‘Quadragesimo anno’ e l’ordinamento corporativo fascista, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VI (giugno), pp. 442-444.
- Libertà e gerarchia, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., p. 451.
- Un programma di restaurazione dello Stato, ibid., pp. 451-452.
- I nuovi principii del diritto ecclesiastico, ibid., pp. 452-453.
- Sociologia e Nazione, ibid., p. 453.
- Anti-Rousseau?, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VII (luglio), pp. 530- 534.
- Razionalismo… ‘et ultra’, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., pp. 588-590.
- Socialismo e miseria, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., p. 604.
- La guerra e la vita, ibid., pp. 604-605.
- Le premesse storiche della legislazione fascista, ibid., pp. 605-607.
- Per la vita dello Stato, ibid., pp. 607-608.
- L’unità dello Stato e l’esempio fascista, ibid., pp. 608-609.
- Tecnica e spirito nello Stato, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., fasc. IX (settembre), pp. 670-671.
- Lo Stato per lo Stato, ibid., pp. 671-672.
- Le nuove costituzioni e la crisi politica, ibid., pp. 672-673.
- Direttive politiche e orientamenti ideali, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. X (ottobre), pp. 736-738.
- Liberalismo, borghesia e capitalismo, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., pp. 752-753.
- Il Corporativismo e l’iniziativa individuale, ibid., pp. 753-754.
- La politica e la storia delle teorie, ibid., pp. 754-755.
- Il centenario di Hegel, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. XI (novembre), p. 802.
- Stato e diritto nella recentissima letteratura italiana, [nella rubrica: Rassegna di dottrina e di giurisprudenza], ibid., pp. 818-832.
- Psicoanalisi, economia e politica, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., pp. 833-834.
- Fascismo, germanesimo e crisi dello Stato, ibid., pp. 834-836.
- Liberalismo e politica antica, ibid., fasc. XII (dicembre), pp. 858-873.
- Guerra e liberalismo, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., p. 912.
- Politica, diritto e Stato, ibid., pp. 912-914.
- Per un Patriziato del Regime, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., III, 1932, fasc. I (gennaio), pp. 52-53.
- La politica ‘more geometrico’, ibid., pp. 53-54.
- Esperienze sindacaliste, ibid., p. 54.
- I partiti, le dottrine e la storia, ibid., pp. 55-56.
- La ‘teoria della politica’ di Enrico Leone, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. II (febbraio), pp. 119-125.
- Il regime politico sud-americano, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., pp. 140-141.
- Una nobile concezione del Fascismo, ibid., pp. 141-143.
- Il Fascismo e il problema spirituale della Politica, ibid., pp. 143-144.
- A proposito del giuramento dei professori universitari, ibid., pp. 144-145.
- Nuove interpretazioni straniere del Fascismo, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., fasc. III (marzo), pp. 227-228.
- Hegel e la sociologia, ibid., p. 229.
- Stato, diritto e materialismo storico, ibid., pp. 229-230.
- Il problema dello Stato moderno, ibid., pp. 230-231.
- Concludere, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. IV (aprile), pp. 297-300.
- La crisi della dogmatica, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., pp. 310.
- Le associazioni professionali e l’organizzazione amministrativa dello Stato, ibid., pp. 310-311.
- Politica sociale e politica generale, ibid., p. 311.
- Politica, economia e morale, ibid., p. 312.
- La rivoluzione tedesca, ibid., pp. 312-313.
- La grande borghese, [nella rubrica: Rassegna delle riviste], ibid., fasc. VI (giugno), p. 462.
- Due politiche, ibid., pp. 462-463.
- Demagogia e logica politica, ibid., pp. 463-465.
- Stato universale-organico e Stato fascista, ibid., fasc. VII (luglio), pp. 484-491.
- Oltre il diritto, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VIII (agosto), pp. 610- 612.
- Lo Stato, la guerra e la pace, ibid., fasc. X (ottobre), pp. 707-714.
- Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’), [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fascc. XI-XII (novembre-dicembre), pp. 802-805.
- Problemi della politica, ibid., IV, 1933, fasc. I (gennaio), pp. 6-15.
- Un ammonimento: la mostra della Rivoluzione, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. III (marzo), pp. 209-211.
- Per una collana di ‘Classici del diritto’, ibid., pp.227-229.
- C’est la faute à Voltaire?, [nella rubrica : Note e discussioni], ibid., fasc. IV (aprile), pp. 289-291.
- Un pericolo per l’Europa, [nella rubrica : Note e discussioni], ibid., fasc. V (mag- gio), pp. 375-378.
- Unità di cultura e unità di indirizzo, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VI (giugno), pp. 428-429.
- Federalismo o internazionalismo?, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VII (luglio), pp. 532-533.
- Oltre la crisi, ibid., pp. 534-536.
- Verso la nuova Europa, ibid., fascc. VIII-IX (agosto-settembre), pp. 591-605.
- Fusione ed unità degli italiani, ibid., [nella rubrica : Note e discussioni], pp. 623- 628.
- Eroismo e disciplina, ibid., pp. 628-631.
- Germanesimo antiromano?, [nella rubrica : Note e discussioni], ibid., fasc. X (otto- bre), pp. 702-704.
- Un discorso, ibid., pp. 718-720.
- Politica e razionalizzazione, ibid., nn. 4-6 (ottobre-dicembre), pp. 147-165.
- Nostra rivoluzione, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., V, 1934, fasc. I (gen- naio), p. 42-45.
- L’estremo Oriente e Roma, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. II (feb- braio), pp. 138-141.
- Contenuto, funzioni ed aspetti politici del Partito Nazionale Fascista, ibid., fasc. III (marzo), pp. 161-171.
- Per la salvezza d’ Europa, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VI (giugno), p. 453-457.
- Esperienze europee, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VII (luglio), pp. 544-546.
- Forze Armate e politica, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fascc. VIII-IX (agosto-settembre), pp. 605-607.
- Malta e l’Italia, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. X (ottobre), pp. 688- 692.
- La nazione militare, ibid., VI, 1935, fasc. I (gennaio), pp. 31-40.
- L’accordo italo-francese e la pace europea, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., pp. 44-47.
- Per l’unità morale della nazione, ibid., pp. 51-54.
- Dopo gli accordi di Roma e di Londra, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. II (febbraio), pp. 133-136.
- La tecnica e lo Stato, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. III (marzo), pp. 218-220
- I littoriali e i giovani, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. IV (aprile), pp. 279-282.
- Spirito e limiti della storia d’Italia, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., pp. 282-286.
- Per l’economia nazionale, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. V (maggio), pp. 355-357.
- Realismo mussoliniano e forza nazionale, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. VI (giugno), pp. 438-441.
- L’epoca della politica, ibid., fasc. X (ottobre), pp. 668-670
- Illogicità delle sanzioni, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., pp. 672-674.
- Fierezza nazionale, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fascc. XI-XII (novem- bre-dicembre), pp. 761-764.
- Per la civiltà bianca, [nella rubrica Note e discussioni], ibid., VII, 1936, fasc. I (gen- naio), pp. 49-51.
- Lotta di valori e d’ideali, ibid., fasc. II (febbraio), pp. 65-68.
- Forza e lealtà dell’Italia, [nella rubrica Note e discussioni], ibid., fasc. III (marzo), pp. 174-176.
- Giovani d’oggi, [nella rubrica Note e discussioni], ibid., pp. 176-179.
- L’ordinamento politico dell’Impero etiopico: è segnalato da: ibid.,
- Valore storico dell’Impero, [nella rubrica Note e discussioni], ibid., pp. 292
- Aspetti della politica economica giapponese, [nella rubrica Note e discussioni], ibid., fasc. V (maggio), pp. 371-373.
- Caratteri ed origini del pensiero politico romano, ibid., fasc. VII (luglio), pp. 393-405.
- La Politica dei Romani: la dottrina dello Stato, ibid., fasc. VIII (agosto), pp. 462-472.
- La Politica dei Romani: l’apogeo dell’Impero, ibid., fascc. IX-X (settembre-ottobre), pp. 541-551.
- Esperienze socialiste, [nella rubrica Note e discussioni], ibid., pp. 561-564.
- La Politica dei Romani: morale e diritto, ibid., fasc. XI (novembre), pp. 618-630.
- Gaetano Mosca e la scienza politica in Italia, ibid., 1942, XIII, fasc. II, pp. 45-61.
"Il giornale economico" (1931):
- Politica e cooperazione, ibid., 1931, fasc. I [pubblicato come volumetto, sotto lo stesso tit., con nuova paginazione].
"Politica Nuova" (1936/1938):
- Giordano Bruno visto oggi, ibid., IV, 1936, n. 9 (30 settembre), pp. 432-437.
- Giordano Bruno visto oggi, ibid., V, 1937, pp. 432-437.
- Considerazioni sull’idea di dittatura, ibid., VI, 1938, n. 4 (30 aprile), pp. 229-232.
"Bollettino della R. Deputazione di storia patria per l’Umbria" (1937):
- Il patriottismo di Baldo, ibid., XXXIV, 1937.
"Rassegna economica dell’Africa italiana" (1937/1939):
- Senso rivoluzionario dell’Impero, ibid., 1937, n. 7.
- Colonizzazione e Impero, ibid., 1938, n. 2.
- Razza, colonizzazione, impero, ibid., 1939, n. 8.
"Annali della Facoltà di Giurisprudenza della Università di Perugina" (1940-41/1949/50):
- Il pensiero sociale di un riformatore italiano del settecento [Giambattista Pini], ibid., Anno 1940-41, pp. 25-36. [Si veda l’ampliamento di questo scritto in: Un ri- formatore ligure del settecento Giambattista Pini, 1968].
- Caratteri e momenti del pensiero politico umbro, ibid., vol. LIX, 1949-50.
"Soziale Praxis. Zeitschrift für Aktienwesen, Gesellschaftrecht und Sozialpolitik" (1942):
- Die italienische Bevölkerungs-und Rassen-Politik, ibid., LI, 1942, Heft 8 (August), coll. 345-350.
"Civiltà fascista" (1943):
- Le origini del sindacalismo rivoluzionario in Italia, ibid., 1943, fasc. di maggio, pp. 446-457.
"Dalmazia" (1943):
- La Dalmazia nel pensiero politico italiano del Risorgimento, ibid., 1943, n. 1, pp. 17-23.
"Fascismo" (1943):
- Il pensiero politico italiano contemporaneo, ibid., 1943, pp. 382-404. "Ulisse" (1948/1954):
- Formazione e sviluppi dell’idea di Europa, ibid., II, 1948, fasc. IV, pp. 480-490.
- L’iniziativa cattolica nel mondo del lavoro, ibid., VIII, 1954, fasc. XX, pp. 304-311.
"Pagine libere" (1948/1957):
- Delle Facoltà politiche in Italia. Prevenzioni, esperienze, proposte, ibid., 1948, fasc. maggio-giugno, pp. 178-184.
- La fine del Dio Termine, ibid., 1949, fasc. di gennaio-febbraio.
- Sindacalisti e nazionalisti a Perugia fra il 1928 e il 1933 (Sergio Panunzio e la fa- coltà perugina. I docenti di Scienze politiche a Perugia: Michels, Orano, Maravi- glia, Coppola, Pianini, Pagano, Olivetti. La morte di A. O. Olivetti. I giovani e Pa- nunzio. Le serate al ‘Brufani’: i discorsi di storia, letteratura e politica; problemi sociali e corporativismo. Morti da non dimenticare), ibid., 1956, fasc. di dicembre, pp. 19-26.
- Caporetto ha quarant’anni, ibid., 1957, fasc. di ottobre-novembre.
"Famiglia e civiltà" (1951):
- Politica e famiglia, ibid., 1951, nn. 3-4.
- Intorno ad alcuni recenti lavori di storia di filosofia del diritto, ibid., fasc. IV (otto- bre-dicembre), pp. 761-766.
"Rassegna di cultura e vita scolastica" (1951/1967):
- Il pensiero politico italiano, ibid., V, 1951, n. 3.
- Poesia e verità de ‘lo secol primo’, ibid., VI, 1952, n. 1 (31 gennaio), pp. 1-3.
- La Spagna e l’Europa, ibid., X, 1956, n. 1 (gennaio), p. 1.
- L’Albergaccio, ibid., XVI, 1962, nn. 7-8 (luglio-agosto).
- Seneca fra utopia e realtà, ibid., XIX, 1965, n. 10 (31 ottobre).
- Dialogo di un affarista e un idealista. Nella patria di Grozio, ibid., XIX, 1965, n. 4 (30 aprile), pp. 2-3.
- Renan fra nazione e umanità, ibid., XXI, 1967, nn. 7-8 (luglio-agosto), pp. 1-3.
"Studi politici" (1953-54/1958):
- Il problema coloniale, ibid., II, 1953-54, fascc. III-IV (settembre 1953-febbraio 1954).
- C. Alfieri e le origini della scuola fiorentina di scienze politiche, ibid., IV, 1958, fasc. IV, pp. 663-690.
"Annali della Pubblica Istruzione" (1955/1970):
- Gli ottant’anni della ‘Cesare Alfieri’, ibid., I, 1955, nn. 6-7 [estratto con paginazio- ne propria].
- Le scuole universitarie di perfezionamento, ibid., III, 1957, n. 1, pp. 3-8.
- Piccole università, ibid., IV, 1958, n. 5, pp. 324-329.
- La libera docenza ieri e oggi, ibid., V, 1959, n. 3, pp. 274-281.
- Letture [:] Le accademie del ‘saggio governo’ di L.A. Muratori; Due titoli, ma entrambi scientifici; Specializzazione sì e specializzazione no; Università piccole sì, minime no; L’università europea università integrativa, ibid., VI, 1960, n. 5, pp. 541-546.
- Ragguaglio di Giuseppe Montanelli, ibid., VII, 1961, n. 2 (marzo-aprile), pp. 139-154.
- Venti settembre. Roma: tante idee, una idea, ibid., XVI, 1970, nn. 4/5 (luglio-otto- bre), pp. 416-423.
"Dialoghi" (1956/1966):
- Ragguagli del Cattaneo, ibid., IV, 1956, fasc. di gennaio-marzo, p. 19.
- Poesia e verità de lo Secol primo, ibid., IX, 1961, n. 4 (settembre-ottobre), pp. 397- 416.
- Motivi vichiani, ibid., XIV, 1966, nn. 4-5 (luglio-ottobre). [Estratto con paginazione propria].
"Alere Flammam". Rivista della Scuola di Guerra (1957):
- Europa e Africa [Conferenza tenuta l’11 giugno 1957 agli ufficiali frequentatori dell’ VIII corso superiore di Stato Maggiore], ibid., II, 1957, fascc. di luglio-agosto [estratto con paginazione propria].
"Europa". Rivista bimestrale diretta da Carlo Curcio (1957):
- Considerazioni sul Mercato comune e sull’Euratom, ibid., I, 1957, n. 1 (maggio-giu- gno), pp. 22-30.
- Sentimenti di patrie, ibid., pp. 40-44.
- Perché l’idea europea non è popolare in Italia, ibid., pp. 50-51.
- Nazionalità ed europeità nella cultura e nell’arte, ibid., pp. 58-59.
- Intendimenti antichi e nuovi dell’ Europa, ibid., nn. 2-3 (ottobre), pp. 132-143.
- Europa e Africa, ibid., n. 3, pp. 180-191.
- Problemi storici dell’Europa del Rinascimento, ibid., n. 4 (novembre-dicembre), pp. 289-298.
- Ancora Paneuropa?, ibid., pp. 308-310.
- Un ponte sull’ Europa, ibid., pp. 310-311.
"Bollettino della Scuola di perfezionamento e di specializzazione in Diritto del lavoro e della sicurezza sociale. Università degli Studi di Trieste" (1958/1964):
- Problemi del lavoro nel pensiero italiano del primo ottocento, ibid., V, 1958, n. 13 (marzo).
- Lavoro e non lavoro, ibid., n. 14 (ottobre).
- Riposa, non disperare!, ibid., 1960, nn. 17-18.
- Per una storia delle idee previdenziali, ibid., VIII, 1962, n. del 23 ottobre, pp. 4-6.
- Note per la storia dell’idea di lavoro e non-lavoro, ibid., IX, 1963, nn. 25/27 (gen- naio-dicembre), pp. 21-23..
- Ancora qualche nota sull’idea di lavoro e non-lavoro, ibid., X, 1964, n. 30 (dicem- bre), pp. 6-8.
"Economia e storia. Rivista italiana di storia economica e sociale" (1959):
- Il Muratori e le origini dell’idea di assistenza, ibid., 1959, fasc. III, pp. 499-506.
"Revista de Estudios Politicos" (1960):
- La teoria y la practica en politica consideradas por un historiador de las Doctrinas politicas, ibid., 1960, n. 109 (gennaio-febbraio), pp. 117-129.
"Rivista degli infortuni e delle malattie professionali" (1960/1961):
- Sulle origini dell’idea di sicurezza sociale, ibid., 1960, n. 1 (gennaio-febbraio) [estratto con paginazione propria].
- I primi passi dell’assicurazione infortuni in Italia, ibid., 1961, nn. 3-4 (maggio-ago- sto), pp. 459-481.
"Anales de la Catedra Francisco Suarez" (1961):
- Sociedad y historia en G. B. Vico, ibid., 1961, fasc. 2.
"Previdenza sociale" (1961):
- Idee e discussioni intorno alla previdenza nel Risorgimento e dopo, ibid., XVII, 1961, n. 4 (luglio-agosto). [estratto con paginazione propria: Roma, I.N.P.S., 1961, pp. V, 1-47].
"Vita italiana" (1961):
- Incontro di civiltà, ibid., 1961, n. 26, pp. 42-48.
"Credito popolare" (1961):
- Profilo della nuova Africa, ibid., 1961, n. 3. [estratto con paginazione propria].
"Mercurio" (1962):
- La previdenza sociale nel Risorgimento e dopo, ibid., 1962, fasc. di maggio, pp. 8-14.
"Cultura e scuola" (1962/1968):
- L’idea d’Europa, ibid., 1962, n. 5 (settembre-novembre). [Estratto con paginazione propria].
- Prospettive e problemi del pensiero politico dell’illuminismo, ibid., 1963, n. 7 (marzo-maggio), pp. 120-126.
- La nuova utopia, ibid., 1968, n. 28 (ottobre-dicembre). [Estratto con paginazione
propria].
"Rivista internazionale di filosofia politica e sociale e di diritto comparato" (1963/1969):
- Ricordo di Roberto Michels [nella rubrica: Profili], ibid., 1963, fasc. I, pp. 71-84.
- Ricordo di Maranini, ibid., 1969, fasc. di settembre/ottobre, pp. 321-343.
"Storia e politica" (1963/1970):
- Storia e dottrine politiche in Pasquale Villari, ibid., II, 1963, fasc. I (gennaio-marzo), pp. 46-77.
- Idee politiche della rivoluzione francese, ibid., IV, 1965, fasc. II (aprile-giugno), pp. 169-215.
- Critici ed eterodossi dell’idea di nazione nella seconda metà dell’Ottocento, ibid., VIII, 1969, fasc. I (gennaio-marzo), pp. 14-42.
- Dalla filosofia alla storia politica nell’opera di Giacomo Perticone, ibid., IX, 1970, fasc. I (gennaio-marzo), pp. 85-98.
- Su di un testo veneziano quattrocentesco di Dottrina dello Stato, ibid., fasc. IV (otto- bre-dicembre), pp. 519-526.
"Cultura e società" (1966):
- L’autodecisione dei popoli. Problemi storici e politici, ibid., 1966, n. 19 (luglio-set- tembre), pp. 207-212.
III. SAGGI PUBBLICATI IN VOLUMI COLLETTANEI
- Il carattere storico del pensiero politico italiano [prolusione al corso di Storia delle dottrine politiche, tenuta nella R. Università di Perugia, il 26 marzo 1928], in: PLU- RES, Dottrina e politica fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1930, pp. 177-207.
- L’espansione italiana nel pensiero politico del Risorgimento, "Atti della XXV riu- nione della Società italiana per il progresso delle scienze a Tripoli", 1936 fasc. di novembre.
- L’opera politica di Roberto Michels, in: Studi in memoria di R. Michels, "Annali della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Perugia", Padova, Cedam, 1937.
- L’italianità di Marsilio, in: PLURES, Marsilio da Padova. Studi raccolti nel sesto centenario della morte. Pubblicazione della facoltà di giurisprudenza della R. Uni- versità di Padova, Padova, Cedam, 1942, pp. 143-166.
- Eroismo senza fortuna, in Italia eroica, Roma, Istituto di divulgazione storica, 1950, pp. 15-26.
- Gl’ideali politici di Gabriele D’Annunzio, in: PLURES, Gabriele D’Annunzio, Ro- ma, Istituto di divulgazione storica, 1951, pp. 257-281.
- Il pensiero politico italiano del settecento, in: Antologia della critica storica, Torino, Perini, 1951, pp. 21-28.
- Sulla fortuna di due giudizi di Aristotele intorno a Europa e Asia, in: PLURES, Scritti di sociologia e politica in onore di L. Sturzo, Bologna, Zanichelli, 1953.
- L’africanismo di Amedeo d’Aosta, in: N. VILLA SANTA, A. VALORI, P. MARA- VIGNA, F. A. SCAGLIONE, C. CURCIO, V. BEONIO BROCCHIERI, Amedeo d’Aosta (Pubblicazione edita sotto gli auspici dell’Istituto del Nastro Azzurro fra i Combattenti decorati al Valor militare), Roma, Istituto storico di divulgazione, 1953, pp. 225-234.
- Sulle reazioni che intercorrono fra gli strumenti demodassalogici e l’opinione pub- blica non organizzata. Appunti di demodassologia psico-sociale, "Atti della XLV riunione della S.I.P.S. Napoli, 16-20 ottobre 1954" [estratto con numerazione propria].
- Caratteri e momenti del pensiero politico umbro, in Studi in onore di Lanciotto Rossi, Padova, Cedam, 1954, pp. 92-142.
- Nostro maestro Socrate, in: Studi in onore di Giuseppe Menotti De Francesco, Vol. II. Milano, Giuffrè, 1957, pp. 329-362.
- "Lettre de cachet", in Novissimo Digesto Italiano, vol. IX, Torino, Utet, 1957, pp. 777-778.
- Interessi e problemi sociali nel pensiero italiano della Restaurazione (1815-1830), sta in: Studi di storia medievale e moderna in onore di Ettore Rota. A cura di P. Vaccari e P.F. Palumbo. Roma, Le Edizioni del Lavoro, 1958.
- Autodecisione dei popoli, in: Novissimo digesto italiano, vol. I, Torino, Utet, 1958, pp. 1553-1556.
- Le problème historique, in L’Europe du XIXe et du XXe siècle. I. Milano, Marzorati, 1959, pp. 57-157.
- Profilo storico della socialità del lavoro, in: Secondo convegno nazionale per la ci- viltà del lavoro. Roma, 15-17 ottobre 1959. Roma, Ente Palazzo della Civiltà del Lavoro, [1960], pp. 3-22.
- L’insegnamento della storia nella formazione dei giovani, in Problemi della scuola italiana. Atti del II Convegno Nazionale dell’Istituto Nazionale di Studi Politici ed Economici. Bologna, Cappelli, 1960, pp. 171-185.
- Teoria e pratica in politica considerate da uno storico delle dottrine politiche, in I contributi italiani al IV Congresso mondiale di scienze politiche. Roma, settembre 1958. Milano, Vita e Pensiero, 1960, pp. 130-138.
- Sulle origini della storiografia delle dottrine politiche, in Studi in onore di Emilio Crosa. Vol. I. Milano, Giuffrè, 1960, pp. 713-738.
- La città ideale di Brunetto Latini , in: PLURES, Scritti vari di Filosofia del diritto raccolti per l’inaugurazione della Biblioteca Giorgio Del Vecchio, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 121-137.
- Poesia e verità de ‘lo secol primo’, in: PLURES, Studi in onore di Oddone Fantini, Milano, Giuffrè, 1962, vol. II, pp. 763-783. [è uno sviluppo dell’omonimo scritto del 1952 e del 1961].
- Paolo Paruta, in: PLURES, Letteratura italiana. I minori. II, Milano, Marzorati, 1963, pp. 1365-1381.
- Giovanni Botero , in: Ibid., pp. 1383-1399.
- Il genio politico di G.D. Romagnosi, prolusione al: Convegno di Studi in onore di G.D. Romagnosi. Salsomaggiore, 1961. Atti, Milano, Giuffè, 1963.
- Conservatorismo, in Novissimo Digesto Italiano, vol. IV, Torino, Utet, 1963, pp. 124-125.
- Legittimismo, ibid., vol. IX, pp. 733-735.
- Monroe (Dottrina di), ibid., vol. X, 1964, pp. 873-875.
- Eguaglianza. Dottrine generali, in: Enciclopedia del diritto, vol. XIV, Milano, Giuffrè, 1965. [Estratto con paginazione propria].
- Qualche considerazione sul pensiero politico umbro tra Medioevo e Rinascimento, in Atti del Quarto convegno di studi umbri - Gubbio, 22-26 maggio 1966 - Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento, Gubbio, Centro studi umbri presso la Casa di Sant’Ubaldo, pp. 593-604.
- Sulle origini del pensiero sociale cattolico in Italia [1. Suggestioni e fascino del Pellico. 2. Le teorie del Manzoni. 3. Società e morale in Tommaseo. 4. Gioberti, i neo-guelfi e il Cantù. 5. Il Taparelli d’Azeglio e i neo-tomisti], in: Scritti in memo- ria di Antonino Giuffrè, vol. I, Milano, Giuffrè, 1967, pp.183-203.
- Un riformatore ligure del settecento Giambattisa Pini, in: Scritti in memoria di Widar Cesarini Sforza, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 251-262. [Si tratta di una riela- borazione del tema già trattato nel 1941, nel saggio: Il pensiero sociale di un rifor- matore italiano del Settecento].
- L’idea d’Europa quale componente della storia contemporanea, in Educazione civi- ca e storia contemporanea nella scuola italiana d’oggi. Roma, De Luca, 1968, pp. 109-113. [pubblicato anche in "Rassegna di cultura e vita scolastica", XXII, 1968, nn. 7-8 (luglio-agosto), pp. 1-3].
IV. ANTOLOGIE
- Utopisti e riformatori italiani del cinquecento. [Antologia], Bologna, Zanichelli, 1942.
- C. H. de SAINT-SIMON, Sogno d’una felice Europa. [Antologia], Roma, Colom- bo, 1945.
- C.I.C. de SAINT-PIERRE - J.J. ROUSSEAU - I. KANT, Progetti per la pace per- petua. [Antologia], Roma, Colombo, 1946.
- P. TURIELLO, Il secolo XIX e altri scritti di politica internazionale e coloniale. [Antologia]. (Bologna, Zanichelli, 1947.
- F. ORSINI, Memorie. [Antologia], Roma, Colombo, 1948.
V. SCRITTI VARI
- Prefazione a Oddone FANTINI, L’universalità del fascismo. Principi di dottrina e di etica fascista, Napoli, Chiurazzi, 1933.
- Prefazione a G.B. VICO, L’estetica, Bologna, Cappelli, 1934.
- Presentazione a Bruno BARILLARI, Il pensiero politico di F. S. Salfi. Seconda ed. accresciuta. Torino, Tip. Impronta, 1960.
VI. RECENSIONI
1921:
- [rec. a Ugo SPIRITO, Le interpretazioni idealistiche delle teorie di Einstein, "Giornale critico della filosofia italiana", II, 1921, n. 2, pp. 38-39]; La modernità di Tertulliano [rec. a P. ZAMA, Il pensiero di Q. S. F. Tertulliano, Lanciano, Carabba, 1921], "L’idea". Serie I, n. 1 (5 nov, 1921), p. 40.
- [rec. a Armando CARLINI, La vita dello spirito, Firenze, Vallecchi, 1921], ibid., n. 2 (5 dicembre 1921), pp. 74-76; Emilio Boutroux, ibid., pp. 76-78; Fichte e il nazionalismo socialista [rec. a G. MAGGIORE, Fichte. Studio critico sul filosofo del nazionalismo socialista, Città di Castello, Il Solco, 1921], ibid., pp. 79-80; Le leggi di De Maistre [rec. a Joseph de MAISTRE, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane (trad. di P. Flores), Città di Castello, Il Solco, 1921], ibid., p. 80.
1922:
- L’altro Campanella [rec. a: M.M. ROSSI, Campanella metafisico, Firenze, La Poligrafica, 1921], ibid., n. 3 (5 gennaio 1922), pp. 113-114; Proclo [rec. a Rinaldo NAZZARI, La dialettica di Proclo e il sopravvento della filosofia cristiana, "Quaderni di Bilychnis. N. 4", Roma, Libreria editoriale Bilychnis, 1921], ibid., pp. 114-115; Gioberti estetico [rec. a Carmelo SGROI, L’estetica e la critica letteraria in V. Gioberti, Firenze, Vallecchi, 1921], ibid., pp. 116-117; La signorina Renouvier [rec. a Esilda CONCATO, Introduzione alla filosofia del Renouvier, Marostica, Tip. Martinate, 1921], ibid., pp. 117-118; La critica italiana, ibid., pp. 119-120.
1927:
- [rec. a C.COSTAMAGNA, Diritto corporativo italiano. Torino, Unione topografica editoriale, 1927], "Rivista internazionale di filosofia del diritto" [d’ora in poi: RIFD], VII, 1927, fasc. III (maggio-giugno), pp. 574-576.
- [rec. a G. BOTTAI, L’ordinamento corporativo italiano. Discorso pronunziato alla Camera dei deputati nella tornata del 1° giugno 1927. Roma, Tip. Della Camera, 1927; ID., La Carta del Lavoro. Roma, Ediz. Del ‘Diritto del Lavoro’, 1927], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 706-707.
1928:
- [rec. a Ugo REDANÒ, Lo Stato etico, Firenze, Vallecchi, 1927], ibid., VIII, 1928, fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 102-104.
- [rec. a Partito Nazionale Fascista. Il Gran consiglio nei primi cinque anni dell’Era fascista, Roma, Libreria del Littorio, Anno V [1927], ibid., pp. 104-105.
- [rec. a Rodolfo DE MATTEI, La politica di Campanella], ibid., fasc. III (maggio-giugno), p. 408.
- [rec. a Carlo COSTAMAGNA, Diritto corporativo italiano secondo la Carta del lavoro, la legislazione e la dottrina a tutto l’anno 1927. Con presentazione di S.E. Alfredo Rocco. Torino, Utet, 1928, pp. viii, 622], ibid., fascc. IV-V (luglio-ottobre), pp. 595-596.
1929:
- [rec. a C. COSTAMAGNA, Il principio corporativo. Roma, Il Diritto del lavoro, 1929], ibid., IX, 1929, fasc. VI, pp. 922-924.
- [rec. a G. POLLACI, Lo Stato e l’individuo in Aristotele. Raffronti con gli indirizzi moderni. Con pref. di G. Maggiore. Palermo, Priulla, 1929], ibid., pp. 929-930.
- [rec. a Max ASCOLI, Saggi vichiani I. La filosofia giuridica di Emanuele Duni. Roma, Stabilimento tip. R. Garroni, 1928], ibid., p. 930.
- [rec. a B. K. SARKAR, The political Philosophies since 1905. Madras, B. G. Paul and Co., 1928], ibid., pp. 930-931.
1930:
- [rec. a Adolfo POSADA, Les fonctions sociales de l’État. Paris, Giard, 1929], "Lo Stato", I, 1930, fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 105-108.
- [rec. a E. BESTA, Il diritto pubblico italiano. Dagli inizi del secolo decimoprimo alla seconda metà del secolo decimoquinto. Padova, Cedam, 1929], ibid., pp. 111-112.
- [rec. a Luca DEI SABELL, Nazioni e minoranze etniche. Bologna, Zanichelli, 1929, voll. 2], ibid., pp. 112-113.
- [rec. a Mario CASANOVA, Studi sul Diritto del lavoro. Pisa, Nistri-Lischi, 1929], ibid., pp. 115-116.
- [rec. a Walter HEINRICH, Die Staats- und Wirtschaftsverfassung des Fascismus. Berlin, Verlag für Nationalwirtschaft und Werksgemeinschaft, 1929], ibid., pp. 116-117.
- [rec. a Wilhelm HAAS, What is European Civilisation and what is its future?, London, Humphrey Milton - Oxford, University Press, 1929], ibid., pp. 242-243.
- [rec. a Luigi DELITALA, Il contratto di lavoro, Torino, Utet, 1929], ibid., p. 243.
- [rec. a : Vincenzo AMORUSO, Il sindacalismo di Enrico Corradini, Palermo, Soc. ed. O. Fiorenza, 1929], ibid., pp. 243-244.
- [rec. a Marcel de LA BIGNE DE VILLENEUVE, Traité général de l’État. Essai d’une théorie realiste du droit politique. Préf. de Louis Le Fur, Paris, Libr. du Recueil Sirey, 1929, vol. I], ibid., pp. 357-363.
- [rec. a Emilio CROSA, Lo Stato parlamentare in Inghilterra e Germania, Pavia, Treves, 1929, ibid., pp. 499-500.
- [rec. a Giacomo PERTICONE, Il problema morale e politico, Torino, Paravia, 1930], ibid., pp. 503-504.
- [rec. a G. BOTERO, Della Ragion di Stato. Con intr. e note di C. Morandi. Bologna, Cappelli, 1930; Politici e moralisti del Seicento. A cura di B. Croce e S. Caramella. Bari, Laterza, 1930; TASSONI, Prose politiche e morali, Bari, Laterza, 1931], ibid., pp. 701-704.
- [rec. a Santi NAVA, Il mandato francese in Siria dalle sue origini al 1929. Padova, Cedam, 1930], ibid., p. 712.
- [rec. a Jacques VALDOUR, La doctrine corporative. Paris, Rousseau, 1929], ibid., pp. 712-713.
- [rec. agli Atti del I Congresso di Studi romani. Roma, Istituto di Studi romani, 1929, vol. I], RIFD, X, 1930, fasc. II (gennaio-febbraio), pp.165-166.
- [rec. a Giuseppe KOHLER, Il diritto nella evoluzione creatrice della civiltà. Con introd. di R. Sammarco. Palermo, A. Trimarchi, 1928], ibid., pp. 295-298.
- [rec. a Antonio PAGANO, Idealismo e nazionalismo. Milano, Treves, 1928], ibid., pp. 298-301.
- [rec. a Adriano TILGHER, Saggi di etica e di Filosofia del diritto. Torino, Bocca, 1928], ibid., pp. 301-303.
1931:
- [rec. a Robert MICHELS, Italien von Heute. Politische und wirtschaftliche Kulturgeschichte von 1860 bis 1930. Zurich-Leipzig, Orell Füssli Verlag, 1930], "Lo Stato", II, 1931, fasc. I (gennaio), pp. 73-75.
- [rec. a Francesco CENTONZE, La pubblicazione del contratto collettivo di lavoro. Bari, Soc. Ed. Tipografica, 1930], ibid., p. 76.
- [rec. a Sergio PANUNZIO, Il diritto sindacale e corporativo. Programma, concetto, metodo. Perugia, La Nuova Italia, 1930], ibid., p. 79.
- [rec. a P.C. SOLBERG-G.C. CROS, Le droit et la doctrine de la justice. Paris, Alcan, 1930], ibid., fasc. II (febbraio), pp. 233-236.
- [rec. a P.S. LEICHT, Il diritto romano nell’Alto Adige durante il Medio Evo. Modena, Facoltà di Giurisprudenza, 1930], ibid., p. 236.
- [rec. a Arrigo SOLMI, Storia del diritto italiano. Milano, Soc. Ed. Libraria, 1930], ibid., pp. 236-237.
- [rec. a Gustave LE BON, Bases scientifiques d’une philosophie de l’histoire, Paris, Flammarion, 1931], ibid., fasc. IV (aprile), pp. 385-388.
- [rec. a I. SEIPEL, Wesen und Aufgaben der Politik, Wien, Tyrolia, 1930], ibid., fasc. VI (giugno), pp. 469-471.
- [rec. a Gabriele D’ANNUNZIO, Il sudore di sangue. Dalla frode di Versaglia alla Marcia di Ronchi (21 aprile-11 settembre 1919), Roma, La Fionda, 1930], ibid., p. 475.
- [rec. a Emilio BONAUDI, Dei limiti della libertà individuale, Perugia-Venezia, La Nuova Italia, 1930], ibid., pp. 479-480.
- [rec. a Riforme fasciste del Diritto pubblico. Conferenze [al] Circolo giuridico di Milano, Milano, Giuffrè, 1930], ibid., fasc. VII (luglio), pp. 619-620.
- [rec. a Giuseppe TREVES, Figura giuridica del Sindacato fascista (estratto dalla "Rivista di Politica economica"), Roma, Tip. delle terme, 1931], ibid., p. 620.
- [rec. a Renato TREVES, La dottrina sansimoniana nel pensiero italiano del Risorgimento. Contributo alla storia della filosofia sociale in Italia nella prima metà del secolo XIX. Torino, Istituto giuridico della R. Università, 1931; C. SEBASTIAN, Histoire du saint-simonisme (1825-1864). Paris, Hartmann, 1931], ibid., fasc. IX (settembre), pp. 678-682.
- [rec. a "Rivista Internazionale di Filosofia del diritto", Indice generale dei volumi I-X (anni 1921-1930). Roma, presso l’amministrazione della Rivista, 1931], ibid., fasc. X (ottobre), pp. 766-767.
- [rec. a M. de LA BIGNE DE VILLENEUVE, Traité général de l’État. Essai d’une théorie réaliste du droit politique. Paris, Recueil Sirey, 1931], ibid., fasc. XI (novembre), pp. 838-839.
1932:
- [rec. a Renato TREVES, La dottrina sansimoniana nel pensiero italiano del Risorgimento. Contributo alla storia della filosofia sociale in Italia nella prima metà del secolo XIX. Torino, Istituto Giuridico della R. Università, 1931], RIFD, XII, 1932, fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 142-143.
- [rec. a C. COSTAMAGNA, Corso di lezioni di storia delle dottrine dello Stato, politiche ed economiche. Padova, Cedam, 1931], ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 462-463.
- [rec. a John CHARPENTIER, Jean-Jacques Rousseau ou la démocratie par dépit. Paris, Librairie accademique Perrin, 1931], ibid., fascc. IV-V (luglio-ottobre), p. 685.
- [rec. a Armand LE HÉNAFF, Le pouvoir politique et les forces sociales. Paris, Librairie du Recueil Sirey], ibid., pp. 685-686.
- [rec. a Daniel HALÉVY, Décadence de la liberté. Paris, Editions Grasset, 1931], ibid., pp. 686-687.
- [recensioni a Giuseppe CHIARELLI, Il Diritto corporativo e le sue fonti. Perugia, La Nuova Italia, 1930]; ibid.,
- [rec. a Giuseppe D’EUFEMIA, Le fonti del Diritto corporativo. Napoli, Libreria Detken e Rocholl, 1931], ibid.,
- [rec. a C. MORTATI, L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano. Roma, Anonima romana editoriale, 1931], ibid., p. 687.
- [rec. a Alessandro LEVI, Il pensiero politico di Giuseppe Ferrari, "Nuova Rivista Storica", 1931], ibid., p. 696.
- [rec. a Carlo SCHANZER, Il mondo fra la pace e la guerra. Milano, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 837-839.
- [rec. a Vincenzo ZANGARA, Saggio sulla sovranità. I., Roma, Il Primato, 1932], ibid., pp. 839-840.
- [rec. a Ugo REDANÒ, Storia delle dottrine politiche. Bologna, Cappelli, 1931], ibid., "Lo Stato", III, 1932, fasc. I (gennaio), pp. 68-70.
- [rec. a Nicola MARTINELLI, Procedura individuale del lavoro. Genova, Ed. giuridiche Marsano (s.d., ma 1931)], ibid., p. 74.
- [rec. a Rosario LABADESSA, La cooperativa. Idee e realtà. Roma, Cooperativa Ape, 1931], ibid., pp. 74-75.
- [rec. a Giuseppe CHIARELLI, La personalità giuridica delle associazioni professionali. Padova, A. Milani, 1931], ibid., pp. 78-79.
- [rec. a Vincenzo MANGANO, Il pensiero sociale e politico di Leone XIII], ibid., fasc. II (febbraio), p. 159.
- [rec. a Arrigo SOLMI, L’amministrazione finanziaria del Regno italico nell’alto medio evo. Pavia, Tip. Cooperativa, 1932], ibid., fasc. III (marzo), pp. 234-235.
- [rec. a Francesco ERCOLE, Da Bartolo all’Althusio. Firenze, Vallecchi, 1932], ibid., pp. 235-236.
- [rec. a Walter HEINRICH, Das Ständewesen, mit besonderer Berücksichtigung der Selbstverwaltung der Wirtschaft. Jena, Fischer, 1932], ibid., pp. 236-237.
- [rec. a Stefano RAGUSO, La Nazione e il progresso della filosofia politica. Firenze, Le Monnier, 1931], ibid., pp. 237- 238.
- [rec. a Santi NAVA, Il problema dell’espansione italiana ed il Levante islamico. Padova, Milani, 1931], ibid., p. 238.
- [rec. a Michele SCHIAVONE, Scadenze. Istantanee della crisi mondiale. Milano, Stampa commerciale, 1931], ibid., fasc. IV (aprile), pp. 319-320.
- [rec. all’ Annuaire de l’Institut internationale du Droit public. Paris, Puf, 1931, voll. 2], ibid., p. 320.
- Il liberalismo e l’esperienza europea, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. V (maggio), pp. 364-366.
- [rec. a Carlo SCHANZER, Il mondo fra la pace e la guerra. Milano, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932], ibid., pp. 397-398.
- [rec. a Costantino MORTATI, L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano. Roma, Anonima romana editoriale, 1931], ibid., p. 398.
- [rec. a Edmond VERMEIL, L’Allemagne et les Démocraties occidentales. Les conditions générales des relations franco-allemandes. Paris, Publications de la Conciliation internationale, 1931], ibid., p. 399.
- [rec. a Agostino GEMELLI, L’ora storica e la funzione dell’Università. Milano, Vita e Pensiero, 1932], ibid., pp. 399-400.
- [rec. a Daniel HALÉVY, Décadence de la liberté. Paris, Grasset, 1931], ibid., fasc. VI (giugno), p. 471.
- [rec. a Franco GUIDOTTI, Dalla democrazia alla corporazione. Pistoia, Arte della Stampa, (s.d., ma: 1932)], ibid., p. 472.
- [rec. a Giuseppe CAVACIOCCHI, Mussolini. Sintesi critiche. Firenze, Vallecchi, 1932], ibid., pp. 472-473.
- [rec. a Ottavio ZIINO, Tommaso Natale e il pensiero pubblicistico in Sicilia nel secolo XVIII. Cortona, Stab. Tip. Commerciale, 1931], ibid., fasc. VIII (agosto), pp. 652-653.
- [rec. a Antonio CASULLI, La sovranità degli Stati e la Società delle Nazioni. Roma, Ausonia, 1932], ibid., pp. 653-654.
- [rec. a Ivanoe FOSSATI, Giovanni Marinelli, Roma, Palombi, 1932], ibid., p. 654.
- [rec. a Adriano TILGHER, Filosofi e moralisti del Novecento. Roma, Libreria di Scienze e lettere, 1932], ibid., fascc. XI-XII (novembre-dicembre), pp. 832-833.
- [rec. a Pietro DE’ FRANCISCI, Come si costruisce uno Stato; Renato MALINVERNO, La crisi e l’America; Ezio Maria GRAY, Garibaldi e la disciplina nazionale, Roma, Quaderni di propaganda editi dal Gruppo Fascista Nomentano, 1932], ibid., pp. 834-835.
1933:
- [rec. a James BRYCE, Democrazie moderne. A cura di L. Degli Occhi. Voll. I-II. Milano, U. Hoepli, 1930-31], RIFD, XIII, 1933, fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 141-142.
- [recensioni a Giuseppe SANTONASTASO, Georges Sorel. Bari, Laterza, 1932; Giorgio SOREL, L’Europa sotto la tormenta. A cura di Mario Missiroli. Milano, Corbaccio, 1932], ibid., pp. 142-143.
- [rec. a David DAVIES, Le problème du XXe siècle. Essai sur les relations internationales. Paris, Payot, 1931], ibid., fasc. II (marzo-aprile), p. 270.
- [rec. a Adriano TILGHER, Etica di Goethe, Roma, Libr. P. Maglione, 1932], ibid., p. 271.
- [rec. a Antonello GERBI, La politica del romanticismo. Le origini. Bari, Laterza, 1932], ibid., fasc. III (maggio-giugno), ibid., pp. 456-457.
- [rec. a Emanuele LANDOLFI, Lo Stato nella sua essenza e nei suoi rapporti con l’individuo. Roma, Stamperia reale, 1932], ibid., pp. 457-458
- [rec. a Mario MISSIROLI, L’Italia d’oggi. Bologna, Zanichelli, 1932], ibid., p. 458.
- [rec. a Rino LONGHITANO, La Russia di fronte all’Europa (Il principio di nazionalità in Russia). Catania, Rinnovamento, 1932], ibid., p. 459.
- [rec. a Antonio FERRAÙ, L’avvenire nella politica di Saint-Simon. Roma, Luzzatti, 1931], ibid., fascc. IV-V (luglio-ottobre), p. 628.
- [rec. a Aristide CAMPANILE, Antieuropa e i diritti dell’uomo. Roma, Nuova Europa, s.d.], ibid., pp. 628-629.
- [rec. a Studi filosofico-giuridici dedicati a Giorgio Del Vecchio nel xxv anno di insegnamento (1904-1929). Modena, Soc. tip. Modenese, 1930, voll. I-II], "Lo Stato", IV, fasc. I (gennaio), pp. 71-73.
- Il Gran Consiglio e la rivoluzione, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. II (febbraio), pp. 142-144.
- [rec. a Francesco ORESTANO, Riassunto e conclusioni del Convegno Volta. Roma, R. Accademia d’Italia, 1932], ibid., p. 157.
- [rec. a Gugliemo MASSART, Società e Stato nel cristianesimo primitivo. La concezione di Origene. Padova, A. Milani, 1932], ibid., pp. 157-158.
- [rec. a Amintore FANFANI, Le origini dello spirito capitalistico in Italia. Milano, Vita e pensiero, 1933], ibid., pp. 158-159.
- [rec. a Tommaso NAPOLITANO, Evoluzione del diritto penale sovietico dall’ottobre ’17 ai nostri giorni, Città di Castello, Tip. Leonardo da Vinci, 1932; ID., Il Codice penale della R.S.F.S.R. Trad. del testo ufficiale russo, con pref. di S.E. Silvio Longhi. Ivi, 1933], ibid., fasc. III (marzo), pp. 237-238.
- [rec. a Francisco De VITORIA, Addresses in commemoration of the fourth centenary of his lectures ‘De Indis’ and ‘De iure belli’. Washington, Catholic University of America, 1932], ibid., p. 238.
- [rec. a Fritz ERMARTH, Mussolini. Eine verfassungsrechtliche Studie über die Regierung Italiens, Tübingen, I.C.B. Mohr, 1932], ibid., fasc. IV (aprile), p. 313.
- [rec. a Giorgio DEL VECCHIO, La Société des Nations au point de vue de la philosophie du droit international. Paris, Librairie du recueil Sirey, 1932], ibid., pp. 314-315.
- [rec. a Giuseppe SANTONASTASO, Gli ideali di Proudhon, Udine, Tip. Ed. Fiorini, 1933; ID., Il problema della guerra e della pace. Ivi, 1933], ibid., fasc. V (maggio), p. 400.
- [rec. a Eugenio DI CARLO, Un teorico della ragion di Stato: Scipione di Castro, (estratto dal volume di: Studi in onore di Ugo Conti. Città di Castello, Tip. Dell’Unione arti grafiche, 1932)], ibid., p. 400.
- [rec. a Felice BATTAGLIA, La crisi del diritto naturale. Venezia, La Nuova Italia, 1930; ID., Diritto e filosofia della pratica. Ivi., 1932], ibid., fasc. VI (giugno), pp. 474-475.
- [rec. a F.S. TRIGGIANI, Saggio sulla distribuzione dei poteri, con speciale riguardo al diritto costituzionale italiano, Bitonto, G. de Bari, 1932], ibid., pp. 475-476.
- [rec. a Bruno SPAMPANATO, Discorsi al popolo. Napoli, Alberto Morano, 1932; ID., Idee e baionette. Ivi, 1932; ID., Popolo e regime, Bologna, Cappelli, 1932; ID., La politica finanziaria della Destra storica. Napoli, Chiurazzi, 1932], ibid., pp. 476-477.
- [rec. a Marcello CAPURSO, Politica orientale. Appunti. Con pref. di M. Mutinelli. Perugia, Ed. di "Fascismo", 1933], ibid., pp. 478-479.
- [rec. a Ugo MARIANI, Le teorie politiche di sant’Agostino e il loro influsso nella scuola agostiniana del secolo XIV. Firenze, Libr. Ed. Fiorentina, 1933], ibid., fasc. VII (luglio), pp. 556-557.
- [rec. a Giorgio TARISSI DE JACOBIS, L’ordinamento corporativo e le fonti del diritto commerciale. Con pref. di Sergio Panunzio, Roma, "Il nuovo Diritto", 1933], ibid., p. 557.
- [rec. a Sergio DE CESARE, Inquietudini del nostro tempo. Napoli, Anonima Chiurazzi, 1933], ibid., pp. 557-558.
- [rec. a Guido GAMBARDELLA, Aspetti di economia della tecnica. Con pref. di Oddone Fantini. Napoli, Ed. Chiurazzi, 1933], ibid., p. 558.
- [rec. a Raffaele NUMEROSO, L’organizzazione scientifica del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. I capisaldi per l’attuazione, Napoli, Tip. F. Giannini, 1933; ID., Les postulats fondamentaux pour actuer la rationalisation dans les administrations publiques. Naples, Impr. Portosalvo, 1933], ibid., pp. 558-559.
- [rec. a Antonino D’ALIA, Popoli e paesi nella storia dell’umanità. Saggio di scienza politica. Roma, Libreria internazionale fratelli Treves, 1932], ibid., pp. 559-560.
- [rec. a Carlo SCORZA, Fascismo, idea imperiale. Roma, Tip. E. de Gasperis, 1933], ibid., fascc. VIII-IX (agosto-settembre), pp. 647-648.
- [rec. a Luigi FEDERICI, Crisi e capitalismo: una guida attraverso il caos mondiale. Milano. U. Hoepli, 1933], ibid., pp. 649-650.
- [rec. a Sileno FABBRI, L’ Opera nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia. Milano, Mondatori, 1933], ibid., pp. 650-651.
- [rec. a: Franz Arthur MÜLLEREISERT, Die Dynamik des revolutionären Staatsrechts, des Volkerrechts, und des Gewohnheitsrechts. München, Duncker u. Humblot, 1933], ibid., fasc. X (ottobre), pp. 732-733.
- [rec. a: Gustav [Ritter] von KREITNER, Altri 467 milioni di bolscevichi? Con appendice di G. C. Castagna. Venezia, Libreria Emiliana editrice, 1933], ibid., p. 733.
- [rec. a: Pierre de TOURTOULON, Les trois justices, Paris, Librairie Recueil Sirey, s.d. (ma: 1933)], ibid., p. 735.
- [Rec. a: Carlo TALARICO, La rivoluzione francese e l’uguaglianza dei cittadini. La rivoluzione fascista e l’uguaglianza delle categorie, Pisa, Nistri-Lischi editori, 1933], ibid., fasc. XI (novembre), pp. 809-810.
- [Rec. a: Roberto MICHELS, Prolegomena sul patriottismo, Firenze, La Nuova Italia, 1933], ibid., pp. 810-812.
- Francisco SUAREZ, Addresses in commemoration of his contribution to international law and politics. Delivered at the Catholic University of America, 30 aprile 1933. Washington, 1933], ibid., p. 813.
- [rec. a: Virginio PERULLI, L’Opera Nazionale Dopolavoro nel sistema giuridico. Padova, R. Zannoni, 1933], ibid., pp. 813-815.
- [rec. a Luigi LOJACONO, Il fascismo nel mondo. Roma, "L’Economia Italiana", 1933], ibid., pp. 652-653.
- [rec. a Arthur FONJALLAZ, Mussolini, un chef. Génève, 1933], ibid., pp. 654-655.
1934:
- [recensioni a C. A. FUSIL, Rousseau juge de Jean-Jacques ou la comédie de l’orgueil et du coeur. Paris, Librairie Plon, 1923; ID., L’anti-Rousseau ou les égarements du coeur et de l’esprit. Paris, Librairie Plon, 1929], RIFD, XIV, 1934, fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 153-154.
- [rec. a Gustavo LANSON, Montesquieu, Paris, Librairie F. Alcan, 1932], ibid., pp. 154-155.
- [rec. a Charles FOURIER, Pages choisies. Introd. par Charles Gide. Paris, Librairie du Recueil Sirey, 1932], ibid., p. 155.
- [rec. a Waldemar GURIAN, Der Bolschevismus. Einführung im Geschichte und Lehre. Freiburg i. B., Herder u. Co., 1931], ibid., fasc. II (marzo-aprile), pp. 300-301.
- [rec. a Michael FREUND, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservativismus. Frankfurt a. M., Klostermann Verlag, 1932], ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 458-460.
- [rec. a Romanesimo e Germanesimo (La crisi dell’Occidente). Saggi di M. Bendiscioli, G. Moenius, I. Herwegen, P. Wutse. Brescia, Morcelliana, 1933], ibid., pp. 460-461.
- [rec. a George FLAMAND, Les idées politiques et sociales de Fénelon. Paris, Imprimerie française de l’édition, 1932], ibid., pp. 461-462.
- [rec. a Firmin ROZ, Washington. Paris, Dunod, 1933], ibid., pp. 462-463.
- [rec. a Nicholas MURRAY BUTLER, La crisi della società contemporanea, Bari, Laterza, 1933], ibid., p. 463.
- [rec. a João ARRUDA, O Moloch moderno. Estudio da crise do Estado moderno. Sao Paulo, Editoria Ltda, 1932], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), p. 787.
- [rec. a: Tomaso NAPOLITANO, Maternità e infanzia nella U.R.S.S. Saggi di legislazione sovietica. Prefazione di Gennaro Marciano. Padova, A. Milani, 1934], "Lo Stato", V, fasc. I (gennaio), p. 74.
- [rec. a: Carlo GIGLIO, Inghilterra d’oggi. Padova, Cedam, 1934], ibid., p. 76.
- [rec. a: Popolazione e fascismo. Scritti di: Amoroso, Arcari, Boldrini, Bortolotto, Carli, Castellino, Chiarelli, Consiglio, Coruzzi, Curcio, Fabbri, Galvani, Gemelli, Lojacono, Lorenzoni, Medologhi, Michels, Mortara, Panunzio, Pende, Pietra, Solmi, Tagliacarne, Virgilii, Zingoli. A cura e conprefzione di Luigi Lojacono, Roma, ‘L’ Economia Italiana’, 1934], ibid., fasc. IV (aprile), pp. 312-315.
- [rec. a: Sterbendes Volk? Berlin, Propaganda Verlaf-P. Hochmuth, 1934; F. BURGDÖRFER, Volk ohne Jugend. Berlin, 1935; MÜHLNER, Volk ohne Kinder. Berlin, 1934], ibid., pp. 318-319.
1935:
- [rec. a B. MIRKINE-GUETZÉVITCH, Droit constitutionnel international. Paris, Librairie du recueil Sirey, 1933], RIFD, XV, 1935, fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 130-131.
- [rec. a Jean MOREAU-REIBEL, Jean Bodin et le droit public comparé dans ses rapports avec la philosophie de l’histoire. Paris, Librairie philosophique J. Vrin, 1933], ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 441-442.
- [rec. a Harold J. LASKI, Democracy in crisis, London, G. Allen and Unwin, 1933], ibid., pp. 442-443.
- [rec. a Antonio DE GIULIANI DI TRIESTE, La cagione riposta delle decadenze e delle rivoluzioni. Due opuscoli politici del 1791 e del 1793 editi a cura e con introduzione di B. Croce. Bari, Laterza, 1934], ibid., p. 443.
1936:
- [rec. a Fausto NICOLINI, Aspetti della vita italo-spagnuola nel cinque e seicento, Napoli, A. Guida, 1934], ibid., XVI, 1936, fasc. I (gennaio-febbraio), p. 106.
- [rec. a Frederic C. CHURCH, I riformatori italiani, Voll. 2. Trad. di D. Cantimori. Firenze, La Nuova Italia, 1935], ibid., pp. 106-107.
- [rec. a Antonio CORSANO, Umanesimo e religione in G.B. Vico. Bari, laterza, 1935], ibid., p. 107.
- [rec. a La Révolution française, "Revue d’histoire contemporaine", N.S., 1935], ibid.
- [rec. a Walter WITZENMANN, Politischer Aktivismus und sozialer Mythos. Giambattista Vico und die Lehre des Faschismus. Berlin, Junker und Dünnhaupt Verlag, 1935], ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 317-318.
- Roberto Michels (necrologio, con bibliografia essenziale), ibid., fascc. IV-V (luglio-ottobre), pp. 435-438.
- [rec. a Bernard LAVERGNE, Le gouvernement des démocraties modernes. Voll. 2. Paris, F. Alcan, 1933], ibid., pp. 457-458.
- [rec. a Nicolas BASILESCO, La Société des Nations devant les conflits internationaux et spécialement devant le conflit italo-éthiopien. Bucarest, Imprimeria Centralã, 1936], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 584-585.
1937:
- [rec. a Jacques BARDOUX, La France de demain. Son gouvernement, ses assemblées, sa justice. Paris, Librairie du Recueil Sirey, 1936], RIFD, XVII, 1937, fasc. II (marzo-aprile), pp. 229-230.
- [rec. a Boris, MIRKINE-GUETZÉVITCH, Les nouvelles tendances du droit constitutionnel, Paris, Librairie générale de droit et de jurisprudence, 1936; ID., Corporatisme et démocratie, "Revue de Métaphysique et de Morale", 1935, 1936], ibid., fasc. III (maggio-giugno), p. 382-383.
- [recensioni a Georg SCHWARZENBERGER, The League of Nations and World order. A treatise on the principle of universality in the theory and practice of the League of Nations, London, Constable, 1936; M. BENTWICH – A. S. DE BUSTAMANTE – D. A. McLEAN – G. RADBRUCH – H. A. SMITH – H. TEMPERLEY, Justice and equity in the International Sphere. London, Constable, 1936], ibid., fascc. IV-V (luglio-ottobre), pp. 543-544.
1938:
- [rec. a Maquiavelo: Estudios monogràficos hechos en el Seminario de Derecho politico de Buenos Aires, baio la direción de Mariano de Vedia y Mitre. Buenos Aires, Facultad de Derecho y Ciencias sociales, 1927], ibid., XVIII, 1938, fasc. VI (novembre-dicembre), p. 648.
- [rec. a Elio GIANTURCO, Joseph de Maistre and Giambattista Vico (Italian roots of the Maistre’s political culture), New York, Columbia University, 1937], ibid., pp. 648-649.
- [rec. a B. MIRKINE GUETZÉVITCH, Les constitutions de l’Europe nouvelle. Avec les textes constitutionnels, Voll. 2. Nouvelle édition, Paris, Librairie Delagrave, 1938], ibid., pp. 654-655.
- [rec. a H. MANKIEWICZ, Le Nationalsocialisme allemand. Ses doctrines et leurs réalisations. Tome I. La conception nationalsocialiste du sens de la vie et du monde. Son rôle. Ce qu’elle travalle à détruire, Paris, Librairie générale de droit et de jurisprudence, 1937], ibid., p. 655.
- [rec. a La Méditerranée depuis la Conférence de la Paix . Publicatons de la Conciliation Internationale. Paris, Centre Européen de la Dotation Carnegie, 1937], ibid., pp. 655-656.
- [rec. a La Conférence Interaméricaine pour le maintien de la Paix. Publications de la Conciliation Internationale. Paris, centre Européen de la Dotation Carnegie, 1937], ibid., p. 656.
1947:
- [rec. a Felice BATTAGLIA, Libertà ed eguaglianza nelle Dichiarazioni francesi dei diritti dal 1789 al 1795. Testi, lavori, preparatorii, progetti parlamentari. Bologna, Nicola Zanichelli, 1946], ibid., XXIV, 1947, S. III., fascc. II-IV (aprile-dicembre), pp. 264-265.
- [recensioni a Eugenio DI CARLO, La filosofia giuridica e politica di san Tommaso d’Aquino. Palermo, G.B. Palumbo, 1945; Eustaquio GALÁN Y GUTIERREZ, La filosofia politica de Santo Tomas de Aquino. Madrid, Revista de Derecho privado, 1945], ibid., pp. 265-266.
1948:
- [rec. a Giuseppe SANTONASTASO, Machiavelli, Milano, Fratelli Bocca, 1947], ibid., XXV, 1948, S. III, fascc. I-II (gennaio-giugno), pp. 211-214.
- [rec. a Bianca MAGNINO, Alle origini della crisi contemporanea. Illuminismo e rivoluzione. Roma, Raggio, 1946], ibid., pp. 214-215.
- [rec. a James HARRINGTON, Oceana, con pref. di Rodolfo De Mattei, Roma, Colombo, 1947], ibid., fascc. III-IV (luglio-dicembre), p. 447.
- [rec. a Juan BENEYTO, Historia de la Doctrinas Politicas. Madrid, A. Aguilar, 1948], ibid., XXVI, 1949, S. III., fascc. II-III (aprile-settembre), pp. 338-340.
- [rec. a Francisco Javier CONDE, El saber politico en Maquiavelo. Madrid, Ministerio de Justicia y Consejo Superior de Investigaciones cientificas, 1948], ibid., pp. 346-347.
- [rec. a Virgilio GIORGIANNI, Pensiero morale e politico di Bonaventura da Bagnorea. Genova, Edizioni L.U.P.A., 1947], ibid., p. 348.
- [rec. a Il 1848 nella storia italiana ed europea. Scritti vari a cura di Ettore Rota, Milano, casa Editrice Francesco Vallardi, s.d.. voll. I-II], ibid., pp. 348-350.
- [recensioni a Francisco Elias de TEJADA, El pensamiento politico de los juristas catalanes medievales, Madrid, Instituto editorial reus, 1948; José Corts GRAU, Los juristas clasicos españoles, Madrid, Editoria Nacional, 1948], ibid., fasc. IV (ottobre-dicembre), pp. 504-505.
- [rec. a Enrique LUÑO PEÑA, Historia de la filosofia del derecho. Tomo I. Barcelona, Editorial La Hormiga de Oro, 1948], ibid., p. 505.
- [rececensioni a Tocqueville. A cura di Lorenzo Caboara.. Milano, Hoepli, 1946; Gino GORLA, Commento a Tocqueville. L’idea dei diritti, Milano, A. Giuffrè, 1948], ibid., pp. 508-509.
- [rec. a William GODWIN, Enquiry concerning political Justice and its influence on Moral and Happiness. … Critical introduction by F.E.L. Priestley. Toronto, The University of Toronto Press, 1946, voll. 3], ibid., pp. 509-510.
- [rec. a Ugo NICOLINI, Il principio di legalità nelle democrazie moderne. Legislazione e dottrina politico-giuridica dell’età comunale. Milano, Marzorati, 1947], ibid., pp. 510-511.
1950:
- [rec. a Goffredo QUADRI, Niccolò Machiavelli e la costruzione politica della coscienza morale, Firenze, La Nuova Italia, s.d.], ibid., XXVII, 1950, S. III, fasc. I (gennaio-marzo), pp.165-166.
- [rec. a Bruno BRUNELLO, Il pensiero politico italiano dal Romagnosi al Croce, Bologna, Cesare Zuffi editore, 1949], ibid., pp. 166-168.
- [Tommaso BOZZA, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1949], ibid., pp. 168-169.
- [rec. a Eugenio DI CARLO, E. Amari, Brescia, La Scuola editrice, 1848], ibid., pp. 169-170.
- [recensioni a Antonio TRUYOL SERRA, Fundamentos de derecho natural. Barcelona, F. Seix, 1949; ID., Esbozo de una sociologia del derecho natural. Madrid, Instituto de Estudios politicos, 1949; ID., La situación filosófica actual y la idea de la ‘filosofia perenne’. Murcia, De Nogues, 1948], ibid., fasc. II (aprile-giugno), p. 395.
- [rec. a Francisco De VITORIA, Los principios del derecho publico …, seleccion de textos, con introduccion y notas por Antonyo Truyol Serra. Madrid, Ediciones Cultura Hispanica, 1946], ibid., pp. 395-396.
- [rec. a Juan BENEYTO, Los origines de la ciencia politica en España. Madrid, Instituto de Estudios politicos, 1949], ibid., pp. 396-398.
- [rec. a Maximo PACHECO GOMEZ, Politica, Economia y Cristianismo. Santiago del Chile, Editorial del Pacifico S.A., 1947], ibid., fascc. III-IV (luglio-dicembre), p. 640.
1951:
- [rec. a Léon BAUDRY, Guillaume d’Occam. Sa vie, ses oeuvres, ses idées sociales et politiques. Tome I. L’homme et les oeuvres, Paris, Librairie philosophique J. Vres, 1950], ibid., XXVIII, 1951, S. III., fasc. I (gennaio-marzo), pp. 222-223.
- [rec. a Giulio BRUNI BOCCIA, La dottrina del diritto naturale in America. Le origini: puritanismo e giusnaturalismo, Milano, A. Giuffrè, 1950], ibid., pp. 223-225.
- [rec. a San TOMMASO D’AQUINO, Scritti politici, a cura di Alessandro Passerin d’Entrèves. Bologna, Zanichelli, 1946], ibid., pp. 225-227.
- [rec. a Benedetto SPINOZA, Trattato teologico-politico. Introduzione di Sante Casellato. Venezia, M. Fantoni, 1945], ibid., p. 227.
- [rec. a Carlos RUIZ DEL CASTILLO Y CATALÁN DE OCÓN, Lo vivo y lo muerto en la idea liberal. Madrid, Real Academia de Ciencias morales y politicas, 1947], ibid., pp. 227-228.
- [rec. a Jeremy BENTHAM, Sofismi politici. Introduzione e traduzione di Pietro Crespi, Milano, Bompiani, 1947], ibid., fasc. II (aprile-giugno), pp. 449-450.
- [rec. a Enrique LUÑO PEÑA, Historia de la Filosofia del Derecho. Tomo II. Barcelona, Editorial La Hormiga de Oro, 1949], ibid., p.450.
- [rec. a José CASTÁN TOBEÑAS, El derecho y sus rasgos, a travès del pensamiento español clásico y moderno, popular y erudito. Madrid, Instituto Editorial Reus, 1949], ibid., pp. 450-451.
- [rec. a Juan BENEYTO, Trajano el mejor principe. Madrid, Editoria Nacional, 1949], ibid., pp. 451-452.
- [rec. a Huntington CAIRNS, Legal philosophy from Plato to Hegel. Baltimore, The John Opkins Press, 1949], ibid., fasc. III (luglio-settembre), pp. 648-649.
- [Arturo BECCARI, Il pensiero politico classico. Milano, Vita e pensiero, 1949], ibid., pp. 649-651.
- [rec. agli "Annales de la Société Jean-Jacques Rousseau", tome XXXI, 1946-49], ibid., p. 651.
- [rec. a Carlo TRICERRI, Il sistema filosofico-giuridico di John Stuart Mill, Milano, Giuffrè, 1950], ibid., pp. 652-654.
- [rec. a Francisco Javier CONDE, Teoria y sistema de las formas politicas. Madrid, Instituto de Estudios politicos, 1948], ibid., pp. 664-665.
- [rec. a Nicolas PEREZ SERRANO, El poder constituente. Madrid, Real Academia de Ciencias morales y politicas, 1947], ibid., p. 665.
- [rec. a Emilio NASALLI ROCCA, Filangieri, Brescia, La Scuola, 1950], ibid., pp. 665-666.
- [rec. a Arturo MANCINI, La storia del collettivismo, Verona, Quaderni di ‘Nova Historia’, 1950], ibid., p. 669.
- [rec. a Enrico VIDAL, Saggio su Montesquieu, con particolare riguardo alla sua concezione dell’uomo, del diritto e della politica, Milano, A. Giuffrè, 1950], ibid., fasc. IV (ottobre-dicembre), pp. 815-819.
1952:
- [rec. a Luigi EINAUDI, La guerra e l’unità europea, Milano, Edizioni di Comunità, 1948], ibid., XXIX, 1952, S. III., fasc. III (luglio-settembre), pp. 349-350.
- [rec. a Alan GEWIRTH, Marsilius of Padua. The Defender of peace. Vol. I: Marsilius of Padua and medieval political philosophy. New York, Columbia University Press, 1951], ibid., pp. 364-366.
- [rec. a Armando SAITTA, Costituenti e Costituzioni della Francia moderna, Torino, Einaudi, 1952], ibid., pp. 366-367.
- [rec. a Juan BENEYTO, España y el problema de Europa, Buenos Aires, Espasacalpe, 1950], ibid., pp. 370-371.
- [rec. a Antonio ALIOTTA - Cleto CARBONARA, Galilei, Milano, Fratelli Bocca, 1949], ibid., p. 373.
- [rec. a ARISTOTELE, Politique… par Marcel Prélot. Paris, Presses Universitaires de France, 1950], ibid., fasc. IV (ottobre-dicembre), pp. 539-540.
- [rec. a Baruch SPINOZA, Epistolario, a cura di Antonio Droetto, Torino, Einaudi, 1951], ibid., p. 540.
- [rec. a Antonio QUACQUARELLI, La teologia antigiansenista di G.V. Bolgeni (1733-1811), Mazara, Soc. Ed. Siciliana, 1952], ibid., pp 540-541.
1956:
- [rec. a Théodore RUYSSEN, Les sources doctrinales de l’internationalisme. Dès origines à la Paix de Wstphalie, Paris, Presses Universitaires de France, 1954], ibid., XXXIII, 1956, S. III, fasc. III (maggio-giugno), p. 374-375.
- [rec. a Eustaquio GALÁN Y GUTIERREZ, Esquema historico-sistematico de la teoria de la Escuela española del Siglo de oro acerca de la esencia, origen, finalidad y legitimidad titular por derecho natural del poder politico, Madrid, Editorial Reus, 1953], ibid., pp. 375-376.
- [rec. a Giovanni AMBROSETTI, I presupposti teologici e speculativi delle concezioni giuridiche di Grozio. Bologna, Zanichelli, 1955], ibid., pp. 376- 379.
- [rec. a John LOCKE, Essays on the Law of Nature. Edited by W. Von Leyden. Oxford, Clarendon Press, 1954], ibid., fasc. IV (luglio-agosto), pp. 546-547.
- [rec. a Miguel REALE, Horizontes do direito e da história. Estudios de Filosofia do direito e da cultura. São Paulo, Edição Saraiva, 1956], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre 1956), pp. 806-807.
- [rec. a Emanuele KANT, Saggi sulla storia, a cura di Dino Pasini, Milano, A. Giuffrè, 1955], ibid., pp. 809-810.
- [rec. a Antonio DE STEFANO, Rivoluzione e religione nelle prime esperienze costituzionali italiane (1796-1797), Milano, A. Giuffrè, 1954], ibid., p. 811.
1957:
- [rec. a Pierre FRIEDEN, Variations sur le thème humaniste et européen. Luxembourg, Editions self, 1956], ibid., XXXIV, 1957, n. 1 (gennaio-febbraio), pp. 106-107.
- [recensioni a Juan LLAMBIAS DE AZEVEDO, El pensamiento del derecho y el Estado en la antigüedad. Desde Homeros hasta Platon. Buenos Aires, Libreria Juridica V. Abeledo, 1956; Augustin De ASIS, Algunos caracteres del saber filosofico-juridico en Grecia. Sevilla, Anales de la Universidad Hispalense, 1955], ibid., pp. 107-108.
- [rec. a Augustin DE ASIS, Bartolomé Herrera pensador politico. Sevilla, Publicaciones de la Esquela de Estudios hispano-americanos, 1954], ibid., pp.108-109.
- [rec. a Marcello GIGANTE, Nımo˚ basfileÊ˚. Napoli, Edizioni Glaux, 1956], ibid., pp. 109-112.
- [rec. a Jay RUMNEY – Joseph MAIER, Sociologia. La scienza della società. Bologna, Il Mulino, 1955], ibid., pp. 112-113.
- [rec. a A. HAMILTON - J. JAY- J. MADISON, Il Federalista (Commento alla costituzione degli Stati Uniti). Introduzione di Gaspare Ambrosini, con appendici di Guglielmo Negri e Mario D’Addio. Pisa, Nistri-Lischi, 1955], ibid., fasc. II (marzo-aprile), p. 256.
- [rec. a Ugo MARIANI, Chiesa e Stato nei teologi agostiniani del secolo XIV. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1957], ibid., fasc. V (settembre-ottobre), pp. 667-671.
- [rec. a Michel VILLEY, Leçons d’histoire de la Philosophie du droit. Paris, Librairie Dalloz, 1957], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 819-820.
- [rec. a José-Antonio MARAVALL, La philosophie espagnole au XVIIe siècle dans ses rapports avec l’esprit de la Contre-Réforme. Traduit et présenté par Louis Cazes et Pierre Mesnard. Paris, Librairie philosophique J. Vrin, 1955], ibid., pp. 820-822.
- [rec. a Marcello CAPURSO, Potere e classi nella Francia della Restaurazione. La polemica antiborghese degli scrittori legittimisti, Roma, Editrice Modelgraf, 1956], ibid., pp. 822-825.
- [rec. a Hans KOHN, L’idea del nazionalismo nel suo sviluppo storico. Firenze, La Nuova Italia, 1956], "Europa", I, 1957, n. 1 (maggio-giugno), pp. 64-66.
- [rec. a Aldo CHECCHINI, Premesse storiche all’unità politica europea, "Rivista di diritto internazionale", XXXIX, 1956, fasc. III], ibid., pp. 66-67.
- [rec. a Europa senza dogane. Bari, Laterza, 1956], ibid., p. 68.
- [rec. a Pierre FRIEDEN, Variations sur le thème umaniste et européen. Luxembourg, Seef, 1956], ibid., pp. 68-69.
- [rec. a L’OECE au service de l’Europe. Les activités de l’Organisation Européenne de Coopération Economique. Paris, 1956], ibid., pp. 69-70.
- [rec. a L’esprit européen. Présentation par Théo Fleischman. Paris, Robert Laffont, 1957], ibid., nn. 2-3 (ottobre), pp. 315-319.
- [rec. a R. ARON - G. F. MALAGODI - H. J. ABS – E. DE LA VALLÉE POUSSIN – V. F. W. CAVENDISH-BENTICK – M. VAN DER GOES VAN NATERS – J. FREYMOND, L’unification économique de l’Europe. Neuchâtel, Editions de la Baconnière, 1957], ibid., pp. 319-320.
- [rec. a ISTITUTO NAZIONALE DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO, Sessione di studio sui problemi del Mercato comune. II Sessione: Il Mercato comune e la circolazione delle persone. Bari, Edizioni del levante, 1957], ibid., pp. 320-321.
1958:
- [rec. a Giovanni GARILLI, Aspetti della filosofia giuridica, politica e sociale di S. Agostino. Milano, Giuffrè, 1957], RIFD, XXXV, 1958, S. III, fascc. III-IV (maggio-agosto), pp. 472-474.
- [rec. a MARSILIO DA PADOVA, The defender of peace. Vol. II. The ‘Defensor pacis’. Translated with an introduction by Alan Gewirth. New York, Columbia Univeristy Press, 1956], ibid., pp. 474-475.
- [recensioni a: Emilio BUSSI, Stato, sudditi e sovrano nei giuristi tedeschi del XVIII secolo, Padova, Cedam, 1956; ID., Pensieri intorno alla libertà di un giuspubblicista tedesco del Settecento, "Rivista di storia del diritto italiano", 1947; ID., Il diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, Padova, Cedam, 1957], ibid., pp. 475-479.
- [rec. a Bruno BRUNELLO, Muratori educatore, "Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi", S. VIII, 1956], ibid., p. 496.
- [rec. a T. CAMPANELLA, Aforismos politico, traducidos por Mariano Hurtado Bautista, con una nota preliminar por Antonio Truyol y Serra. Madrid, Instituto de Estudios politicos, 1956], ibid., p. 497.
- [rec. a Carmelo CARISTIA, Riflessi politici del giansenismo operante (Da Scipione de’ Ricci alla Repubblica toscana, "Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo", S. IV, vol. XVI, Parte II, Palermo, 1957], ibid., pp. 497-498.
- [rec. a Pietro DE FRANCISCI, La comunità sociale e politica romana primitiva, "Studia et documenta Historiae et Juris", 1956], ibid., p. 498.
- [rec. a Vittorio FROSINI, Un giacobino catanese, Giovanni Gambini, "Rivista del Comune di Catania", 1956, nn. 1-2 (gennaio-giugno)], ibid., p. 500.
- [rec. a José CASTÁN TOBEÑAS, Los sistemas juridicos contemporaneos del mundo occidental. Madrid, Instituto editorial Reus, 1956], ibid., fasc. V (settembre-ottobre), p. 636.
- [rec. a Aldo CHECCHINI, Premesse storiche all’unità politica europea, "Rivista di Diritto internazionale", XXXIX, 1956, fasc. III], ibid., p. 637.
- [rec. a Bruno BARILLARI, Il pensiero politico di F.S. Salfi (1759-1832)], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 761-766.
- [rec. a Giovanni SARTORI, Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino, 1957], ibid., pp. 766-772.
- [rec. a Théodore RUYSSEN, Les sources doctrinales de l’internationalisme. Tome II. De la Paix de Westphalie à la Révolution française, Paris, Presses Universitaires de France, 1958], ibid., pp. 772-773.
- [rec. a Luciano PEREÑA VICENTE, Diego de Covarrubias y Leyva maestro de derecho internacional. Madris, Asociacion ‘Francisco de Vitoria’, 1957], ibid., pp. 778-779.
- [rec. a Miguel REALE, Momentos decisivos e olviadados do pensamento brasileiro. Rio Grande do Sul, Universidade - Instituto de Filosofia, 1957], ibid., pp. 780-781.
- [rec. a Giuseppe SANTONASTASO, Il neo-liberalismo di Giuseppe Mazzini, Bari, Adriatica editrice, 1958], ibid., pp. 781-782.
1959:
- [rec. a Francisco Elías de TEJADA, Napoles hispanico.Tomo I. La etapa aragonesa (1442-1503). Madrid, Ediciones Montejurra, 1958; Tomo II. Las decadas imperiales (1503-1554), ibid., 1958; Tomo III. Las Españas aureas (1554-1598), ibid., 1959], ibid., RIFD, XXXVI, 1959, S. III, fascc. II-III (marzo-giugno), pp. 323-325.
- [rec. a Maria GORETTI, Il paradosso Mandeville. Saggio sulla ‘Favola delle Api’. Firenze, Le Monnier, 1958], ibid., pp. 325-328.
- [rec. a Gustav RADBRUCH, Propedeutica alla filosofia del diritto, a cura di Dino Pasini. Torino, Giappichelli, 1959], ibid., pp. 328-329.
- [rec. a Ada ANNONI, L’Europa nel pensiero italiano del Settecento, Milano, Marzorati, 1959], ibid.,, fasc. V (settembre-ottobre), pp. 625-626.
- [rec. a Hans KOHN, Valori e prospettive della civiltà occidentale, Roma, Opere Nuove, 1958, ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 758-761.
1960:
- [rec. a Agustin DE ASIS, Manual de Filosofia del derecho (Derecho natural. I). Granada, Ediciones Montejurra, 1960], ibid., XXXVII, 1960, S. III, fasc. III (maggio-giugno), p. 520.
- [rec. a Luigi FIRPO, Kaspar Stiblin utopista (con il testo originale del De eudaemonensium republica e la bibliografia), Torino, 1959], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 813-814.
- [rec. a Alfonso V. GIARDINI, Ieri e domani (Il cammino dell’uomo), Napoli, Montanino editore, 1959], ibid., pp. 814-815.
- [rec. a Felice BATTAGLIA, Corso di filosofia del diritto. Vol. I. Introduzione – Cenni storici. 4a ed. Roma, Soc. ed. del ‘Foro italiano’, 1960], ibid., pp. 822-823.
- [rec. a Cleto CARBONARA, Platonismo e Cristianesimo nella concezione mazziniana della storia, "Atti dell’Accademia di Scxienze morali e politiche di Napoli", 1958], ibid., pp. 822-823.
- [rec. a Antonio FERNANDEZ-GALIANO, Conceptos de naturaleza y ley en Heraclito. Madrid, Publicaciones del Instituto Nacional de Estudios Juridicos, 1957; ID., El logos heracliteo y el concepto cristiano de ley eterna. "Revista de la Facultad de Derecho de la Universitad de Madrid", 1958, n. 3], ibid., pp. 823-824.
- [rec. a Antonio FERNANDEZ-GALIANO, Ideas political y iuridicas de un medigo español del siglo XVI, "Revista del la Facultad de Derecho de la Universitad de Madrid", 1959, nb. 5], ibid., p. 824.
- [rec. a David HUME, Discorsi politici. Trad. di Mario Misul, Torino, Editore Boringhieri, 1959], ibid.
1962:
- [recensione a : Federico CHABOD, Storia dell’idea d’ Europa. A cura di E. Sestan ed A. Saitta, Bari, Laterza, 1961], ibid., XXXIX, 1962, S. III., fasc. V (settembre-ottobre), pp. 680-683.
- [rec. a Pierre MESNARD, Jean Bodin en la historia del pensamiento. Introducción por José Antonio Maravall. Madrid, Instituto de Estudios Politicos, 1962], ibid., pp. 683-686.
- [rec. a Renato BISIGNANI, Maquiavelo y el maquiavelismo. Buenos Ayres, Asociación Dante Alighieri, 1962], ibid., p. 686.
- [rec. a Denis de ROUGEMONT, Vingt-huit siècles d’Europe. La conscience européenne à travers les textes. Paris, Payot, 1961], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 860-861.
- [rec. a Émile NAMER, Machiavel, Paris, Presses Universitaires de France, 1961], ibid., pp. 861-862.
- [rec. a Jan MALRCZYK, La fortuna di Niccolò Machiavelli in Polonia. Wroclaw-Warszawa-Kraków, Zakland Narodolowy Imienia Ossolinskich Wydawnictwo Polskiej Akademii Nauk, 1962], ibid., XL, 1963, fasc. II (marzo-aprile), pp. 252-253.
- [rec. a G. DEL VECCHIO, Contributi alla storia del pensiero e giuridico e filosofico. Milano, Giuffrè, 1963], ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 394-397.
- [recensione a : G. PERTICONE, La filosofia del diritto come filosofia della giustizia], ibid., fascc. IV-V (luglio-ottobre), pp. 624-626.
- [recensioni a: Francisco Elias de TEJADA, Historia del pensamiento politico catalán: Tomo I. La Cataluña clasica (987-1479). Madrid, Ediciones Montejurra, 1963; Tomo II. ID.- Gabriella PERCOPO, Mallorca y Menorca clasicas (1231-1479), ibidem], ibid., pp. 632-633.
1964:
- [rec. a Jean TOUCHARD (con la collaborazione di L. Bodin, P. Jeannin, G. Lavau, J. Sirinelli), Storia del pensiero politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1963], ibid., XLI, 1964, S. III, fasc. III (maggio-giugno), pp. 456-460.
- [rec. a Bartolo da Sassoferrato. Studi e documenti per il VI centenario (tenutosi presso l’Università di Perugia nel 1959). Milano, Giuffrè, 1962, voll. I-II], ibid., pp. 460-463.
- [rec. a Eugenio DI CARLO, Consensi e contrasti al pensiero di Rousseau in Sicilia (sec. XVIII-primi XIX), "Archivio storico messinese", S.III, voll. XIII-XIV (1962-63)], ibid., pp. 478-479.
- [rec. a Fray Luis DE LEÓN, De legibus, o tratado de las leyes, 1571. Introducción y edición critica bilingûe por Luciano Pereña, Madrid Consejo Superior de Investigationes Cientificas, 1963], ibid., fascc. IV-V (luglio-ottobre), pp. 644-646.
- [rec. a V. PRESTIPINO, Motivi del pensiero umanistico e Giovanni Pontano, Milano, Marzorati, 1963], ibid., pp. 646-648.
- [rec. a Giancarlo FINAZZO, L’uomo e il mondo nella filosofia di Heidegger, Roma, Editrice Studium, 1963], ibid., p. 659.
- [rec. a Aldo TESTA, Meditazioni su Rousseau. Bologna, Cappelli, 1963], ibid., p. 663.
- [rec. a Ismael Ramirez GASCA, El pensamineto juridico-politico de Jorge Del Vecchio. Bogotà, Editorial Iqueima, 1962], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), p. 802-804.
1965:
- [rec. a Agostino PALAZZO, Autorità e potere, Milano, Giuffrè, 1964], "Rivista internazionale di filosofia politica e sociale", 1965, fasc. II (aprile-giugno), pp. 227-229.
- [rec. a Felix GILBERT, Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo. Bologna, Il Mulino, 1964], RIFD, XLII, 1965, fasc. I (gennaio-marzo), pp. 175-180.
- [rec. a Francisco de VITORIA, Las relecciones ‘De India’ y ‘De iure belli’. Washington D.C., En la imprenta de la Union Panamericana, 1963], ibid., fasc. II (aprile-giugno), pp. 363-364.
- [rec. a Carlo CATTANEO, Scritti politici, a cura di Mario Boneschi, Voll. I-III, Firenze, le Monnier, 1965], ibid., pp. 364-365.
- [rec. a Giuseppe SANTONASTASO, Lineamenti di storia delle dottrine politiche, Bari, Adriatica editrice, 1964], ibid., fasc. III (luglio-settembre), pp. 582-583.
1966:
- [rec. a Dalmazzo Francesco VASCO, Opere, a cura di S. Rota Ghibaudi, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1966], ibid., XLIII, 1966, S. III, fasc. IV (ottobre-dicembre), pp. 929-930.
1967:
- [rec. a Eugen LEMBERG, Nationalismus. Hamburg, Rowholt, 1964. Voll. I-II], ibid., XLIV, 1967, S. III., fasc. I (gennaio-marzo), pp. 119-121.
- [rec. a Grzegorz Leopold SEIDLER – Jean MALARCZYK, The political Thought of Jagiellonian Poland, "Annales Universitatis Marie Curie-Sklodowska", XIII, 1966, n. 1], ibid., pp. 804-807.
VII. ARTICOLI E RECENSIONI SU GIORNALI
L’elenco segue l’ordinamento dell’Archivio Carlo Curcio, in corso di catalogazione per opera di Loredana Maccabruni, funzionario dell’Archivio di Stato di Firenze. Pertanto, si tratta di notizie ricavate dalle annotazioni manoscritte (qui: ms.) sui ritagli da periodici, il più delle volte senza indicazione del numero, talvolta senza firma (qui: s.f.), senza data (qui: s.d.), senza indicazione di pagina (qui: p. n.n.). Il presente elenco vuol essere solo un primo tentativo di indicazione degli scritti "giornalistici" di Curcio, cui farà seguito una loro più articolata e sistematica verifica e schedatura.
1922:
- L’Oriani finito, "Il Mattino" [Napoli], 17-18 giugno.
- L’ultimo Tolstoi, "Il Mattino", 2-3 luglio.
- Il Regno, "Il Mattino", 30-31 luglio.
- Dostojèvskij, "Il Mattino" 16-17 settembre.
- Il viandante lontano, "Il Mattino", 23-24 settembre.
- La morta viva [da Lubiana, ottobre], "Il Mattino", 1-2 novembre.
- Gli aspetti della storia, "Il Paese" [Roma],14 novembre [firma abrasa].
- Il Regno dai tre cuori [Lettere dalla Jugoslavia (Nostra corrispondenza particola- re) Maribor, novembre], "Il Mattino", 16-17 novembre.
- Il Papa e la Pace, "Giornale della Sera", 26-27 dicembre [p. 1].
- Sette jugoslavi, [ritaglio di giornale senza indicazioni della fonte].
- Socialismo romantico, [ritaglio di giornale senza indicazioni della fonte].
- Istruzione e ricostruzione civile (I libri), (rec. di: Alessandro CHIAPPELLI, Distruzione e ricostruzione civile, S.l., Taddei, s.d.), [ritaglio di giornale senza indi- cazioni della fonte (a matita: Bologna 1922].
- La storia del socialismo (I libri), (rec. di: Arturo LABRIOLA, Socialismo contem- poraneo, Napoli, Morano, 1922), [ritaglio di giornale senza indicazioni della fonte (a matita: Bologna, 1922)].
1923:
- Superamento della borghesia, "Giornale della Sera", 16-17 gennaio.
- Il mio D’Annunzio, "Giornale della sera" [Napoli], 23-24 gennaio.
- Il bel Sàlgari mio, "Giornale della sera", 7-8 marzo.
- L’estetica neo-romantica, [ritaglio di giornale senza indicazioni della fonte, datato a matita: 9 maggio].
- Esaurire il romanticismo, [ritaglio di giornale senza indicazioni della fonte].
- Amiel, "Il tempo", [senza altre indicazioni].
- Andreiew, [ritaglio di giornale senza indicazioni della fonte].
- La tragica vita di Aimée (Nostra corrispondenza particolare), senza firma (sigla R.S.), [ritaglio di giornale ("Il tempo" di Roma?) senza indicazioni della fonte].
- Heine in confessione, firmato Ludovico Berti [ritaglio di giornale ("Il tempo" di Roma?) senza indicazioni della fonte].
- Vladimiro Solovef (Spiriti e forme del misticismo slavo), "Il Tempo di Roma" (s.d.).
- L’irredentismo di Cesare Battisti, "Giornale della sera" [Napoli], 16-17 maggio.
- La politica del Papa ("3 luglio 1923"), [da quotidiano non identificabile].
- Tradizione abruzzese, "Giornale della sera", 22-23 agosto.
1925:
- Dizionarietto politico per l’anno 1925, "La Montagna", s.d., pp. 9-10; (segue sul fasc. seguente: pp. 9-10).
- La disfatta della democrazia, "Il Popolo d’Italia", 25 gennaio [ p. 4].
- Maurras, "La Montagna", s.d. [pp. 9-10].
- Maurras al bando, "Il Popolo di Roma", s.d. [p. 3].
- Un popolo di anarchici, "La Rivoluzione fascista", s.d. [pp. 9-10].
- Dogma e creazione, "La Rivoluzione fascista", s.d. [p. 4].
- Strada tracciata [senza firma, in "Il Popolo di Roma", 15 dicembre [p. 1].
- Pio XI istituisce la festa di Cristo Re e riafferma la sovranità della Chiesa, (senza firma), "Il Popolo di Roma", 24 dicembre [p. 1].
- De Monarchia, "Educazione politica" [cc. 15 n.n.].
1926:
- Un quarto di secolo, "Rivista d’Italia e d’America", gennaio.
- Un gran passo, (senza firma), "Il Popolo di Roma", 9 gennaio [p. 1].
- La riforma della legislazione ecclesiastica e una nota dell’ ‘Osservatore’ (12.1.1926), (senza firma), [da quotidiano non identificabile].
- I veri termini della polemica e una nota dell’ ‘Osservatore’, (senza firma), "Il Po- polo di Roma", 14 gennaio [p. 1].
- La ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’ di Benedetto Croce, "Il Popolo di Roma", 10 febbraio.
- L’Azione Cattolica e la mezza politica, (senza firma), "Il Popolo di Roma", 19 feb- braio [p. 1].
- Trent’anni dopo, senza firma, (per il trentennale della disfatta di Adua del 1 marzo 1896), [ritaglio di giornale senza indicazioni della fonte], (a matita: 1926).
- Cattolici al bivio, "Critica fascista", 15 marzo [pp. 113-114].
- Etica della resistenza, "Commercio", 4 aprile [estratto: pp. 194-196].
- Pasquale Turiello (Un antidemocratico di quarant’anni fa), "Il Popolo di Roma", 22 luglio.
- Il Congresso di Chicago e il cattolicismo nord-americano, "Rivista d’Italia e d’Ame- rica", luglio-agosto [pp. 20-21].
- Cattolici e Fascisti, "Riscossa Fascista", 14 agosto [p. 2].
- La teoria dell’irredentismo in Cesare Battisti, [senza indicazioni della fonte, ma solo: pp. 33-35].
1927:
- Matilde Serao è morta. L’interprete della piccola borghesia italiana (Un lutto della letteratura e del giornalismo), "Il Popolo", 27 luglio.
- Vauvenargues (Preferenze), [senza indicazioni della fonte, ma solo: pp. 63-67].
- Rivoluzione creatrice, "Il Popolo di Roma", s. d. [p. n. n.].
1928:
- Sul pensiero politico italiano, "Il Popolo di Roma", 11 gennaio 1928 [nella rubrica: Cultura politica, recensioni di: F. ERCOLE, Il pensiero politico di Dante, S.l., Alpes, 1927; Giovanni SEMPRONI, Leon Battista Alberti, Milano, Alpes, 1927; Valeria BENETTI BRUNELLI, Rinnovamento della politica nel pensiero italiano del seco- lo XV, Torino, Paravia, 1927; Rodolfo DE MATTEI, La politica di Campanella, Roma, Anonima romana editrice, 1927; Tommaso CAMPANELLA, Lettere [a cura di Vincenzo Spampanato], Bari, Laterza, 1927].
- Conciliazione in fumo, "Il Giornale della Sera", 27 gennaio [p. 2].
- La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia, "Critica fascista", n. 9, 1 maggio [estratto: pp. 1-15]. Sul frontespizio dedica autografa a Sergio Panunzio in data 3 maggio 1928.
- Il destino di un Re, "Il Resto del Carlino", 29 luglio.
- Civiltà, "Il Resto del Carlino", 25 settembre [p. 1].
- L’internazionale bianca, "Critica fascista", s.d. [pp.385-386].
- Cattolici e Regime [da quotidiano non identificabile, s.d.].
1929:
- Il senso dello Stato [1929], da periodico non identificato [pp. 15-18].
1930:
- Lotta e volontà di potenza (A proposito di un libro postumo di Raffaele Pompei), "Il Giornale economico. Rassegna Mensile", febbraio [pp.17-18].
1931:
- Mussolini, la rivoluzione ed i giovani. Il pensiero di un gruppo di universitari fasci- sti intorno alla concezione mussoliniana della rivoluzione, "Il Primato", II, 1931, nn. 1-2 [pp. 1-2].
- Motivi: Un dimenticato; Un nuovo partito?, ibid. [p. 5].
1932:
- Nascere, "Maternità ed Infanzia", settembre [pp. 805-808].
- Vecchia e nuova Europa, "La Gazzetta di Puglia", 22 novembre [p.1].
- La dottrina del Fascismo. Interpretazione di Benito Mussolini, "La Gazzetta di Pu- glia", 11 giugno [p. 1].
1933:
- Nostro primato, "La Gazzetta di Puglia", 22 agosto.
- Romanità della nuova Europa, "Costruire. Rivista mensile fascista", agosto [pp.9-10].
- La decadenza demografica della razza bianca in rapporto alle razze di colore ["5.12.33", data ms., periodico non identificato, bozza di stampa, pp. 1-11].
1934:
- Unità rivoluzionaria, "La Gazzetta di Puglia", 4 luglio [p. 1].
1935:
- Soltanto noi, "La Gazzetta di Puglia", 23 giugno [p. 1].
- Afrique, Italie et solidarité latine, "Nous, le latins", [Paris], 23 juin. [p. 1].
1936:
- Etica ed estetica fascista. L’epoca dello Stato, "Politica sociale", settembre-ottobre [pp. 273-274].
1937:
- Arnaldo Mussolini, "Fascismo. Rassegna del pensiero nell’Italia d’oggi", gennaio- febbraio [estratto: pp. 151-168].
- Dal risparmio italiano al risparmio mondiale, "L’economia italiana", novembre [pp. 887-891].
1938:
- Colonizzazione ed Impero, "Rassegna economica dell’Africa Italiana", febbraio [pp. 188-191].
- Considerazioni sulla presente civiltà, "Lo Stato. Rivista di Scienze politiche, giuri- diche ed economiche", febbraio [pp. 65-76].
1939:
- Razza, Colonizzazione, Impero, "Rassegna economica dell’Africa italiana", s.n. [pp. 935-938].
- L’orgia d’oro, "Il Resto del Carlino", s.d. [p. 1].
- Fatale contrasto, "Il Resto del Carlino", s.d. [p. 1].
1940:
- Di questa guerra, "Lo Stato. Rivista di Scienze politiche, giuridiche ed economi-che", agosto-settembre [pp. 374-388].
1941:
- Imperialismo proletario, "Economia fascista", marzo [pp. 25-27].
- Guerra di popolo, "L’Economia italiana", marzo-aprile S.f. [pp. 131-133].
- XXIV Maggio, "Il Resto del Carlino", 24 maggio [pp. 1-2].
- Una gloria italiana, "Il Resto del Carlino", 3 luglio [pp.3-4].
- La Russia e l’Europa, "Il Resto del Carlino", 19 luglio (edizione del mattino). [pp.1-2].
- La Russia e l’Europa, "Il Resto del Carlino", 19 luglio (ultima edizione). [pp.1-2].
- Gli affari sono affari, "Il Resto del Carlino", 26 luglio [n. p. non identificato].
- Democrazia americana, "Il Resto del Carlino", luglio S.f [p. 3].
- Motivi. La politica è scienza?, "Il Resto del Carlino", 29 luglio [p. 3].
- Un esercito umoristico, "Il Resto del Carlino", 2 agosto S.f. [p. 3].
- Buon metodo e buon lavoro, "Il Resto del Carlino", 3 agosto [p. 2].
- L’aggressione americana, "Il Resto del Carlino", 19 agosto [p. 1].
- I nostri eroi, "Il Resto del Carlino", n. 37, 6 settembre [p. 2].
- Motivi. Uomini standard, "Il Resto del Carlino", 6 settembre [p. 3].
- Il popolo e la guerra, "Il Resto del Carlino", 4 ottobre [p. 2].
- Gli italiani in Russia, "Il Resto del Carlino", 8 novembre [p. 2].
- Una bandiera della Rivoluzione, "Il Resto del Carlino", 15 novembre [n. p. non identificato, con titolo e correzioni ms., incollato su carta].
- L’utopia di Campanella, "Il Resto del Carlino", 29 novembre [pp. 3-4].
- Noi passeremo, "L’Economia Italiana", novembre S.f. [pp. 531-533].
- Oro e lavoro, "L’Economia Italiana", novembre S.f. [p. 546].
- Uguali sacrifizi, "L’Economia Italiana", novembre S.f. [pp. 564-565].
- I nostri eroi, "L’Economia Italiana", novembre S.f. [p. 582, ripreso dall’articolo omonimo pubblicato su "Il Resto del Carlino", del 6 settembre].
- Un libro di Giuseppe Bottai: ‘Pagine di critica fascista’, "Il Resto del Carlino", 18 dicembre [p. 3].
1942:
- Miti svaniti, "Il Resto del Carlino", 16 gennaio [n. p. non identificato].
- Una nuova carriera della gioventù, "Problemi della gioventù", novembre-dicembre [pp. 14-17].
1943:
- Obbiettivi di guerra per la pace, "L’Economia Italiana", maggio S.f. [pp. 147-150].
- O vincere o perire, "L’Economia Italiana", maggio S.f. [pp. 195-196].
- Il pensiero politico italiano dalla guerra mondiale ad oggi. Breve rapporto ad un amico straniero, "Fascismo", s.d. [estratto: pp. 382-404].
- Il Partito e la guerra, "L’Economia Italiana", giugno S. f. [pp. 243-244].
- Questo grande popolo, "Il Resto del Carlino", 22 giugno [p. 1].
- Il nostro fuoco, "Il Resto del Carlino", 2 luglio [p. 1].
- Vitalità della Corporazione, "Il Resto del Carlino", 10 luglio [p. 1].
- L’America alla conquista dell’Europa, "Il Popolo di Roma", [luglio (?)]. [p. 1].
1945:
- Lo Stato, la guerra e la pace [8 pagine n.n. da pubblicazione non identificata].
VIII. VOCI DEL DIZIONARIO DI POLITICA
1940:
I.) Dizionario di politica. A cura del PNF. Voll. I-IV. Roma, Istituto della Enciclopedia italiana. A. XVIII E.F. [1940] .
Vol. I.: Aristocrazia (pp. 169-172), Aventino (p. 257), Caduti (pp. 360-363), Civiltà (pp. 498-499), Colpo di Stato (pp. 524-525), Cosmopolitismo (p. 663), Democrazia (pp. 751-764), Dittatura (pp. 808-809), Dopoguerra (pp. 817-821).
Vol. II.: Giovani (pp. 295-297), Imperialismo (pp. 473-476), Internazionalismo (p. 554), Interventismo (pp. 555-558), Irredentismo (pp. 572-573), Legittimismo (pp. 747-748), Liberalismo (pp. 754-766), Liberi pensatori (pp. 766-767).
Vol. III.: Mito (p. 186), Nazionalismo (pp. 241-246), Oligarchia (p. 308), Pacifismo (pp. 338-339), Partito. 1. I partiti politici nello Stato moderno (pp. 371-372), [la sezione Partito. 2. I partiti politici in Italia è di G. Perticone], Partito. 3. Il partito unico nelle costituzioni del dopoguerra (pp. 379-381), Plutocrazia (pp. 438-439), Proletariato (pp. 550-551).
Vol. IV.: Riformismo (p. 57), Rivoluzione fascista (pp. 88-110), Socialdemocrazia (pp. 282-283), Socialismo (pp. 283-297), Società segrete (pp. 302-304), Solidarismo (p. 308), Teocratiche [- Dottrine] (pp. 437-438), Utopia (pp. 586-587).
IX. DISPENSE PER CORSI DI LEZIONI
1935:
- Appunti delle lezioni di politica sociale presso l’Istituto Superiore di Studi corpo- rativi del lavoro e della previdenza. Roma. Roma, Arti grafiche, [1935].
1938:
- Storia delle dottrine politiche. Introduzione. Grecia, Roma-Perugia, 1938.
- Dottrina dello Stato, 1938.
- Storia della rivoluzione fascista, Roma-Orvieto, 1938 [seconda ed.: 1942].
- Le istituzioni del fascismo, "Bollettino della Regia Università Italiana per Stranieri", 1938, pp. 129-137.
1942:
- Politica del fascismo, Roma-Orvieto, 1942.
- Lezioni di politica del fascismo, raccolte da Antonio Pepe. Roma, Istituto Superiore di Studi Corporativi, 1942.
1943:
- Storia del fascismo. Le origini, Roma, O.U.S.E., 1943.
1951:
- Storia delle dottrine politiche. Introduzione a Machiavelli, Firenze, Libreria Editrice Universitaria, 1951.
1952:
- Il problema delle colonie nella storia del pensiero politico e sociale, 1952.
- Storia delle dottrine politiche. Introduzione. L’esperienza orientale, il pensiero greco, Firenze, Cam, 1952.
- Il giornale e la storia. Appunti tratti dalle lezioni tenute ai corsi di demodassologia, in Centro di demodassologia. Centro Studi e indagini sulla opinione pubblica. Demodassologia storica. Monografie svolte nell’anno accaemico 1951-52, Roma, 1952.
1955:
- Corso di Storia e legislazione coloniale. A cura di Giuseppina Finazzo. Anno acca- demico 1954-55. Università degli Studi di Firenze. Facoltà di Scienze politiche e sociali "Cesare Alfieri", Firenze, Cam, 1955.
1969:
|
Problemi della nuova società, Firenze, Scuola di guerra aerea, 1969. |
I. Il recupero di prospettive etico-politiche roussoviane nel confronto fra Stato, ‘volontà della nazione’ ed individuo (1931).
Nel 1931, non ultimo in concomitanza con l’assidua partecipazione a ‘Lo Stato’, di Costamagna - , si avverte una sensibile attenuazione della sua collaborazione alla ‘RIFD’, sulla quale comunque appare il fondamentale saggio intitolato Pluralismo giuridico e unità dello Stato(1). Qui, Curcio riprende adesso quanto aveva ‘da sempre’ affermato Panunzio(2) a proposito della sorta di ‘circolarità’, cioè di una reciproca ‘distinzione-interazione’, fra autonomia delle associazioni professionali e la necessaria mediazione da parte dello Stato. In siffatta ‘circolarità’ - secondo Curcio per niente scontata dal Regime (ed anzi palesemente contraddetta dalle sue statuizioni) -, le associazioni avrebbero dovuto ricevere dallo Stato il riconoscimento giuridico della loro funzione rappresentativa. E, viceversa, quest’ultimo avrebbe dovuto recepire proprio da quelle l’imprescindibile apporto di vitalità, di spirito creativo, di progettualità ‘rivoluzionaria’. Una progettualità nel senso di un vero rinnovamento sociale, politico ed alla fine istituzionale, che solo questo tipo di organismi professionali poteva assicurare all’ordinamento statuale, rendendone possibile la sostanziale unitarietà politico-giuridica nella molteplicità dei loro diversi apporti e delle loro distinte funzioni.
Sullo sfondo di questo problema del ‘corporativismo’, in realtà si stagliava - come è intuibile - una questione insolubile. Quanto Curcio ora rivendicava erano i motivi stessi della sua iniziale adesione al fascismo. Del resto, per lui come per Panunzio ed altri fascisti della prima ora, la questione fondamentale era stata quella di concretare a fronte dello Stato un ruolo sostanziale delle organizzazioni professionali. Allora si era in effetti trattato di dar corpo a quelle istanze di individualità, di élitismo, di libertà organizzativa e di una loro rappresentatività politica, che il ‘fascismo-movimento’ aveva inteso sì combattere nell’interpretazione estremistica, sovversiva, dei socialisti, ma certamente non negarne in linea di principio la loro sostanziale validità, ed anzi rivendicarne una più veridica interpretazione.
Qui potremmo dire che il primo Curcio, quello liberale - non diversamente dal primo Panunzio, socialista, e più in generale non diversamente da tutto il sindacalismo fascista, nato dal ceppo del socialista sindacalismo rivoluzionario - si era trovato avviluppato nell’eterna contraddizione di ogni prospettiva rivoluzionaria, che sorge per la rivendicazione di maggiore libertà e rappresentanza politica, per poi contraddittoriamente realizzarsi in una metamorfosi dittatoriale. E si tratta sempre di una dittatura che non lascia mai più alcuno spazio a nessuna autonomia. Una dittatura di ‘salute pubblica’ che talora, se non sempre, ‘divora i suoi figli’ (come accadde nel 1789-99), o quanto meno li marginalizza. Come appunto questi ‘fascisti delusi’ di cui stiamo trattando, i quali alla fine si ritrovarono costretti a celarsi nelle pieghe di una cultura alternativa (quella della ‘RIFD’, nella fattispecie di Curcio), mentre nella pubblicistica di più ampia ed ufficiale diffusione ritennero di dover continuare a professarsi aderenti all’ortodossia del ‘Partito unico’.
Tutto questo spiega per un verso il ‘ritorno di fiamma’ liberale di questi saggi di Curcio apparsi sulla ‘RIFD’, sia - anzitutto, e specialmente - quelli del 1930 che si sono prima visti, nel precedente paragrafo, sia anche questo dell’autunno-inverno del 1931, Pluralismo giuridico e unità dello Stato. Per altro verso si spiega anche il lungo silenzio sulle pagine della ‘RIFD’ nei precedenti tre quarti di quell’anno. E non ultimo il silenzio degli anni seguenti, in cui sulla ‘RIFD’ Curcio pubblica quasi esclusivamente recensioni, eccetto l’ampio studio intitolato Machiavelli nel Risorgimento, sul fascicolo di gennaio-febbraio 1934(3). Una collaborazione ‘a intermittenza’, dunque, a confermare, in certo senso l’ alfa e l’omega del decennio 1924-34.
Sul momento, infatti, Curcio si dedica soprattutto alla rivista di Costamagna, quantunque nel 1931 la sua riflessione non si differenzi molto dalla suddetta impostazione peculiare del 1930 sulla ‘RIFD’, che evidentemente ha lasciato una traccia indelebile. Infatti, da un lato, troviamo anche qui, su ‘Lo Stato’, la stessa miriade di scritti meramente occasionali(4), fra cui si distingue solo, all’inizio dell’anno, una pur retorica panoramica sulla diffusione planetaria del fascismo (La marcia sul mondo)(5). E d’altra parte, a luglio, nella rubrica Note e discussioni, compaiono sia un’importante riflessione sulle componenti filosofico-rivoluzionarie del pensiero roussoviano (Anti-Rousseau?)(6), sia due altre significative analisi, nella rubrica Rassegna di dottrina e di giurisprudenza. Si tratta precisamente sia - in ottobre - di un’ampia disamina dal titolo Stato e diritto nella recentissima letteratura italiana(7); sia - in dicembre - di un significativo ripensamento intitolato Liberalismo e politica antica (8).
Con lo scritto intitolato Anti-Rousseau? siamo in presenza - lo si avverte subito - di un’ulteriore svolta nella complessiva riflessione storica, filosofica e politica di Curcio, il quale si conferma sostanzialmente ben al di là dell’ideologia fascista. Adesso - dopo l’afflato etico-religioso del saggio del 1930 sulla ‘RIFD’ - anche sul piano prettamente filosofico-politico si annuncia in lui quella rivalutazione del pensiero illuministico e della stessa Rivoluzione che - se sul momento segna la sua distanza dall’ideologia fascista ed annuncia le più ampie riflessioni dell’immediato secondo-dopoguerra(9) - prefigura già il carattere della sua conclusiva teoria politica(10).
In effetti a queste conclusioni non può che indurci la lettura di queste brevi e dense pagine dell’Anti-Rousseau?, nelle quali fra l’altro si può cogliere un’ampiezza di concetti che solo in Cassirer e, molto più tardi, in Fetscher è dato ritrovare riguardo al Ginevrino(11). Nell’ Anti-Rousseau?, Curcio inizia con una lunga disamina della pregiudiziale avversione che, particolarmente negli storici francesi (e con immediati riflessi fra gli italiani), si è venuta manifestando fra Otto-novecento, in un rifiuto totale della Rivoluzione francese in cui si è giunti a coinvolgere anche lo scrittore ginevrino, nei cui confronti ora gli stessi intellettuali fascisti palesano una preconcetta avversione(12).
Non che non ve ne sia un motivo anche filosofico, - continua Curcio - date non tanto le pur gravi contraddizioni morali della sua vita, quanto soprattutto le antinomie del suo pensiero(13). E qui, rielaborando una categoria schmittiana, considerata però in senso non totalmente svalutativo, Curcio afferma che il pensiero roussoviano è una "forma tipica del romanticismo politico"(14). Ossia è un’espressione di quell’utopia che comunque non è del tutto negativa, in quanto rende possibile immaginare il futuro, per poi plasmarlo sulla base dei nostri ideali rivoluzionari.
Il riflesso di questo ‘romanticismo politico’ sul piano della teoria della genesi dello Stato induce sì Rousseau ad un’incessante, inarrestabile ricerca di un modello di perfezione, ma è un’utopia che evoca costantemente un ‘ordine nuovo’ da creare in forme dinamiche. Così del resto - osserva in sostanza Curcio, anticipando alcune implicazioni sulla distinzione, che prenderà corpo nel 1940, fra l’utopia ed il mito politico(15) - si svolge la storia umana(16).
"Allora, è tutto caduco in Rousseau? Non resta proprio nulla di lui?"- si chiede Curcio, e risponde: "Dal punto di vista costruttivo, sì", non resta niente della sua speculazione politica, "ma da un punto di vista ideale, no": non è affatto vero che non ci abbia lasciato nulla di valido(17). Dobbiamo a lui l’intuizione della necessità di fondare la politica sulla morale, e quindi di costruire lo Stato su una base etica, con il contributo attivo di tutti i componenti del corpo sociale, senza deleghe incondizionate, senza una rappresentanza che sia rinuncia ad una partecipazione attiva alla politica.
"L’ideale di Stato, lo Stato postulato nei suoi termini estremi, è perciò, in lui, un vero e proprio Stato etico, uno Stato nel quale tutti sono, tutti agiscono, tutti sono presenti"(18). Nonostante tutte le critiche che si sono fatte o che si possano ancor oggi fare alla democrazia come amorfa somma di individui, l’idea di Rousseau era invece quella di una ‘democrazia non di massa’, ma costituita dalla compresenza attiva di tutti i membri del corpo sociale(19). Da qui una democrazia eticamente fondata sull’individuo e quindi distinta dal liberismo individualistico, dall’egoismo insociale, come pure dagli utopici livellamenti egalitario-comunistici(20).
Tuttavia, se questi sono gli apporti positivi che Rousseau ha dato all’elaborazione dello ‘Stato etico’, d’altra parte - continua Curcio - mancava alla sua teoria un fattore che potesse tradurre in un modello politico efficace la sua visione, che pertanto resta utopica. Gli mancava una considerazione della forza politica che potesse realizzare il suo ideale, il quale perciò rimane astratto, senza nesso con le istituzioni storiche e l’azione politica(21).
Restando mera utopia, astrazione, la sua filosofia politica fatalmente alimenterà poi il Terrore, la necessità di usare in maniera radicale, assoluta, la forza per costringere nel quadro utopico dell’ordine politico astrattamente concepito una realtà non considerata e capita nelle sue concrete dimensioni storiche(22).
Ed allora, si chiede di nuovo Curcio, "tutto da gettar via Rousseau?"(23). E di nuovo, in apparenza contraddittoriamente, risponde che sì, ma fino ad un certo punto. "Bisogna saper leggere bene nelle pagine della storia del pensiero, le quali contengono sempre una dolorosa esperienza dello spirito umano"(24). Certo, il Rousseau di maniera, l’idolo di "una certa democrazia", di coloro che non hanno capito nulla della politica, è da rimuovere, da dimenticare. Ma non quello che appare da tante pagine della sua vita e dei suoi scritti, protagonista di una drammatica, disperata, ricerca etica di un ordine migliore, di una perfezione esistenziale, peraltro irraggiungibile. Se il suo ‘perfettismo’ etico ha pur prodotto Robespierre, che percorse la terribile via per raggiungere questa perfezione impossibile, tuttavia in sé l’idea di un primato dell’etica sulla politica è il debito che nell’epoca moderna abbiamo con il Ginevrino.
Dunque, la ricerca di Rousseau non è priva di un suo fondamentale valore, pur smarrito nell’astratta visione razionalistica. Malgrado i suddetti limiti, vi sono nelle sue formulazioni imprescindibili insegnamenti, e non soltanto di errori da non ripetere, ma di uno stadio forse necessario per l’umanità, oggi forse superato ma proprio grazie anche all’individuazione roussoviana di antinomie e contraddizioni che lui non seppe risolvere, ma che ancora potremmo a nostra volta trovarci di fronte alla necessità di affrontarle e superarle(25).
Non poteva essere più esplicito il richiamo di Curcio al Regime, in queste pagine posto di fronte alla drammaticità implicita al configurasi, per giunta solo formalmente, come l’ideale di Stato, come lo "Stato postulato nei suoi termini estremi", uno "Stato etico, uno Stato nel quale tutti sono, tutti agiscono, tutti sono presenti"(26).
Denuncia dunque di una tragica inadempienza del Regime. Inadempienza del resto implicita, inevitabile in ogni troppo ambiziosa costruzione storica, che si incammina lungo una via in cui si dovrebbe riuscire ad evitare due scogli che alla fine si rivelano insuperabili. Da un lato, ogni progettualità ‘totalizzante’, in questa ricerca di perfezione scade nel formalismo giuridico, nell’imposizione di molto di più di quanto potrebbe trovare consenso, e quindi di un ordine che rasenta l’abisso di risolversi in mero strumento per ogni abuso di legalità, del tutto inconciliabile con la legittimità politica.
Dall’altro, tale progettualità si fonda presuntivamente su di un’eticità troppo perfetta, troppo astratta rispetto alle effettive situazioni storiche e condizioni umane, e motivo di imposizioni che nei loro effetti risultano sempre dispotiche e socialmente coercitive e dilaceranti.
Dopo questa riflessione su Rousseau, che rappresenta proprio sulle pagine di ‘Lo Stato’ forse il punto più alto di questo suo ulteriore avanzamento verso l’abbandono dell’ideologia, Curcio continuò nella sua attività di tono minore, con contributi di non eccelsa rilevanza su questa stessa rivista di Costamagna. E cioè, sia nelle rubriche(27), sia con recensioni(28). E fra queste un certo rilievo ebbero soltanto i temi affrontati in Stato e diritto nella recentissima letteratura italiana, nel fascicolo del novembre 1931(29), sul quale del resto vennero pubblicati altri suoi scritti sia nelle stesse rubriche(30), sia con una recensione relativa all’accennata pregiudiziale anti-roussoviana dominante in quel momento in Francia(31).
Sul fascicolo di dicembre, assieme alle solite brevi note sui problemi di immediata attualità - nella rubrica Rassegna delle riviste, con Guerra e liberalismo(32) e Politica, diritto e Stato(33) -, Curcio riconverte l’attenzione sul significato dell’idea liberale nell’epoca contemporanea. Non è certo un ritorno puro e semplice alla sua iniziale fede liberale (per la quale si era comunque rivolto al fascismo, riconoscendovi allora, negli anni Venti, una più sicura egida contro i pericoli incombenti sia da parte del ‘formalismo giuridico borghese’, sia da parte degli eccessi del radicalismo socialista). Adesso, nel progressivo attenuarsi delle motivazioni ideologiche che lo avevano sospinto alla militanza fascista, Curcio sente venuto il momento di ripercorrere tutta quanta la storia dell’ideale liberale.
In tal senso va visto infatti il suddetto scritto intitolato Liberalismo e politica antica(34), in cui si ha un’altra testimonianza di come, accanto al ripensamento sulla democrazia e sulle idee illuministe, egli stia recuperando un più vasto orizzonte sui problemi fondamentali della politica. Se comunque si tratta di una rivalutazione parziale, nondimeno ha chiaramente un suo significato questa attenta riflessione sui momenti e processi per i quali nella storia occidentale l’idea liberale ha rappresentato, e rappresenta, un’occasione perduta, precisamente in quanto l’indiscutibile valore della libertà subisce fatalmente un travisamento, scadendo nell’individualismo, nella prevalenza di interessi egoistici, materialisti, economici e non più politici.
In sostanza, - argomenta qui Curcio - l’idea di libertà ha avuto una sua insostituibile valenza, fondamentale per la politica, fino a che è stato un sentimento di forti personalità, di temperamenti eroici, capaci cioè di realizzare il proprio interesse sublimandolo sul piano politico, facendone una componente essenziale della politica e dei fini della comunità. È un convincimento di cui qui Curcio cerca conferma nella storia greca, romana e contemporanea. Il suo ragionamento inizia dalla distinzione di Benjamin Constant fra la libertà degli antichi e dei moderni, confutando però i termini della sua asserzione dell’improponibilità di una composizione fra l’antica subordinazione della libertà individuale rispetto al primato della comunità (la polis, la respublica) e l’attuale primato del liberismo, del mero interesse economico, egemone rispetto alla società(35).
Oggi sarebbe dunque sbagliato concepire il liberalismo non soltanto nei tratti di uno ‘Stato di diritto’ che fornisca garanzie puramente formali (come finiscono per essere le cosiddette "libertà politiche e civili"), ma anche nella fattispecie di un individualismo fonte di egemonie e di particolarismi economici incompatibili con la politica(36). Del tutto valida risulta invece l’idea liberale, quando sia correttamente intesa, ossia inserita armonicamente nel complesso di altri elementi fondamentali della politica. Libertà politiche e civili, individualismo ed interessi particolari, "sono, senza dubbio, caratteri essenziali del liberalismo; ma, connessi ad essi altri ve ne sono, oltrecché politici e giuridici, [anche quelli] economici, morali e spirituali"(37). Tutto sta nel definire una composizione equilibrata fra questi diversi contesti. Una mediazione certo difficile. Anzi impossibile da conseguire in questa come nelle epoche che ci hanno preceduto, ma proprio perché si è sempre finito per assolutizzare la libertà, ed ancora la si assolutizza, sia decisamente negandola che acriticamente esaltandola.
Ma tutto questo non significa affatto che la libertà non sia di per sé un valore, quantunque resti sempre problematico riconfrontarla e renderla compatibile con l’ordine politico. Non ci riuscì, qui ha ragione Constant, l’idea di libertà che nacque nel contesto arcaico della polis, originariamente "composta da una possente organizzazione di famiglie", ove l’individuo era solo soggetto, e di fatto annullato(38). Qui certo ben poca era la libertà, come del resto nelle epoche successive. Però nell’ulteriore sviluppo della polis, nelle guerre e nell’antagonismo con altre poleis, le famiglie gentilizie diventarono a loro volta soggette, subordinate allo Stato, mentre l’individuo finì per acquistare una sua piena autonomia. Allora proprio le forti personalità furono protagoniste dell’espansione territoriale e del commercio(39).
Analogo il processo dell’idea di libertà nel mondo romano, nel quale solo nella fase decadente si venne perdendo un originario senso della libertà individuale contestuale all’eguaglianza politica. Se è innegabile che il diritto romano ha un suo fondamento nel diritto civile, nella tutela della propria autonomia giuridica ed economica, in seguito poi questo "atteggiamento praticistico", non più "permeato da spirito eroico", ebbe l’effetto di snaturare il diritto, liberandolo gradualmente dal contesto politico, per cui si ridusse "a forma pura", perdendo "la sua forza organizzatrice e difensiva dell’ordine"(40).
Svuotato da ogni sostanziale individualità politica, allora come adesso il diritto diventa qualcosa di astratto, di solo formalisticamente universale. In tal modo finisce la grande stagione della politica romana. Allora le lotte sociali fanno desiderare l’allontanarsi dalla politica. "La libertà eccede e trionfa. La disciplina scema e decade"(41). Poi le legioni si ribellano. Gli operai si organizzano. Non sono più schiavi, ma masse di liberti, di stranieri cui viene concessa la cittadinanza. Eppure restano turbolenti ed intemperanti. Aumenta il caos con altre guerre. Ci vuole un ritorno all’ordine. Si inquadrano queste masse nelle corporazioni, ma ormai è scomparsa ogni possibilità di instaurare una libertà sostanziale, al tempo stesso individuale e politica. "Dopo il III secolo le corporazioni diventano obbligatorie, elementi dello Stato. Il liberalismo si é suicidato. L’eccesso di libertà fa rimpiangere l’ordine, la gerarchia, l’accentramento"(42).
Parole in cui certamente Curcio produce un chiaro riferimento non solo all’Italia post-unitaria, al sistema ideologico e normativo ‘borghese’, bensì allo stesso Regime, al sistema totalitario, come risultante dell’occasione mancata di recuperare contro tale formalismo economico una libertà politica sostanziale. Pertanto, una conclusione come questa, se non è un pieno recupero dell’idea liberale comunque testimonia non tanto la legittimazione della dittatura, quanto il rimpianto per qualcosa di essenziale per la politica, la perdita della stessa libertà. Una perdita antica, pregressa, certamente, ma che surrettiziamente il Regime riconferma e rende definitiva, con il pretesto di riaffermare l’ordine autoritario contro i suoi veri e pretesi eccessi.
II. Oltre l’economicismo sindacalista, le suggestioni universalistiche e le ideologie etnico-naturaliste : il problematico riconoscimento della nazione come ‘comunità etica’ (febbraio-aprile 1932).
Nell’anno successivo, il 1932, la collaborazione di Curcio a ‘Lo Stato’ riprende nel gennaio nelle rubriche(43) e recensioni(44). Maggiori implicazioni, in riferimento alla questione corporativa-sindacalista, ha lo scritto che apparve in febbraio, con il titolo La ‘teoria della politica’ di Enrico Leone(45). Qui Curcio sviluppa il tema del recupero dell’idea di libertà, sin lì (con Liberalismo e politica antica) argomentato nei confronti del Regime, nel richiamo ai presupposti stessi del confronto con il ‘sovversivismo socialista’, accentuando peraltro le implicazioni di una critica di fondo allo stesso capitalismo borghese. Con La ‘teoria della politica’ di Enrico Leone infatti Curcio indica nel sindacalismo l’ elemento vitale delle originarie implicazioni della rivoluzione fascista. Un elemento che peraltro a Curcio appare sempre più formalmente surrogato dal ‘corporativismo di Stato’.
Questa recensione al libro di Leone, intitolato appunto La teoria della politica(46), pone l’accento sui principali aspetti del sindacalismo nell’arco di tempo compreso fra il 1891 ed il 1901(47). Quantunque risalente a tempi così relativamente lontani, in questo lavoro Curcio scorge infatti l’opportunità di ripercorrere la vicenda stessa dell’insanabile divaricazione prodottasi dapprima fra il sindacalismo socialista ed il sindacalismo fascista, e successivamente fra quest’ultimo e le posizioni teoriche e normative relative alle ‘corporazioni di Stato’(48).
Una teoria, questa di Leone, che appare a Curcio come la vera e propria "reazione allo schematismo astratto de’ teorici della Politica degli ultimi tempi", i quali l’hanno "resa tisica", riducendola a mero "formalismo etico-giuridico, che è pura astrazione"(49). Un discorso che si riferisce anche qui evidentemente allo stesso Regime. Sulla base di questo convincimento, in effetti, Curcio ascrive a grande merito di Leone il fatto di presentare ora la sua interpretazione del sindacalismo come una riflessione critica sulla "esasperata teoria politica del Fascismo"(50).
Un " volo d’aquila" dunque che questo vecchio sindacalista compie nella ricostruzione della vicenda perduta del sindacalismo, allo scopo - sottolinea Curcio - di "tentare una costruzione integrale, geniale, ciclopica della nuova Politica, intesa in tutta la sua estensione ideologica e umana, concepita in tutto il dramma del suo sorgere, del suo svolgersi, del suo effettuarsi nella storia del mondo"(51).
A parte una forte impostazione positivista(52), quanto resta valido nelle tesi di Leone, formulate da alcuni decenni, è la consapevolezza che lo Stato "non è un’ideologia astratta, una formula, un mannequin dell’immaginazione", bensì "un fatto di esperienza, una realtà vivente, operante nella storia, negli uomini"(53). Lo Stato non è "un edificio che una volta eretto sfida i secoli", ma un ordine che "viene riedificato perpetuamente attraverso la storia"(54). Malgrado dunque i palesi convincimenti positivisti di Leone (che a tratti lo inducono a identificare lo Stato con i governanti, a patto che siano i più forti, i più capaci, i più razionali), tuttavia - osserva Curcio - il vecchio sindacalista ha ragione quando coglie l’elemento vitale, dinamico, dello Stato, al di là di qualsiasi formalismo, di qualsiasi staticizzazione del fenomeno istituzionale(55).
Nondimeno, - rileva Curcio - non è tutta qui la concezione politica di Leone. Tutt’altro. È un "semenzaio di idee, di concetti, di teorie, che s’accavallano, si sommano, qualche volta s’elidono anche", e tuttavia sono sempre convergenti verso quello che è il nucleo del suo discorso, ed assumono cioè il significato di una ricerca della più vera valutazione ed interpretazione di taluni concetti politici fondamentali(56).
In tale prospettiva vanno in realtà considerate tante altre sue formulazioni. Le teorie sulla guerra, sulla rivoluzione, "intesa non già come vizio dello Stato, ma esprimente invece l’adattamento di nuovi rapporti alla vita d’insieme"(57). E poi la nozione di libertà, concepita come "illusione creata dalla Politica", nel senso che può aver realtà effettuale solo in un ordine sostanzialmente e formalmente politico(58). Infine, la critica del parlamentarismo, "illusione anch’esso creata dalla Politica, ‘pianeta della potenza’, che lo fa vivere", e la critica della stessa democrazia(59).
Su quest’ultima sembra comunque a Curcio che Leone abbia insistito criticamente in maniera troppo "violenta, acuta, acre, […] com’è logico, del resto, intuire da quello che s’è detto, perché questa politica essendo politica di potenza, di autorità, è antidemocratica per natura, per principio, per istinto"(60).
In tali tratti - non senza una qualche confusione argomentativa fra quello che sostiene Leone ed i suoi propri convincimenti - Curcio indica poi altri aspetti rilevanti di questa teoria sindacalista. Anzitutto, l’impostazione positivista di una tale analisi della politica come scienza, come ‘scienza politica’, secondo cioè una concezione di impronta razionalista, che comunque coglie molto spesso nel segno(61).
Dopo questa recensione, né nel rimanente di questo fascicolo di febbraio di ‘Lo Stato’, né in quello di marzo, Curcio va oltre alcune rassegne(62) e recensioni(63). Ad aprile, si percepisce invece qualcosa di nuovo con Concludere(64). Qualcosa di più dei soliti contributi di immediata attualità(65). Così anche nel fascicolo di maggio, dove viene ripresa la questione del liberalismo (con Il liberalismo e l’esperienza europea, sorta di recensione, senza un significativo commento, alla Storia d’Europa nel secolo decimono di Croce)(66). Per il resto, ancora una profluvie di scritti minori(67). Così pure nel fascicolo di giugno(68).
Sempre nel 1932, attenuata sensibilmente la collaborazione a ‘Critica fascista’ , e nella continuazione nei suddetti termini quella su ‘Lo Stato’, - d’altra parte Curcio non solo pubblica due importanti monografie (La politica italiana del ‘400. Contributo alla storia del pensiero borghese(69), e L’Italia e l’Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana(70)), ma soprattutto intensifica la sua presenza sulla ‘RIFD’.
Sulla rivista di Del Vecchio infatti Curcio produce - oltre alla solita copia di recensioni(71) - un fondamentale saggio, apparso sul fascicolo del marzo-aprile, intitolato La coscienza dello Stato(72). Qui ora Curcio sviluppa anzitutto un’approfondita riflessione sulla nozione di ‘nazione’, che gli appare troppo a lungo fraintesa nel passato, sia quando veniva identificata totalmente con un’etnia, sia quando venne poi annientata appunto in un universalismo utopico, astratto(73).
La nazione - si chiede Curcio - è davvero una "realtà viva, pulsante, operante nel pensiero e nella storia, nello spirito e nello svolgimento dei fatti politici; o è assai meno, anzi nulla", come diceva Proudhon, definendola una pura "illusione, un mito?"(74).
Quesito di cui la risposta, secondo Curcio, va ricercata, prima di altro, nella complessa storia di questa idea ‘nazionalitaria’. Un’indagine che però va svolta non sul piano della ‘scienza politica’, ma su quello della storia delle idee, delle dottrine politiche’, in quanto la nazione non è un dato oggettivo, scientificamente valutabile, bensì un’ entità intimamente connessa con il variare delle "esigenze della vita sociale e politica", in stretta correlazione dunque con sempre nuovi "valori che parevano", prima, del tutto "inammissibili"(75).
Precisato questo, nei primi due paragrafi di La coscienza dello Stato, Curcio considera poi attentamente le principali interpretazioni dell’idea di nazione nell’antichità. Ad iniziare da quella che appare la sua prima effettiva formulazione, cioè nel contesto culturale del Vecchio testamento. In effetti, - asserisce Curcio (quasi in un’eco del soreliano Étude sur l’histoire profane de la Bible, del 1889) - la Bibbia è il vero e proprio "vangelo della nazionalità"(76), il luogo dove il concetto di nazione appare "considerato come un’unità non solo etnica, ma spirituale e storica, etico-politica e pregiuridica"(77).
Nel prosieguo della vicenda dell’idea di nazione si sviluppa un processo articolato in due momenti. Dapprima, da questa fase iniziale, nella cultura ebraica, si passa alla versione greca del Vecchio testamento (nel testo cosiddetto dei Settanta, fra III-II secolo a.C.), che segna nell’ellenismo il superamento dell’idea di nazione che aveva avuto corso nella Grecia classica(78). In un secondo momento, mezzo millennio dopo, con la traduzione in latino (nella Vulgata, prodotta attorno al 405-406 d. C. da San Girolamo), tale processo sfocia finalmente in una puntuale corrispondenza con il significato che si dava all’idea di nazione nel mondo romano, nel senso di riconoscervi "come un’entità separata almeno dal concetto di Stato"(79).
Soprattutto a Roma, la formulazione di princìpi e di valori nazionalitari recepita dalla Bibbia ha trovato un’armonica composizione sul piano dell’universalismo cristiano. Avvenne allora un ‘superamento dialettico’, nel senso di un processo ulteriore, inteso ad inglobare, senza disperderne integralmente le distinzioni culturali, qualsiasi esclusivismo etnico. Una sintesi, dunque, che si è poi codificata in idee e concetti veicolati infine grazie alle strutture amministrative dell’Impero romano(80). È pertanto più propriamente con il pensiero politico romano che appare la sostanziale novità rispetto a tutte queste precedenti incertezze, confusioni ed antinomie(81). Nasce allora l’idea di Stato come entità irriducibile alle singole comunità etniche, da cui però tale idea trae vita ed alimento, in ragione di specifiche diversità che nello Stato stesso trovano un significato superiore(82).
Si deve però comprendere il postulato culturale, etico-politico, di una tale entità statuale, che si fonda sostanzialmente su delle molteplicità. Per cui non se ne possono trascurarne, unificandole nella loro distinzione, le diverse peculiarità e le interazioni vicendevoli che sussistono fra di esse, per il tramite dello Stato, e con lo Stato stesso(83). Dunque un’entità statuale - ripete qui (con le stesse parole di Cicerone) Curcio, ed ancora in funzione critica verso lo ‘Stato-Regime’ - che non può mai credersi impersonata assolutamente in un un’unica entità, né nella nazione-etnia, né nella persona di un solo principe o sovrano(84).
Una precisazione, quest’ultima, più eloquente di ogni altro discorso a dimostrare una profonda critica al Regime che qui sulle pagine della ‘RIFD’, in questo 1932, prende corpo più chiaramente che non nel saggio del 1930 (L’ostetrica del diritto).
Una critica che del resto prefigura la successiva presa di distanza di Curcio dallo stesso totalitarismo ‘nazional-socialista’, sulla base appunto di un’inaccettabilità del criterio ‘etno-centrico’. Qui il discorso di Curcio si fa dunque più preciso, andando oltre la precedente argomentazione, sul sindacalismo e sul corporativismo. Al di là dell’insoluto confronto fra la ‘pluralità di ordinamenti giuridici’ e l’ ‘unità dello Stato’, adesso sembra a Curcio che la rivendicazione di un ruolo delle individualità concrete, quelle effettualmente operanti sulla base di motivazioni etico-politiche, possa realizzarsi più convincentemente attraverso la distinzione di differenti livelli dell’esperienza istituzionale e normativa.
Del resto, qui una simile complessità viene considerata da Curcio sulla base di una prospettiva intesa a superare lo stesso contesto dello Stato nazionale. Sulla base del riferimento all’esperienza imperiale romana, adesso Curcio intende chiarire come l’asserito primato dello Stato totalitario debba essere relativizzato sui due versanti sia dei rapporti con la ‘società civile’ (cioè sul piano del confronto fra il ‘diritto positivo’ e lo ‘ius civile’), sia delle relazioni internazionali, adesso ormai da considerare secondo le implicazioni del ‘diritto delle genti’ (lo ius gentium).
Si tratta comunque di una relativizzazione che richiede di porsi concettualmente al di là della dimensione storica attuale. Si tratta infatti di capire come l’essenza di questo ridimensionamento del primato dello Stato, vada colta lungo le diverse fasi di un processo storico articolato in singoli momenti e differenti tipologie di motivazione etica e di aggregazione politica. Una complessità di implicazioni, dunque, che ora Curcio cerca di chiarire attraverso una spiegazione incentrata su di una molteplicità di fattori e di individualità politicamente operanti nella storia. Si tratta pertanto di una spiegazione che insiste sull’interazione vicendevole fra contesti, esperienze, acquisizioni storiche che sono al tempo stesso irriducibili reciprocamente gli uni agli altri, e vicendevolmente interattivi e complementari nell’ordinamento istituzionale che da loro stessi risulta(85).
"In sostanza lo jus civile - che è particolare a ciascuna città, relativo, cioè alla tradizione, alle abitudini, alla origo del gruppo etnico - non è negato; ma è superato dall’esigenza storica ed etica dell’Impero"(86). Siamo peraltro in presenza di un’ interpretazione che si riconnette ad un suo precedente lavoro, del 1928, di cui qui sopra abbiamo fatto cenno, intitolato L’eredità romana nel pensiero politico italiano nel Medio Evo (sempre sulla ‘RIFD’)(87). E comunque, quanto qui va rilevato è che Curcio insiste sul fatto che l’Imperium, per quanto espressione di un processo di interazione fra molteplici elementi sociali e fattori storici, si identifica inevitabilmente in una nazione, che fatalmente assume il primato sulle altre, ponendosi alla loro guida verso un destino comune.
L’ Imperium - precisa qui Curcio - "rivendica altresì la legittimità della supremazia morale di una nazione - quella romana - sulle altre, in nome della civiltà, della cultura, della pace"(88). Nell’Imperium si delinea la realtà fattuale che ogni idea cosmopolitica - al di là di ogni astrazione in cui è sempre incorsa - "cela un carattere, un valore, un’impronta imperialistica, ove l’universalità non è astratta ma concretizzata dall’idea di un predominio di un popolo sugli altri"(89).
Una tale eredità romana impronta di sé tutto il processo storico fra medioevo ed età moderna(90), e caratterizza la stessa transizione rivoluzionaria verso l’epoca contemporanea, ponendo le basi di quella piena valorizzazione dell’idea di nazione che si produce nel XVIII secolo. Allora tale idea "diventa una molla potente per gli orientamenti politici e sociali dello spirito umano"(91). Allora, nazione e popolo si impongono come i temi centrali della riflessione filosofico-politica europea nel Settecento.
Al concetto tradizionale di ‘popolo’, è Rousseau che apporta il decisivo perfezionamento, quantunque non riesca ad esaurientemente distinguere quello di ‘nazione’. D’altro canto, - sottolinea Curcio (reiterando implicitamente il richiamo critico al personalismo del Regime) - il Ginevrino ha ragione nell’individuare la sovranità nel popolo, "vero creatore della volontà politica"92).
Con la dichiarazione dei diritti del 1789, la nazione è il popolo, "non ancora organizzato giuridicamente, ma in funzione di potere costituente", però – sottolinea Curcio - tutto il popolo, e non solo una parte di esso, come invece avverrà con l’ideologia giacobina(93). Da allora, la nazione è vista come l’elemento sostanziale, anteriore ad ogni ordinamento concreto, quindi elemento fondante, costituente, rispetto al quale lo Stato è solo una forma giuridica.
Il fatto problematico è però che la rivoluzione francese si basava sulla rivendicazione di un diritto naturale astratto. Era cioè espressione di una visione razionalistica, che ignorando l’effettiva dimensione storica, i veri fattori umani e la continuità della loro concretizzazione istituzionale, operava una cesura radicale con tutto il passato, non solo con quello che pure andava emendato da insopportabili staticizzazioni conservatrici. E pertanto, questo razionalismo finì per sfociare nel suo contrario, in uno scatenamento di irrazionalità. Da allora, a lungo, "i concetti di nazione e popolo, di nazione e Stato restano scissi, mai fusi o coordinati logicamente e storicamente"(94).
Isolato in tutto il Settecento, soltanto il nostro Vico, "profeta solitario", tenta una mirabile "interpretazione dialettica della storia, la sintesi dei concetti di nazione e popolo, di popolo e Stato", dal momento che per lui la "nazione è in tutta la sua complessità", è la ‘materia, la ‘sostanza’, "su cui lo Stato sorge e si forma"(95). Una ‘materia’, pertanto, non data in natura, "ma fatta dagli uomini, voluta, sentita, attuata da essi"(96). In questo senso la nazione - e non lo Stato - "è atto, volontà, storicità, giacché la Politica vien dopo la Morale e ne costituisce un perfezionamento"(97).
Successivamente, - prosegue Curcio - di reazione a questo razionalismo distruttivo, le correnti idealistiche dell’Ottocento introdurranno una suggestiva visione del mondo, nella quale, "spostato del tutto il centro della realtà dalla natura allo spirito, il concetto di nazione si risolve in una possente creazione, che l’attività spirituale dell’uomo pone in netto contrasto con la natura stessa"(98).
Venendo infine all’epoca contemporanea, Curcio sottolinea il fatto che nel corso della prima parte del XX secolo la nazione si è venuta connotando come "ideologia nazionalitaria", nella ripresa di quei princìpi che nell’Ottocento avevano animato le popolazioni europee nella ricerca di una loro identità come entità "etnicamente omogenea’(99). Da qui la Grande Guerra, frutto di questi nazionalismi esasperati ed a sua volta causa della polarizzazione di due posizioni che ancora tengono il campo. Secondo una prima enfatizzazione nazionalitaria si ha in effetti la riproposizione delle teorie giusnaturaliste, ora in chiave ‘libertarie-egalitarie’, per le quali si asserisce che tutti i popoli hanno il diritto di scegliersi una loro personalità nazionale, così come gli individui hanno diritto alla propria identità. E qui l’esito di tale interpretazione è il sistema statuale democratico(100).
L’altra enfatizzazione è quella invece di coloro che, con un qualche maggior fondamento, intendono la nazione "come spirito, come cultura, come volontà espansiva" : e qui è del tutto logico che accentuando consimile impostazione si giunga a teorie imperialistiche, aristocratiche, tendenti a legittimare la conquista di nuovi spazi(101).
Se si riflette bene, - osserva Curcio - si tratta di due posizioni tra le quali ondeggia il quesito dell’identità nazionale da secoli, anzi da sempre, nel senso di un antagonismo fra queste due interpretazioni della politica (appunto egalitario-democratica e, l’altra, aristocratico-capacitaria), che si complica anche per l’influsso di altri fattori. Ad esempio la considerazione da un punto di vista prettamente giuridico, in termini di filosofia del diritto. Oppure in termini di ‘scienza politica’, di storia politica. E non ultimo anche in termini di ‘scienze naturali’(102).
Al fondo della questione, - piuttosto che il giudizio di valore ‘democratico’ o ‘aristocratico’, il vero fattore sostanziale nel qualificare la ‘nazione’ è il suo rapporto di distinzione e di interazione rispetto allo ‘Stato’. Ed a tal proposito le recenti teorie - afferma qui Curcio - sono anch’esse straordinariamente antitetiche. Qualcuno postula che sia lo Stato che crea la nazione, per un verso ampliandone le dimensioni (e quindi attraverso l’imperialismo) e per l’altro verso connotandola unicamente come lo spazio su cui si esercita la potestà politica dello Stato. In entrambi i casi si nega ogni autonoma vita alla nazione. Altre teorie contrarie sostengono invece che la nazione crea lo Stato, ipotesi che a sua volta non spiega in alcun modo la specificità della funzione statuale, che è invece instaurativa di un ordinamento coerente ed unitario.
Fra queste polarità (e tante altre spiegazioni unilaterali che si sono date al problema) si sta facendo strada, ormai "prevalentemente accettata, la concezione della Nazione come formazione storica e morale"(103). Concezione "non giuridica o pregiuridica, ma inserita in una più vasta interpretazione del processo storico delle attività dello spirito"(104). Solamente in tale prospettiva di un processo complesso di vicendevoli interazioni fra queste due entità storiche distinte, la Nazione e lo Stato, è possibile risolvere l’apparente loro antitesi, in quanto si tratta semplicemente di concetti "logicamente distinti, ma in realtà coordinati da una superiore valutazione unitaria della Politica e del Diritto"(105).
A questo punto, nella penultima pagina di questo lungo saggio, emerge comunque nuovamente il dissidio che in questi anni sta lacerando profondamente la riflessione filosofico-politica di Curcio, nel senso che si dimostra da un lato seriamente teso ad un costante avvicinamento alle teorie filosofico-giuridiche di Giorgio Del Vecchio. E d’altra parte si palesa ancora evidentemente coinvolto in una non del tutto superata ottemperanza formale all’ortodossia del Regime. Infatti, nella parte che definirei ambigua di questa conclusione del saggio, nel periodo che segue quanto sopra si è visto, Curcio imprime una torsione argomentativa a questa sua storia dell’idea di nazione. Anche se per un breve attimo, qui è il momento in cui Curcio si abbandona di nuovo all’enfasi retorica per il Regime, celebrandone i fasti nella Carta del Lavoro(106).
Qui è innegabile che Curcio sottoscrive l’esatto contrario di quanto è venuto sin qui argomentando – e non sempre fra le righe – con i richiami alla roussoviana ‘volontà generale’, alla ‘volontà della nazione’. Qui, cioè, Curcio si ritrae in maniera evidente dalla critica, per quanto cauta, all’identificazione della nazione nello Stato, e quindi (tout-court, dato l’immediato referente allo Stato totalitario) con la ‘volontà personale’ del Capo del Governo(107).
Non è mia intenzione sottovalutare questo atteggiamento problematico, che resta innegabilmente presente, e sempre più incoerente con le suddette formulazioni di maggior respiro. Peraltro, è sull’aspetto critico che ritengo si debba soffermare l’attenzione, riconoscendovi, malgrado tante oscillazioni, quella che con maggior coerenza va intesa come la conclusione logica e morale del saggio. La nazione - precisa infatti Curcio nelle ultime righe - deve esprimere la ‘volontà del popolo’, ed in tutta la varietà di diverse interpretazioni del modo di partecipare alla politica(108). Così concepita, la nazione rappresenta - sono ancora le parole di Del Vecchio, che qui Curcio riporta - "la sintesi del lavoro e dei sacrifici delle generazioni anteriori, nella loro ideale e reale unità"(109). La nazione, dunque, come risultante da un "patto morale, fondato sul sentimento di una comune missione civile da adempiere e sulla incrollabile volontà di collaborarvi"(110).
III. La critica dell’organicismo tedesco pre-nazionalsocialista, il primato della teoria politica italiana e la prefigurazione del futuro dell’ Europa (luglio-dicembre 1932).
Riguardo alla collaborazione a ‘Lo Stato’, nel 1932, - dopo i suddetti precedenti contributi – nei fascicoli successivi Curcio affronta nuovamente e con una qualche ampiezza temi a lui cari. Appaiono così in rapida successione: Stato universale-organico e Stato fascista(111), quindi Oltre il diritto(112), poi Lo Stato, la guerra e la pace(113), ed infine Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’)(114). Vediamone alcuni aspetti salienti, a conferma di quanto siamo venuti sin qui esponendo. Nel fascicolo di luglio, appunto con Stato universale-organico e Stato fascista (nella rubrica Note e discussioni), Curcio segue una doppia linea interpretativa. Da un lato, formula una rilevante distinzione fra il fascismo come si era configurato nella fase pre-totalitaria e le concezioni organicistiche che si stavano affermando in Germania (lì, sinora, nella reinterpretazione delle teorie di Ottmar Spann in chiave di un naturalismo estremo, che prefigurava già l’avvicinamento ai presupposti ideologici del nazionalsocialismo).
Dall’altro lato, Curcio raffronta alla struttura monolitica del Regime fascista quella ricerca di autonomia (di individui, corpi ed organi) che, di contro al formalismo borghese ottocentesco, era stata fra le rivendicazioni di fondo del sindacalismo fascista. Il tema si svolge qui nella ripresa della tradizione italiana risalente alle organizzative delle corporazioni comunali.
L’occasione di questo duplice confronto, volutamente polemico (sul doppio fronte dell’anti-totalitarismo fascista e della contestazione delle concezioni deterministico-biologiche del suddetto organicismo tedesco), è l’articolo che Walther Heinrich aveva pubblicato sul fascicolo di maggio della stessa rivista di Costamagna, intitolato appunto Dottrina fascista e dottrina universale-organica(115), nel quale venivano anticipate alcune posizioni contenute nel libro dello stesso autore tedesco (Die Staats-und Wirtschaftsverfassung des Fascismus) che sarebbe apparso di lì a poco in seconda edizione. Opera che sin dal titolo si annunciava come un’interpretazione del ‘fascismo italiano’ quale sistema costituzionale meramente economico-statuale. A tali posizioni palesate dallo studioso tedesco, aveva obiettato subito con una breve nota, alla fine dello stesso articolo, la Direzione de ‘Lo Stato’, presuntivamente Costamagna, il quale prometteva una più ampia risposta da parte della rivista, come farà appunto Curcio nel fascicolo di luglio(116).
Contrasti ideologici, come si vede, che fra l’altro annunciavano l’atteggiamento di questo ambiente fascista che ruotava attorno alla rivista di Costamagna, inizialmente non favorevole all’incontro con l’ideologia razzista e pan-germanista del nazionalsocialismo. Da parte sua, Curcio diede appunto un rilevante contributo non soltanto con un attento esame del particolare tipo di ‘organicismo’ di Spann enfatizzato ideologicamente dall’Heinrich(117), ma soprattutto con la rivendicazione delle suddette autonomie corporative sia nei confronti di un tale inquietante organicismo, sia nei riguardi stessi del Regime totalitario fascista.
Si capisce che posizioni come queste aprono un serio quesito sulla posizione ideologica di Curcio in questi anni, particolarmente in relazione a quella che va considerata(118) come una sua sostanziale ‘fuoruscita dal fascismo’ a partire dal 1930, sulle pagine della ‘RIFD’ e particolarmente con il saggio L’ostetrica del diritto. D’altro canto, ancora nel 1932, e del resto più avanti nel tempo, Curcio continua a parlare di un sostrato etico del fascismo, reiteratamente contrapponendo - a prezzo di una certa ambiguità argomentativa - una simile implicazione ‘movimentista’ agli esiti totalitari del Regime.
C’è dunque contraddizione fra queste posizioni e l’interpretazione che ne ho dato sugli Annali dell’Università cattolica di Milano? Ritengo di no. Nel senso che penso ancora che Curcio continuasse anche dopo il 1930 a professare una sua visione ideale del fascismo, quella per cui si era mosso dal suo iniziale liberalismo verso una tale ideologia. Visione che del resto già qui ora gli appare sempre più antinomica rispetto al Regime ed ai suoi esiti totalitari.
Per un verso, in effetti, si conferma che in Curcio la concezione ‘corporativa’ si è già stemperata nella rivalutazione del pensiero religioso vetero-neotestamentario (e per certi aspetti diciamo pure delle origini ‘ebraiche dell’idea di ‘nazione’), sino a riproporre concezioni di tipo ‘solidarista’ cattolico. Ma, per altro verso, questo suo fascismo ideale, contrapposto al fascismo-Regime, in un contrasto che lo assilla in tale intorno di anni, viene incessantemente evocato sul piano di una netta e reiterata contrapposizione fra lo statalismo centralizzatore del Regime ed un’ istanza etica, pluralista, argomentata persino con qualcosa di più di semplici venature di una rivalutazione della stessa democrazia, come appare dall’evocazione di nozioni come la ‘volontà generale’, il ‘popolo’, la ‘rappresentanza parlamentare’.
Oggetto della sua critica è lo Stato totalitario, ormai da lui stesso riconosciuto come una programmatica metodologia livellante, dietro la facciata di un residuo rispetto formale delle garanzie di autonomia ‘concessa’ alle organizzazioni professionali, contrabbandando le corporazioni per una risposta coerente alle antiche istanze del sindacalismo fascista(119).
Sintomatico è anche il fatto che Curcio senta il bisogno di precisare i contenuti pluralistici di una potenziale eticità dello Stato, che dovrebbe essere fondata sulla molteplicità di entità sociali dotate di sostanziale autonomia(120). Di più, secondo Curcio, si dovrebbe trattare di un’eticità fondata sulla libertà. E proprio perché fondato su questa eticità, lo Stato che egli adesso concepisce (sbagliando ovviamente a continuare a professarne anche solo surrettiziamente la potenziale personificazione nel fascismo-Regime) "implica libertà, la quale è sempre disciplina, metodo, limite"(121). Dunque, se lo Stato deve essere strumento di attuazione giuridica di questa autonomia dei corpi sociali, proprio per questo non va confuso in alcun modo con le funzioni organizzative del potere esecutivo, e tanto meno con i poteri attualmente conferiti al Capo del Governo.
E qui, quantunque in un puntuale ossequio formale alla ‘grandezza politica’ di Mussolini, il discorso di Curcio è palesemente critico nei confronti della confusione-subordinazione all’esecutivo totalitario sia di tutto lo Stato, come organismo giuridico, che di tutta la società, come complesso di molteplici corpi ed enti dotati di una effettiva autonomia, pur nella necessaria unità statuale. "Pertanto associazioni professionali, enti, istituzioni sono [ma leggi: dovrebbero essere] elementi integranti della funzionalità dello Stato; ma non per questo sono strumenti di governo"(122).
La teorizzazione della pluralità e dell’autonomia degli ordinamenti all’interno dello Stato, in un rapporto di distinzione ed interazione vicendevole, ha nello stesso 1932 qualcosa di più di un riflesso nella monografia intitolata La politica italiana del ‘400. Contributo alla storia del pensiero borghese(123), dove ha luogo in effetti un’ampia ricostruzione storica e filosofico-politica che suscitò ancora nel dopoguerra l’ammirazione degli studiosi stranieri per i criteri innovativi posti nell’indagine(124). Poche righe di questo testo bastano del resto a farci comprendere la prospettiva da cui Curcio si muove per tracciare il quadro di una continuità capace di illuminare l’epoca presente(125), sia sul significato della struttura complessa dell’ordinamento politico-istituzionale, sia sul ruolo instaurativo-restaurativo della rivoluzione(126).
Nel fascicolo di agosto di ‘Lo Stato’, con un brevissimo scritto, dal titolo Oltre il diritto(127), nel riferimento ad Alfredo Rocco e ad altri recenti lavori(128), e nell’intento di evidenziare la differenza di qualità e di metodo fra lo studio della politica e quello del sistema giuridico, - Curcio insiste sul sostanziale fondamento etico della politica, costantemente da ritrovare, da reintrodurre, attraverso rivoluzioni intese a superare ogni formalismo giuridico ed ogni altra staticizzazione conservatrice.
Di una simile sostanzialità invece è sempre carente un ordinamento che sia stato ridotto a mere garanzie formali, in cui cioè si sia attuato un consapevole svuotamento del sistema normativo da ogni originaria motivazione etica, rendendo pertanto impossibile la ricerca di un più alto livello di vita comune. Una simile impossibilità di porsi e di attuare dei fini sostanzialmente politici priva la società di qualsiasi possibilità di sublimare sul piano comunitario e politico le pulsioni vitali, le ambizioni, l’azione degli individui e l’attività dei gruppi e corpi sociali(129).
Pertanto, ritengo che anche qui, leggendo fra le righe, si delinei la non tanto larvata accusa al Regime di essere ormai scaduto in una tipologia di formalismo giuridico, smarrendo ogni sostanziale eticità delle origini della rivoluzione(130).
Nel fascicolo di ottobre 1932 della rivista di Costamagna, con lo scritto intitolato Lo Stato, la guerra e la pace, Curcio d’altra parte dimostra ora di subire una più forte attrazione verso una delle due polarità con cui aveva concluso L’ostetrica del diritto, nel 1930. Opera nella quale confermo il mio convincimento(131) che vada riconosciuta la prima formulazione della sostanziale svolta di Curcio fuori dall’ideologia fascista. E questo, quali che siano poi stati i suoi successivi ossequi formali all’attualità, al sempre più, del resto, diffuso consenso al Regime da parte degli intellettuali.
In realtà con L’ostetrica del diritto Curcio aveva posto un’alternativa di fondo fra Machiavelli (la politica come ‘potenza’) o Cristo (la politica come ‘redenzione’, come riscatto di tutto il genere umano, finalmente orientato ad un’universale pacificazione). Una mèta, questa annunciata dal cristianesimo, che sin da allora Curcio considerava del tutto auspicabile, ancorché non raggiungibile attraverso una visione irenistica della società e della storia, bensì attraverso l’antagonismo morale, la lotta eticamente motivata, il conflitto con le forze negative, latenti in ognuno e tali da richiedere addirittura l’originario e ricorrente ‘sacrificio dell’innocente’ per riscattare le colpe di tutti.
In questo autunno 1932 è del resto su di un diverso versante antagonistico - quello della machiavelliana politica ‘effettuale’, o politica come ‘potenza’ - che la situazione internazionale riconduce Curcio a riconoscere come unica soluzione prevedibile quella della contesa, della guerra, della rivoluzione, alla fine rivelatesi come i veri motivi universali, perenni della politica. Tale è il sostanziale carattere della storia scoperto da Machiavelli, - ripete Curcio - "che ha costruito la sua politica sull’etica ed ha tratto da una interpretazione viva e reale dell’umanità leggi eterne di politica"(132).
Pertanto, malgrado l’accostamento all’etica cristiana, adesso Curcio insiste troppo ‘machiavellianamente’ sul fatto che l’esperienza storica e politica non possa essere afferrata ‘scientificamente’, nella sua intima sostanza, senza cogliere questo elemento vitale, questa pulsione all’eroismo antagonistico, al confronto, alla creazione di un ordine superiore di esistenza individuale e collettiva. Pertanto, Curcio qui afferma che le attuali pretese di una scientifizzazione dell’analisi politica, che l’ambizione dello ‘scienziato politico’ di enucleare le costanti del comportamento sociale, le uniformità, le leggi generali, potrebbero non essere una comprensione superficiale, alla fine formale, se questa ‘scienza politica’ non trascurasse, ma anzi valorizzasse pienamente il ruolo che nell’agire politico hanno la sostanziale dinamicità delle scelte politiche, l’essenza etica delle decisioni(133).
Ma non è questo il punto che va qui evidenziato di una tale pur rilevante enunciazione dei caratteri e dei fini della ‘scienza politica’. Il punto saliente è proprio questa unilaterale considerazione da parte di Curcio di uno dei due suddetti poli su cui si era definita la sua svolta del 1930. Qui ora Curcio dimentica la ‘via di Cristo’ e circoscrive la sua riflessione sulla ‘via di Machiavelli’, insistendo sulla centralità della lotta, dell’antagonismo, in termini non più di rivoluzione morale, ma apertis verbis in termini di rivoluzione politica e di guerra.
Da qui lodi poi le rituali al genio di Mussolini, che - esperite le vie della pace, in un decennale ruolo di mediazione da lui dato all’Italia - adesso non può che rifiutare le "utopie pacifiste, tutti i sogni e gl’inganni della pace perpetua, tutti i falsi miti del pacifismo"(134). Un rifiuto motivato - dice adesso Curcio - sia dalla constatazione che la storia si è sempre svolta attraverso colossali conflitti, sia dalla realtà di fatto che attualmente, mentre si fa un gran parlare di pace universale, mai come ora gli Stati hanno perseguito una politica di armamenti(135).
Da qui anche una ricostruzione dei momenti salienti della storia contemporanea in chiave ‘bellicista’. Una storia che - insiste Curcio - ha visto, da parte dei principali filosofi, un’esaltazione della lotta e della guerra. Da Fichte ad Hegel, da De Maistre a Proudhon e Nietzsche. E poi, da Trendelenburg a Treitschke. Senza però dimenticare Darwin, Lapouge, Ammon, e via dicendo. In questa troppo recisa e rapida sequenza, qui Curcio dichiara che "senza lo spirito guerriero uno Stato non è […]"(136). E cioè mancherebbe "di vita, di forza, di senso di potenza e di sviluppo"(137). Pertanto, ben vide, nella sua Scienza delle costituzioni ("prima fra le teorie modernissime"), il nostro Romagnosi, quando pose "direttamente la guerra alla base, non solo storica, ma etica e spirituale, dello Stato"(138).
Ne consegue, nella prospettiva della nostra ricerca, nuovamente la domanda di quale sia il senso di un tale atteggiamento di Curcio. Si tratta davvero di una marcata involuzione della suddetta svolta? Oppure siamo in presenza di una contingente analisi sulla situazione internazionale, tale da riportare d’attualità l’idea del probabile scatenamento di una guerra più la speranza di un ristabilirsi della pace?
Risposta non facile, né comunque univoca. Intanto, in linea teorica, nulla vi sarebbe da eccepire - nella contingente situazione internazionale - riguardo ad una simile contrapposizione fra diritto e guerra, con la quale Curcio ribadisce la distanza fra formalismo giuridico nei rapporti interni ed internazionali e sostanziale adesione ai valori e principi di convivenza e collaborazione.
In altre parole, in termini di filosofia del diritto vanno certamente sempre considerare non solo le forme istituzionali e giuridiche acquisite (nella fattispecie sia del diritto ‘interno’ che di quello internazionale) ma quello che di queste formalizzazioni è stato il fondamento, la capacità di lottare, di contendere per realizzare un ordine migliore (all’interno dello Stato e nei rapporti fra i singoli Stati).
Un sistema giuridico nasce in una nazione come nei rapporti internazionali solo da una tale tensione etica. Ma può conservarsi sostanzialmente attraverso mille vicende e rivoluzioni solo a patto cioè di non dimenticare questo eroismo etico(139), ossia di non perdere di vista che ogni lotta, ogni antagonismo devono aver per scopo l’instaurazione di un migliore e più giusto ordine di cose, a livello nazionale ed internazionale.
Ragionare altrimenti vorrebbe dire riferirsi ad un mero ordinamento formale,che non saprebbe resistere né ad un’aggressione bellica, né ad una rivoluzione(140). D’altronde, c’è anche da considerare che qui, nel 1932, alla possibilità di una pace vera (sostanziale, fondata sulla condivisione di princìpi di equità e di giustizia fra le nazioni) Curcio non mostra affatto di voler rinunciare.
Nel fascicolo di novembre-dicembre, con Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’)(141), in riferimento appunto al convegno sui problemi europei che si tenne a Roma(142), Curcio contrappone due diverse prospettive a fronte della crisi in atto. Per un verso, considera questa crisi riconducibile ad un fattore problematico della complessiva vicenda umana e storica, sempre drammaticamente segnata dalle fasi di passaggio da una civiltà all’altra, dai "problemi eterni del conflitto dei popoli"(143).
Per altro verso va poi compreso che a ben vedere l’Europa non rappresenta un’unità propriamente politica, oppure economica o anche religiosa. E nemmeno geografica o storica. Quello che aveva dato all’Europa una sua fisionomia comune era il fatto di rappresentare un certo tipo di civiltà rispetto agli altri continenti. E precisamente una certa personificazione in termini validi universalmente di un ‘canone’, di un modo particolare, originale, sin lì inesperito, "di concepire il mondo, l’esistenza, la vita individuale e collettiva"(144). La civiltà romana aveva profondamente influito su questa "formazione spirituale, etica, intuitiva della civiltà europea"(145). Ecco un punto - osserva Curcio - riconosciuto un po’ da tutti i convenuti al congresso romano(146). Riguardo poi alle ragioni di questa crisi del modello di civiltà di Roma, indubbiamente vi hanno contribuito gli sconvolgimenti del secolo XIX, specialmente negli ultimi decenni, quando il primato della scienza parve accantonare ogni altra preoccupazione.
Per un certo periodo si è caduti un po’ tutti in Europa nell’abbaglio di credere che tutto fosse irreversibilmente avviato ad un costante, inarrestabile progresso. Poi, nel secolo nuovo, nel Novecento, la Grande guerra rimise in discussione tanti ottimismi ed utopie. Adesso si tratta di ricostruire, e spetta a Roma ed all’Italia questo immane compito. Al quesito che qui conclusivamente si pone - se cioè si salverà l’Europa - Curcio risponde in maniera condizionale, dichiarando che, "se Roma non verrà sopraffatta", la civiltà europea "si salverà"(147). Un condizionale premonitore e profetico. Temi peraltro destinati a ricollegarsi ad una delle principali tematiche della parte conclusiva della riflessione di Curcio, appunto sull’idea di Europa, alla quale anche in questo 1932, egli dedica non soltanto questa breve riflessione a margine del ‘Convegno Volta’, ma anche una delle due monografie di cui prima abbiamo fatto cenno, intitolata L’Italia e l’ Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana(148).
IV. Dalla denuncia del nazional-socialista ‘germanesimo antiromano’ al fallimento delle speranze di pacificazione internazionale: il ritorno alla storia del pensiero politico italiano (fra 1933-1934).
Nel 1933, mentre continua solo con alcune recensioni la collaborazione alla ‘RIFD’(149), ed anche il contributo alla rivista di Costamagna segna un’attenuazione -, invece sul primo fascicolo di ‘Lo Stato’, con lo scritto intitolato Problemi della politica(150) si ha ulteriore conferma dell’intenzionalità di Curcio di protendersi ormai al di là dibattito ideologico, sin qui peraltro affrontando il quesito del significato della politica attraverso un’indagine ampliata ai diversi livelli sia di una ‘scienza politica’ che della filosofia politica e delle dottrine politiche. All’inizio di questa breve composizione infatti troviamo una rapida sintesi di come il significato della politica si sia venuto modificando nella storia, tanto che oggi è diventato estremamente difficile capire quante implicazioni le si attribuiscano, al confronto di quell’univocità che questa esperienza aveva avuto per il mondo greco, dove il termine stesso nacque dalla realtà dopotutto omogenea della polis(151). La conclusione di Curcio è peraltro, anche qui, palesemente anti-totalitaria. O quanto meno intesa a confutare che nello Stato si riduca legittimamente tutta la ‘politica’, la quale ha invece caratteri e leggi sue proprie, che appunto attengono - sia pure distinguendosene in una reciproca interazione - alle discipline storiche, alla filosofia ed alla stessa ‘scienza politica’(152).
Sullo stesso fascicolo del gennaio 1933, apparve poi un’importante recensione(153), seguita da altre tre su quello di febbraio(154), ma precedute da Il Gran Consiglio e la rivoluzione, nella rubrica Note e discussioni(155). A partire dal fascicolo di marzo, fino a quello di agosto-settembre, Curcio si limita poi a recensire una quantità di novità librarie(156) ed a contribuire con numerosi scritti alla suddetta rubrica Note e discussioni(157). Qualcosa sta cambiando nei rapporti fra Curcio e la rivista di Costamagna. Infatti, il tema della politica come attività dello spirito, come volontà di ordinare gli uomini in una società comune (in vista del miglioramento e del raggiungimento di sempre nuovi perfezionamenti di questo fine politico), viene ripreso nel luglio 1933(158), con un breve saggio intitolato significativamente Stato e rivoluzione(159), apparso sul primo numero della rivista ‘Fascismo. Rassegna del pensiero nell’Italia d’oggi’, diretta da N.F. Cimmino (vice-direttore è Marcello Capurso, allievo di Curcio).
In questo saggio si raffronta all’ordinamento statuale la ‘rivoluzione’, indicando nel processo rivoluzionario il momento genetico dello ‘Stato’, come ordinamento giuridico formale, che richiede incessantemente l’apporto vitale di una primigenia sostanza etica comunitaria. Ciò che implica, fra l’altro, il primato del fine politico su ogni particolarismo. Temi che, come si vede, si ricollegano a quanto Curcio è venuto precisando sin dal 1930 con L’ostetrica del diritto.
Malgrado la prima impressione, in Stato e rivoluzione l’evocazione dell’eticità della politica non approda ad una concezione nel senso del gentiliano ‘Stato etico’. Al contrario, qui si reitera ancora una volta (e si svolge ulteriormente) la critica allo Stato come ‘potestà assoluta’, come ‘imperio’, come ‘sovranità’ cercando il rimedio alla sua tendenziale assolutizzazione non nel diritto(160), inteso come ordine giuridico meramente formale, ma in un processo che possa reintrodurre di continuo la legittimità sostanziale, l’essenza dello spirito politico (l’originaria volontà fondatrice, i valori primari accomunanti) nelle forme istituzionali e nelle norme che altrimenti sarebbero inanimate, inerti, statiche, come appunto si verifica in un sistema puramente formale(161).
Nella formazione, nelle modificazioni e nelle trasformazioni degli Stati, - asserisce qui Curcio - sono da sempre le rivoluzioni, come del resto le guerre, il vero impulso ai grandi movimenti di popoli che aspirano a nuove conquiste. Nondimeno, rispetto alle rivoluzioni antiche (che partivano sempre dall’alto e non veicolavano quasi mai ideali nuovi), quelle moderne invece - sottolinea Curcio - si ricollegano a quella "coscienza di massa" che si desta nell’XI-XII secolo, portando alle estreme conseguenze un desiderio di libertà contro l’Impero e ogni "autorità trascendentale" rispetto alla politica(162).
La rivoluzione dunque, come fenomeno storico, ha in sé non solo negatività, violenza distruttrice, ma - ribadisce Curcio - può avere (ed anzi, il più delle volte ha) un ruolo positivo, quello appunto di rivitalizzare un sistema istituzionale scaduto nella coercitività del diritto positivo, cioè puramente formale, legalitario, ma proprio per questo insensibile ad ogni esigenza di legittimità sostanziale(163), che implicherebbe il divenire delle forme e l’ampliamento delle istituzioni.
Discorsi come questi - in pieno Regime totalitario - non potevano da parte di Curcio non essere espressione consapevole di un invito a riprendere lo spirito rivoluzionario delle origini, quale esigenza improcrastinabile di recuperare una legittimità sostanziale. E questa da ritrovare nella ‘volontà della nazione’, dando risposta al desiderio di ‘libertà delle masse’, di contro alla ‘legalità formale’, alle norme positive in cui lo Stato totalitario si arroccava sempre più. Qui, del resto, c’è anche un momento di evocazione del ruolo di garante della legittimità rivolto alla monarchia sabauda, e non solo - o non tanto - sulla base dello Statuto albertino, quanto con l’invocare una più generale legge storica sulla genesi rivoluzionaria di questo come di ogni sistema monarchico, definito alla fin fine l’unico storicamente capace di contemperare tradizione e progresso(164).
A questo punto Curcio elabora una teoria costituzionale per cui essendo ogni ordinamento sostanzialmente legittimo l’espressione della volontà costitutiva del ‘popolo’, tutti i cittadini devono, a diverso livello, esercitare una funzione di ‘difesa della costituzione’ contro gli attentati che venissero mossi non tanto da forze ostili, esterne al sistema istituzionale, ma proprio dal prevaricare di determinate finalità particolari, personalistiche, all’interno degli stessi organi statuali. Nell’urgenza del pericolo che qualcuno attenti alla costituzione, e siccome questa è espressione della ‘volontà generale’, si impone il dovere, da parte di tutti, di operare per conservarla. E tanto tale dovere incombe su "storici, filosofi, politici" che prima ancora che uomini di cultura, "in quanto cittadini, devono essere i più rigidi custodi e difensori degli ordinamenti stabiliti"(165).
In definitiva, per queste vie, lo Stato, "una volta costituito, deve mantenere attive le garanzie della propria conservazione"(166). Se l’autorità statuale non riesce più ad alimentare queste garanzie, si è giunti ad un punto tale che non è più possibile restaurarne la funzione di garante (della necessaria armonia fra la volontà della nazione e le forme istituzionali in cui potesse esprimersi), ed è allora che la rivoluzione si pone come una necessità improcrastinabile(167).
Parole ancora una volta estremamente eloquenti nei confronti dello Stato totalitario, vera e propria accusa al Regime di avere ‘staticizzato’ il movimento rivoluzionario, ignorando e cercando di soffocare le vitali istanze di libertà e di ordine sostanziale delle masse popolari e della nazione in generale. La via che qui Curcio indica senza mezzi termini per uscire da questa crisi dello Stato non può dunque essere altra che, appunto, quella di una rivoluzione come ‘recupero’ dello slancio vitale delle origini, come ‘restaurazione’ di una vera sostanzialità della politica, come ‘riaffermazione’ di un’universale partecipazione, come soddisfacimento delle istanze delle masse, del popolo italiano. Infine, una rivoluzione che coinvolga tutti coloro che hanno creduto nel fascismo come un ‘processo di riscatto’ della ‘volontà nazionale’, la quale - dopo l’Unità - è stata irretita nel formalismo del diritto di proprietà borghese(168).
Lungo questa linea, la rivoluzione non si esaurisce tutta nella prima fase, - anche qui precisa Curcio, in un’evidente riferimento al Regime che pretende di aver esaurito e soddisfatto ormai tutte le nuove istanze. La rivoluzione non consiste solo nella presa del potere, ma "anzi è costituita proprio da questa seconda e più difficile fase, durante la quale si vogliono proprio instaurare saldamente - e cioè in concrete forme giuridiche - nella vita della nazione quegli ideali, che sono stati i motivi eroici e drammatici della rivoluzione"(169). Non bastano infatti le leggi a sostenere quel possente organismo che è lo Stato, "occorre che si creda in esso, che si voglia, che si ami", e quando questi sentimenti mancano, gli Stati sono inesorabilmente condannati a morire(170).
Nella momentanea ripresa della collaborazione a ‘Lo Stato’, nell’agosto-settembre 1933, con l’articolo intitolato Verso la nuova Europa(171), per quanto con una troppo breve sintesi, Curcio reitera ed amplia quanto ha definito sin dall’anno precedente sul tema, annunciando quello che sarà, soprattutto molti anni dopo, uno dei più importanti motivi della sua produzione. L’argomentazione di Curcio inizia dalla constatazione che ormai il problema europeo sembra definitivamente sortito da ogni possibile prospettiva precedente, con cui si era cioè preteso di risolverlo sul piano di concezioni utopiche, quando non addirittura demagogiche, puramente strumentali, o con progetti caratterizzati dall’astrattezza rispetto ad ogni concreta valutazione della realtà storica(172).
Oggi finalmente il problema europeo appare nella sua vera luce, ossia "relativo alla instaurazione di un sistema politico di collaborazione effettiva e pratica tra le Nazioni europee"(173). Peraltro grandi ostacoli si frappongono ancora a questa nascita di una comune coscienza europea. Intanto la trasformazione in corso nelle diverse civiltà, per cui quelle dell’Asia e dell’Africa, che con la colonizzazione erano apparse come un ampliamento della civiltà europea, ora tendono invece a distaccarsene, con evidenti riflessi di instabilità e di pericolo di conflitti internazionali(174). C’è poi la crisi che travaglia l’America, che pone fine alle illusioni che sin qui si potevano avere di una collaborazione con l’Europa. Le due civiltà sono ormai in un crescendo di differenze non solo politiche ma soprattutto spirituali(175).
Vi sono poi altri fattori di diversa natura che incidono negativamente sulla situazione: le ingiustizie dei trattati di pace, con conseguenti attriti fra le nazioni limitrofe; il disagio economico e finanziario, alimentato da errate scelte politiche. E soprattutto la crisi morale(176).
Sussistono comunque anche fattori positivi, che fanno bene sperare per l’avvenire dell’Europa. Anzitutto, l’innegabile progresso, pur lento e graduale, della cultura, della mentalità politica e giuridica dei popoli europei. C’è una tendenza diffusa nelle principali culture europee a considerare in maniera affine la logica giuridica. E questo può determinare quanto meno una "tendenza all’unificazione del diritto", nella quale va riconosciuto il ruolo di ceti intellettuali che vanno operando con grande alacrità in una collaborazione di cui sono espressione i risultati in tutti i campi della cultura(177). E qui c’è soprattutto il ruolo che l’Italia sta svolgendo in questo processo, come si è visto dalla stipulazione, il 7 giugno 1933, del Patto a quattro(178).
Tuttavia, è riguardo all’aspetto morale del problema europeo che Curcio insiste, precisando che ogni risoluzione in proposito deve distinguersi anzitutto "da quei falsi miti umanitari e pacifisti agitati […] ancora oggi dai cattivi profeti dell’europeismo integrale"(179). Pertanto l’aspetto morale del problema diventa politico. Non fosse altro che per il fatto che la civiltà europea è sempre stata - e qui Curcio ripete quanto aveva detto precedentemente - un modo di concepire la vita, un’unità di concezione civile, germinata nella storia, nell’ordinamento politico-istituzionale e giuridico romano(180).
Ora, - sostiene Curcio - questa coscienza comune europea può essere rianimata dal fascismo, che (presentandosi come sentimento totalmente differente, nelle sue vere motivazioni, dalle passate tendenze di certo "nazionalismo esclusivo, imperialista in senso materiale, guerrafondaio")(181) oggi si configura come ideale di vita civile, come esperienza sostanzialmente etica, suscettibile di porsi quale modello a tutti gli altri Stati europei, almeno a quelli che intendano fondarsi su di un medesimo sentimento della comunità politica, in un consesso di interessi materiali distinti ma non esclusivi(182).
Nell’immediato, fecero comunque seguito a questo scritto, sullo stesso fascicolo dell’agosto-settembre 1933, altri contributi di Curcio, di minore rilevanza, sia nelle Note e discussioni(183), che con alcune recensioni(184). Infatti, il vero sviluppo tematico delle sopradette questioni si ebbe sul fascicolo di ottobre della stessa rivista ‘Lo Stato’, dove - oltre alle solite recensioni(185) - nella rubrica Note e discussioni, apparve lo scritto molto veemente, intitolato Germanesimo antiromano?(186), nel quale con decisione Curcio prendeva posizione contro l’ideologia nazional-socialista tedesca.
"Che avviene in Germania? Parrebbe che, rinsaldatasi la rivoluzione nazista, si voglia dare a questa ed al nuovo movimento culturale e politico che da esso viene sorgendo una impronta antiromana […], come nei tempi andati, con maggior rigore"(187). A questa corrente pare che vogliano "di nuovo congiungersi i corifei della rivoluzione nazionalsocialista"(188), con un prevedibile esito nefasto per le sorti dell’Europa e della stessa Germania(189). Niente di nuovo, peraltro, - conclude Curcio - in questo prorompente sentimento iper-nazionalistico tedesco, che fatalmente sfocia nel razzismo e nell’anti-ebraismo(190).
Per il rimanente, né in questo fascicolo di ottobre, dove comparve nella stessa rubrica Note e discussioni un suo commento all’intervento di Rossoni ad un convegno internazionale a Venezia(191), né nei successivi fascicoli niente di particolare rilevanza, se non - anche qui - altre numerose recensioni(192). Sugli altri periodici a cui normalmente collaborava, Curcio - in questo scorcio del fatale 1933- pubblicò poco o niente, se si escludono sulla ‘RIFD’ le sopra ricordate recensioni, che anch’esse comunque testimoniano quale fosse la sua condizione di spirito, da un lato in una confortante riconsiderazione del disegno europeista di Saint-Simon(193), dall’altro in una crescente inquietudine per lo spirito anti-europeo, contrabbandato dietro l’astratta enunciazione dei diritti dell’uomo(194).
Riprendendo questi temi sul fascicolo di dicembre 1933 della citata rivista ‘Fascismo’, nell’articolo Politica e razionalizzazione(195), adesso Curcio si pone decisamente nella prospettiva di una razionalizzazione della politica, di una vera e propria ‘scienza politica’, formulando il quesito di quali siano i termini di validità di un tale postulato di interpretazione razionale, scientifica, riferito all’esperienza storica e sociale. Anzitutto, - osserva - ci si dovrebbe guardare dall’errore di ridurre la politica a scienza dell’organizzazione, in definitiva ad uno "schematismo astrattistico", che si rivela del tutto "apolitico", come dimostrano le teorie ispirate a queste suggestioni di sistemi sociali totalmente razionali. Sistemi che, così fraintesi, sono alla base di due esiti parimente negativi per la teoria politica, ossia le utopie di Platone e di Campanella e, su di un altro versante, il razionalismo di Cartesio e l’egalitarismo di Rousseau(196).
Comunque sia, in entrambi i casi si giunge ad una ‘democrazia livellante’ o al ‘comunismo’, quali risultanze che possiamo definire una fattispecie del sogno di razionalizzazione integrale, e cioè della ‘democrazia pura’. Ma con questo - precisa - non si deve negare la validità di "una razionalizzazione intesa come partecipazione di tutti alla vita politica, come immissione del popolo nello Stato"(197).
A fronte del Regime che tende a livellare e tecnicizzare tutto sul piano dei rapporti economici e della più totale obbedienza politica - , Curcio sembra pensare che serva davvero esorcizzare qualsiasi pretestuale tecnicismo e ‘razionalizzazione’. Intanto, contrapponendogli la distanza da una vera analisi scientifica della politica, e nel contempo evocando il mito della ‘rivoluzione fascista’, intesa al recupero di un ordine di cose migliore, promessa implicita all’originario movimento ed elusa poi dal Regime(198).
Definendo quindi il mito come qualcosa al tempo stesso di ‘umano e divino’, qui comunque Curcio tradisce un qualche cedimento ‘attivistico’, o quanto meno una confusione argomentativa, che complica il suo discorso e lo rende sì denso di intuizioni, di suggestioni soreliane, ma logicamente irrisolvente i complessi problemi evocati(199).
Eppure, entro questi suoi limiti (non irrilevanti), anche qui - con maggior cautela elusiva che nelle occasioni che si sono considerate - Curcio non manca di reiterare, a suo modo, una critica alle pretese del Regime di razionalizzare la politica, riducendola a tecnica di governo, a scienza dell’economia, a ‘scienza politica’(200).
Retorica, si dirà. Certo, ma non solo questo. Qui, c’è infatti anche la sempre più ossessiva critica (pur se sempre più fievole nel suo esternarsi, e meno incisiva) ad un Regime verso cui ancora in questi anni Curcio ritiene di dover professare formalmente fiducia. E forse questo cedimento trae motivo dalla incerta situazione internazionale, cioè della preoccupante crescita - anche per un fascista come lui (ed anzi proprio per questo suo fascismo d’opposizione al Regime fascista) - del nazional-socialismo tedesco, e delle altrettanto incombenti minacce di guerra. Timori che del resto, ancora fra 1933-34, anche lui continuava malgrado tutto a credere potessero essere dissolti se non dal Regime, almeno dall’abilità diplomatica mussoliniana, capace di imporre a livello internazionale una soluzione compromissoria, pacifica, inserendosi nelle trattative internazionali in un ruolo di mediazione.
L’anno seguente, il 1934, coincide con una sensibile attenuazione dell’attenzione di Curcio per le vicende ideologiche e politico-istituzionali del Regime. È comunque l’anno in cui pubblica alcuni importanti lavori, a cominciare da Machiavelli nel Risorgimento, apparso sul primo fascicolo della ‘RIFD’(201), sulla quale del resto - in questo e nei successivi numeri - pubblica numerose altre recensioni(202) ed un intervento nella rubrica Notizie(203).
D’altra parte, non diverso è il tipo di collaborazione(204) che in questo anno egli continua a dare a ‘Lo Stato’, in quello che peraltro si rivela - come si è accennato - un suo graduale distacco(205) da questa rivista in cui inarrestabilmente ci si stava avviando a formulare giudizi meno severi, di quelli che si è visto animavano Curcio, relativamente al nazional-socialismo tedesco.
È comunque su due libri che videro la luce in questo anno 1934 che dobbiamo qui concludere questa sorta di saggio di bibliografia ragionata sulla produzione di Carlo Curcio negli anni centrali della sua appartenenza alla Facoltà di Scienze Politiche di Perugia. E cioè - tralasciando la prefazione ad una sua edizione di scritti vichiani(206) - la raccolta che integra precedenti articoli sotto il titolo Verso la nuova Europa(207), e la monografia intitolata Dal Rinascimento alla Controriforma. Nella suddetta raccolta, Curcio ripubblica anzitutto l’omonimo scritto (già apparso l’anno prima sul fascicolo dell’agosto-settembre di ‘Lo Stato’)(208), sul quale ci siamo soffermati nel precedente paragrafo. Vi aggiunge qualche altra riflessione di più antica data (fra cui Europa ed Antieuropa, del 1927), ma nulla di più.
Invece è nella suddetta monografia che egli pronuncia la parola conclusiva su questo periodo della sua riflessione. In Dal Rinascimento alla Controriforma(209), Curcio infatti compie l’intero percorso che si è iniziato nel 1933, con la denuncia dell’incompatibilità fra fascismo e nazional-socialismo tedesco (come si è visto, interpretando quest’ultimo come nuova facies di un reiterato ‘germanesimo antiromano’) e qui si conclude con l’aperta ammissione del fallimento di ogni residua speranza di pacificazione internazionale.
Da qui in poi, Curcio riconverte la sua riflessione sulla storia del pensiero politico italiano, in un intento che appunto risulta espresso nelle stesse conclusioni di Dal Rinascimento alla Controriforma. Una riconversione che ripete in qualche misura quanto del resto Curcio aveva asserito, negli anni 1926-29, circa la presenza di una ‘tradizione politica italiana’(210).
Una riscoperta allora contestuale alla ricerca di antefatti ed implicazioni del corporativismo, fra 1929-30 - soprattutto con gli scritti sulla questione sindacale-corporativa(211) - finalmente libera da implicazioni ideologiche (e con il saggio L’ostetrica del diritto). Pertanto, nel 1934 possono prendere corpo più coerentemente, appunto nel superamento dell’ideologia statalista, sia la rivalutazione del pluralismo sociale di contro alla monolitica struttura totalitaria, sia lo stesso significato ‘metapolitico’ della rivoluzione. Una rivalutazione intanto nel senso di una considerazione del processo storico di formazione di un ordinamento pluralista non più identificabile con lo Stato fascista. Ora, nel 1934, svincolatosi sostanzialmente da ogni impaccio ideologico, Curcio può riprendere e sviluppare quelle suggestioni roussoviane che si erano manifestate nel 1930-31 (particolarmente con l’Anti-Rousseau?, del 1931), nel senso del recupero di un confronto etico-politico fra Stato, ‘volontà della nazione’ ed ‘individuo’.
E proprio da questo inizio degli anni Trenta, Curcio proietta la sua attenzione oltre l’ideologia corporativa e la stessa ‘nostalgia’ sindacalista, per riconsiderare la nazione nella sua complessità e nella sua unità, come comunità etica, contestualmente distinta sia dalle suggestioni universalistiche che da drammatiche teorie etno-centriche.
Da qui sia la sua critica, nel 1932, dell’organicismo tedesco ‘pre-nazionalsocialista’ (a cui contrappone il primato della teoria politica italiana nel contesto della prefigurazione di un’Europa futura); sia, nel 1933, appunto la sua denuncia del nazional-socialista ‘germanesimo antiromano’ e il proposito di un ritorno alla storia del pensiero politico italiano, quale risulta appunto a partire dalla pagine di Dal Rinascimento alla Controriforma.
Qui infatti Curcio delinea i tratti dello Stato ideale in quelli di un ‘sistema complesso’, secondo cioè la tradizione aristotelico-polibiana (poi ripresa da Machiavelli e da Vico, rinnovatori della ‘tradizione politica italiana’ sorta fra medioevo ed epoca moderna) del ‘governo misto’, nel quale individui, corpi intermedi, governo ed istituzioni possono rendersi complementari ed interagenti in una distinzione di funzioni incardinata in un ordinamento fondato sulla giustizia, sul sostanziale rispetto dei diritti e dei doveri.
Un discorso, questo di Curcio, che evidentemente vuol essere una definitiva critica al monolitico Stato totalitario, a partire dalle connotazioni complesse del ‘governo misto’(212), sino a ritrovarne le implicazioni rivoluzionarie nel senso del recupero dei momenti originari, della fase genetica di un modello istituzionale complesso. Da qui la riproposta dell’ideale della repubblica, secondo il sistema istituzionale di Venezia (vero "mito politico, non solo per i sostenitori dello Stato misto")(213) e secondo altri esempi teorizzati dagli scrittori politici italiani del XVII secolo(214). Un ideale comunque contrapposto al ‘cesarismo’ dominante nel Seicento. Un ideale che così come è espresso non può non implicare un reciso e definitivo rifiuto da parte di Curcio, sin dal 1934, degli approdi totalitari e personalistici del fascismo.
V. L’onda lunga del naufragio: dalla seconda Guerra mondiale alla ricostruzione di speranze e di propositi.
Nel decennio 1934-44, nel quale si compiono le sorti del Regime, giunto all’apice del consenso di massa e poi incamminatosi sulla china che conduce al baratro della seconda Guerra mondiale, in un crescendo di delusioni ideologiche, Curcio trova rifugio nella storia del pensiero politico. Le estreme speranze, le prospettive di ripetere ideali e propositi vanno ormai ripensati nel più lontano passato. Del resto, pare proprio questo graduale estinguersi di convincimenti fascisti lo sfondo su cui si colloca, nel 1934, il suo Machiavelli nel Risorgimento, estremo tentativo di riallacciarsi alla prospettiva speculativa ripresa dal Vico e da altri evocatori di una ‘tradizione italiana’ di pensiero politico. Ne abbiamo una conferma nell’autunno del 1936, non soltanto con il suo Giordano Bruno visto oggi, ma anche con la trilogia di articoli apparsi su ‘Lo Stato’, nei fascicoli di agosto e novembre, sotto il titolo La politica dei Romani.
Nel 1937 appaiono altrettanto importanti scritti: sia La politica di Baldo, sia Il patriottismo di Baldo, sia Motivi sociali nel pensiero italiano del secolo decimottavo. In quest’ultimo si staglia il nuovo itinerario che Curcio seguirà soprattutto alla fine della guerra. Frattanto, però, nel 1940, Curcio elabora alcune voci sul Dizionario di politica. In quella intitolata alla Rivoluzione fascista, si coglie un’intenzione di evasività riguardo alla definizione della nozione stessa di rivoluzione. A questo proposito si potrebbe addirittura parlare di una certa voluta ambiguità rispetto alle precedenti analisi concettuali ed alle definizione teoretiche da lui date alla nozione. Qui, nella voce Rivoluzione fascista, dove ci si sarebbe potuti aspettare quanto meno una codificazione ideologica della rivoluzione da cui era scaturito il Regime, invece Curcio definisce semplicemente questo fenomeno alla stregua di una categoria molto generica di rivoluzione, peraltro qui identificata con una cesura più apparente che sostanziale rispetto ai precedenti periodi storici.
La rivoluzione fascista - si limita a dire adesso Curcio - per quanto si contrapponga alle epoche precedenti, "dalle quali è separata da una frattura che segna di essa il sorgere", tuttavia "non si distacca […] in una valutazione unitaria e complessiva della storia d’Italia"(215).
In questa luce di superficiale evocazione delle implicazioni concettuali del termine, pertanto eludendo qualsiasi referente alla presenza o meno di una sostanziale creatività etico-istituzionale del Regime, va visto il richiamo di Curcio a non considerare questa rivoluzione come una vera creazione di un ‘ordine nuovo’. Piuttosto - significativamente dichiara qui Curcio (ed a livello ufficiale, nel Dizionario voluto dal Regime) - è semmai vero il contrario, ossia che la rivoluzione si riconduce più o meno consapevolmente a quello che appare lo spirito della nazione, il suo costume, le sue collaudate tradizioni(216).
D’altra parte - insiste Curcio - anche questa rivoluzione fascista non poteva consistere solo ed unicamente in pur drastiche trasformazioni dell’ordinamento istituzionale e sociale(217). Doveva essere formazione di coscienze, rafforzamento del carattere della nazione, innovazione nel modo stesso di concepire la vita, e cioè una vera e propria trasformazione di una civiltà(218).
E qui l’uso dell’imperfetto storico assume i contorni di una nemmeno tanto larvata accusa alla negatività degli esiti totalitari del fascismo. Pertanto, se qui è pur percepibile una sorta di compendiosa adeguazione formale alla retorica dominante, si avverte dietro questo schermo ideologico un’inequivocabile ridefinizione della rivoluzione, in termini tali che ne escludono qualsiasi identificabilità con il Regime.
La rivoluzione è tale solo se dà luogo alla creazione di un vero nuovo ordine di cose, eticamente fondato. Solo ed unicamente se è veicolo di questa idealità, di fattori trascendenti la politica, quindi riconducibili ad un contesto non immediatamente comprensibile attraverso la sola razionalità, né esauribili nella semplicistica ‘ragion di Stato’, e nemmeno nella logica di un sistema di leggi positive volute dal Regime: solo in questo caso si può parlare di vera ‘rivoluzione’, cioè come riconversione vero i ‘primi principi.
"D’altro lato la rivoluzione, anche nelle sue origini, non aveva mai tradito, nonostante talune sue apparenze pragmatistiche, un intimo contenuto tutto ideale, una sua fede, che si richiamava alle coscienze degli Italiani; e che nelle stesse sue manifestazioni tipiche rivelava motivi quasi trascendenti o mitici, che tuttavia non s’esaurivano nel richiamo di valori tradizionali, ma s’esprimevano come mentalità di quegli Italiani e soprattutto delle nuove generazioni"(219).
Parole eloquenti quanto altre mai, che confermano l’avvenuto distacco dell’ideologia fascista quale si chiarisce senza alcuna possibile ombra di dubbio in un’altra opera del 1940, Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul socialismo e sul liberalismo, con una introduzione intorno ai miti moderni ed una conclusione sull’utopia. Quanto va rilevato a tal proposito è ora, enumerando i miti politici suscettibili di innescare l’azione intesa a creare un nuovo ordine politico, Curcio non indichi più il fascismo, ma la democrazia, il socialismo ed il liberalismo.
Un simile atteggiamento di silenzioso distacco dal presente si riconferma nell’impegno che ancora egli profonde nel dimostrare malgrado tutto la persistente validità di un referente alla tradizione di pensiero italiano. Da qui scritti come: Ideali mediterranei nel Risorgimento, del 1941; L’italianità di Marsilio, del 1942; Il pensiero politico italiano contemporaneo, del 1943.
Innegabile è però che adesso egli rivolga lo sguardo più compiutamente all’epoca contemporanea, a problemi e questioni che del resto aveva già intensamente studiato. Nascono così scritti come Il pensiero sociale di un riformatore italiano del settecento, del 1942, e Le origini del sindacalismo rivoluzionario in Italia, del 1943.
Alla fine della guerra ritorna ancora a quei motivi etici che aveva già reiteratamente chiamato in causa durante il Regime, appunto in quanto trascendenti la mera logica politica. Motivi che ora si ripropongono ancor più marcatamente nel naufragio dell’esasperata politica autoritaria ed imperialistica del fascismo. Poi gli anni di scoramento, di inquietudine, di spasmodica ricerca di certezze ormai reperibili nel più lontano passato. Se negli anni della fine tragica del Regime, nel 1943-44, in un crescendo di delusioni ideologiche, Curcio trova rifugio nella storia del pensiero politico, tuttavia non rinuncia del tutto a far sentire la sua voce nelle grandi questioni.
Ridefinendo tante implicazioni morali della sua analisi, quasi a risolvere una profonda crisi interiore, si prefigura in lui la forte ripresa della prospettiva europeista, lungo tutto il periodo della sua riflessione fra questa imminente fine della guerra e la sua morte, nel 1971. Sotto questo profilo va vista anzitutto l’antologia che pubblica nel 1944, intitolata Utopisti italiani del Cinquecento (edita a Roma, per i tipi di Colombo), nella quale egli ritorna sulla contrapposizione fra utopia e mito politico. Ora, diversamente che nel 1940, precisa che talvolta l’utopia incide positivamente nella politica, perché può essere il rifugio di ideali che diverranno poi dominanti, rivoluzionari, quando i limiti posti dall’avversa contingenza storica si saranno allentati. Nell’utopismo italiano del XVI secolo - asserisce adesso Curcio - vi sono già in nuce i fermenti rivoluzionari del XVIII secolo.
Tali sono quei "primi germi" di rivendicazioni umanitarie ("o letterariamente sentimentali o filosoficamente sociali"), nelle quali si possono riconoscere le "scaturigini del pensiero illuministico, riformatore, prerivoluzionario"(220). Nel secolo XVI ritroviamo questo insieme di idee, che in apparenza sono sintomo di delusione, di stanchezza, ma in realtà sono indice "di rinnovamento e di riforma"(221). Ora, quindi, l’utopia è vista da Curcio dietro l’apparente sfinimento di speranze di libertà, di indipendenza nazionale, dietro la creduta adattabilità allo status quo. Il vero volto di queste utopie è la funzione veicolare che esse ebbero nel preparare la via di futuri, grandi cambiamenti, e cioè "contenere in potenza ideali di capovolgimento politico e sociale"(222).
Ed a queste potenzialità dell’utopia ora Curcio riconduce tutti quei progetti di pace universale che presero corpo nel XVIII secolo. Sotto questo profilo, vedono la luce, rispettivamente nel 1945 e nel 1946, due antologie. La prima è quella che raccoglie di scritti di Saint-Simon, sotto il titolo di Sogno d’una felice Europa, e l’altra gli scritti di Saint-Pierre, Rousseau, Kant (223), intitolata Progetti per la pace perpetua. Ad entrambe, da lui curate, Curcio premette articolate introduzioni e commenti alle diverse sezioni. Riguardo al contenuto, se ormai il suo sguardo si amplia al di là del nazionalismo, egli comunque non rinuncia ad indagare il ruolo che autori italiani hanno avuto nelle vicende internazionali fra Settecento e Novecento(224). Tuttavia il suo sguardo si rivolge non solo a ripensare itinerari purtroppo fraintesi e smarriti (e fra questi l’ideale nazionalitario). In realtà, ora Curcio riprende ad indagare contesti di idee e nozioni cui pure da tanto tempo aveva dedicato attento studio. E non solo i problemi del mondo sociale, della famiglia(225) e del lavoro, bensì l’approfondimento stesso delle già precedentemente affrontate questioni metodologiche(226).
Tuttavia, in lui domina su tutti questi altri il tema dell’Europa. Un interesse che dal 1948 si viene accentuando sino al culmine del 1958. Del 1948, è infatti la Formazione e sviluppo dell’idea di Europa(227). Del 1953, è Sulla fortuna di due giudizi di Aristotele intorno a Europa e Asia(228). Del 1950, è il volume Nazione, Europa, Umanità. Saggi sulla storia dell’idea di nazione e del principio di nazionalità in Italia (Milano, Giuffrè). Un’opera rilevante per la definizione di alcuni capisaldi di interpretazione di tali nozioni e delle loro reciproche correlazioni(229).
Si ha così, nel 1957, a testimoniare un persistente crescendo di interesse per questo argomento, la creazione di una nuova rivista (bimestrale) intitolata ‘Europa’. È diretta dallo stesso Curcio, che sin dal primo numero vi pubblica diversi scritti, sia articoli (Considerazioni sul Mercato Comune e sull’ Euratom; Sentimenti di patrie), che recensioni. E su questo primo numero le parole programmatiche vengono affidate a Giorgio Del Vecchio, con il titolo significativo di Ideale cosmopolitico e unificazione europea(230).
Del resto, è il clima culturale dell’Europa delle nazioni, del Vecchio continente che aspira ad avere ancora un ruolo storico, e di nuovo a livello internazionale, se non cosmopolitico. Nondimeno, come si è anticipato, il culmine di questa attenzione di Curcio per la civiltà europea si ha nel 1958, con la pubblicazione dei due volumi editi da Vallecchi, intitolati: Europa. Storia di un’idea(231).
Rilevante è il giudizio positivo che su questa opera venne dato da attenti studiosi della storia dell’idea europea in quegli anni(232), del resto a conferma di un interesse di Curcio palesato in precedenti e successive ricerche, nelle quali prende forma il raffronto fra l’idea di Europa e le istanze nazionalitarie (infine distinte dal nazionalismo estremo)(233) ed universalistiche.
Nello stesso anno 1958, Curcio riprende l’altra delle principali tematiche del dopoguerra, quella del lavoro(234), al cui svolgimento vengono dedicati altri scritti negli anni successivi. Nel complesso l’argomento concerne la suddetta prospettiva etico-politica, intesa al superamento delle interpretazioni economiciste. Eccone la sequenza : Interessi e problemi sociali nel pensiero italiano della Restaurazione (1815-1830)(235); Problemi del lavoro nel pensiero italiano del primo ottocento(236), Lavoro e non lavoro(237); Profilo storico sulla socialità del lavoro (relazione per il secondo Convegno nazionale della Civiltà del lavoro, Roma, ottobre 1959).
A partire dal 1959 - d’altra parte - Curcio affronta più volte il tema, strettamente connesso con il mondo del lavoro e le istanze di solidarismo, della previdenza sociale e dell’assistenza. Vengono così alla luce i seguenti scritti: Il Muratori e le origini dell’idea di assistenza(238); Sulle origini dell’idea di sicurezza sociale(239); Riposa, non disperare!(240); Idee e discussioni intorno alla previdenza nel Risorgimento e dopo(241); I primi passi dell’assicurazione infortuni in Italia(242), La previdenza sociale nel Risorgimento e dopo(243).
Contestualmente alla trattazione di queste tematiche, Curcio prosegue dal 1960 su alcune delle sue specifiche direzioni di indagine. Intanto, vi sono le sue ricerche sia sulla storia del pensiero politico (considerata attraverso alcuni dei maggiori interpreti)(244), sia sulla sua metodologia(245), ricostruita attraverso la stessa storia e le finalità della Facoltà di Scienze politiche di Firenze (la ‘Cesare Alfieri’, allora fra le prime d’Italia)(246).
Ma si hanno anche numerosi altri suoi saggi. E non soltanto quelli intesi a ripercorrere molti dei temi da sempre trattati. Oltre al tema del lavoro(247), l’ideale nazionalitario(248) e, ancora, il pensiero utopico(249). In questo suo ultimo periodo Curcio sviluppa le sue indagini anche in altri campi: sul significato del metodo e dell’interpretazione storica(250), sulla sociologia(251), sulla filosofia politica(252), sulla dottrina dello Stato(253) e sulla filosofia del diritto(254). Del resto, sin dal 1963, le ricerche di Curcio ampliano una sua antica attenzione per il pensiero politico dell’illuminismo e della Rivoluzione francese(255).
Infine, nel 1977, esce postuma l’ultima opera di Curcio, intitolata Nazione e autodecisione dei popoli. Due idee nella storia(256). È il terminus ad quem di quella riflessione iniziata nel 1950 (con Nazione, Europa, umanità. Saggi sulla storia dell’idea di nazione e del principio di nazionalità in Italia) che ha avuto il suo vertice speculativo con Europa: Storia di un’idea, per poi aprirsi alla considerazione della portata universale-cosmopolitica del messaggio culturale e civilizzatore dell’antico continente, in una funzione di guida in cui Curcio credette sino all’ultimo.
Se un’immagine potesse riassumere tutta quanta la sua riflessione, forse nessun’altra come la seguente, relativa alla complessa fisionomia dell’Europa, acquista per noi un carattere conclusivo, al di là cioè di qualsiasi tipologia di inconsistenti interpretazioni unilaterali.
"Lo spirito classico e il Cristianesimo, l’idea liberale e quella democratica, il cesarismo e l’idea sociale, la Chiesa di Roma e le altre chiese cristiane, le sinagoghe e il libero pensiero, il romanticismo e il neoclassicismo, il luteranesimo, il calvinismo e il neotomismo, la scienza e la letteratura, la giurisprudenza e la poesia, lo spirito dogmatico e quello critico, tutto quanto ha costituito espressione del pensiero, della fede, della capacità creativa e fattiva degli Europei ha contribuito a dare un poco o molto di sé dell’idea d’Europa, formula complessa eppure non ambigua ed astrusa"(257).
Dunque, opera ‘sinfonica’, a tratti ‘rapsodia’ scandita a più mani, struttura pluridimensionale e complessa, l’Europa. Opera creata nel corso di due millenni, con vicende e modelli diversi, con idee e programmi talvolta di segno opposto. "Tutte le idee, tutte le grandi correnti del pensiero e della scienza, della fede e dell’arte hanno contribuito a dar vita all’idea d’Europa [...]. È opera di cristiani, ma anche di spiriti liberi e di menti esaltate, di rivoluzionari e di conservatori, di viaggiatori e di sedentari, di volteriani e di eclettici, di scienziati e di poeti, di utopisti e di storici, quelli con il pensiero al futuro, questi con la mente al passato"(258).
Anche in queste sue ultime formulazioni si delinea quello che in sostanza era sempre stato il criterio ispiratore della ricerca di Carlo Curcio. Da un lato il riconoscimento della realtà fattuale, della dimensione concreta dei fatti storici in cui l’uomo politico si trova in ogni tempo ad operare, dovendo fuggire qualsiasi suggestione irrazionale di utopiche proiezioni che sanno di fuga dalla realtà. Dall’altro lato, l’impegno etico a non rinunciare affatto a trasformare questa complessa oggettività storica, imprimendogli quei caratteri di razionalità, di ordine morale e di giuridicità che non sono affatto il dato immediato di una natura istintiva, ma semmai il sintomo di uno stato di superiore natura che in ognuno può essere ricercato e da ognuno ripetibile, ma con sforzi intellettuali e fatica morale e non con abbandoni naturalistici ad utopie libertine.
NOTE
(1) ‘RIFD’, XI (1931), fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 656-662.
(2) È quanto sostiene: F. Perfetti, Op.cit., pp. 119-120.
(3) Appunto della ‘RIFD’, XIV (1934), fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 12-48.
(4) Si vedano, in questo senso, a parte la polemica con le dichiarazioni di Croce sul fascismo, sotto il titolo di La Rivoluzione e la cultura (ibid., II [1931], pp. 52-55), le seguenti tematiche, nella rubrica: Rassegna delle riviste: Democrazia e dittatura (ibid., p. 63); Pluralismo e unità (ibid., pp. 63-64); Sul parlamentarismo (ibid., pp. 64-65). E le recensioni a: Robert Michels, Italien von Heute. Politische und wirtschaftliche Kulturgeschichte von 1860 bis 1930. Zurich-Leipzig, Orell Füssli Verlag, 1930 (ibid., pp. 73-75); Francesco Centonze, La pubblicazione del contratto collettivo di lavoro. Bari, Soc. Ed. Tipografica, 1930 (ibid., p. 76); Sergio Panunzio, Il diritto sindacale e corporativo. Programma, concetto, metodo. Perugia, La Nuova Italia, 1930 (ibid., p. 79). Si succedettero poi, ancora nella rubrica: Rassegna delle riviste: Corporativismo cattolico (ibid., fasc. II, febbraio, p. 139); Intorno alla dittatura (ibid., pp. 139-140); Le forme organizzative della società (ibid., pp. 140-141); La crisi dello Stato e la sociologia (ibid., p. 141). Dopo l’articolo Compromessi impossibili (ibid., fasc. III, marzo, pp. 216-218), ancora nella rubrica: Rassegna delle riviste comparvero: La decomposizione storica del liberalismo (ibid., pp. 223-225); La politica sociale ( ibid., p. 225): E quindi alcune altre recensioni, a: P.C. Solberg-G.C. Cros, Le droit et la doctrine de la justice. Paris, Alcan, 1930 (ibid., pp. 233-236); P.S. Leicht, Il diritto romano nell’Alto Adige durante il Medio Evo. Modena, Facoltà di Giurisprudenza, 1930 (ibid., p. 236); Arrigo Solmi, Storia del diritto italiano. Milano, Soc. Ed. Libraria, 1930 (ibid., pp. 236-237).
Poi, di nuovo, in successione cronologica, sia nella rubrica Note e discussioni: Per la ‘Rerum novarum’, (ibid., fasc. IV, aprile, pp. 285-287); La crisi della sovranità? (ibid., pp. 306-307.); sia nella rubrica Rassegna delle riviste: Oltre i confini, (ibid., pp. 308-309; La democrazia e la crisi della fede politica (ibid., pp. 309-310); sia , ancora, nella rubrica Note e discussioni: Federazione di Stati e Stato corporativo (ibid., fasc. V, maggio, pp. 365-368); sia nella rubrica: Rassegna delle riviste: La formazione dei concetti nel diritto pubblico (ibid., pp. 376-377); La tendenza oligarchica nei partiti (ibid., pp. 377-378); Il concetto di nazione e quello di rappresentanza (ibid., p. 378); Il Fascismo come rivoluzione integrale (ibid., p. 379); Una profezia di Nietzsche (ibid., pp. 379-380). Dopo questo fascicolo di maggio, su cui Curcio pubblica la recenzione a Gustave Le Bon, Bases scientifiques d’une philosophie de l’histoire, Paris, Flammarion, 1931 (ibid., pp. 385-388), - su quello di giugno, si ebbero, sia, nella rubrica Note e discussioni, La ‘Quadragesimo anno’ e l’ordinamento corporativo fascista (ibid., fasc. VI, pp. 442-444); sia, nella rubrica Rassegna delle riviste i seguenti contributi: Libertà e gerarchia (ibid., p. 451); - Un programma di restaurazione dello Stato (ibid., pp. 451-452); I nuovi principii del diritto ecclesiastico (ibid., pp. 452-453); Sociologia e Nazione (ibid., p. 453). A seguire vennero poi altre recensioni, a: I. Seipel, Wesen und Aufgaben der Politik, Wien, Tyrolia, 1930 (ibid., pp. 469-471); Gabriele D’Annunzio, Il sudore di sangue. Dalla frode di Versaglia alla Marcia di Ronchi (21 aprile-11 settembre 1919), Roma, La Fionda, 1930 (ibid., p. 475); Emilio Bonaudi, Dei limiti della libertà individuale, Perugia-Venezia, La Nuova Italia, 1930 (ibid., pp. 479-480).
(5) ‘Lo Stato’, II, 1931, fasc. I (gennaio), pp. 19-30.
(6) Ibidem, fasc. VII (luglio), pp. 530-534.
(7) Ibidem, fasc. X (ottobre), pp. 818-832.
(8) Ibidem, fasc. XII (dicembre), pp. 858-873.
(9) Nelle citate antologie degli scritti di: C.H. de Saint-Simon, Sogno d’una felice Europa; e di: C.I.C. de Saint-Pierre - J.J. Rousseau - I. Kant, Progetti per la pace perpetua.
(10) Come si vedrà con Prospettive e problemi del pensiero politico dell’illuminismo, ‘Cultura e scuola’, 1963, n. 7 (marzo-maggio), pp. 120-126, e soprattutto con le Idee politiche della rivoluzione francese, ’Storia e politica’, IV, 1965, fasc. II (aprile-giugno), pp. 169-215).
(11) E del resto, sul tema Curcio ritornerà già nel 1925, con due recensioni a: C. A. FUSIL, Rousseau juge de Jean-Jacques ou la comédie de l’orgueil et du coeur. Paris, Librairie Plon, 1923; ID., L’anti-Rousseau ou les égarements du coeur et de l’esprit. Paris, Librairie Plon, 1929], ‘RIFD’, XIV (1934), fasc. 1I, gennaio-febbraio, pp. 12-48.
(12) "Un po’ sotto queste suggestioni d’oltre Alpi, un po’ per l’istintiva avversione dello spirito italiano a certe costruzioni astratte […], un po’, infine, sotto la spinta della battaglia antidemocratica combattuta dal Fascismo, anche in Italia è venuto di moda parlar male di Rousseau" (‘Lo Stato’., fasc. VII, luglio, p. 530).
(13) "[…] Odia la rivoluzione […] e finisce per essere il teorico della Rivoluzione; esalta l’ottimismo […] e finisce nel pessimismo […]; adora la libertà e finisce col costringerla nella legge, onde, poi, il Terrore potrà benissimo appellarsi, di fronte alla storia, a lui; postula la democrazia e, in linea di principio la nega (con quella pagina del Contratto, nella quale fornisce agli antidemocratici di tutti i tempi un’arma decisiva, che può persino sembrare ironica); esalta l’individuo e finisce per annullarlo, di fatto, nello Stato. […] Così il problema filosofico, quello morale, quello politico restano insoluti. Le premesse sono sempre annientate dalle conclusioni. Al teorico che crede tutto buono in natura si sovrappone, infine, l’uomo che vede tutto da sottoporre a regole inflessibili […]; al naturalista ottimista cede il passo, spesso, il politico (sembrerebbe impossibile) realista. È la riscossa di Machiavelli" (Ibid., p. 531).
(14) Ibidem, l.c.
(15) Si veda: ID., Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul socialismo e sul liberalismo, con una introduzione intorno ai miti ed una conclusione sull’utopia, Roma, Cremonesi, 1940.
(16) "La storia non è mai presente; ma è il passato che vuol farsi futuro. Così si spiega il rivoluzionarismo sempre in atto; la rivoluzione sempre insoddisfatta. La frattura tra il passato – la storia dell’uomo – e l’avvenire non è mai suturata. L’ideale resta utopico, impossibile. Onde, poi, il vero carattere utopistico della politica roussoviana" (ID., Anti-Rousseau?, cit., p. 532).
(17) Ibidem, l.c.
(18) Ibidem, p. 533.
(19) "Quella ‘volontà generale’ che supera la volontà di tutti, la volontà etica che aborrisce la volontà come somma, è la vera via allo Stato di diritto prima, allo Stato etico dopo. Nonostante tutte le accuse, la democrazia di Rousseau è una democrazia non numerica, ma etica, non di massa, ma ove il popolo è inteso nel suo valore universale, morale, che si fa Stato e s’identifica nello Stato" (Ibidem, l.c.).
(20) Ibidem, l.c.
(21) "Moralista fino all’eccesso, Rousseau odiava la forza. La sua sublimazione della legge lo portava a divinizzare la legge come una realtà trascendentale. Lo stesso Stato assoluto, conclusione della sua formulazione teorica della legge, è una affermazione ideale, manca di un fondamento realistico" (Ibide., l.c.).
(22) Ibidem, l.c.
(23) Ibidem, l.c.
(24) Ibidem, pp. 533-534.
(25) "La storia può apparire talvolta come una catena; e un anello aggancia l’altro. Gian Giacomo può ricordarci, non foss’altro, lo sforzo disperato di un’anima per raggiungere la perfezione. Una perfezione assurda, sicuro; una perfezione terribile, se Robespierre è stato l’erede diretto di quell’ideale. Ma, infine, proprio per questo la storia rivela sempre la sua capacità di insegnamento" (Ibid., p. 534).
(26) Ibidem, p. 533.
(27) Nella rubrica Note e discussioni: Razionalismo… ‘et ultra’ (ibid., ancora sul fascicolo di luglio, pp. 588-590); nella rubrica: Rassegna delle riviste: Socialismo e miseria (ibid., p. 604); La guerra e la vita (ibid., pp. 604-605); Le premesse storiche della legislazione fascista (ibid., pp. 605-607); Per la vita dello Stato (ibid., pp. 607-608); L’unità dello Stato e l’esempio fascista (ibid., pp. 608-609); Tecnica e spirito nello Stato, (ibid., fasc. IX, settembre, pp. 670-671); Lo Stato per lo Stato (ibid., pp. 671-672); Le nuove costituzioni e la crisi politica, ibid., pp. 672-673. Nel successivo fascicolo, nella rubrica: Note e discussioni : Direttive politiche e orientamenti ideali (ibid., fasc. X, ottobre, pp. 736-738); e nella rubrica Rassegna delle riviste : Liberalismo, borghesia e capitalismo (ibid., pp. 752-753); Il Corporativismo e l’iniziativa individuale (ibid., pp. 753-754); La politica e la storia delle teorie (ibid., pp. 754-755).
(28) Quelle a: Riforme fasciste del Diritto pubblico. Conferenze [al] Circolo giuridico di Milano, Milano, Giuffrè, 1930 (ibid., fasc. VII, luglio, pp. 619-620); Giuseppe TREVES, Figura giuridica del Sindacato fascista [estratto dalla "Rivista di Politica economica"], Roma, Tip. Delle terme, 1931 (ibid., p. 620); Renato TREVES, La dottrina sansimoniana nel pensiero italiano del Risorgimento. Contributo alla storia della filosofia sociale in Italia nella prima metà del secolo XIX. Torino, Istituto giuridico della R. Università, 1931; C. Sebastian, Histoire du saint-simonisme (1825-1864). Paris, Hartmann, 1931 (ibid., fasc. IX, settembre, pp. 678-682). Alle precedenti Curcio aggiunse, sul fascicolo, le recensioni a: ‘Rivista Internazionale di Filosofia del diritto’, Indice generale dei volumi I-X (anni 1921-1930). Roma, presso l’amministrazione della Rivista, 1931 (ibid., fasc., X, ottobre, pp. 766-767);
(29) Stato e diritto nella recentissima letteratura italiana, [nella rubrica: Rassegna di dottrina e di giurisprudenza], ibid., fasc. XI, novembre, pp. 818-832.
(30) Nella rubrica Note e discussioni: Il centenario di Hegel, (Ibid., p. 802); e nella rubrica Rassegna delle riviste: Psicoanalisi, economia e politica (Ibid., pp. 833-834); Fascismo, germanesimo e crisi dello Stato (Ibid., pp. 834-836).
(31) a M. de La Bigne De Villeneuve, Traité général de l’État. Essai d’une théorie réaliste du droit politique. Paris, Recueil Sirey, 1931 (ibid., pp. 838-839).
(32) Ibidem, fasc. XII (dicembre), p. 912.
(33) Ibidem, pp. 912-914.
(34) Ibidem, , pp. 858-873.
(35) Ibidem, pp. 859-860.
(36) Ibidem, p. 862.
(37) Ibidem, l.c.
(38) Ibidem, pp. 863-864.
(39) "È in quest’ambiente che l’individualismo economico, filosofico, politico e, in parte, giuridico prende un profilo abbastanza preciso. […] La filosofia sofistica è la giustificazione teorica di questo individualismo sfrenato. […] Finisce l’epoca della trascendenza, dei misteri, dei miti, delle certezze assolute. […] Col V secolo, insomma, la libertà filosofica, politica, economica, civile, tocca l’apogeo dello sviluppo. Ma in questo trionfo è già la decadenza. La libertà non è più limite, ma sfrenatezza; non più eguaglianza, ma diseguaglianza" (Ibid., pp. 864-866).
(40) Ibidem, p. 871.
(41) Ibidem, p. 872.
(42) Ibidem, l.c.
(43) Nella rubrica Rassegna delle riviste, appaiono: Per un Patriziato del Regime (Ibid., III, 1932, fasc.I, gennaio, pp. 52-53); La politica ‘more geometrico’ (ibid., pp. 53-54); Esperienze sindacaliste (ibid., p. 54); I partiti, le dottrine e la storia (ibid., pp. 55-56).
(44) E precisamente, a: Ugo Redanò, Storia delle dottrine politiche. Bologna, Cappelli, 1931 (ibid., pp. 68-70); Nicola Martinelli, Procedura individuale del lavoro. Genova, Ed. giuridiche Marsano. Sd. [ma: 1931] (ibid., p. 74); Rosario Labadessa, La cooperativa. Idee e realtà. Roma, Cooperativa Ape, 1931 (ibid., pp. 74-75); Giuseppe Chiarelli, La personalità giuridica delle associazioni professionali. Padova, A. Milani, 1931 (ibid., pp. 78-79).
(45) Ibidem, III, 1932, fasc. II, febbraio, nella rubrica Note e discussioni, pp. 119-125..
(46) E. Leone, La teoria della politica. Con presentazione di Paolo Orano. Torino, Bocca, 1931, in due volumi.
(47) ID., La ‘teoria della politica’ di Enrico Leone, cit., p. 124
(48) "In sostanza […] Enrico Leone tenta comporre la catena, già spezzata in più parti, che congiunge il pensiero e la tradizione politica italiana al nostro tempo, che vuol essere tempo di restaurazione politica" (Ibid., p. 125).
(49) Ibidem, l.c.
(50) Ibidem, p. 119.
(51) Ibidem, l.c.
(52) Una storia, pertanto, che qui serve ancora di referente polemico al formalismo con cui il Regime ha ridotto il fulcro rivoluzionario della tradizione italiana. Una storia che va attentamente ripensata, da comprendere come "l’eterna conquista de’ forti, come la divina imposizione de’ potenti, come la logica realizzazione della storia nella sua tragica vicenda, che pur risponde ad una legge" (Ibidem, l.c.). Di quale legge storica Leone abbia inteso - secondo Curcio - tracciare gli aspetti essenziali è poi chiarito nel senso che la naturale tendenza degli uomini ad associarsi è intesa in una prospettiva evidentemente positivista (per cui natura, razionalità e politica possano coincidere). Qui, cioè, l’impianto scientista-positivista di Leone postula una naturale tendenza degli uomini a riconoscere che nella società "il prius è l’ordine, l’ordinamento, la gerarchia, il comandare e l’ubbidire" (Ibidem, p. 120). Per questo, - conclude Curcio - prima di ogni interpretazione della società come luogo dei bisogni economici e delle garanzie giuridiche al diritto di proprietà, giustamente Leone afferma che ci si deve rendere conto di quanto la compagine sociale sia fondata su un fatto politico sostanziale, ossia su delle forze concretamente operanti nella storia e su degli strumenti istituzionali grazie ai quali si è potuto ridurre ad un paradigma comune l’infinita "eterogeneità degli uomini", per cui ora la politica è anzitutto studio di questa eterogeneità, è una "scienza antropologica" (Ibidem, p. 121).
(53) Ibidem, p. 119.
(54) Ibidem, p. 122.
(55) Ibidem, p. 123.
(56) Ibidem, p. 123.
(57) Ibidem, l.c.
(58) Ibidem, l.c.
(59) Ibidem, p. 124.
(60) Ibidem, p. 124. È comunque, questo di Leone, un richiamo al nostro tempo. Un monito che – sia pure espresso in modo contraddittorio – significa tuttavia una palese esortazione a superare tutti gli attuali schematismi di teorie politologiche ed i formalismi istituzionali. Seppure senza fornire soluzioni concrete, ed a tratti configurandosi come un atteggiamento culturale di un trentennio fa, sorpassato, invecchiato; e per giunta sottacendo volutamente certi aspetti delle teorie sindacaliste e dello stesso Sorel, che pure potrebbero essere ancor oggi un utile punto di riferimento, - nondimeno c’è del valido nella teoria politica di Leone, proprio in questa intenzionalità, peraltro irrisolta, di andare al di là di teorie astratte, di schemi senza nesso con la realtà, di formalismi giuridici e politici (Ibid., pp. 124-125).
(61) Anche se, ripete anche qui Curcio, qualche contraddizione sussiste in Leone, laddove ad esempio crede di rivalutare la nazione, ma poi ne fa una creazione dello Stato (il che, peraltro, contrasterebbe con il suo postulato naturalistico-positivista cui si riferisce lo stesso Leone). E poi la sua idea di patria, evocata come un "mito, meraviglioso mito", senza spiegarne affatto la sostanza e le implicazioni. Ma anche taluni concetti economici lasciano in Leone molto da desiderare, soprattutto in relazione alla necessaria distinzione fra economia e politica (Ibid., p. 124).
(62) Nella Rassegna delle riviste: Il regime politico sud-americano (ibid., pp. 140-141); Una nobile concezione del Fascismo (ibid., pp. 141-143); Il Fascismo e il problema spirituale della Politica (ibid., pp. 143-144); A proposito del giuramento dei professori universitari (ibid., pp. 144-145); Nuove interpretazioni straniere del Fascismo, (ibid., fasc. III, marzo, pp. 227-228; Hegel e la sociologia (ibid., p. 229); Stato, diritto e materialismo storico (ibid., pp. 229-230); Il problema dello Stato moderno (ibid., pp. 230-231).
(63) E cioè quelle a: Vincenzo Mangano, Il pensiero sociale e politico di Leone XIII (ibid., fascicolo II, febbraio, p.159); Arrigo Solmi, L’amministrazione finanziaria del Regno italico nell’alto medio evo. Pavia, Tip. Cooperativa, 1932 (ibid., fasc. III, marzo, pp. 234-235); Francesco Ercole, Da Bartolo all’Althusio. Firenze, Vallecchi, 1932 (ibid., pp. 235-236); Walter Heinrich, Das Ständewesen, mit besonderer Berücksichtigung der Selbstverwaltung der Wirtschaft. Jena, Fischer, 1932 (ibid., pp. 236-237); a Stefano Raguso, La Nazione e il progresso della filosofia politica. Firenze, Le Monnier, 1931 (ibid., pp. 237- 238); Santi NAVA, Il problema dell’espansione italiana ed il Levante islamico. Padova, Milani, 1931 (ibid., p. 238).
(64) Nella rubrica: Note e discussioni (ibid., fasc. IV, aprile, pp. 297-300)
(65) Quali appunto furono, sia nella rubrica Rassegna delle riviste: La crisi della dogmatica (ibid., pp. 310); Le associazioni professionali e l’organizzazione amministrativa dello Stato (ibid., pp. 310-311); Politica sociale e politica generale (ibid., p. 311); Politica, economia e morale (ibid., p. 312); La rivoluzione tedesca (ibid., pp. 312-313); sia le recensioni a: Michele Schiavone, Scadenze. Istantanee della crisi mondiale. Milano, Stampa commerciale, 1931 (Ibid., pp. 319-320); Annuaire de l’Institut internationale du Droit public. Paris, Puf, 1931, voll. 2 (ibid., p. 320).
(66) Il liberalismo e l’esperienza europea, [nella rubrica: Note e discussioni], ibid., fasc. V (maggio), pp. 364-366.
(67) E cioè, nell’ordine, dapprima le recensioni, a: Carlo Schanzer, Il mondo fra la pace e la guerra. Milano, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932 (ibid., pp. 397-398); Costantino Mortati, L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano. Roma, Anonima romana editoriale, 1931 (ibid., p. 398); Edmond Vermeil, L’Allemagne et les Démocraties occidentales. Les conditions générales des relations franco-allemandes. Paris, Publications de la Conciliation internationale, 1931 (ibid., p. 399); Agostino Gemelli, L’ora storica e la funzione dell’Università. Milano, Ed. Vita e Pensiero, 1932 (ibid., pp. 399-400).
(68) Nella rubrica Rassegna delle riviste: La grande borghese, ibid., fasc. VI (giugno), p. 462; Due politiche (ibid., pp. 462-463); Demagogia e logica politica (ibid., pp. 463-465); e con due recensioni, a: Daniel Halévy, Décadence de la liberté. Paris, Grasset, 1931 (ibid., p. 471); Franco Guidotti, Dalla democrazia alla corporazione. Pistoia, Arte della Stampa, s.d. [ma: 1932] (ibid., p. 472); Giuseppe Cavaciocchi, Mussolini. Sintesi critiche. Firenze, Vallecchi, 1932 (ibid., pp. 472-473).
(69) ID., La politica italiana del ‘400. Firenze, Novissima editrice, 1932.
(70) ID., L’Italia e l’ Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana. Roma, Edizioni de ‘Il Primato’, 1932.
(71) Si tratta di: Renato Treves, La dottrina sansimoniana nel pensiero italiano del Risorgimento. Contributo alla storia della filosofia sociale in Italia nella prima metà del secolo XIX. Torino, Istituto Giuridico della R. Università, 1931], RIFD, XII (1932), fasc. I (gennaio-febbraio), pp.142-143; C. Costamagna, Corso di lezioni di storia delle dottrine dello Stato, politiche ed economiche. Padova, Cedam, 1931], ibid., fasc. III (maggio-giugno), pp. 462-463; John Charpentier, Jean-Jacques Rousseau ou la démocratie par dépit. Paris, Librairie accademique Perrin, 1931], ibid., fasc. IV-V (luglio-ottobre), p. 685; Armand Le Hénaff, Le pouvoir politique et les forces sociales. Paris, Librairie du Recueil Sirey], ibid., pp. 685-686 ; Daniel HALÉVY, Décadence de la liberté. Paris, Editions Grasset, 1931], ibid., pp. 686-687; Giuseppe Chiarelli, Il Diritto corporativo e le sue fonti. Peugia, La Nuova Italia, 1930], ibid., p. 687; Giuseppe D’Eufemia, Le fonti del Diritto corporativo. Napoli, Libreria Detken e Rocholl, 1931], ibid., l.c.; C. Mortati, L’ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano. Roma, Anonima romana editoriale, 1931], ibid., p. 688; Alessandro Levi, Il pensiero politico di Giuseppe Ferrari, "Nuova Rivista Storica", 1931], ibid., p. 696; Carlo Schanzer, Il mondo fra la pace e la guerra. Milano, Treves-Treccani-Tumminelli, 1932], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 837-839; Vincenzo Zangara, Saggio sulla sovranità. I., Roma, Il Primato, 1932], ibid., pp. 839-840.
(72) La coscienza dello Stato. Note per la storia del concetto di nazione, ibid., XII, 1932, fasc. II (marzo-aprile), pp. 201-234. Lavoro, quest’ultimo, che non solo segna effettivamente un ulteriore allontanamento, anche qui sostanziale se non formale, dall’ideologia del Regime, ma rappresenta, ancor prima, un indubbio perfezionamento del metodo di indagine storico-politologica, applicato su decisive questioni. In tal senso, qui Curcio recupera del resto molti frammenti della sua precedente riflessione, ora insistendo particolarmente sul nesso fra religione e politica e sul concetto di nazione. Argomento, peraltro, già affrontato nella ricostruzione storica del significato del ‘lavoro’, questo del rapporto fra religione e politica si svolge qui riprendendo alcuni spunti relativi all’etica sociale, ora ricollegandosi alle origini vetero-testamentarie ed al cristianesimo. E quest’ultimo è qui visto come matrice di quell’universalismo di valori etico-politici che sarà storicamente veicolato dell’Impero romano, dunque al di là di astrazioni cosmopolitiche, che terranno poi il campo di utopie di varia connotazione.
(73) Vale la pena, qui, soffermarci su queste importanti formulazioni che Curcio sviluppa lungo le seguenti articolazioni argomentative. Intanto delinea la complessità del quesito sul significato da dare a questo concetto di nazione. "[…] Insomma […] è un concetto falso, uno pseudo-concetto? […] O va ridotto a concetti diversi sebbene analoghi, come quelli di razza, di popolo, di patria, di stato o addirittura a quello di storia?" (Ibid., p. 201).
(74) Ibidem, l.c.
(75) Ibidem, pp. 203-204. E comunque, è un’analisi da sviluppare, data la sua complessità, secondo tre diversi criteri metodologici, ossia: sul piano filologico (indagando appunto sull’uso della parola nazione e sul suo valore nella storia delle dottrine politiche); sul piano dell’attribuzione di valori’ (decidendosi a prendere finalmente partito per una data interpretazione del suo significato); sul piano di una considerazione globale, cominciando a distinguere una per una "tutte quante le soluzioni cui si è sforzata di giungere almeno la cultura contemporanea" (Ibidem, p. 204). Data la gran quantità di diverse interpretazioni, procedere altrimenti nell’indagine, concludendo per una sola interpretazione si farebbe solo dell’ideologia. E qui Curcio ribadisce l’impossibilità di analizzare sul piano della ‘scienza politica’ questa idea di nazione, perché così facendo non saremmo immuni da un’attribuzione di valore. Si farebbe, cioè, una sua storia "partigiana", poiché "non v’è storico, di fatti come di teorie, che non abbia un suo pregiudiziale modo di intendere quei fatti e quelle teorie" (Ibidem, l.c.). Dunque, non la ‘scienza politica’, ma solo la ‘storia delle dottrine politiche", la storia di tutte quante le interpretazioni che dell’idea di nazione si sono date può aiutarci a capirne il significato complessivo.
(76) Ibidem, p. 205.
(77) Ibidem, l.c.
(78) In una ricostruzione retrospettiva della nozione, Curcio osserva che nel mondo greco l’idea di nazione venne intesa come ‘linguaggio comune’, come contrapposizione della patria, della cultura, della tradizione greche contro i barbari. Da qui, poi, un’identificazione fra nazione, linguaggio, cultura non molto diverso nella sua essenza etnico-nazionale dall’idea vetero-testamentaria di un legame comunitario corroborato dalla religione, come nella biblica ‘vocazione’ di Abramo, per cui "la tradizione […] ha carattere religioso e nazionale insieme"(Ibidem, pp. 206-207). Qui, anzi, nella tradizione ebraica, l’idea di nazione risulta un concetto "indipendente dalla considerazione del territorio e dall’idea di Stato": è un’idea che peraltro accomuna anche il pensiero greco in quella "diffusa concezione antica […] tramandata poi da molti pensatori del Rinascimento" nel senso di un’universalità della patria (Ibid., p. 208). Si trattava dunque di una proiezione sul piano universalistico dell’idea di nazione, sulla base della stessa "eterogeneità di quegli elementi (linguaggio, religione, spirito dei padri", che emancipa il concetto di nazione "dall’idea del territorio e, infine, dello Stato"(Ibidem, l.c.). Qui pertanto si delinea senza esitazioni la presenza nella successiva cultura ellenistica di un’antitesi fra le concezioni cosmopolitiche, variamente argomentate, e le estremizzazioni dello ‘Stato nazionale’, nel senso che ci si potè convincere di una grande verità, ossia che la nazione era "eterna e lo Stato transeunte", per cui "anche fuori della patria i cittadini erano quasi un o Stato, nel senso che potevano sempre ricostituirlo […] se fosse stato distrutto" (Ibidem, l.c.). E qui per inciso, va rilevato che questa contrapposizione fra nazione e Stato – che nell’immediato suona come una reiterazione, in funzione critica dello stesso Regime, del contrasto fra ‘nazione’ e ‘Stato’ – è idea che Curcio sembra aver recepito dal Rousseau (dove appunto il Ginevrino, nel Contrat social, rilevava la persistenza della nazione ebraica, malgrado duemila anni senza Stato, grazie appunto al forte legame etico-religioso.
(79) Ibidem, p. 204
(80) Ibidem, p. 205.
(81) Dapprima, anche qui la nazione ha una configurazione etnica. "[…] Natio vale la gens, l’unità etnica", ma poi, con Numa si opera una voluta ristrutturazione della nazione in classi, per cancellare le originarie diversità etniche di Sabini, Latini, Etruschi e Romani, come narra Plutarco, nel parallelo fra vita di Numa e quella di Licurgo (Ibidem, p. 206n). Da qui la compiuta espressione della sublimazione dell’idea di ‘nazione’ in quell’entità politica ‘sovra-nazionale’ che è al fondo del concetto di respublica elaborato da Marco Tullio Cicerone, per il quale le comunità etniche (fondate sul diritto naturale, sullo jus naturale) si elevano ad un livello superiore di rapporti etico-politici grazie all’organismo etico-istituzione della respublica, la quale si amplia ed entra in contatto con altre culture, recependo la necessità di uno jus gentium.
(82) Ibidem, p. 209.
(83) Qui, pertanto, emerge indubbiamente un voluto referente di Curcio all’irriducibilità che nei confronti dello stesso Regime totalitario adesso gli sembra sussistere fra la ‘nazione’ e lo ‘Stato’. Si tratta di un ulteriore avanzamento nella graduale presa di distanza dalle sue stesse precedenti posizioni ufficiali di adesione formale al Regime. Si è qui in presenza del terminus a quo del saggio, che troverà una coerente conclusione nel terminus ad quem dell’asserzione di un’irrinunciabile esigenza di considerare i rapporti fra ‘nazione’ e ‘Stato’ sul piano di quella che qui potremmo definire una crociana ‘dialettica fra distinti’, fra diversi contesti che si interano reciprocamente. Nel contesto del saggio, nella considerazione di tali contesti storici distinti in cui si è vissuta in maniera diversa l’idea di nazione, Curcio ne ripercorre le varie formulazioni che si ebbero sia prima, durante e dopo la codificazione che nel mondo romano si produsse recependo e rielaborando la tradizione ‘vetero-neotestamentaria’.
(84) "Cicerone in un famoso passo del De republica [II, 1-2] esprime perfettamente questo processo etico-storico dello Stato romano, quando dice: Nostra… respublica non unius esset ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot costituta saeculis et aetatibus. Nam neque ullum ingenio tantum extitisset […], neque cuncta ingenia collata in unum tantum posse uno tempore providere ut omnia complecterentur sine rerum usu ac vetustate"(Ibid., l.c.).
(85) Sotto questo profilo l’ Imperium si configura come la sintesi ultima di una tale sequenza evolutiva, dalla società naturale alla società civile, e da questa allo Stato, alla società politica. E per converso, si tratta di un processo dialettico in cui vengano ricompresi come ambiti distinti ed interattivi tutti i singoli momenti dell’evoluzione dallo ius naturale allo ius civile, poi da questo allo ius publicum, o ius positivum, statuale, per giungere infine a raffrontare lo ius publicum (o statuale) allo ius gentium.
(86) Ibidem, l.c.
(87) Ibidem, VIII, 1928, fasc. II, capitolo I [fasc. 2 (marzo-aprile), pp. 179-224].
(88) ID., La coscienza dello Stato…, cit., p. 209.
(89) Ibidem, p. 210. Una verità riferibile anche al cristianesimo, alla nuova religione, che - sottolinea Curcio - per quanto avesse proclamata "l’indifferenza di fronte ai popoli come tali", presentandosi come non legata "all’idea di una nazione"; e malgrado si volesse configurare come cosmopolitica ed universale, tuttavia reca "le tracce nazionalistiche che sono visibili nei testi di origine giudaica del Nuovo testamento", riconfermando che il cosmopolitismo non può prender vigore se non in relazione all’idea che un popolo privilegiato dovrà dar luce al mondo"(Ibidem, l.c.). Da consimile sottofondo ideologico poi trasse origine "quella specie di imperialismo cristiano che si diffonderà da Roma su tutto il mondo"(Ibidem, l.c.). Comunque sia, - questo è il punto conclusivo su cui Curcio richiama l’attenzione - già nel mondo antico si delineano due diverse tendenze ad interpretare l’idea di nazione. La prima - si è visto - considera la nazione come unità di "lingua, religione, costume", e si rivela pertanto naturalistica, conservatrice (Ibidem, l.c.). L’altra, invece, è "spiritualistica […], imperialistica […], proclamante il diritto della supremazia in nome della civiltà, della cultura, del bene universale" (Ibidem, l.c.). Solo quest’ultima idea di nazione è veicolo di "luci da Dio date ad una nazione perché illumini le altre diseredate, ma in attesa di essere illuminate"(Ibidem, l.c.). Definita in questi tratti, in Curcio l’idea di nazione nell’immediato manifesta, intanto, alcune suggestioni settecentesche, quale il riferimento al primato di una nazione, legittimato dalla funzione universalistica del suo magistero di civiltà, analogamente a come la Francia venne considerata dalla stessa cultura illuministica europea. Però è soprattutto riguardo alla transizione fra mondo classico e Rinascimento che Curcio indica le origini dell’idea moderna di nazione, a partire cioè dalla fine del medioevo, quando in Italia scrittori politici (Marsilio da Padova) e giuristi (Baldo e Bartolo da Sassoferrato) confutarono la legittimità del dualismo fra Impero e Chiesa, rivendicando l’autonomia delle entità minori, pur nella necessaria unitarietà dello Stato, e cioè una qualche libertà delle nazioni dall’Impero (Ibidem, p. 211). Soprattutto da questi giuristi dell’età di mezzo fino a quelli del Rinascimento, una tale autonomia non venne mai, comunque, intesa secondo un concetto totalmente naturalistico di libertà, ossia come libertà assoluta, come pulsione istintuale, individualistica, anarchica, bensì nel contesto di precisi limiti etici, giuridici, sociali, appunto in quanto ‘legge di natura’ che si realizza pienamente solo in un ordinamento statuale. Per questi autori, "il diritto naturale è libertà, è etica, è principio fondamentale dello Stato e del diritto, che rappresentano il momento terminale del processo rivoluzionario" (Ibidem, p. 212).
(90) "Ecco il concetto di nazione resuscitare ed affermarsi" fra medioevo ed epoca moderna (Ibid., l.c.). Ecco lo Stato sorgere dalle rovine dell’Impero", ma non come "mera organizzazione giuridica autonoma", bensì come "volontà di gruppi, che si sentono uniti, fusi, volenti la propria libertà politica e la loro unità giuridica"(Ibid., l.c.). Fra medioevo ed epoca moderna riappaiono le teorie giusnaturalistiche che oppongo al diritto statuale dell’Impero le autonomie e le istanze di uguagliamento di individui, gruppi e nazioni. E proprio "l’idea di natura restituisce agli uomini il senso di fraternità, di uguaglianza, di libertà"(Ibid., p. 214). In un’accurata ricostruzione delle vicende dell’idea di nazione fra medioevo ed epoca moderna, Curcio descrivea anzituttol’eccessiva enfasi posta sull’idea di nazione si ebbe proprio nel XVI-XVII secolo, per effetto di concause e processi diversi che si intersecarono in questo senso di una piena autonomia Nazionale. Ideologie in apparenza diverse, unite a sentimenti, impulsi, bisogni della vita civile, determinano non solo l’affermazione della borghesia, quale forza nuova che alimenta non solo la Riforma, ma anche – con l’affermarsi del realismo politico (che peraltro ebbe come effetto la ‘ragion di stato’) - la ripresa dell’idea di un diritto naturale dei popoli,delle nazioni, alla libertà ed alla giustizia. Nel XVII secolo, le grandi scuole dei giusnaturalisti come Grozio e come Pufendorf risolvono, "sia pure in maniera del tutto naturalistica, le grandi antitesi lasciate incompiute" nel passato dei commentatori e glossatori medievali del diritto romano, ossia la loro irrisolta giustapposizio di jus naturale, jus gentium, jus civile (Ibid., l.c.).
(91) Ibidem, p. 215.
(92) Ibidem, p. 216. "Senza dubbio Rousseau, superando le concezioni contrattualistiche di Hobbes e di Locke, dà al concetto di popolo un significato concreto e vitale; e il popolo resta certamente definito come unità formidabile, fondata sulla volontà generale, che non è somma, ma fusione organica, etica delle coscienze particolari; onde la sovranità insita nel popolo, vero creatore della volontà politica"(Ibidem, l.c.).
(93) Ibidem, p. 217. "In sostanza tutta l’esperienza del secolo XVIII può ridursi a questo: la nazione esiste, vanta diritti, è una persona giuridica di diritto naturale, un prius di fronte allo Stato, un’entità pregiuridica, insomma" (Ibid., l.c.).
(94) Ibidem, p. 218.
(95) Ibidem, l.c.
(96) Ibidem, l.c. Qui Curcio si riferisce al suo precedente lavoro: La politica di Vico e i tempi nostri, cap. III, ‘Il Giornale della cultura italiana’, I, 1925, n. 6, pp. 1-8.
(97) Curcio, La coscienza dello Stato…, cit., p. 218.
(98) Ibidem, p. 219. Tuttavia, superate contestualmente - grazie alla scuola storica tedesca (con il Savigny) - sia le tendenze panlogistiche hegeliane che, ancor prima, l’astratta identità roussoviana di popolo e nazione (su cui si era basata la Rivoluzione), riprende spazio il convincimento che anima Humboldt, Novalis, Müller, Gneisenau, Fichte, nelle diverse interpretazioni di un medesimo convincimento che "la nazione è interiorità, forza morale che vince, crea, trasforma la natura stessa"(Ibidem, pp. 219-222). Poi la nostra scuola, con i due Spaventa, che "furono tra i più strenui sostenitori di quelle teorie, rivissute all’italiana, secondo cioè le esigenze e i modi della cultura italiana" (Ibidem, p. 223). E soprattutto Gian Domenico Romagnosi, il quale vide nella nazione "una unità insieme naturale ed umana, ove i fattori fisici, quelli etnici, quelli linguistici non son disgiunti dai fattori morali, e cioè dalle tradizioni, dalle religioni, dai bisogni" (Ibidem, l.c.). A questi caratteri della nazione, Pasquale Stanislao Mancini intese aggiungere un ulteriore chiarimento, cercando di innestare il suo discorso nei due versanti delle suddette interpretazioni. In termini, cioè, per un verso giusnaturalistici e per l’altro storicistici. Ed alla fine romantici, osservando che la nazione è al tempo stesso una ‘società naturale’ (di uomini uniti dallo stesso territorio, dall’origine, dai costumi, dalla lingua e dalla comunanza di vita e di coscienza sociale). Ma è anche sentimento, amore, animo di farsi nazione(Ibidem, pp. 223-224). Con Mazzini "la nazione è prima di tutto coscienza, istinto della propria missione" (Ibidem, pp. 224-225). E con Gioberti la nazione sarà concepita come un "centro vitale", l’anima di un popolo, come del resto tale è nel pensiero politico dei patrioti(Ibidem, p. 225). Tuttavia, alquanto diverse sono poi le interpretazioni che dell’idea di nazione si ebbero allora fuori d’Italia, nello stesso XIX secolo (Ibidem, pp. 226-227). Concezioni essenzialmente pseudo-scientifiche, cioè facenti capo, ad esempio con Spencer, all’idea di nazione come ‘vincolo di consanguineità’, come ‘fattore ereditario’, posizione che De Gobineau aveva già spinto a conclusioni razzistiche, incentrate sulla tesi suggestiva della "superiorità delle società etniche pure" (Ibidem, p. 228). Tesi queste ultime "non sempre obiettive" (Ibidem, l.c.). Ecco un altro risultato determinato dalla pretesa di applicare alla nazione la ‘scienza politica’, infatti, "proclamata la scienza della nazionalità una ‘sezione della psicologia’, gli studi in questo senso del Fouillée e del Le Bon, per quanto suggestivi, hanno approdato spesso a risultati giustificanti l’imperialismo" (Ibidem, l.c.).
(99) Un’apparente variazione su questo tema è, in Italia, Enrico Corradini, per il quale la nazione è comunità spirituale, addirittura ‘Persona Spirituale’. Anche se poi lui stesso la riduce ad un significato "del tutto naturalistico (Ibidem, pp. 228-229).
(100) Ibidem, p. 229.
(101) Ibidem, l.c.
(102) Ibidem, p. 230.
(103) Ibidem, p. 232.
(104) Ibidem, l. c.
(105) Ibidem, l.c.
(106) In realtà, la carta – approvata nel testo definitivo nella riunione del Gran Consiglio del 21 aprile 1927, si riduceva a enunciazioni generiche di scarsa rilevanza pratica e conteneva disposizioni particolari che non avevano niente di veramente innovativo (Aquarone, Op.cit., I, pp. 141-152). Basterebbe citare l’articolo III per capire la totale assenza di autonomia concessa alle organizzazioni professionali: "L’organizzazione professionale o sindacale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto a controllo dello Stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria […]" (Ibid., to. II, doc. n. 40, p. 477).
(107) "La Carta del Lavoro, nella sua prima dichiarazione fondamentale, così si esprime: ‘La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita,, mezzi di azione superiori, per potenza e durata, a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascista’. Qui son superate, in modo esplicito e definitivo, tutte le concezioni false della nazione. Qui, implicitamente, vengono superate tutte le antitesi: quella tra popolo e nazione, quella tra Stato e nazione, tra individui e nazione" (Curcio, La coscienza dello Stato…, cit., p. 234). Qui Curcio ha sottoscritto una posizione palesemente contraddittoria non soltanto con tutta la precedente parte del saggio, ma anche e soprattutto rispetto a quanto aveva scritto in L’ostetrica del diritto, nel 1930. Sintomo di un’involuzione momentanea, di una risposta che in questo lungo saggio critico dello statalismo del Regime Curcio sente di dover pure dare al richiamo all’ordine di quella che era pur sempre una pesante dittatura, anche se lontana quanto si vuole,da quella socialista-sovietica o nazional-socialista tedesca.
(108) "La teoria italiana recentissima ha apportato questo riguardo un contributo chiarificatore essenziale e fondamentale", in quanto, dopo aver superata la concezione individualistica, "risolventesi nella proclamata volontà dichiarata o presunta del popolo", ormai la nazione è intesa – afferma Curcio (riferendosi, e non troppo esaurientemente in termini bibliografici, alle formulazioni in proposito prodotte da Del Vecchio fra 1913-24 - come la "viva e concreta obiettivazione della nostra individualità, che vi si contempla ingrandita e moltiplicata indefinitamente nel passato e nell’avvenire" (Ibid., p. 233).
(109) Ibidem, l.c.
(110) Ibidem, l.c.
(111) ID., Stato universale-organico e Stato fascista, ‘Lo Stato’, III, 1932, fasc. VII (luglio), pp. 484-491.
(112) ID., Oltre il diritto, nella rubrica Note e discussioni : ibidem, fasc. VIII (agosto), pp. 610-612.
(113) ID., Lo Stato, la guerra e la pace, ibidem, fasc. X (ottobre), pp. 707-714.
(114) ID., Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’), nella rubrica Note e discussioni, ibidem, fasc. XI-XII (novembre-dicembre), pp. 802-805.
(115) W. Heinrich, Dottrina fascista e dottrina universale-organica, ibidem, fascicolo V (maggio), pp. 340-349.
(116) Intanto Costamagna accusava però il tedesco di aver confuso il concetto dello Stato ("che la dottrina fascista assume in un valore etico irriducibile ad una definizione formale di competenze giuridiche, come la intende il Heinrich") ed il concetto di governo, "che è essenzialmente organizzativo e funzionale" ([C. COSTAMAGNA], Nota della Direzione, ibidem, p. 349n.). Giustamente risentita era particolarmente la risposta ai dubbi che Heinrich esprimeva sulla capacità organizzativa del popolo italiano, cui Costamagna opponeva (chiamandolo il "nostro amico tedesco") che "questo popolo ha dato alla civiltà europea i tre più alti tipi di organizzazione nello Impero, nella Chiesa e nella repubblica di San Marco" (Ibidem, l.c.)
(117) Il discorso di Curcio parte dalla considerazione del significato della concezione organicistica, basata su di una visione della società come "unità organica composta da unità parziali", secondo cioè una loro diversa funzionalità di corpi, ceti o classi che svolgono la varie attività artistiche, scientifiche, religiose, economiche, come altrettante "funzioni […] in relazione all’unità organica totale" (Curcio, Stato universale-organico e Stato fascista, cit., p. 486). Nell’organicismo di Spann andava vista dunque la riproposizione di una vecchia concezione dello Stato come ordinamento complesso, costituito da una molteplicità di corpi titolari di funzioni, centro di un sistema di interazioni interpretabile in senso pluralistico. Lo Stato come un’unità ed una molteplicità di entità sociali del tutto armonizzabili, non più da considerare come opposte o addirittura avverse fra loro e rispetto all’ordinamento statuale (Ibidem, l.c.). Quale dunque la sostanziale differenza che Curcio vedeva rispetto al ‘corporativismo’ fascista, secondo Heinrich invece molto prossimo alla suddetta visione organicista? "Una, prima di tutte e sopra tutte le altre, fondamentale: la teoria fascista si fonda sopra una concezione etica dello Stato, la quale risolve, concretamente, tutte le antinomie e può servire ad affermare insieme l’unità-sovranità dello Stato e partecipazione di tutti - associazioni ed individui - alla vita dello Stato" ( Ibidem, p. 487). Invece la "teoria universale-organica postula, in un tentativo astratto e trascendentale, tale unità di società, Stato, enti ed individui" (Ibidem, l.c.)
(118) P. Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di Carlo Curcio (1898-1971), cit., pp. 345-466.
(119) "L’organizzare in senso materiale è del governo, e lo Stato, per il fascismo, non è il governo. Lo Stato è complesso di forze, di opere, di spiriti, di fedi; il governo è, invece, la direzione politica dello Stato. Tale distinzione, fondamentale nella dottrina fascista, può servire, essa soltanto, ad eliminare molti equivoci" (Curcio, Stato universale-organico e Stato fascista, cit., p. 489).
(120) "[…] Ma non già uno Stato che stia sopra gli individui o le categorie; […] perché è, vive, agisce, si sviluppa, traendo motivi essenziali di forza, di pienezza, di contenuto da individui e gruppi" (Ibid., p. 488).
(121) Ibidem, p. 489. Certo qui il discorso contro l’organicismo universalistico, mistico-trascendentale, ed alla fine naturalistico-istituale, di Spann-Heinrich, finisce per Curcio in una rievocazione delle promesse liberali, delle istanze autonomistiche, di sindacati e corpi sociali, che ormai sono alle spalle del fascismo-Regime.
Nondimeno, in tale prospettiva, contrariamente a quanto crede Heinrich - che cioè lo Stato fascista sia "accentratore, subordinatore di tutte le attività politiche ed economiche, comprese le attività delle organizzazioni professionali" - Curcio rivendica a queste ultime "una loro compiuta autonomia" ( Ibidem, l.c.). Asserzione poco convincente di Curcio, che peraltro dimostra la sua contrapposizione al Regime, evocandone appunto una inesistente anima pluralista e liberale, in un ossequio retorico che in realtà è la rivendicazione delle promesse delle origini della rivoluzione (ossia dell’autonomia e della partecipazione politica delle organizzazioni professionali alla vita dello Stato). Promesse non mantenute e disattese sostanzialmente dal Regime, scaduto in un ‘corporativismo’ formale. "Queste […] rivendicano una loro compiuta autonomia; da un punto di vista, anzi, superiore, possono anche rivendicare, almeno alle origini, una partecipazione diretta alla formazione dello Stato, nato attraverso una rivoluzione e, pertanto, anche da esse" (Ibid., l.c.)
(122) Ibidem, p. 490.
(123) ID., La politica italiana del ‘400. Contributo alla storia del pensiero borghese, cit. Firenze, Nuovissima, 1932.
(124) Da ultimo, dopo la guerra, si ricordò di lui - a fronte del silenzio in Italia - a livello internazionale, David Weinstein, in riferimento proprio a La politica italiana del 400 (D. Weinstein, Savonarola and Florence. Prophecy and Patriotism in the renaissance. Princeton, University Press, 1970, p. 23).
(125) "La rivoluzione politica del Quattrocento […] s’inserisce in tutto quanto lo sviluppo delle idee politiche moderne", e - realizzandosi nel distacco dai vecchi sistemi, dalle vecchie ideologie medievali -, si dispiega da un atteggiamento quasi costante nei riguardi del problema morale, "inteso come immanenza e pertanto capace di giustificare la negazione assoluta del moralismo politico" e quindi di" dimostrare l’esigenza della politica come eticità e come pratica, come spiritualità concreta e come economia […]" (Curcio, La politica italiana del ‘400…, cit., p. 202).
(126) La riflessione politica italiana si afferma nel XV secolo "come la prima restaurazione del senso, della coscienza, dello spirito politico dei tempi moderni", per cui in quegli scrittori permane sempre "una tendenziale, insita, preoccupazione nei riguardi del concetto di rivoluzione […], della rivoluzione come etica della politica e del diritto" (Ibid., l.c.).
(127) ID., Oltre il diritto, ‘Lo Stato’, III, 1932, fasc. VIII, agosto, nella rubrica Note e discussioni, pp. 610-612.
(128) E precisamente quelli di: Arrigo Solmi (Politica e diritto nella Dottrina generale dello Stato. Milano, 1932), Carlo Costamagna (Diritto pubblico e diritto privato, nel nuovo sistema del diritto italiani, in: Studi in onore di Federico Cammeo. Padova, 1932) e Sergio Panunzio (Stato e diritto. L’unità dello Stato e la pluralità degli ordinamenti giuridici. Modena, 1931).
(129) "Chi è […] che crea il diritto? Lo Stato? E lo Stato non è la resultante di valori squisitamente politici? Che cos’è il diritto se non imperio, manifestazione di una volontà superiore? E cotesta volontà non trova, forse, nella politica il suo centro vitale e la sua fonte di vita e di energia?" (Ibid., pp. 611-612).
(130) "Questo s’incomincia a capire da qualche tempo da noi; e fa piacere vedere come, ormai, la quasi totalità dei giovani studiosi di diritto pubblico s’attiene a tali criteri. Sarebbe, invero, un bel dire occuparsi dei nuovi istituti creati dal Regime senza tener presenti i motivi ideali - e cioè politici - che li hanno generati" (Ibid., p. 612).
(131) P. Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di carlo Curcio…, cit., p. 454 e ss.
(132) Curcio, Lo Stato, la guerra e la pace, ‘Lo Stato’, III, 1932, fasc. X (ottobre), p. 707. "Il fondamento della politica – di ogni politica – va ricercato nel motivo eterno – attivo, dinamico, eroico – dello spirito umano" (Ibid., l.c.).
(133) Ibidem, l.c. Sarebbe dunque meglio dire che sul piano della ‘scienza politica’ può essere realmente afferrata soltanto l’inesauribile diversità dei comportamenti umani, in correlazione alla presenza, o meno, ed al grado di intensità di motivazioni etiche nelle decisioni e negli orientamenti, che pertanto possono essere determinati ora all’azione eroica, antagonistica, rivoluzionaria, oppure appiattirsi nella soggezione moralmente argomentata a quanto impongano le vicende.
(134) Ibidem, pp. 708-709.
(135) Ibidem, p. 708.
(136) Ibidem, p. 711.
(137) Ibidem, l. c.
(138) Ibidem, l.c.
(139) "La storia ancora una volta può esser chiamata a testimoniare questa asserzione. Mai v’è stata pace che non sia stata, non solo fondata sulla guerra, frutto di guerra cioè; ma che non sia stata fondata sulla forza. Così la pax romana; così la pax britannica; e, in gran parte – sia pure per ragioni anche d’imperio spirituale – la pax christiana" (Ibid., p. 712).
(140) "O si concepisce il diritto come pura norma, come dato, come natura: come ordine stabilito, fissato; e si ha una concezione pacifista. […] Oppure si concepisce il diritto come aspetto della vita, come capitolo dell’etica, come storia; e si ha una concezione energetica, attivistica della società e del mondo" (Ibid., l.c.). Sotto questo profilo, - precisa Curcio - c’è una effettiva affinità fra guerra e rivoluzione, fenomeni che entrambi creano nuovo diritto, come ben compresero Proudhon (anche se poi concluse per il pacifismo) e Marx, il quale, "rivoluzionario perfetto" – non a metà come Proudhon – "giustifica ed esalta la guerra" (Ibid., p. 713). Eppoi, rivoluzioni pacifiste non ne esistono. "La rivoluzione bolscevica, sotto il manto del pacifismo, ha un esercito ben temprato ed agguerrito, e non manca, logicamente, di iniettare nella gioventù russa l’entusiasmo frenetico per la guerra. Perfettamente logico e coerente, Mussolini, il più grande rivoluzionario dei tempi moderni, giustifica la guerra ed esalta lo spirito guerriero del popolo" (Ibid., pp. 713-714). E qui ecco che il tema della rivoluzione riprende uno dei cardini della riflessione del 1930 sulla rivoluzione. "I grandi costruttori di ideali, i seminatori di vita, i creatori di Stati, gli artefici della storia hanno costantemente avuto chiara la esigenza logica ed etica della guerra. Gesù vincitore dei demoni, fondatore della monarchia eletta, venne a portare non la pace ma la spada" (Ibid., p. 713). Alla fine, anche Cristo è stato un eroico antagonista, creatore di una radicale rivoluzione nel costume atavico. Da questa contesa è nata la civiltà cristiana.
(141) ID., Vecchia e nuova Europa (A proposito del Congresso ‘Volta’), ‘Lo Stato’, III, 1932, fasc. XI-XII, novembre-dicembre, nella rubrica Note e discussioni : pp. 802-805.
(142) Si veda: Convegno di Scienze morali e storiche (14-20 novembre 1932-XI). Tema: L’Europa. Voll. I-II*. Roma, Reale Accademia d’Italia, 1933-XII (‘Reale Accademia d’Italia. Fondazione Alessandro Volta. Atti e Convegni 2*).
(143) Curcio, Vecchia e nuova Europa…, cit., pp. 804-805. Problemi, questi ultimi, tuttavia ora accentuati da una nuova fase del trapasso da uno stadio all’altro della civiltà europea, che adesso è in una crisi profonda, determinata da molteplici fattori: l’americanismo, l’eccessiva influenza del capitalismo, che, al massimo del suo sviluppo, "ha aperto crepe profonde nel sistema economico" (Ibid., p. 805). Sì, certamente, a confermare le previsioni di Marx, c’entrano questi fattorie economici. Ma c’è dell’altro. Intanto, la crisi dei sistemi politici, gli effetti della Grande guerra, il rilassamento del sentimento morale e religioso. "Ma non è tutto. Quella europea non è una crisi soltanto economica o politica o religiosa, è una crisi di civiltà" (Ibid., p. 803).
(144) Ibidem, l. c.
(145) Ibidem, l. c.
(146) Ibidem, l. c.
(147) Ibidem, p. 805.
(148) I tratti salienti di questo opuscoletto sono essenzialmente due. Intanto, la riconsiderazione, molto articolata, della genesi dello Stato unitario italiano, fino alla sua crisi fra fine XIX-inizio XX secolo, in uno scadimento dell’ordinamento sociale e politico in un sistema di garanzie formali, ma non sostanziali. "Anche in questa società il diritto è tale soltanto formalmente; lo si viola spesso, lo si offende spessissimo, nonostante tutte le considerazioni contrarie; e il diritto è di chi se lo conquista. Guai pertanto ai giovanissimi ed ai vecchi; gli uni più esposti alle offese, gli altri più incapaci di difendersi" (ID., L’Italia e l’ Europa. Lineamenti dello sviluppo della politica italiana, cit., p. 4). Da tale scadimento delle vita nazionale derivano l’instabilità sociale, la Grande guerra, e la rivoluzione fascista, qui vista come ricostruttiva delle stesse sorti internazionali dell’Italia. A questo secondo aspetto, Curcio dedica una significativa analisi sul ruolo attuale dell’Italia, posta dalla politica mussoliniana al centro di un processo di riequilibrio e di pacificazione, possibile superando l’egoismo delle Potenze vincitrici ed arginando qualsiasi tentazione pangermanista. "Rafforzamento della pace europea mediante non la rigida applicazione de’ trattati di pace, ma con una oculata e prudente revisione di questi, a patto che ogni revisione non turbi, però, l’equilibrio continentale (come avverrebbe per una unione austro tedesca) […]" (Ibid., p. 52).
(149) Si tratta delle recensioni a: James BRYCE, Democrazie moderne. A cura di L. Degli Occhi. Voll. I-II. Milano, U. Hoepli, 1930-31], ‘RIFD’, XIII (1933), fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 141-142; Giuseppe Santonastaso, Georges Sorel. Bari, Laterza, 1932], ibid., pp. 142-143; Giorgio Sorel, L’Europa sotto la tormenta. A cura di Mario Missiroli. Milano, Corbaccio, 1932], ibid., l.c.; David Davies, Le problème du XXe siècle. Essai sur les relations internationales. Paris, Payot, 1931], ibid.,, fasc. II (marzo-aprile), p. 270; Adriano Tilgher, Etica di Goethe, Roma, Libr. P. Maglione, 1932], ibid., p. 271; Antonello Gerbi, La politica del romanticismo. Le origini. Bari, Laterza, 1932], ibid., fasc. III (maggio-giugno), ibid., pp. 456-457; Emanuele Landolfi, Lo Stato nella sua essenza e nei suoi rapporti con l’individuo. Roma, Stamperia reale, 1932], ibid., pp. 457-458; a Mario Missiroli, L’Italia d’oggi. Bologna, Zanichelli, 1932], ibid., p. 458; Rino Longhitano, La Russia di fronte all’Europa (Il principio di nazionalità in Russia). Catania, Rinnovamento, 1932], ibid., p. 459; Antonio Ferraù, L’avvenire nella politica di Saint-Simon. Roma, Luzzatti, 1931], ibid., fasc. IV-V (luglio-ottobre), p. 628; Aristide Campanile, Antieuropa e i diritti dell’uomo. Roma, Nuova Europa, s.d.], ibid., pp. 628-629.
(150) Ibidem, IV, 1933, fasc. I, gennaio, pp. 6-15.
(151) Sintesi di una indubbia acutezza di indagine, questa di Curcio, che anticipa di decenni quanto con quasi con stesse parole, e certo con la medesima impostazione argomentativa, possiamo ritrovare nella definizione del quesito data molti anni dopo da Giovanni Sartori, il quale del resto era stato, nel dopoguerra, suo giovane collega alla facoltà di Scienze politiche (la ‘Cesare Alfieri’) di Firenze.
(152) Ibidem, pp. 13-15. "Onde la Politica resta Politica; né pura scienza, né pura filosofia, né pura storia, ma una forma speciale dell’attività dello spirito, distinta dall’arte; e il cui segno di distinzione è dato: dal suo obbietto, che è costituito dall’esigenza di ordinare gli uomini che vivono in società; dalle sue finalità, che sono ispirate a criteri di miglioramento e di perfezione; dal suo metodo, che è filosofico e storico insieme" (Ibid., p. 15).
(153) Ossia quella agli Studi filosofico-giuridici dedicati a Giorgio Del Vecchio nel xxv anno di insegnamento (1904-1929). Modena, Soc. tip. Modenese, 1930, voll. I-II], ibid., pp. 71-73.
(154) Precisamente a: Francesco Orestano, Riassunto e conclusioni del Convegno Volta. Roma, R. Accademia d’Italia, 1932], ibid., IV, 1933, fasc. II, febbraio, p. 157); Gugliemo Massart, Società e Stato nel cristianesimo primitivo. La concezione di Origene. Padova, A. Milani, 1932 (ibid., pp. 157-158); Amintore Fanfani, Le origini dello spirito capitalistico in Italia. Milano, Vita e pensiero, 1933 (ibid., pp. 158-159).
(155) Ibidem, pp. 142-144.
(156) Le recensioni in questione sono le seguenti: Tommaso Napolitano, Evoluzione del diritto penale sovietico dall’ottobre ’17 ai nostri giorni, Città di Castello, Tip. Leonardo da Vinci, 1932; ID., Il Codice penale della R.S.F.S.R. Trad. del testo ufficiale russo, con pref. di S.E. Silvio Longhi. Ivi, 1933 (ibid., fasc. III, marzo, pp. 237-238); Francisco De Vitoria, Addresses in commemoration of the fourth centenary of his lectures ‘De Indis’ and ‘De iure belli’. Washington, Catholic University of America, 1932 (ibid., p. 238); Fritz Ermarth, Mussolini. Eine verfassungsrechtliche Studie über die Regierung Italiens, Tübingen, I.C.B. Mohr, 1932 (ibid., fasc. IV, aprile, p. 313); Giorgio Del Vecchio, La Société des Nations au point de vue de la philosophie du droit international. Paris, Librairie du recueil Sirey, 1932 (ibid., pp. 314-315); Giuseppe Santonastaso, Gli ideali di Proudhon. Udine, Tip. Ed. Fiorini, 1933; ID., Il problema della guerra e della pace. Ivi, 1933 (Ibid., fasc. V, maggio, p. 400); Eugenio Di Carlo, Un teorico della ragion di Stato: Scipione di Castro, (estratto dal volume di: Studi in onore di Ugo Conti. Città di Castello, Tip. Dell’Unione arti grafiche, 1932) (Ibid., p. 400); a Felice Battaglia, La crisi del diritto naturale. Venezia, La Nuova Italia, 1930; ID., Diritto e filosofia della pratica. Ivi., 1932 (Ibid., fasc. VI, giugno,pp. 474-475); F.S. Triggiani, Saggio sulla distribuzione dei poteri, con speciale riguardo al diritto costituzionale italiano. Bitonto, G. de Bari, 1932 (Ibid., pp. 475-476); Bruno Spampanato, Discorsi al popolo. Napoli, Alberto Morano, 1932; ID., Idee e baionette. Ivi, 1932; ID., Popolo e regime. Bologna, Cappelli, 1932; ID., La politica finanziaria della Destra storica. Napoli, Chiurazzi, 1932 (Ibid., pp. 476-477); Marcello Capurso, Politica orientale. Appunti. Con pref. di M. Mutinelli. Perugia, Ed. di "Fascismo", 1933 (Ibid., pp. 478-479); Ugo Mariani, Le teorie politiche di sant’Agostino e il loro influsso nella scuola agostiniana del secolo XIV. Firenze, Libr. Ed. Fiorentina, 1933 (Ibid., fasc. VII, luglio, pp. 556-557); Giorgio Tarissi De Jacobis, L’ordinamento corporativo e le fonti del diritto commerciale. Con pref. di Sergio Panunzio. Roma, "Il nuovo Diritto", 1933 (Ibid., p. 557); Sergio De Cesare, Inquietudini del nostro tempo. Napoli, Anonima Chiurazzi, 1933 (Ibid., pp. 557-558); Guido Gambardella, Aspetti di economia della tecnica. Con pref. di Oddone Fantini. Napoli, Ed. Chiurazzi, 1933 (Ibid., p. 558); Raffaele Numeroso, L’organizzazione scientifica del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. I capisaldi per l’attuazione. Napoli, Tip. F. Giannini, 1933; ID., Les postulats fondamentaux pour actuer la rationalisation dans les administrations publiques. Naples, Impr. Portosalvo, 1933 (ibid., pp. 558-559); Antonino D’alia, Popoli e paesi nella storia dell’umanità. Saggio di scienza politica. Roma, Libreria internazionale fratelli Treves, 1932 (Ibid., pp. 559-560).
(157) Si tratta di: Un ammonimento: la mostra della Rivoluzione (Ibid., fasc. III, marzo, pp. 209-211); Per una collana di ‘Classici del diritto’ (Ibid., pp.227-229); C’est la faute à Voltaire? (ibid., fasc. IV, aprile, pp. 289-291); Un pericolo per l’Europa (ibid., fasc. V, maggio, pp. 375-378); Unità di cultura e unità di indirizzo (Ibid., fasc. VI, giugno, pp. 428-429); Federalismo o internazionalismo? (ibid., fasc. VII, luglio, pp. 532-533); Oltre la crisi (Ibid., pp. 534-536).
(158) Anno nel quale, Curcio fra l’altro stende la prefazione a: Oddone FANTINI, L’universalità del fascismo. Principi di dottrina e di etica fascista. Napoli, Chiurazzi, 1933.
(159) Stato e rivoluzione, ‘Fascismo. Rassegna del pensiero nell’Italia d’oggi’, I (1933), fascicolo n. 1, luglio, pp. 7-23.
(160) "[…] L’aspetto essenziale del diritto è la positività, la coercizione, la normatività assoluta; e l’aspetto essenziale dello Stato l’imperio, la sovranità, la potestà assoluta" (Ibid., p. 8).
(161) Sulla linea di Machiavelli (e non senza echi di Hobbes), qui Curcio afferma che lo Stato nasce per correggere i difetti degli uomini, che aspirando ad una migliore condizione di esistenza, "si organizzano, si formano un esercito, si nominano un capo […]; poi hanno paura di veder tradita la loro causa, di veder tramontare i loro ideali; e s’organizzano in Stato, si danno leggi, alle quali conferiscono un potere immenso e credono raggiunta […] la perfezione di quest’ordine", mentre invece lo Stato "è il segno della caducità di tutte le illusioni, di tutte le speranze, di tutti i sogni" (Ibid., pp. 8-9).
(162) Ibidem, p. 10. Analoga a "quei grandi movimenti di popolo anelanti alla liberazione, che sono caratteristici nell’Italia dopo il secolo XII", la Riforma protestante mira a svincolarsi da quelle stesse autorità che soffocavano il bisogno di autonomia dei popoli, anche se poi Lutero ripiegò sul partito della nobiltà e della borghesia (Ibid., pp. 11-12). E comunque dalla stessa parola ‘riforma’ è discesa quella di ‘rivoluzione (Ibid., p. 12).
(163) Ibidem, p. 13. Ecco quanto aveva compreso perfettamente Fiche, che nel suo "Contributo alla rettificazione del giudizio del pubblico sulla rivoluzione francese, […] purtroppo rimasto incompiuto, arriva a dire che il vero principio politico è quello che coincide con la nostra essenza spirituale"; è cioè "la legge morale", per cui ogni ordinamento che contrasti con la legge morale "non ha valore ed è ingiusto" (Ibid., l.c.). Giustamente, pertanto, Fichte aveva compreso che gli Stati devono "essere ricondotti al loro fine etico", e che le costituzioni "sono sempre trasformabili e le rivoluzioni legittime" (Ibid., l.c.).
(164) "[…] Non a caso, infatti, le monarchie moderne riposano la loro sovranità non soltanto sulla volontà di Dio, ma anche della nazione. Questa precisa dichiarazione che è a capo dello Statutio del Regno d’Italia è squisitamente di origine rivoluzionaria. Non è, del resto, un segreto per nessuno che il carattere delle monarchie moderne è dato proprio da questa fusione di elementi tradizionali e rivoluzionari, per cui la Corona è insieme conservazione ed innovazione, e cioè continuità assoluta […]" (Ibid., p. 15).
(165) Ibidem, p. 17.
(166) Ibidem, l.c.
(167) Ibidem, l.c. "La rivoluzione è esercizio di volontà politica che vuole nuovi ordini di vita. Ma essa, di fronte allo stato, ha una sua logica. Può esser considerata sempre presente o perché insita nello stato stesso, che ne ha compreso gl’ideali; o perché minacciosa di realizzarsi di fronte all’evidente discontinuità che s’è verificata nello Stato stesso[…]" (Ibid., p. 19).
(168) La rivoluzione è infatti "esercizio di volontà politica, che vuole nuovi ordini di vita" e che ha una sua logica di fronte allo Stato (Ibid., l.c.). La rivoluzione è sempre immanente nella vita dello Stato, sempre presente, sia perché "insita nello Stato stesso, che ne ha compreso gli ideali", sia perché è una minaccia incombente di "realizzarsi", tutte le volte che si palesi discontinuità di questi ideali (Ibid., l.c.). Quasi in un’eco incosciente delle distinzioni rivoluzionarie francesi (di Sieyès, nella nozione di rappresentanza, e di Robespierre nella legittimazione del terrore), cioè fra una funzione politica in tempi normali, ed una rivoluzione in tempi di crisi istituzionale, - comunque qui Curcio per un verso critica le rivoluzioni ‘cervellotiche’, innescate da vaneggiamenti intellettualistici, ossia rivoluzioni "a freddo, […] manifestazioni di ideologie malsane", e per l’altro rifiuta di considerare rivoluzioni le insurrezioni di piazza, guidate da "loschi interessi" e nelle quali "predomina la feccia"(Ibid., pp. 19-20). La vera rivoluzione è invece coessenziale alla vitalità dello Stato, della continuità delle sue istituzioni, ma deve assicurare stabilità, corrispondere "alla coscienza rivoluzionaria del popolo" (Ibid., p. 20). Pertanto, una tale rivoluzione non è mai compiuta e superata, ed anzi si ripropone e si manifesta ogni volta che si sia "rotto l’equilibrio, che è immanente in ogni forma di organizzazione politico-giuridica": l’equilibrio "tra i cittadini e gli ordini che li reggono, tra la nazione e lo Stato" (Ibid., p. 21). E si manifesta, "attraverso un processo che è sempre prodotto da minoranze e cioè da élites", come volontà del popolo, che "afferma impetuosamente ed imperiosamente il suo diritto ad aver norme di rapporti, di vita civile, morale, politica conformi ai suoi nuovi ideali ed alle sue più vive esigenze" (Ibid., l.c.).
(169) Ibidem, l.c. La sostanza della rivoluzione si concreta formalmente solo dopo la presa del potere, dopo cioè l’installazione della nuova classe politica al comando, realizzando un suo ordine nuovo. Solo allora la rivoluzione si completa, "quando si son creati i nuovi istituti giuridici, quando si è attuato tutta una nuova struttura di rapporti non solo giuridici, ma anche e soprattutto morali, i quali tutt’insieme danno vita al nuovo Stato" (Ibid., l.c.). Pertanto, il regime politico che abbandonasse lo spirito rivoluzionario in questa seconda fase tradirebbe "gli aneliti, le speranze, le sofferenze di coloro che hanno compiuto sacrifici spesso colossali per raggiungere quella specie di Stato di grazia che è lo Stato rivoluzionario, lo Stato loro, veramente loro" (Ibid., p. 22).
(170) Ibidem, p. 23. Qui, rievocando Cromwell e Washington, che non abbandonarono mai il loro spirito rivoluzionario, Curcio si rivolge al Capo del Governo, ammonendolo che qualsiasi Stato di nuova fondazione, "il quale come tutti gli Stati deve avere l’illusione e la pretesa di essere il vero Stato", l’unico, perfetto e perfettibile, dovrà essere sempre "retto da leggi, da istituti, da norme precise; ma soprattutto affidato a quell’ideale da cui è scaturito, a quello spirito onde è nato […]"(Ibid., p. 22).
(171) Ibidem, fasc. VIII-IX, agosto-settembre, pp. 591-605.
(172) Ibidem, p. 591.
(173) Ibidem, l.c.
(174) Ibidem, p. 592.
(175) Ibidem, l.c.
(176) "Crisi di fedi, di ideali, di valori; crisi in una parola religiosa, che dà luogo ad uno strano pessimismo, che annulla energie, forze costruttive, volontà di credere e di sperare" (Ibid., p. 593). Ecco la "crisi dello ‘spirito occidentale’, e cioè dello spirito europeo", di cui a lungo si è parlato (Ibid., l.c.).
(177) Tale il significato della diffusione di stilemi architettonici, come pura la grande quantità di traduzioni di opere letterarie e politiche nelle diverse lingue. Lo stesso sviluppo delle comunicazioni, sempre più rapido e diffuso, accentua questo processo di omologazione delle varie culture in una medesima prospettiva europea (Ibid., pp. 593-594).
(178) Data che – sottolinea Curcio - è forse quella della "nascita della nuova Europa", in quanto "avvenimento solenne", in quanto accordo con cui "le grandi potenze europee decidono di collaborare in vista di un fine comune da raggiungere" (Ibid., p. 595). Non più il fine negativo, quale la "lotta ad altri gruppi di potenze, conquiste di nuovi territori, di colonie, e via via"; né finalità, astratta, quale quelle di generiche concezioni di pace, giustizia, democrazia, e così via; e nemmeno fine meramente empirico, economico, ma "fine prima di tutto politico, morale" (Ibid., l.c.).
(179) Ibidem, p. 597. Infatti, il vero "spirito della nuova Europa" è contrario all’inerzia, alla pigrizia mentale, all’inazione, e vuol essere "una scuola di energia, di attività, di opere" (Ibid., l.c.). Bisogna "credere, volere, operare […] creare la coscienza europea" (Ibid., l.c.). Un mito allora? Forse anche questo. Ma un mito valido per tutte le nazioni europee, poiché la proliferazione di miti politici contrapposti, il "polimitismo", ne uccide il sostrato ideale, che deve essere unico, univoco, come unica ed univoca deve e essere la coscienza europea (Ibid., l.c.).
(180) "Già il diritto romano aveva, in gran parte, agito su tale trasformazione […]. Ma è solo dopo parecchi secoli – dopo le invasioni, le dominazioni, le traslazioni dell’Impero, tutti fenomeni che hanno perfezionato l’influsso della civiltà latina sugli altri popoli – che appaiono i frutti del dominio politico e di quello civile di Roma su gran parte d’Europa" (Ibid., p. 598). E dunque, si tratta di un’unità morale nata al di là di particolari tradizioni, costumi e culture delle genti europee, ossia di un’unità sostanziale che non va cercata né in questo particolarismo nazionale, né in un’infondata ipotesi di una comune natura biologica, etnica e razziale su cui ci si illuderebbe di fondare la nuova Europa. Le differenze etniche, di lingua, hanno un loro peso, certamente, ma è soprattutto da fattori storici che dipende la comune coscienza europea, nata da "un centro irradiatore e diffusore di civiltà", da una "particolare forma distintiva di vivere, di pensare la vita, di organizzare la vita", ossia una coscienza originata da quella originaria matrice storica che appunto è stata l’Europa "romana"(Ibid., l.c.).
(181) Ibidem, p. 601.
(182) "In questo senso, anzi, un rafforzamento dell’idea di nazione in Europa consentirebbe un rafforzamento dello stato stesso; rafforzamento che è base indispensabile per la instaurazione di un ordine politico nuovo" (Ibid., l.c.). Un ordine che peraltro non potrebbe sorgere senza che venissero eliminate tutte quelle ingiustizie, quelle false pretese nazionalistiche innescate da sconsiderate clausole dei trattati di pace, tali da esporre incessantemente l’Europa stessa a gravi perturbazioni (Ibid., l.c.). Rispetto a questo problema morale di una comune coscienza europea, sono dopotutto di secondaria importanza, almeno sul momento, le forme istituzionali cui dare al nuovo ordine europeo, cioè se farne una federazione o una confederazione di Stati, oppure un grande Stato federale (Ibidem, pp. 602-603). Per il momento, sarebbe realistico limitarsi a realizzare una politica concordataria, tramite l’abolizione dei debiti di guerra, le riparazioni, tramite il riassetto economico delle singole nazioni, aiutando quelle più duramente colpite, smobilitazione dei protezionismi, raggiungimento di una stabilità monetaria (Ibid., p. 604). Tutti programmi e misure da prendere "senza turbare l’individualità delle singole economie nazionali", poiché gli Stati nazionali "sono i grandi individui della storia", ed annullarli significherebbe intristire la stessa storia dell’umanità (Ibid., l.c.). Un’immagine retorica, dai tratti romantici, con cui peraltro Curcio vuol riferirsi alla futura struttura del sistema europeo nel pieno rispetto, nella valorizzazione, anzi, delle individualità culturali e nazionali.
(183) Fusione ed unità degli italiani (ibid., pp. 623-628); Eroismo e disciplina (Ibid., pp. 628-631).
(184) Quelle a: Carlo Scorza, Fascismo, idea imperiale. Roma, Tip. E. De Gasperis, 1933 (ibid., pp. 647-648); Luigi Federici, Crisi e capitalismo: una guida attraverso il caos mondiale. Milano. U. Hoepli, 1933 (Ibid., pp. 649-650); Sileno Fabbri, L’ Opera nazionale per la Protezione della Maternità e dell’Infanzia. Milano, Mondatori, 1933 (Ibid., pp. 650-651); Luigi Lojacono, Il fascismo nel mondo. Roma, L’Economia Italiana, 1933 (Ibid., pp. 652-653); Arthur Fonjallaz, Mussolini, un chef. Génève, 1933 (Ibid., pp. 654-655).
(185) Si vedano, infatti, le recensioni a: Franz Arthur Müllereisert, Die Dynamik des revolutionären Staatsrechts, des Volkerrechts, und des Gewohnheitsrechts. München, Duncker u. Humblot, 1933 (ibid., pp. 732-733); Gustav [Ritter] von Kreitner, Altri 467 milioni di bolscevichi? Con appendice di G. C. Castagna. Venezia, Libreria Emiliana editrice, 1933 ( ibid., p. 733); Pierre de Tourtoulon, Les trois justices. Paris, Librairie Recueil Sirey, s.d. [ma: 1933] (ibid., p. 735).
(186) Germanesimo antiromano?, [nella rubrica: Note e discussioni] ibid., fasc. X (ottobre), pp. 702-704.
(187) Ibidem, p. 702. Subito dopo una tirata contro l’auto-lesionismo di ebrei nemici della loro gente ed adesso hitleriani, come quell’economista-sociologo - di cui Curcio non fa il nome, ma del quale lamenta il credito che sta avendo in Italia- che con un accademico sussieguo affetta disprezzo per il fascismo e per "la funzione di Roma nell’ora presente" (Ibid., l.c.). Proprio mentre il nazional-socialismo imita i nostri maggiori istituti giuridici e professa "l’accettazione integrale della nostra esperienza politica", la nuova Germania tenta di scrollarsi di dosso tutto quello che "di romano può esservi nella forma, se non nella sostanza, che è immutabile, delle sua vita odierna, per richiamarsi alla sua tradizione" (Ibid., l.c.). Ma di quale tradizione si tratti risulta inequivocabile, quella cioè di "quell’antico spirito germanico, rozzo, brutale, istintivo", che poi ha generato l’individualismo della Riforma, poi il liberismo borghese, egocentrico, quindi l’assolutismo e l’imperialismo bismarckiano, da cui poi il comunismo la febbre espansionistica Guglielmina (Ibid., p. 703).
(188) Ibidem, l.c.
(189) "Le grandi sventure tedesche sono state sempre il frutto dell’esasperazione della corrente antiromana", laddove "le grandi affermazioni universali dello spirito germanico sono state illuminate dalla luce di Roma" (Ibid., l.c.)
(190) Si ricorderà – precisa Curcio – la lettera che Guglielmo II scrisse a H. Steward Chamberlain – considerandolo suo compagno di battaglia e alleato nella lotta contro Roma e Gerusalemme (Ibid., l.c.). E questo Chamberlain, come ognuno sa perfettamente, è "stato l’autore di un libro ove si teorizzava del nazionalismo razzista, del mito del sangue e di altre cose del genere" (Ibid., p. 704). Da questi atteggiamenti venne poi la guerra, che non è forse stata tutta voluta dei tedeschi, ma non sarebbe avvenuta "se non fosse esistita la Germania Guglielmina, esclusivista, tedesca e cioè antiromana" (Ibid., l.c.).
(191) Un discorso, ibid., fasc. X, ottobre, pp. 718-720.
(192) Si tratta delle seguenti recensioni a: Carlo Talarico, La rivoluzione francese e l’uguaglianza dei cittadini. La rivoluzione fascista e l’uguaglianza delle categorie. Pisa, Nistri-Lischi editori, 1933 (ibid., fasc. XI, novembre, pp. 809-810); Roberto Michels, Prolegomena sul patriottismo. Firenze, La Nuova Italia, 1933 (ibid., pp. 810-812); Francisco Suarez, Addresses in commemoration of his contribution to international law and politics. Delivered at the Catholic University of America, 30 aprile 1933. Washington, 1933 (ibid., p. 813); Virginio Perulli, L’Opera Nazionale Dopolavoro nel sistema giuridico. Padova, R. Zannoni, 1933 (ibid., pp. 813-815)
(193) Si trattava della recensione a: Antonio Ferraù, L’avvenire nella politica di Saint-Simon. Roma, Luzzatti, 1931, ibid., fasc. IV-V (luglio-ottobre), p. 628.
(194) In tal senso, si veda, la già ricordata recensione a: Aristide Campanile, Antieuropa e i diritti dell’uomo (anche questa sul fascicolo di luglio-ottobre), ibid., pp. 628-629.
(195) ID., Politica e razionalizzazione, ‘Fascismo. Rassegna del pensiero nell’Italia d’oggi’, I, 1933, nn. 4-6 (ottobre-dicembre), pp. 147-165.
(196) Ibidem, pp. 147-148.
(197) Ibidem, p. 148. A fronte della democrazia come mèta di una oggettiva razionalizzazione dei rapporti e della partecipazione delle masse alla politica, - sottolinea Curcio (fatto tanto più significativo se si pensa che si trattava del testo di un corso svolto nell’inverno 1933 presso l’Istituto Superiore di Studi Corporativi) - c’è dunque l’errore, l’ abbaglio utopistico di una ‘democrazia utopica’, del comunismo, sogno di una perfezione irrealizzabile, pericolosa fuga dalla realtà, in quanto "programma astratto di livellamento, di uguaglianza, di mutuo soccorso" (Ibid., p. 149).
(198) "Il principio della razionalizzazione può e deve essere applicato alla Politica; i metodi dell’organizzazione scientifica del lavoro possono e devono essere applicati alla teoria dello stato; ma prima della tecnica ed oltre la tecnica il sentimento reclama i suoi diritti; prima della ragione ed oltre la ragione bisogna cogliere il motivo ideale che anima gli uomini riuniti in società; onde sono popoli, nazione, Stati. La razionalizzazione non ha il diritto di offuscare il mito, che anima le folle, che dà vita alle grandi idee ed impulso alle generose azioni […]" (Ibid., p. 165).
(199) "[…] Mito che è divino e come tale umano, perché proprio dalla sua divinità gli uomini colgono la gioia suprema di innalzarsi, di sperare, di credere, di soffrire; è proprio il mito che rafferma la coscienza dei popoli e porta lo Stato ad affermarsi nella storia" (Ibid., l.c.).
(200) "[…] Razionalizzare, dunque, sì; ma a questo patto: che lo Stato, acquistando una maggiore consapevolezza dei suoi fini, una maggiore esperienza nei suoi metodi, una maggiore capacità organizzativa e costruttiva, si avvii alle mete supreme, alle quali la coscienza dei popoli moderni aspira con sempre maggiore intensità" (Ibid., l.c.).
(201) Machiavelli nel Risorgimento, RIFD, XIV (1934), fasc. I (gennaio-febbraio), pp. 12-48.
(202) E cioè quelle a: C. A. Fusil, Rousseau juge de Jean-Jacques ou la comédie de l’orgueil et du coeur. Paris, Librairie Plon, 1923 (ibid., pp. 153-154); ID., L’anti-Rousseau ou les égarements du coeur et de l’esprit. Paris, Librairie Plon, 1929 (ibid., l.c.); Gustavo Lanson, Montesquieu. Paris, Librairie F. Alcan, 1932 (ibid., pp. 154-155); Charles Fourier, Pages choisies. Introd. par Charles Gide. Paris, Librairie du Recueil Sirey, 1932 (ibid., p. 155); Waldemar Gurian, Der Bolschevismus. Einführung im Geschichte und Lehre. Freiburg i. B., Herder u. Co., 1931 (ibid., fasc. II, marzo-aprile, pp. 300-301); Michael Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservativismus. Frankfurt a. M., Klostermann Verlag, 1932 (ibid., fasc. III, maggio-giugno, pp. 458-460); Romanesimo e Germanesimo (La crisi dell’Occidente). Saggi di M. Bendiscioli, G. Moenius, I. Herwegen, P. Wutse. Brescia, Morcelliana, 1933 (ibid., pp. 460-461); George Flamand, Les idées politiques et sociales de Fénelon. Paris, Imprimerie française de l’édition, 1932 (ibid., pp. 461-462); Firmin Roz, Washington. Paris, Dunod, 1933 (ibid., pp. 462-463); Nicholas Murray Butler, La crisi della società contemporanea. Bari, Laterza, 1933 (ibid., p. 463); João Arruda, O Moloch moderno. Estudio da crise do Estado moderno. Sao Paulo, Editoria Ltda, 1932 (ibid., fasc. VI, novembre-dicembre, p. 787).
(203) L’ottavo Congresso internazionale di filosofia [nella rubrica: Notizie], ibid., fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 767-771.
(204) Da un lato, si vedano infatti le recensioni a: Tommaso Napolitano, Maternità e infanzia nella U.R.S.S. Saggi di legislazione sovietica. Prefazione di Gennaro Marciano. Padova, A. Milani, 1934 (‘Lo Stato’, V, 1934, fasc. I, gennaio, p. 74); Carlo Giglio, Inghilterra d’oggi. Padova, Cedam, 1934 (ibid., p. 76); Contenuto, funzioni ed aspetti politici del Partito Nazionale Fascista (ibid., fasc. III, marzo, pp. 161-171); Popolazione e fascismo. Scritti di: Amoroso, Arcari, Boldrini, Bortolotto, Carli, Castellino, Chiarelli, Consiglio, Coruzzi, Curcio, Fabbri, Galvani, Gemelli, Lojacono, Lorenzoni, Medologhi, Michels, Mortara, Panunzio, Pende, Pietra, Solmi, Tagliacarne, Virgilii, Zingoli. A cura e con prefazione di Luigi Lojacono. Roma, ‘L’ Economia Italiana’, 1934 (ibid., fasc. IV, aprile, pp. 312-315); Sterbendes Volk? Berlin, Propaganda Verlaf-P. Hochmuth, 1934; F. Burgdörfer, Volk ohne Jugend. Berlin, 1935; Mühlner, Volk ohne Kinder. Berlin, 1934 (ibid., pp. 318-319). E peraltro vanno anche considerati i contributi nella rubrica Note e discussioni: Nostra rivoluzione (ibid., fasc. I, gennaio, p. 42-45); L’estremo Oriente e Roma (ibid., fasc. II, febbraio, pp. 138-141); Per la salvezza d’ Europa (ibid., fasc. VI, giugno, p. 453-457); Esperienze europee (ibid., fasc. VII, luglio, pp. 544-546); Forze Armate e politica (ibid., fasc. VIII-IX, agosto-settembre, pp. 605-607); Malta e l’Italia (ibid., fasc. X, ottobre, pp. 688-692).
(205) E comunque andrebbe visto il saggio, che esula dai limiti cronologici che ci siamo proposti, apparso infatti nel 1936 su questa stesa rivista: ID, L’Epoca della politica, ‘Lo Stato, VI, fasc. X (ottobre), pp. 668-670).
(206) E cioè la prefazione a: G.B. VICO, L’estetica, Bologna, Cappelli, 1934.
(207) Verso la nuova Europa, Napoli, Chiurazzi, 1934.
(208) Verso la nuova Europa, ‘Lo Stato’, IV (1936), fasc. VIII-IX, agosto-settembre, pp. 591-605
(209) Dal Rinascimento alla Controriforma. Contributo alla storia del pensiero politico italiano da Guicciardini a Botero, Roma, Colombo, 1934.
(210) Ossia: nel 1926, con Il concetto di legge nel pensiero italiano del secolo XVI; nel 1927, con La modernità di Machiavelli; nel 1928, con L’eredità romana nel pensiero politico italiano del Medio Evo, ed Il rinnovamento dell’idea di diritto nel pensiero italiano del Rinascimento; nel 1929, con L’ideale del lavoro.
(211) E cioè, oltre che con il sopra ricordato L’ideale del lavoro, apparvero nel 1929 sia L’ordine corporativo che Il diritto sindacale corporativo e l’unità del mondo giuridico. E nel 1930: Crisi dello Stato e forze economiche; La proprietà e il socialismo; Teorie del lavoro; Politica corporativa; Sorel e il fascismo; Un corporativista italiano di trent’anni fa; I problemi del diritto corporativo.
(212) Ibidem, pp. 88-89
(213) Ibidem, p. 109.
(214) "[…] E contro Cesare s’appuntarono, naturalmente, gli strali di questi scrittori politici. Il fondatore dell’impero, il superatore della repubblica, l’ordinatore dello Stato romano unitario non poteva apparire, nonché agli scrittori repubblicaneggianti, ma agli stessi scrittori monarchici, che come l’incarnazione di una idea pericolosa. Imperialismo, spirito di conquista e di dominio, supremazia di uno stato sugli altri, supremazia di un uomo o di una casta erano odiosi concetti, che la politica del secondo Cinquecento aborriva" (ibidem, pp. 43-44).
(215) Curcio [S.v.:] Rivoluzione fascista, in: PLURES, Dizionario di politica. A cura del Partito Nazionale Fascista. Vol. IV. R/Z. Roma, Istituto della Enciclopedia italiana. Anno XVIII E.F. [1940], p. 88.
(216) "La rivoluzione senza dubbio innova, segna l’inizio di un tempo diverso, ma, come sempre è avvenuto, si riporta a taluni caratteri inalterabili della nazione, che proprio per questa sua costante vitalità e perennità è davvero nazione e grande nazione" (Ibidem, l.c.).
(217) "Che la rivoluzione avesse dovuto e dovesse mirare a creare non solo istituti e leggi ed opere più rispondenti alle esigenze degl’italiani ed ai fini politici sociali e civili che il fascismo segnava alla nazione; ma soprattutto creare una coscienza di quei fini, un ideale vasto e diffuso onde proprio quegli stessi fini si giustificassero, anzi scaturissero, è per più ragioni evidente" (Ibidem, p. 102).
(218) "Insomma la rivoluzione doveva e voleva penetrare negli spiriti e nelle coscienze, essere in primo luogo una trasformazione dei modi di concepire vita e mondo e cioè una trasformazione della civiltà" (Ibidem, l.c.).
(219) Ibidem, l.c.
(220) ID., Introduzione a: Utopisti italiani del Cinquecento, scelti e annotati da Carlo Curcio. Roma,Colombo, 1944, p. 27.
(221) Ibidem, pp. 27-28
(222) Ibidem, p. 28.
(223) Al pensiero di Kant ritorna più volte l’attenzione di Curcio, sintomo di un antefatto criticista non dimenticato negli ulteriori sviluppi ‘gentiliano-hegeliani’ della sua militanza politica. Fra l’altro, si veda: Sulla concezione kantiana del progresso umano ("RIFD", 1954, fasc. II).
(224) Si vedano le raccolte di: P. Turiello, Il secolo XIX e altri scritti di politica internazionale e coloniale (Bologna, Zanichelli, 1947); F. Orsini, Memorie (Roma, Colombo, 1948); Eroismo senza fortuna (in: Italia eroica, Roma, istituto di divulgazione storica, 1950); Gl’ideali politici di Gabriele D’Annunzio (in: G. d’A., Ibidem, 1951); Il pensiero politico italiano ("Rassegna di cultura e vita scolastica", 1951, n. 3); Caratteri e momenti del pensiero politico umbro ("Annali della Fac. di Giurisprudenza della Università di Perugia", vol. LIX, 1949-50); L’africanismo di Amedeo d’Aosta (in: A. d’A., Roma, Istituto di divulgazione storica, 1953); Il pensiero politico italiano del settecento (in: Antologia della critica storica, Torino, Petrini, 1951); Machiavelli nel Risorgimento (Milano, Giuffrè, 1953).
(225) Politica e famiglia ("Famiglia e civiltà", 1951, nn. 3-4).
(226) Si vedano: Delle Facoltà politiche in Italia. Prevenzioni, esperienze, proposte ("Pagine libere", 1948, fasc. mag.-giu); Intorno ad alcuni recenti lavori di storia di filosofia del diritto ("RIFD", 1951, fasc. IV); Teoria e pratica in politica considerate da uno storico delle dottrine politiche (relazione presentata al IV Congresso internazionale di Scienze politiche, Roma, settembre 1958); Sulle origini della storiografia delle dottrine politiche ("RIFD", 1959, fasc. V).
(227) É in: "Ulisse", 1948, n. 4.
(228) É in: Scritti di sociologia e politica in onore di L. Sturzo, Bologna, Zanichelli, 1953.
(229) Anche questo è un preciso nucleo di interessi, cui Curcio dedica l’insegnamento di Storia dei paesi afro-asiatici, presso la Facoltà di Scienze politiche ‘Cesare Alfieri’ di Firenze. Si vedano: Il problema coloniale, "Studi politici", 1953-54, fasc. 3-4; Autodecisione dei popoli, in: Novissimo digesto italiano, vol. I ; Etica coloniale e dignità umana, "RIFD", 1958, fasc. V.
(230) Altre firme illustri sono quelle di altri due amici e colleghi di Curcio, il già ricordato Rodolfo De Mattei ed Alessandro Franchini Stappo (allora docente di politica economica alla ‘Cesare Alfieri’ di Firenze). Fra l’altro (infatti l’esemplare della collezione presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), segnatura IX ri. 1492, è frammentario, sul n. 2, di Curcio appare Intendimenti antichi e nuovi dell’ Europa, e sul n. 3 Europa e Africa. Troviamo ancora di Curcio - sull’altro dei due numeri sopravvissuti, il n. 4 - un articolo (Problemi storici dell’Europa del Rinascimento), due commenti (Ancora Paneuropa? ed Un ponte sull’ Europa), ben quattro recensioni di libri sull’Europa.
(231) Europa. Storia di un’idea. Voll. I-II. Firenze, Vallecchi, 1958.
(232) Denis de Rougemont (Vingt-huit siècles d’Europe, Paris, Payot, 1961) parla nell’avant-propos dei due esaurienti volumi sull’Europa; J.B. Duroselle (L’idée d’Europe dans l’histoire, Paris, Denoel, 1965), nell’introduzione dice testualmente: "C’est à Carlo Curcio que je voudrais, ancore plus qu’aux autres, rendre hommage. A coté de son effort, mon livre n’est vraiment qu’un essai. […] Curcio a été infatigable. Je ne pense pas qu’existe dans le monde actuel pareille éruditiion sur l’idée d’Europe. […] Je tiens à exprimer à lui principalement ma gratitude" (Ib., pp. 20-21). Il testo è ripreso da: R. De Mattei, Op.cit. . 4.
(233) Come osserva De Mattei, all’elaborazione storica dell’idea di nazione Curcio aveva dedicato (fra gli anni 1932-1956) alcuni saggi, oltre a quelli già ricordati (La coscienza dello Stato…, del 1932; Nazione Europa Umanità…, del 1950; Intorno a P.S. Mancini…, del 1955), vi sono infatti: sia Sindacalisti e nazionalisti a Perugia fra il 1928 e il 1933 ("Pagine libere", 1956, fasc. di dic.); sia Renan fra Nazione e Umanità ("Rassegna di cultura e vita scolastica", XXI, 1967, nn. 7/8, lug./ago.); sia Critici ed eterodossi dell’idea di Nazione nella seconda metà dell’Ottocento ("Storia e Politica", 1969, fasc. gen./mar.).
(234) Oltre ai testi già citati, si veda: L’iniziativa cattolica nel mondo del lavoro ("Ulisse", 1954, pp. 304-311).
(235) Sta in: Studi in onore di Ettore Rota, Bari, 1958.
(236) "Bollettino della Scuola di perfezionamento e di specializzazione in Diritto del lavoro e della sicurezza sociale. Università degli Studi di Trieste" 1958,
(237) Ibidem, n. 14.
(238) Sta in: "Economia e storia", 1959, fasc. 3.
(239) Sta in: "Rivista degli infortuni e delle malattie professionali", 1960, fasc. di gen.-feb.
(240) Sta in: "Bollettino della Scuola di perfezionamento e di specializzazione in Diritto del Lavoro e della Sicurezza sociale. Università di Trieste", 1960, nn. 17-18.
(241) "Previdenza sociale", 1961, fasc. 4.
(242) "Rivista degli infortuni e delle malattie professionali", 1961, fasc.mag.-ago.
(243) "Mercurio", 1962, fasc. di mag.
(244) Nell’ordine della loro pubblicazione: Paolo Paruta (in: Letteratura italiana. I minori, Milano, Marzorati, 1960, pp. 1365-1381); Giovanni Botero (Ib., pp. 1883-1399); La città ideale di Brunetto Latini (in: Scritti vari di Filosofia del diritto raccolti per l’inaugurazione della Biblioteca Giorgio Del Vecchio, Milano, Giuffrè, 1961, pp. 119-137); Ragguaglio di Giuseppe Montanelli ("Annali della Pubblica istruzione", 1961, fasc. marzo-aprile, pp. 139-154); Il genio politico di G.D. Romagnosi, prolusione al: Convegno di Studi in onore di G.D.Romagnosi, Salsomaggiore, 1961. Atti, Milano, Giuffè, 1963); Storia e dottrine politiche in Pasquale Villari ("Storia e politica", II, 1963, fasc. I, pp. 71-84); Qualche considerazione sul pensiero politico umbro tra Medioevo e Rinascimento (in: Atti del IV Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-26 maggio 1966, Perugia, 1967, pp. 593-604); Venti settembre. Roma: tante idee, una idea (in: Annali della Pubblica istruzione", XVI, 1970, nn. 4/5); Rileggendo la ‘repubblica’ di Platone ("RIFD", XLV, 1968, fasc. 3/4, pp. 498-523).
(245) In simile prospettiva, cfr.: La teoria y la pratica en politica consideradas por un historiador de las doctrinas politicas ("Revista de Estudios Politicos", !960, n. 109, pp. 117-129); Uno storico del pensiero politico agostiniano: padre Ugo Mariano (Ib., fasc. III, pp. 316-325); La storia delle dottrine politiche di Gaetano Mosca ("Storia e politica", VI, 1967, fasc. II); Una storia delle idee politiche e sociali ("RIFD", XLIV, 1967, fasc. II, pp. 331-344).
(246) Si vedano: Carlo Alfieri e le origini della scuola fiorentina di scienze politiche, Milano, Giuffré, 1963.
(247) Cfr.: Note per la storia dell’idea di lavoro e non-lavoro "Bollettino della Scuola di perfezionamento e di specializzazione in Diritto del Lavoro e della Sicurezza sociale. Università di Trieste", IX, 1964, nn. 25/27; Ancora qualche nota sull’idea di lavoro e non-lavoro (Ib., X, 1965).
(248) Idea dell’Italia, "RIFD", 1959, fasc. VI, pp. 711-717.
(249) A questo proposito: Seneca fra utopia e realtà ("Rassegna di cultura e vita scolastica", XIX, 1965, n. 10); Repubbliche e principati ‘immaginati’ prima del Machiavelli ("RIFD", XLII, 1965, fasc. IV, pp. pp. 645-672); Verso una nuova utopia (Ib., pp.717-725); L’utopia come modello in un poligrafo italiano del Cinquecento. […] Per le nozze di Sily Giugliano e Nicola Parisio, Firenze, 1968; La nuova utopia ("Cultura e scuola", 1968, n. 28).
(250) Si vedano: Le problème historique (in: L’Europe du XIXe et du XXe siècle, Milano, Marzorati, 1959, I, pp. 57-157); L’insegnamento della storia nella formazione dei giovani (in: Problemi della scuola italiana, Bologna, Cappelli, 1960, pp. 171-185).
(251) Ricordo di Roberto Michels ("Rivista Internazionale di Filosofia politica e sociale", VII, S. III, 1963, fasc. I, pp. 71-84).
(252) Paolo Treves tra ‘ragion di Stato’ e Restaurazione ("Rivista Internazionale di Filosofia politica e social" e, VII, S. III, 1963, fasc. II, pp. 182-193); Ricordo di Maranini ("Rivista Internazionale di Filosofia politica e sociale e di Diritto comparato", 1969, fasc. di set./ott., pp. 321-343).
(253) Su di un testo veneziano quattrocentesco di Dottrina dello Stato ("Storia e politica", IX, 1970, fasc. IV, pp. 519-526).
(254) Dalla filosofia giuridica alla storia politica nell’opera di Giacomo Perticone ("Storia e politica", IX, 1970, fasc. I).
(255) Si vedano in tal senso: Prospettive e problemi del pensiero politico dell’illuminismo ("Cultura e scuola", 1963, n. 7, pp. 120-126); Idee politiche nella Rivoluzione francese ("Storia e politica", IV, 1965, fasc. II, pp. 169-215); Eguaglianza. Dottrine generali (in: Enciclopedia del Diritto, vol. XIV, Milano, Giuffré, pp. 510-519); Un riformatore ligure del Settecento: Giambattista Pini (in: Scritti in memoria di W. Cesarini Sforza, Milano, Giuffrè, 1968, pp. 251-262).
(256) Con prefazione di Rodolfo de Mattei: Milano, Giuffrè, 1977.
(257) Europa. Storia di un’idea. Voll. II, cit. p. 954.
(258) Ibidem, pp. 954-955.
Nel fondato presupposto che, nel complesso insieme di analisi condotte da Carlo Curcio nell’arco della sua pluridecennale produzione, sia localizzabile anche una vera e propria ‘teorica delle rivoluzioni’, - indubbiamente il 1930 rappresenta un punto di non ritorno rispetto alle trattazioni precedenti. In che senso? Anzitutto per il contenuto innovativo del saggio intitolato L’ostetrica del diritto, che - con il sottotitolo di Note per la storia del concetto di rivoluzione - apparve sul fascicolo di giungo-luglio della ‘Rivista Internazionale di Filosofia del diritto’ [d’ora in poi: RIFD] fondata e diretta da Giorgio Del Vecchio.
Qui si compie quella lunga vicenda che, come altrove ho precisato(1), ha tormentato Curcio nella vana ricerca di un persistente fondamento etico-giuridico nel fascismo, nel drammatico transito dalla fase del movimento alla conclusiva, ed irreversibile, staticizzazione nel Regime. Ancora in alcuni scritti del 1930, prima di questo di cui ci accingiamo a parlare, Curcio opera concettualmente il suo superamento del referente alla ‘rivoluzione fascista’ come sintesi dialettica fra tradizione nazionale e Stato totalitario. Al riguardo si vedrà qui la conferma di consimile superamento al paragrafo VIII del presente mio scritto, dove si evidenzia nelle stesse parole di Curcio la consapevolezza della sostanziale indefinitezza del concetto nella voce Rivoluzione fascista da lui redatta per il Dizionario di politica, del 1940.
Detto altrimenti, appunto con L’ostetrica del diritto [d’ora in poi: OdD] l’idea di rivoluzione si viene rivelando al termine di una complicato processo concettuale-argomentativo con cui in definitiva Curcio ha cercato un’introvabile soluzione alle inadempienze del Regime, rispetto alle implicazioni, ai presupposti, alle istanze che avevano animato il movimento fascista.
Ancor più chiaramente: qui Curcio pone termine a quella sorta di circolarità argomentativa con cui negli anni e negli scritti precedenti ha cercato di riconnettere il fascismo all’idea stessa di ‘rivoluzione’. Questo era stato, in definitiva, il risultato dell’operazione con cui Curcio aveva precedentemente cercato di discostarsi dalle formule con cui si stava legittimando l’edificazione del Regime. Un’operazione critica, da parte di Curcio, condotta attraverso una serie di rimandi con cui – fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del secolo passato – la sua riflessione trascorreva dalla dimostrazione dell’inesaurienza di ognuna delle formule ideologiche evocate dalla proteiforme ideologia fascista alla considerazione di altre altrettanto irrisolventi ipotesi interpretative.
Alla fine, la sua stessa argomentazione era fuoriuscita da quel contesto ideologico in cui pure lui stesso aveva preteso di circoscriverla. Veniva cioè gradualmente meno in Curcio proprio quel convincimento di un’identificabilità dell’idea di rivoluzione con quanto nel Regime stava attuando istituzionalmente, sempre più distante anche da una semplice fattispecie, da un momento, un aspetto di una casuistica relativa ad una vera e propria ‘teorica delle rivoluzioni’.
Sotto questo profilo acquista un preciso significato che Curcio, in OdD, non scriva neppure una sola volta la parola ‘fascismo’ ed anche laddove si riferisce alla funzione di guida che sempre una personalità di spicco deve svolgere in una rivoluzione non vada oltre il chiamare in causa Machiavelli ed impiegare il termine di ‘principe’, anziché quello di ‘duce’, indubbiamente più gradito nel Regime personalistico del Capo del governo(2). Aspetti significativi, peraltro, del clima culturale e politico che si respirava nella RIFD, rispetto agli organi pubblicistici del Regime. E questo in anni in cui ancora il Regime si avviava – per dirla come De Felice – al pieno consenso.
Un altro sintomo di questa torsione concettuale è rilevabile nella stessa strutturazione dei paragrafi in cui si articola l’ OdD, dove si avverte un preciso intento di Curcio di evitare un’altra parola chiave del Regime, quel concetto retorico di ‘romanità’ cui pure lui stesso aveva dato il suo contributo pubblicistico negli anni precedenti, ed a cui ancora negli anni successivi darà dimostrazione di formale ossequio. Non però qui, nelle pagine della rivista di Giorgio Del Vecchio, dove, e sin dagli anni precedenti, Curcio ha dimostrato una tonalità argomentativa non riconducibile all’ideologia del Regime.
Un Curcio ‘anti-fascista’ avant la lettre? Certamente no, ma altrettanto indubbiamente si deve riconoscere che nei suoi scritti di maggior momento, appunto nella RIFD, ormai egli guardi altrove. E dove? Anzitutto al più vasto orizzonte storico delle altre civiltà (e dunque fuori dall’ossessiva retorica della ‘romanità’), con precisi accenni ad una ‘sapienza straniera’ che verrà poi, nel 1975, teorizzata da Arnaldo Momigliano. Qui Curcio anticipa sui tempi, con voluti riferimenti alla temperie alla sapienza orientale, della Cina, della Persia, dell’India, e con una non casuale enfasi sulla genialità nazionale, profetica, messianica, rivoluzionaria del ‘popolo ebraico’. E soprattutto c’è la centralità della figura del Cristo che campeggia in tutto il saggio.
Ma si veda intanto, al riguardo, questa articolazione degli paragrafi dell’OdD. Nel primo si considera la polivalenza del termine rivoluzione nelle diverse culture: dal terminus a quo dell’età antica sino al terminus ad quem delle prevalenti accezioni nell’epoca moderna. Il secondo paragrafo si intitola Concezioni orientali e greche. Il terzo: Gesù come teorico della rivoluzione. Il quarto: L’opera dei giuristi italiani del Medioevo.
Come si può osservare, Curcio considera inequivocabilmente una molteplicità di apporti storici e culturali all’elaborazione del concetto di rivoluzione. Vi si accenna infatti ai contributi della ‘sapienza straniera’, del lontano e del medio-oriente, e solo dopo al pensiero filosofico greco. E però qui Curcio non considera la nozione di rivoluzione di Platone, forse proprio perché riferibile ad un contesto ‘organicista’, ad un modello di ‘Stato ideale’ che troppo da vicino poteva suscitare quelle assonanze con gli approdi totalitari dell’ideologia politica contemporanea (e non solo il fascismo, ma anche il sistema ideologico sovietico) che Curcio intendeva evitare. Infatti, a Platone qui Curcio preferisce semmai Aristotele(3). E, soprattutto, è sintomatico di un suo percorso ‘anti-retorico’ che qui Curcio eviti di dedicare uno specifico paragrafo alla concezione di rivoluzione nell’epoca romana, pur affrontandone alcune rilevanti formulazioni, con osservazioni che - riferite a Cicerone, Polibio e Tito Livio - danno a vedere una sua conoscenza approfondita dei testi.
Nel complesso, però, si staglia in questa parte della trattazione di Curcio il preciso intento di evitare qualsiasi ulteriore enfasi sulla centralità dell’esperienza politica romana. Anzi, addirittura egli evita di considerare nella sua originalità questa esperienza, trattandone le implicazioni ‘ex professo’ nel contesto appunto dei commentatori medievali e poi di un Machiavelli conoscitore di Polibio (la circolarità, l’anakyclosis)(4) ed assertore dell’originarietà e totale novatività della storia romana, sulla base di Tito Livio.
Accenni e spunti vi sono al debito che l’umanità ha verso la creazione del diritto romano, ma anche qui Curcio volutamente evita appunto ogni implicazione che potrebbe suonare ‘romanocentrica’. Nel saggio, Roma non è più l’umbilicus mundi. Del resto il salto cronologico nella scansione dei paragrafi è evidente sin da questi primi quattro che si sono ricordati. Dopo l’antichità orientale e l’epoca greca c’è il crstianesimo, poi il medioevo dei giuristi italiani.
Quanto impegno di Curcio c’è qui nel mettere fra le pieghe della storia quella ‘romanità’ che doveva adesso apparirgli troppo enfatizzata e fuorviante. Alla fine anche a chi aveva creduto nel Regime come Curcio, il ‘mito di Roma’ doveva rivelarsi come vera e propria elusione del Regime da maggiori e più decisivi impegni. E dunque come un’immagine guida da circoscrivere, da evitare.
E tuttavia, - proprio filtrando nella scansione argomentativa dei paragrafi dell’OdD – è proprio la nozione ‘romana’ di rivoluzione che rispunta di continuo, malgrado l’intento di porla in ombra, per evitarne retoriche strumentalizzazioni totalitarie. È questa l’accezione analizzata attraverso la cifra di lettura proposta da Curcio sotto la formula dei ‘giuristi italiani del Medio Evo’, con cui si ridelinea ancora una volta il proposito in Curcio di superare l’ideologia ‘imperialistica’ del Regime. Questo procedimento tematico sfocia comunque nell’elusione di qualsiasi referente all’Impero romano, anteponendogli sempre la respublica, e questa intesa nell’accezione ‘filtrata’ appunto negli echi medievali di una romanità adattata alle istanze di una società comunale, di una civilis communitas, di ‘società civile’, e quindi ad una intenzionale rivalutazione del ‘popolo’.
Palese è infatti che qui Curcio si valga di questo espediente argomentativo, di una consimile evocazione delle libertà comunali, per poter riparlare di ‘sovranità popolare’. E lo fa con l’occhio rivolto al presente-futuro, più che all’ucronica utopia del presente-passato quale si riduce il mito della romanità enfatizzato dal Regime. Un sistema totalitario, quest’ultimo, che ora Curcio (e siamo agli inizi degli anni Trenta) vedeva ormai privo di una legittimazione instaurativa-rivoluzionaria. Un fascismo privo cioè di una legittimità che pure aveva avuto una sua rilevanza, almeno nella progettualità profondamente vissuta dal ‘movimento’. Una legittimità dunque da ritrovare nella ‘sovranità popolare’, in un popolo non plebe, né massa indifferenziata, ma popolo con una sua identità morale, politica, nazionale.
A fronte di questo recupero si stagliava imponente, incombente, il sistema ideologico di un Regime che – del resto non differentemente da ogni altro sistema di riduzione a mero formalismo dei fondamenti della legittimità etico-politica - ormai si riduceva ai miti della ‘romanità’, all’evocazione delle idee di imperium, di ‘autorità’, identificandoli nella cruda realtà del ‘potere egemone’, e quindi snaturandoli in altrettante formule surrogatorie di altre e più sostanziali modalità di conseguire il consenso.
Quale è dunque la nozione che qui - in OdD - Curcio elabora riguardo alla rivoluzione? Una nozione estremamente complessa, che in prima approssimazione - seguendo peraltro l’impostazione data da Curcio stesso - potremmo riconoscere delineata attraverso un efficace criterio analitico, improntato al riconoscimento di una molteplicità di antitesi, di antilogie che caratterizzano l’esperienza politica e pertanto la stessa nozione di rivoluzione.
Quindi, da un lato, ad un primo livello analitico [qui vedasi il paragrafo II] Curcio prospetta il significato della nozione di rivoluzione nel raffronto fra trascendenza (argomentata nell’esplicito riferimento dell’ethos sociale-comunitario ai princìpi e valori della religione cristiana) e fattualità storica, lungo la linea, cioè, di una concezione politica inscindibilmente connessa con la concretezza delle azioni e creazioni storiche ispirate alla realizzazione di un superiore paradigma etico-sociale. Dall’altro, ad un secondo livello di approfondimento analitico [par. III] Curcio considera la nozione di rivoluzione sul piano dell’antitesi fra un’etica politica ispirata alla trascendenza di valori e princìpi che potremmo definire ‘meta-politici’ (e non solo quelli di cui è latrice la religione cristiana) ed il quesito della fondazione di un ordinamento giuridico ed istituzionale (in certa misura riconducibile alla genesi e sviluppo dello Stato).
Qui è fondamentale il referente alla nozione di giusnaturalismo, di una legge di natura [qui = LN] raffrontata alla necessaria correlazione con un sistema di norme positive, e questo creato ed introdotto per la prima volta nella storia umana dall’esperienza del diritto romano. Un terzo livello di analisi [par. IV] del concetto di rivoluzione è poi considerato da Curcio sul piano dell’antitesi fra sostanzialità e formalità del diritto, da intendere come confronto fra formalismo legale e sostanzialità giuridica. Il formalismo consiste nell’assenza appunto di quella sostanziale giuridicità, che è il fattore essenziale della dinamica etico-politica e storico-istituzionale. Una sostanzialità giuridica che è dunque elemento da recuperare, attraverso il ritorno ai ‘valori’ che ne sono il fondamento, a quei primi princìpi ‘machiavellianamente’ costitutivi dell’ordinamento. Un processo ‘rivoluzionario’ che Curcio ritiene possibile solo attraverso appunto una rivoluzione eticamente motivata, nel senso definito attraverso il primo livello analitico cui si è poc’anzi accennato.
Un quarto livello di analisi [par. V] del concetto di rivoluzione è individuabile nel senso della relativa circolarità oppure o della totale novatività dei sistemi politici. In altre parole, qui Curcio coglie la differenza fra due tipologie di formulazioni teoretiche. Da un lato, c’è qui l’eco della teoria classica della circolarità, ossia della relativa persistenza di alcuni tipi di regime politico (e soprattutto quello definito come ‘governo misto’, secondo cioè la tradizionale distinzione, alternatività o commistione di tre modelli: monarchia, aristocrazia e democrazia). Dall’altro lato, si ha invece la concezione per cui si considera la totale novatività dei sistemi politici, introdotta da quello che risulta definibile come il tipo di ‘rivoluzione-instaurazione’ di un ‘ordine nuovo’, appunto radicalmente innovativo.
Qui, al centro di una tale concezione demiurgico-innovativa dell’ordine politico, si staglia peraltro il quesito del rapporto fra nuove forme giuridiche che la rivoluzione vuole introdurre ed il sistema di norme positive ancora vigente, per quanto minacciato da distruzione. Secondo una tendenza abbastanza diffusa fra i fautori di ogni tipologia di ‘ordine nuovo’, questa opposizione al sistema positivo, configurato come mero sistema formalistico, viene legittimata riferendosi ad una LN intesa come una più alta norma morale e giuridica, tale da sancire la decadenza di ogni sistema istituzionale ridotto a mero formalismo giuspositivo.
Nondimeno, il referente alla LN ripropone da parte di Curcio appunto la complessa problematicità di ogni nozione di circolarità dei sistemi politici. Per un verso, l’evocazione di una LN può ridursi ad una concezione storica per cui necessariamente un ipotizzato ‘istinto sociale’ presente in ogni individuo e gruppo reinnesca di continuo lo sviluppo di un ‘ordine nuovo’, appena cioè si disgrega il sistema giuspositivo storicamente presente, gradualmente ridotto a puro sistema formale. Qui siamo nell’ambito di una LN immediatamente istintuale, per cui - fatalmente, e con buona dose di evoluzionismo - la natura umana produrrebbe incessantemente nuovi e migliori sistemi sociali che dapprima si svilupperebbero, maturando e perfezionandosi, per poi inarrestabilmente declinare e morire, appunto come ogni organismo animale dato in natura.
Al contrario, il referente ad una ‘superiore LN’ (per niente istintuale, ed anzi reperibile solo con una drammatica ricerca interiore degli individui e della sua traduzione in formule etico-politiche socialmente condivise) implica la consapevolezza che un ordine politico giunge ad un alto livello di sviluppo istituzionale soltanto attraverso un’ardua vicenda storica e politica. Per cui anche una rivoluzione legittimata dal ridursi di questo ordine evoluto, complesso, ad un sistema formale, non va considerata come una cesura totale, come una novazione assoluta. Va infatti concepita come una correzione parziale, un ‘ricorso’, un ‘rimbarbarimento parziale’ - secondo le immagini che possiamo ritrovare in Vico - ossia attraverso un processo inteso a reintrodurre nelle forme istituzionali, ormai prive di sostanzialità etico-politica, l’antica sostanza etico-politica di questo paradigma della ‘superiore legge di natura’, per svilupparla in forme ‘rammodernate’, capaci di soddisfare le nuove istanze sociali.
Qui il referente ad una norma più alta deve configurarsi in relazione ad un compiuto sistema istituzionale, che - per quanto scaduto formalisticamente - conservi una qualche residua capacità di superare l’angusto cerchio di nascita-sviluppo-maturità e morte. Pur nell’incessante variare ed ampliarsi delle forme istituzionali, la persistenza di ordinamenti politici che conservano la creatività giuspositiva e statuale originaria è qui colta convincentemente da Curcio, il quale ne trae motivo per definire poi una sorta persistente continuità di modelli culturali, spirituali, etico-giuridici, che si palesa al di là della scomparsa degli stessi regimi storicamente attuati.
Una persistenza di modelli, dunque, la quale si riscontra nel riemergere di formule istituzionali che nel corso della storia sembrano dimostrare l’esistenza di una tradizione, che - a sua volta – si configura non solo quale contingente riscoperta, riproposizione e riproduzione, ma a tratti persino ulteriore sviluppo e perfezionamento di un ordinamento giuridico e politico, in forme più ampie di partecipazione e rappresentanza della complessità sociale.
Un quinto livello di analisi [par. VI] del concetto di rivoluzione è poi identificabile nella teorizzazione di Curcio nel senso della critica alla concezione illuministica della storia e del progresso, quali categorie considerate sin lì in maniera razionalistica, pertanto astratta rispetto alla concreta dimensione umana, sociale e storica. Storia e progresso qui dunque erroneamente configurati come risultanti da un’immediata coincidenza di una LN localizzata nell’istinto (e questo considerato come identico alla razionalità), di diritti universali (intesi come espressione di un’eguaglianza sostanziale fra gli uomini ed i popoli), da un lato e dall’altro, invece, i diritti politici concretamente vigenti in un ordinamento giuspositivo (improntati da ineliminabili differenze di cultura, genialità e capacità politica dei diversi popoli).
II. Il fenomeno rivoluzionario fra trascendenza di valori ‘metapolitici’ e ‘fattualità’ storica.
Venendo dunque al primo livello di analisi del concetto di rivoluzione (appunto sia quello del raffronto fra trascendenza e fattualità storica, va preliminarmente precisato che la conclusione tratta da Curcio non è nel senso di un’antinomia insolubile. Quantunque la soluzione si incentri su di un fondamento pragmatico-drammatico: quello cioè di un conflitto ‘tragico’ tutto interno alla dimensione storica, in quanto consimili motivazioni etiche - laiche o religiose - devono comunque instaurarsi nella concreta dimensione individuale e collettiva della complessità sia delle pulsioni, delle passioni, degli ideali, sia dei limiti, delle incapacità, dei velleitarismi che muovono l’umanità in un’inesauribile instabilità di fondo, alimentata - nel senso machiavelliano - dall’incontentabilità, dall’inesaurienza di appagamento che all’uomo presenta ogni acquisizione storica, anche ottimale.
Sotto questa angolazione, l’antitesi è risolubile nel senso che la scelta etica è il prius e la politica ne deve essere l’espressione, la concretizzazione oggettiva. Da qui, poi, e analogamente, la soluzione del contrasto fra trascendenza spirituale e fattualità storica, nel senso appunto che la ‘trascendenza ideale e/o religiosa’ è il prius rispetto ad ogni fattualità storica che abbia un significato non casuale. Su questo clinamen argomentativo, l’indagine sulla nozione di rivoluzione viene pertanto da Curcio esplicitata su due versanti che riepilogano la suddetta antinomia: da un lato nella figura del Cristo, il primo e vero grande ‘rivoluzionario’ nella storia umana, fondatore di un ordine nuovo senza precedenti nel mondo; e dall’altro nella teoria politica di Niccolò Machiavelli.
Figure che se entrambe risultano per niente antitetiche (sotto il profilo di una definizione della nozione di rivoluzione che sia riconducibile ad un processo instaurativo caratterizzato dalla tragicità della manifestazione della violenza), d’altro canto si caratterizzano ovviamente in maniera diversa, in quanto Cristo è la vittima cosciente e volontaria della violenza necessaria all’instaurazione dell’ ‘ordine nuovo’, mentre Machiavelli ne è semplicemente il teorizzatore o, se si vuole, la vittima involontaria (stante la tortura ed i tratti di corda impostigli dai Medici per verificarne l’estraneità alla congiura di Boscoli e comunque alla latente resistenza contro il loro ‘nuovo regime’).
Del tutto ovvia per Machiavelli del Principe, siffatta nozione della rivoluzione come fondazione di un ‘ordine nuovo’, che richiede una violenza tragica per instaurarsi, - invece nel caso della figura di Cristo una tale riconducibilità alla nozione di rivoluzione, come ‘fondazione di un ordine nuovo del mondo’, richiede ben altre precisazioni. Intanto, qui ‘rivoluzione’ implica un’idea di sacrificio personale, e non solo l’originario sacrificio stesso della vita dell’innocente fondatore (in un senso che però non viene argomentato da Curcio sulla base di teorie tradizionaliste, quali appunto quella di Joseph de Maistre), ma soprattutto il sacrificio di quanti ‘imiteranno’ la figura e l’insegnamento di Cristo, in una disciplina improntata sulla lotta, sul confronto, sull’antagonismo interiore, ma anche esterno, esteriore, nel mondo, contro le forze avverse al messaggio cristologico.
Questo è quanto Curcio intende dimostrare ricollegandosi a numerosi luoghi ed esempi da lui tratti dai Vangeli (specialmente da Marco e da Matteo), dai quali si evince il rinnovamento non già nei tratti di un’ottimistica concezione del progresso, ma come un processo connotato da una sua intima drammaticità, come è in realtà sempre la fine di un ordine di cose e la sua traumatica, tragica sostituzione con uno ‘ordine nuovo’(5). Un passaggio, questo dall’ordine antico all’ordine nuovo, che richiede precisamente il sacrificio, l’annientamento di ogni precedente ordine di rapporti umani, persino dei più intimi e forti(6).
Nella figura di Cristo evocata da Curcio, in definitiva risulta centrale l’idea che la fondazione di un ordine nuovo implica sia un’iniziale e perenne tensione etica, spinta fino al sacrificio della vita. Un sacrificio ineludibile, che se nelle origini implica la morte del suo ‘divino fondatore’ (che si sacrifica per ricondurre se stesso e l’umanità al recupero di una ‘superiore natura’), nel dispiegamento successivo dei tempi, richiede ad ogni cristiano di sacrificare il proprio interesse a quello comune ed umano.
In questi termini prende consistenza l’immagine che la rivoluzione sia un recupero di una ‘legge di superiore natura’ (=LSN), diversa, migliore e più alta rispetto a quello che a torto si è creduto e si crede lo ‘stato naturale’ (=SN). Qui si tratta, in realtà, di uno ‘stato di natura corrotta’, la lapsa natura risultante dalla ‘colpa originaria’, quello dell’oltraggiosa pretesa di assumere la perfezione di facoltà che - anche qui vichianamente - solo in Dio sono armoniche, fra la ‘Sapienza’, la ‘volontà’ e la ‘potenza’.
Riguardo a questo ‘ordine nuovo’ fondato da Cristo, il destino del cristiano consiste nell’adeguazione a tale modello di comportamento, appunto configurando la propria vita come sacrificio di sé, come servizio per il bene morale di se stessi e della comunità. Ma se questo è vero ad un livello universale dei destini dell’umanità, esemplificato dalla figura di Cristo, non meno vero è al livello di ogni altra dimensione dell’ordine umano fondato sull’etica, che ad ogni livello (sociale, politico, statuale e giuridico) richiede una lunga e complessa elaborazione spirituale, e quindi logica, filosofica e teorica.
Si tratta infatti di una concezione molto complessa dell’ordine e delle rivoluzioni necessarie per conservarlo e riproporne i princìpi essenziali (sostanziali e formali, e però diversamente da qualsiasi staticizzazione formalistica di norme e istituti). Una concezione che venne smarrita e dimenticata con la fine del mondo antico, poi solo faticosamente riscoperta nel suo antefatto giuridico-politico, nel ‘diritto romano’, recuperato appunto con un ‘rivoltarsi’ (nel senso di ‘rivolgersi’) verso quei ‘primi princìpi’ di ordine, e cioè con una rivoluzione etico-politica, ispiratrice poi di un ritorno all’ordine politico-istituzionale(7).
La rivoluzione crea un ordine che però non si esaurisce tutto nel momento drammatico della sua fondazione violenta, o nella fase della ‘rinascita’ a nuova vita (rinascita possibile solo attraverso il necessario recupero dei ‘primi princìpi’). La rivoluzione rappresenta solo l’inizio di un ulteriore progresso, di uno sviluppo che solo molto più tardi giungerà al suo completo perfezionamento, creando migliori condizioni di esistenza(8).
III. L’antitesi fra etica e politica.
Dall’altro, ad un secondo livello analitico Curcio considera la nozione di rivoluzione sul piano della risoluzione della suddetta antitesi fra un’etica politica ispirata alla trascendenza di valori e princìpi che potremmo definire ‘meta-politici’ (e non solo quelli di cui è latrice la religione cristiana) ed il quesito della fondazione di un ordinamento giuridico ed istituzionale (in certa misura riconducibile alla genesi e sviluppo dello Stato). Qui peraltro mostra i suoi limiti la voluta elusione dell’idea di ‘romanità’, perpetrata da Curcio scientemente - come si è accennato - in funzione critica della retorica del Regime, fossilizzato nella formalistica evocazione del ‘mito di Roma’.
Quantunque appunto celata nelle pieghe argomentative della suddetta scansione di tematiche nei primi quattro paragrafi dell’ OdD, riemerge - a questo secondo livello analitico - in tutta evidenza la nozione di rivoluzione incentrata nell’antitesi ‘romanistica’ fra LN e LSN, ossia incardinata nella necessità di riconoscere una scelta etica originaria, un fatto rivoluzionario sia alla base che nel corso di tutto lo sviluppo del sistema sociale, politico e giuspositivo ‘romano’.
La rivoluzione c’è all’inizio, come atto totalmente innovativo di un più ampio ordine di cose, anche qui di un ordine nuovo. Un ordine giuspositivo, eticamente fondato, che ad un certo momento non contraddirà il cristianesimo, ma se ne rivelerà come l’antefatto imprescindibile, non fosse altro che per veicolarne l’alto valore etico-religioso. Sotto questa angolazione, si può vedere che il quarto paragrafo, intitolato appunto L’opera dei giuristi italiani del Medioevo, comincia in effetti secondo la sopra accennata impostazione(9).
C’è qui, d’altronde, il riproporsi dell’antitesi cui abbiamo accennato al primo livello analitico reperibile in Curcio, quello cioè fra la trascendenza dei valori etici posti a fondamento dell’ordinamento giuspositivo e d’altro canto l’imprescindibilità di un consimile sistema giuridico positivo, in cui cioè - tramite l’azione instaurativa-innovativa - si trasmettano e trasfondano questi valori, concretizzandoli in istituzioni, istituti, organismi, personalità e relazioni giuridiche fra diritti ed obbligazioni.
Un quesito nel quesito sarebbe quello di accertare fino a che punto Curcio si renda conto di questa antinomicità fra valori trascendenti la politica ed un sistema politico-istituzionale. Problema appena accennato e certo non risolto nel rifiuto della retorica della ‘romanità’, con quest’enfasi posta sul ‘momento cristiano’ della rivoluzione, vero atto fondante di un ordine sostanzialmente nuovo rispetto all’antichità.
Non fu, infatti, - si chiede Curcio - ed anche prima del cristianesimo, un atto radicalmente innovativo la stessa creazione di un ordine politico-giuridico quale si venne elaborando in Grecia ed a Roma (con precise mutuazioni dalla ‘sapienza straniera’, testimoniate già sufficientemente dai miti di fondazione di queste civiltà)? Non fu già questo, ‘pre-cristiano’, un ordine totalmente innovativo, una rivoluzione epocale, tale da fornire le basi per i primi due modelli di società politica (la polis e la romana res publica)?
Ecco perché possiamo affermare che la prevalente, successiva obliterazione della tradizione greca e romana da parte di Curcio sia implicita, resa necessaria, da una presa di distanza quanto meno concettuale, dalla retorica passatista del Regime. Questo risulta anche laddove Curcio indica nella stessa Rivoluzione francese l’errore di aver troppo idealizzato questi modelli ‘classici’.
Entro questi termini di una crisi interiore (spirituale, filosofico-politica, prima ancora che ideologica), Curcio comunque esamina attentamente l’esperienza giuridica e politica romana. Evitando peraltro, lo si è visto poc’anzi, qualsiasi interpretazione imperialistica, sia all’interno della romana civilitas, sia all’esterno nei confronti degli altri popoli.
Intanto, in quel che attiene alla vita all’interno della res publica, qui Curcio incentra la nozione di rivoluzione nel riferimento alla ‘volontà popolare’, del popolo quale ‘destinatario’ ed ‘erede’, della nuova dimensione istituzionale politica creata da Roma(10). Reiteratamente, a questo proposito, Curcio accenna al requisito della ‘sovranità popolare’, come fondamento e legittimazione della rivoluzione laddove il potere traligni e ‘insignorisca’ un capo-popolo, un comandante di truppe a lui legate e infedeli alla res publica(11).
Qui il fondamentale referente alla nozione di giusnaturalismo, proprio in quanto viene raffrontato alla correlazione con un sistema di norme positive creato ed introdotto nella storia dall’esperienza del diritto romano, si riconduce ad una nozione di LN quale risulta formulata in Cicerone: nel senso cioè della connessione ad un impulso attivistico, innovativo, creativo di una nuova dimensione di vita sociale e politica. Più che espressione istintuale di una LN, qui si tratta dell’adeguazione ad una LSN, ad un più alto paradigma, ad un esempio antico di un ordine in cui riattingere ad una natura più alta. E proprio la reminiscenza ed il ricordo di questa LSN, sentita da qualche individuo, gruppo, comunità o popolo, sarà il fattore foriero di civiltà per tutti gli uomini, secondo il paradigma di una conquista etico-politica di uno spazio ordinato, originariamente a vantaggio di se stessi, della propria comunità, popolo o nazione, ma poi suscettibile, nel prosieguo dello sviluppo storico, di assumere i tratti di un modello tale da porsi come referente universale, secondo appunto uno ius gentium(12).
Non è dunque questa LN un istinto immediato, diffuso in ognuno, in ogni tempo e cultura. Ma qualcosa di eccezionale, di altamente significativo, ed appunto modello, arché, auctoritas, cui ogni aggregato umano o persona possa rivolgersi per reperire un superiore modello di esistenza, in un ordinamento istituzionale politico di validità universale(13). È dunque una LSN che l’esperienza romana veicola, non nel senso dello sprezzante dominio di culture inferiori, ma in quello di un necessario antagonismo contro forze barbariche, rimaste imprigionate nel fatale ciclo della naturalistica sequenza di nascita, sviluppo, maturità e morte.
Una LSN, pertanto, antagonisticamente vissuta fra Medio Evo ed Umanesimo. E non solo attentamente valutata dai commentatori, glossatori e giuristi italiani, ma posta a fondamento sia della stessa riflessione teologica e filosofico-politica di Tommaso d’Aquino(14) che della visione poetica di Dante Alighieri, anch’essa in certa misura spirituale e filosofico politica(15). Nondimeno, Curcio sente la necessità di precisare che comunque questa concezione antagonistica del diritto, come volontà e capacità di agire, di imporre la propria concezione dell’ordine, deve essere sempre intesa come diritto di ogni popolo a realizzare la propria libertà. La rivendicazione di un’originaria sovranità popolare è l’unico fondamento che legittimi un sistema politico e renda legittima la stessa rivoluzione come rifondazione dell’ordinamento nel recupero dei primi principi (e poco importa, alla fine, se ‘autoctonicamente’ fondati o recepiti da una ‘sapienza straniera’)(16).
E come si può capire, non si tratta di un referente casuale, non voluto, nei riguardi del Regime, quale appunto risulta qui l’evocazione di una legittimazione o rilegittimazione (attraverso la rivoluzione) basata sul consenso. Un consenso che a Curcio, qui, agli inizi degli anni Trenta, non pareva sussistesse nei confronti del fascismo, quanto meno non in termini di adesione ad un modello sostanzialmente e non solo formalmente riferito alla ‘volontà della nazione’. Di più. Qui Curcio sottoscrive l’identità fra sistema giuridico e ‘volontà del popolo’, nel senso di un diritto naturale, universale, riguardante tutti i popoli, inteso cioè come ricerca dei modi e delle forme giuspositivi per cui riuscire a dare concretezza ad un impulso naturale alla libertà. Dunque un diritto naturale di tutti i popoli come processo ideale di acquisizione, sia pure attraverso l’antagonismo contro il caos barbarico, di un ordine di giustizia valido per tutti. E pertanto non si tratta qui di un diritto naturale, astratto, trascendente, e tanto meno concepito naturalisticamente, come un dato istintivo (e tanto meno etnicamente individuato).
"Il diritto naturale, dunque, non è astrazione o trascendenza o mero dato; ma si fa atto, mezzo di conquista, vive, si realizza nei popoli aspiranti a darsi ordinamenti e norme adeguati ai propri bisogni, alle proprie esigenze"(17). La vera origine del diritto non è istintuale, non si produce in qualsiasi aggregato umano, ma in quella comunità di uomini che sente l’esigenza di una vita ordinata secondo proprii criteri e princìpi morali, secondo cioè una consapevole ed autonoma scelta delle proprie leggi. "C’è, anzi, di più: l’unità di popolo è considerata proprio in relazione a questa esigenza di realizzare un mondo giuridico proprio; è popolo, dice Bartolo, quello che sente di potersi dare leggi, ordinamenti, secondo la sua coscienza e la sua volontà: ‘est populus qui habet omnem jurisdictionem et tunc potest facere legem et statum prout sibi placet’ [in nota: Ad Cod. Tres Libri, c. X, 63, 5]. La vera origine del diritto è nel popolo, inteso non come numero, non contrattualisticamente […] ma come momento etico nella formazione dello Stato"(18).
Ecco perché l’intuizione geniale del popolo romano è il referente di una consimile concezione giuridica, dalla quale nacque la res publica come luogo di questa originaria sovranità popolare, e modello cui si è ispirata la civiltà comunale nel Medio Evo, come decisa affermazione di autonomia nei confronti dell’autorità dell’Imperatore, del Papa o di monarchi e principati(19). Così concepito, secondo la tradizione romana del diritto, l’ordinamento politico-istituzionale è voluto e fatto dal popolo, per cui il potere dei governanti va sempre considerato come la fattispecie di una translatio potestatis. E poco importa se a favore di un ‘imperatore’, di un ‘papa’ o di un ‘re’. Infatti, il titolare del potere sarà sempre il ‘popolo’, che in ogni momento avrà il diritto di revocare questo mandato a governare, destituendo il governante infedele al patto di trasmissione di una tale originaria potestas(20).
Sotto questo profilo si può affermare, - rileva Curcio (evocando quella che definirei una roussoviana nozione di ‘relatività delle forme politiche’) - quale che sia il tipo di regime, varrà sempre il principio che la sovranità è del popolo. Un principio dimostrato dalla concretezza delle vicende storiche, per cui la rivoluzione è da considerare sempre come legittima e necessaria, quando a volerla sia un popolo che ha visto negare (o svuotare di significato in un mero formalismo giuridico) il proprio naturale diritto alla libertà, la propria inalienabile sovranità(21).
Ecco il fondamento argomentativo per cui nel secolo XIX non solo scrittori romantici, ma lo stesso positivista Auguste Comte ha potuto affermare che la più grande conquista dell’umanità è stata ‘la grande rivoluzione italiana’, perseguita dal XII secolo in poi, fino a porsi come ‘il vero principio della rivoluzione moderna’. Una rivoluzione nel senso della rivendicazione di libertà e di autonomia voluta dal popolo. E quest’ultimo caratterizzato moralmente da una propria capacità giuridica e politica. Quindi ‘popolo’ da non confondere - sottolinea ancora una volta Curcio - con una massa indifferenziata, con una semplice maggioranza numerica(22). In questi termini Curcio esprime la nozione di rivoluzione come ‘cesura’ fra un ordine antico ed un ordine nuovo, ma come una cesura che inaugura un nuovo sistema giuridico, in una sorta di normalizzazione della rivoluzione, appunto in quanto ‘ostetrica del diritto’, levatrice - attraverso la sofferenza ed il dolore - di una nuova esperienza di vita giuridica e politica(23).
IV. La rivoluzione fra formalismo e sostanzialità etico-politica del diritto.
D’altro canto, al di là dell’immediata, persistente polemica verso il Regime, ha pure un suo significato questo suo referente ai diritti storici concreti, da riconoscere ad ogni popolo. Diritti nel senso della libertà nello scegliere le forme di attuazione delle proprie istanze di autonomia, e questa legittimata dall’essere lo stesso popolo titolare, ab antiquo, della ‘sovranità statuale’. Ecco quanto permette a Curcio di affrontare ad un terzo livello di analisi il concetto di rivoluzione. Adesso, nei termini dell’antitesi fra la ‘sostanzialità-formalità’ del diritto ed invece ogni riduzione dell’ordinamento ad un formalismo senza alcuna sostanzialità etico-politica. E qui Curcio indica in Machiavelli proprio l’autore di una così complessa teoria della rivoluzione, argomentata dal Segretario fiorentino in maniera tale da costituire anzitutto - nel Principe - l’antitesi polare rispetto alla figura di Cristo (nel senso di una attualità tutta terrena, tale da escludere ogni trascendenza).
"Le premesse filosofico-giuridiche poste con tanto vigore da queste teorie vengono sviluppate appieno, sul terreno politico, da Machiavelli; il quale, giovandosi soprattutto dell’esperienza teorico-politica del quattrocento, può considerarsi come il primo iniziatore di una teoria moderna della rivoluzione"(24).
Antitesi con Cristo, con la sua opera, fondata sulla trascendenza dei valori etici su ogni preoccupazione orientata invece all’appagamento di egoismi o esclusivismi. Ed antitesi rispetto al cristianesimo soprattutto in quanto la nozione di rivoluzione teorizzata da Machiavelli non soltanto ha molti punti di connessione con ciò che concerne la tradizione pagana, ripresa dall’umanismo, ossia con l’idea classica dell’eterna ripetizione, del perenne ritorno dell’identico, ma anche quando esprime una marcata cesura con il passato questa risulta in una direzione contraria alla pur radicale innovazione che però in senso morale promana dal messaggio cristologico.
Un conto è l’instaurazione di un ordine radicalmente nuovo fatta dal dispotico Principe, con valori politici suoi propri, legati alla fattualità della storia, estranei o avversi all’ordine morale del popolo su cui si impongono. Altro conto è l’ordine radicalmente nuovo ma in un senso etico-sociale, tale da comprendere un’ universalitas civium, l’ universitas populi, quale è il nuovo ordine di cose voluto da Cristo, figura che Curcio indica qui come il protagonista della più grande e dell’unica vera forma di rivoluzione instaurativa di cui abbia avuto esperienza l’umanità.
Definita questa essenziale differenza fra i due livelli analitici del concetto di rivoluzione come ‘cesura radicale’, va poi precisato che Curcio considera la teoria machiavelliana in una sua innegabile duplicità di aspetti. Anche qui, un conto è la concezione rivoluzionaria che fa da sfondo alla figura del nuovo protagonista della politica moderna, descritta appunto nel Principe. Un altro conto sono le formule con cui, soprattutto nei Discorsi, viene espressa la teoria della rivoluzione. E, più precisamente, in questo secondo caso Machiavelli esamina la rivoluzione non tanto sotto il profilo della fondazione di un ordine nuovo, quanto su quello della rivitalizzazione di un ordine fondato ab antiquo, successivamente sviluppatosi, ma poi – come tutte le cose umane – spinto troppo oltre dalle ambizioni e dalle passioni, fino alla sua degenerazione e corruzione, e quindi conclusivamente volgentesi alla fine.
E certo non è solo per il sottofondo concettuale di una critica surrettizia alla pretesa del Regime fascista di costituire un ‘ordine nuovo’ che qui Curcio adesso focalizza l’analisi sul Machiavelli dei Discorsi. A consimile scelta di campo di indagine sembra piuttosto lo conduca adesso la recuperata consapevolezza della irriproducibilità - da parte di questo come di ogni altro Regime - di tutto quanto il complesso di situazioni eccezionali, di contributi diversi, di implicazioni che sovrintendono alla genesi di un sistema politico, tanto più quando si sia sviluppato nell’arco di un lungo processo.
Un lungo processo è infatti per Curcio non solamente quello instaurativo di un ordine complesso, ma un’analoga necessità di lunga gestazione, di un lento e graduale sviluppo, ha anche la rivoluzione intesa a restaurarlo, che non consiste nell’ineluttabilità del momento della rottura, per cui la stessa cesura non mai subitanea, scaturente da un’immediata volontà egemone, né in un singolo evento della storia.
Inoltre, sotto un’altra angolazione, sempre però in relazione all’accezione di rivoluzione espressa da Machiavelli, va anche precisato che l’argomentazione di Curcio passa dal raffronto fra ‘trascendenza’ (definita sia nel riferimento all’etica politica che all’idea religiosa cristiana) e ‘fattualità storica’, alla più attenta analisi dell’antitesi fra un’etica in rapporto a valori ‘trascendenti’ ed invece un’etica in rapporto alla politica, ai valori suoi propri, quali si sono venuti esprimendo nell’epoca post-medievale e moderna. E qui, di conseguenza, si staglia in piena luce l’antitesi la morale tradizionale e l’etica della potenza, l’etica della volontà di creare un nuovo ordine di valori politici e di nuovi rapporti sociali.
Antitesi fra ‘trascendenza’ e attualità storica, ed antitesi fra antico e nuovo ordine di valori che peraltro risultano entrambe risolubili per Machiavelli (quantunque non tanto nel Principe, quanto nei Discorsi), in termini di azione politica eticamente motivata e concretamente operante nella storia al fine di edificare un ordine nuovo o a restaurare quello antico.
Il principio fondamentale di un ordine politico eticamente fondato attraverso una radicale rivoluzione di tutti i precedenti rapporti (storicamente basati sul primato della forza e dell’organizzazione familiare, prevalentemente gentilizia) è quello di attuare una società resa coesiva da un medesimo principio morale, quale ‘intenzionalità’ da qualificare come pre-statuale, nel senso di una motivazione politica che solo successivamente a questa adesione a comuni princìpi si tradurrà, con un lento sviluppo, in entità propriamente istituzionale, ossia in ordinamento giuridico e statuale.
"Il vivere civile è dato da questo principio tutto etico del volersi attuare gli uomini come società, dal volersi stringere in unità compatta. Questo è pure il principio delle nazioni, fondamento etico di ogni Stato. Prima c’è la formazione, l’attuazione di una società omogenea da un punto di vista morale; poi viene l’organizzazione giuridica di questa società, che in tal modo si fa Stato"(25).
Ma è una ‘realtà effettuale’ il dato oggettivamente riscontrabile nella storia, ossia che questo ordine statuale risulta (appunto come ogni altra creazione umana, in particolare se costituita in un insieme di leggi e di istituti, come l’ordine giuridico) nella sua essenza come qualcosa di perennemente instabile, come un organismo soggetto alla legge di sviluppo, corruzione, degenerazione e morte(26). Per cui il problema politico consiste nella sua conservazione, che può avvenire solo se nel momento in cui si manifestano i sintomi iniziali della degenerazione ci si rivolge, si ritorna a quei ‘primi princìpi’ su cui l’ordine venne instaurato ed edificato. E cioè lo Stato si conserva se affronta questa dinamicità sostanziale, opportunamente rinnovandosi per tempo(27).
Sulla base delle formule machiavelliane localizzate prevalentemente, appunto, nei Discorsi, Curcio riconduce la nozione di rivoluzione al contesto di una cesura violenta, però motivata non già, come nella Repubblica fiorentina, da ambizioni particolari, ma dalla volontà di contrastare appunto questa degenerazione dello spirito comunitario nell’interesse di parte, o comunque egoistico(28). Quella che Machiavelli considera positivamente è pertanto una rivoluzione intesa a porre rimedio all’isterilirsi delle motivazioni etiche, allo scadere della tradizione nel conservatorismo, ed alla conseguente formalizzazione dei rapporti sociali in formule giuridiche prive di vita, svuotate di significato, in un particolarismo che comunque non ha più alcun nesso con l’originario fondamento nei princìpi etici su cui la società si è costruita in origine e poi sviluppata nel progresso dei tempi(29).
Adesso, quindi - sottolinea Curcio – questo rivolgersi ai primi princìpi, è un ritrovarsi in un tipo di rapporto svincolato dal sopravvenuto formalismo giuridico delle relazioni fra le diverse posizioni sociali. È un ritrovarsi che in certo modo implica un fuoriuscire dai normali rapporti politico-istituzionali, sortendo cioè dalle formule in cui si era ormai smarrito il senso originario della società, dell’ordinamento giuridico e dell’ordine politico. È un ritrovarsi rompendo gli schemi ormai divenuti asfittici rispetto a nuove esigenze o alle stesse istanze antiche, ma non più accolte ed appagate nell’ordine esistente, alla fine meramente formale. È una ‘rivoluzione’ verso i primi princìpi, che però non avviene per arbitrio, né risulta possibile in ogni momento, ma quando il ‘volgere dei tempi’, il ‘ritornare’ di certe situazioni la renderanno necessaria, inevitabile, possibile.
"Ov’è chiaro che, per Machiavelli, il ‘riconoscersi’ significa ritrovarsi slegati dai vincoli giuridici almeno per un istante; ritrovarsi uomini, iniziare daccapo quel processo di formazione statuale che le guerre e le rivoluzioni, meglio d’ogni altro fatto, generano e perfezionano; e ciò, si badi, non per capriccio, che, allora, non si partoriranno effetti buoni; ma quando la necessità, gli avvenimenti lo imporranno; perché corrompere gli Stati per cattiveria è danno forse irreparabile, contro il quale lo Stato stesso deve agire con tutte le sue forze; mentre, se è ‘la materia disordinata del tempo, che a poco a poco e di generazione in generazione si sia condotta al disordine’, allora è salutare ‘il rinnovare’ e il rifare gli ordini dello Stato"(30).
Dunque Curcio ascrive a merito di Machiavelli l’aver per primo intuito che le rivoluzioni sono alla base dell’ordinamento giuridico e statuale, sia in quanto fondamento di tali ordinamenti, sia in quanto veicolo per il recupero dei princìpi costitutivi di quella creazione originaria. Un recupero indubbiamente tragico e violento, ma inevitabile e necessario per rinnovarsi, per poi conservare la sostanzialità etica originaria, pena l’estinzione definitiva sia del diritto, che scade nelle garanzie formali ma non sostanziali, sia dello Stato, quale organismo che non ha più la necessaria energia morale per garantire unità e coesione alla compagine(31).
Da qui l’eterno cerchio, la ciclicità determinata dalla naturale incontentabilità umana, dall’incapacità di raffrenare gli impulsi al cambiamento una volta giunti alla perfezione. Quindi il declinare, la degenerazione, la morte di un sistema, da cui poi – per il disordine sopravvenuto – l’impulso a ripercorrer l’ascesa nuovamente verso l’ordine(32). Tuttavia, questa sorta di circolarità fra varie fasi di un regime politico (fatalmente preso nel ciclo di nascita, sviluppo, maturità, degenerazione e morte) rappresenta solo un aspetto della teoria di Machiavelli, il quale infatti considera in maniera analitica anche il processo di passaggio da un ordinamento ormai privo di originale sostanzialità etica, ossia divenuto meramente formale, ad un nuovo ordinamento, ad un diritto nuovo, cui si perviene non tanto per riforme che rimettano l’antica sostanza nelle istituzioni ridotte a pura apparenza giuridica, a mero formalismo giuridico, quanto con una sostituzione integrale dell’ordine antico con un ordine nuovo.
La produzione di un ‘nuovo diritto’ è quanto può giustificare e rendere legittima la rivoluzione, che non sorge all’improvviso, ma ha bisogno di un lungo processo preparatorio, al termine del quale si rende indispensabile una dittatura, "la quale serve appunto, all’atto della frattura, a preparare il diritto nuovo", un diritto speciale, espressione di una nuova sovranità(33). Sintomatico è che questo processo di instaurazione di un ordine totalmente nuovo avvenga nel segno delle teorie espresse da Carl Schmitt in Die Diktatur, citata qui nell’edizione del 1928, unitamente alla coeva Verfassungslehre, la dottrina della costituzione del filosofo del diritto tedesco, nella frase pre-nazionalsocialista, in riferimento alla Rivoluzione francese e a quella sovietica del 1917.
V. La rivoluzione fra circolarità e ‘novazione’ dei sistemi politici.
Riguardo al quarto livello di analisi del concetto di rivoluzione, qui è in questione la relativa circolarità (l’anakyklosis) oppure la totale novatività dei sistemi politici. In altri termini: sino a che punto la storia umana è interpretabile come un’inarrestabile processo di regimi che si susseguono ripercorrendo gli stessi itinerari di genesi, sviluppo, maturità, degenerazione e morte?
C’è davvero quella circolarità cui si riferisce la teoria classica della successione, dell’alternanza dei sistemi istituzionali, secondo cioè la tradizionale distinzione, alternatività o commistione di tre modelli: monarchia, aristocrazia e democrazia? Oppure, senza negare la relativa persistenza di alcune tipologie di regime politico, è forse più fondata l’idea di una totale novatività dei sistemi politici? Un’ipotesi, quest’ultima, riconducibile a quello che possiamo definire una tipologia di rivoluzione come instaurazione di un ‘ordine nuovo’, appunto radicalmente innovativo?
Secondo una recente interpretazione vi sarebbe nel Machiavelli sostanzialmente una concezione circolare della storia e della politica(34), mutuata dagli umanisti nella ripresa della tradizione classica, particolarmente della "teoria polibiana dell’ anakyklosis" (della circolarità, appunto), per cui - senza pretendere di "mettere in dubbio in lui il senso della storia, o la fede nell’ uomo faber fortunae, o il suo sogno di utopia" - vi sarebbe nel suo pensiero tutta la problematicità e "ambiguità" di un simile riferimento(35).
Asserzione, dove si dà a vedere di non aver colto la distinzione che precisamente Curcio propone fra l’utopia (che non si realizza mai per un suo sostanziale carattere di astrattezza, di razionalismo avulso da qualsiasi fattualità storica) ed il mito politico, che a ben diversi esiti conduce l’immaginario, facendo leva sui sentimenti, le passioni, le tensioni esistenziali di intere masse di uomini verso la concreta realizzazione di un ordine nuovo.
Qui, cioè, non operando la suddetta distinzione, si manca di cogliere la stretta correlazione fra l’utopia e l’idea stessa di circolarità degli eventi storici, espressa nei termini appunto dell’ anakyklosis polibiana, ipotesi di una ‘meccanicistica’ circolarità (ipotesi che risulta in definitiva contestata dall’antinomia machiavelliana fra virtù e fortuna). Invece il ‘mito politico’ tende a rompere questa circolarità dei sistemi proprio in quanto si pone come processo evocativo di immagini, di progettualità capaci di riassumere il compito da intraprendere, la direzione da dare alla volontà creativa di un ‘ordine nuovo’. E qui è certamente la virtù che Machiavelli intende definire nei suoi rapporti con la naturalistica ineluttabilità ‘circolare’ degli eventi, cioè con la fortuna.
VI. La critica della concezione del progresso ascendente, unilineare e senza cesure.
Si è qui, all’inizio, accennato come ad un quinto livello di analisi del concetto di rivoluzione Curcio produca una significativa critica alla concezione illuministica della storia e del progresso, in quel che però attiene quelle categorie filosofico-politiche che nei philosophes risultano in certo modo affette da un razionalismo astratto, a-storico, avulso cioè da ogni concreta dimensione umana, sociale e storica. Qui, nei philosophes, sia la storia che il progresso appaiono nell’erronea fattispecie di risultanti da un’immediata coincidenza fra LN, diritti universali e diritti storici concretamente acquisiti nei diversi sistemi politici. Pertanto, tutte le concezioni relative al ‘processo storico’ ed al ‘progresso politico-istituzionale’ vengono qui ridotte al livello di una pretesa coincidenza fra: una LN localizzata nell’istinto (e questo considerato come identico alla razionalità); tutti quanti i diritti universali (intesi come espressione di un’eguaglianza sostanziale fra gli uomini ed i popoli); ed invece i diritti politici concretamente vigenti in un determinato ordinamento giuspositivo (diversamente improntati da ineliminabili, imprescindibili, differenze di cultura, genialità e capacità politica dei diversi popoli).
E qui Curcio intanto giustamente distingue nel complesso delle idee scaturite dalla Rivoluzione francese le motivazioni profonde, le cause prime di una nozione negativa di rivoluzione, appunto quella maturata nel contesto delle influenze del suddetto illuminismo razionalistico ed astratto.
Questa rivoluzione in negativo, basata su di un’inesatta concezione dell’uomo (in quanto appunto a-storica e razionalistica), secondo Curcio si viene esprimendo fra 1789-94, nei termini di in un radicalismo innovativo che si alimenta di questa astratta concezione razionalistica dell’umanità e quindi determina la volontà di distruggere ab imis l’antico regime.
Una distruzione radicale, sia sul piano politico-istituzionale (senza cioè distinguere fra quanto di sostanzialmente valido vi fosse rispetto a quanto di formalisticamente insoddisfacente ed ingiusto vi era indubbiamente in quel sistema); sia sul piano etico-politico. La risultante di consimile intenzionalità radicalmente innovativa era la distruzione del fondamento stesso dell’antico regime, dei suoi basilari princìpi etico-religiosi. Da qui la voluta e perpetrata scristianizzazione.
Nondimeno, secondo Curcio vanno invece considerati su di un piano diverso i presupposti e le prospettiva etico-politiche che animano in tutt’altro senso quei protagonisti della rivoluzione che trassero ispirazione dalle idee di Rousseau, il quale seppure sbaglia anche lui nella sua concezione filosofico-politica (non andando oltre una concezione astorica dell’ordine politico, mai compiutamente delineato nelle sue articolazioni), tuttavia - pur entro questi suoi limiti - coglie indubbiamente alcuni aspetti della società contemporanea che anticipano concetti e nozioni fondamentali nella moderna interpretazione della politica. E fra queste indubbiamente l’idea di ‘sovranità popolare’, cioè di una ‘volontà generale’ dell’intera ‘nazione’.
Consuntivamente, possiamo quindi dire che c’è pertanto in OdD una definizione della nozione di rivoluzione conseguita attraverso quella che Curcio definisce come "una formidabile serie di antitesi"(36), della quale abbiamo sin qui seguito la trattazione relativamente ai suddetti cinque livelli analitici. Riassumendo, sin qui la nozione di rivoluzione è stata considerata da Curcio in relazione ai seguenti aspetti.
In primo luogo, è stato visto il raffronto fra trascendenza (il riferimento dell’ethos sociale-comunitario ai princìpi e valori della religione cristiana) e fattualità storica (cioè la politica come esperienza inscindibilmente connessa con la concretezza delle azioni e creazioni storiche).
In secondo luogo, è stata valutata l’antitesi fra un’etica politica ispirata alla trascendenza di valori e princìpi che potremmo definire ‘meta-politici’ (in una prospettiva più ampia di quella della religione cristiana) ed il quesito della fondazione di un ordinamento giuridico ed istituzionale (in certa misura riconducibile alla genesi e sviluppo dello Stato).
In terzo luogo, si è delineata anche l’antitesi fra sostanzialità e formalità del diritto (da intendere come confronto fra formalismo giuridico e giuridicità sostanziale, quale elemento da recuperare con un ritorno ai primi princìpi costitutivi dell’ordinamento).
In quarto luogo, Curcio ha focalizzato l’alternatività di interpretazioni incentrate sulla circolarità storica dei sistemi politici o sul loro carattere di totale novatività. Ed in quest’ultima ipotesi viene valutata in tutta la sua complessità di implicazioni, positive e negative, l’idea di rivoluzione come ‘instaurazione di un ordine nuovo’, appunto radicalmente innovativo.
Infine, ad un quinto livello di analisi Curcio ha sottoposto a critica la stessa concezione illuministica della storia e del progresso, denunciandone l’astrattezza, ossia il referente ad un giusnaturalismo per cui sarebbe sempre buona e giusta la natura umana e l’individuo istintivamente determinato verso la piena identificazione fra etica individuale e morale collettiva, fra ‘legge di natura’ (=LN) e ‘legge positiva’ (=LP).
Ora, quanto di questa complessa articolazione analitica ritroviamo nelle conclusioni del saggio? Qui, indubbiamente, Curcio si propone di giungere ad una definizione univoca di questa "formidabile serie di antitesi", riconsiderandole alla luce di una critica dell’interpretazione naturalistico-razionalistica della rivoluzione. In altre parole, in queste sue conclusioni, in ultima analisi appunto, Curcio pone a confronto l’alternatività fra un’interpretazione ‘naturalistica’ della rivoluzione (in chiave di ripetizione monotona dei periodi storici) e, dall’altro lato, invece l’interpretazione che gli sembra maggiormente realistica della nozione rivoluzione, quella cioè in termini di radicale instaurazione di un ‘ordine nuovo’.
Se nella teoria della circolarità persiste in certa misura un concetto naturalistico (sia pure nel costante contrasto fra razionalità e pulsioni istitntuali che determinano l’instabilità e quindi lo slittamento dei regimi, dalla monarchia, all’aristocrazia, alla democrazia, e da questa, di nuovo, verso la monarchia, poi verso l’aristocrazia, etc.), invece nell’accezione che potremmo chiamare ‘ordinovista’ si inserisce più chiaramente la valutazione dell’elemento creativo di una nuova realtà umana, irriducibile alle mere pulsioni istintuali dell’universalità degli uomini..
Sotto questa angolazione, risulta centrale la rilevanza di un ‘fattore volontaristico’, cioè del ruolo che la volontà politica di individui e gruppi intendono reagire, per non smarrirsi nell’arbitrarietà di un tiranno o nell’astrazione razionalistica di intellettuali e filosofi. Sono queste personalità eticamente motivate ed orientate all’azione che - nell’elaborazione delle loro finalità e progettualità politiche - si trovano ineluttabilmente ad affrontare quella che in ultima analisi risulta l’elemento psicologico, il fattore morale della stessa politica. E cioè il quesito della scelta, della decisione di realizzare determinati valori etico-sociali piuttosto che altri, ossia di mirare alla creazione di un superiore paradigma comune piuttosto che perseguire un fine meramente potestativo, egoistico, individualista, estraneo a qualsiasi valutazione politica della propria azione.
D’altronde, se è questo fattore attivistico che produce un ordine veramente innovativo (da cui sia i primi elementi di una ‘società civile’, sia poi il lungo processo storico che conduce alla formazione dello Stato), si tratta comunque di considerarne le implicazioni sul piano appunto del referente ad una progettualità etico-giuridica e giuridico-politica complessa, imperniata sullo sviluppo di una molteplicità di organismi e dunque irriducibile sia alla sola singolarità del momento instaurativo dell’ordinamento istituzionale, sia alla stessa singolarità della fase rivoluzionaria, la quale che deve intervenire risolutivamente solo nelle fasi critiche dell’ordinamento. Quando cioè quest’ultimo scade nel mero formalismo giuridico, in forme e norme che hanno perso l’originaria sostanza etico-giuridica ed etico-politica.
Per avere una sua legittimità, vista in positivo, la rivoluzione deve sempre essere finalizzata all’immissione di un nuovo diritto nelle formalistiche strutture dell’ordine antico. E questo anche se, a stretto rigore, questa antitesi fra antico e nuovo è più apparente che sostanziale, in quanto la rivoluzione è da intendersi come ricerca, ‘ripetizione’ dell’originaria sostanza etico-giuridica(37). In altre parole, c’è pur sempre una continuità istituzionale in ogni rivoluzione intesa al recupero della sostanzialità etico-giuridica dell’ordinamento, per cui si può definirla appunto come ‘rivoluzione per la continuità’, che in tal senso è una ‘rivoluzione conservatrice’, perché in definitiva è la stessa sostanza antica, l’originario archetipo etico-giuridico (da intendere come recupero e riproposizione dei ‘primi princìpi’) che si trasfonde nelle forme del nuovo ordinamento. E quest’ultimo trova consistenza in forme che adattano l’antica sostanza alle esigenze ed alla mentalità del periodo storico attuale.
"Questo nuovo diritto, cioè, appalesa chiaramente il suo vincolo con la politica, che è prima di tutto etica(38); rivendica la sua esistenza ed il suo valore, al di là di ogni concezione statica della vita sociale, giuridica e politica […]"(39).
Non è quindi mai, questa ‘rivoluzione per la continuità’, a rigor dei termini una puntuale ‘ripetizione dell’ identico’. Anzitutto perché non nasce meccanicamente dal palesarsi di una istintualità politica (da un’immediatezza del sentire, dal desiderio del confronto, dalla passione antagonistica per affermare il proprio modo di essere che, per poter essere qualificati come etici e politici, devono pur formarsi nel referente ad un modello superiore all’immediata istintualità). La ripetizione dell’identico presuppone un’universale convergenza di ogni tipologia umana, di ogni nazione e di ogni epoca su questo presunto ciclo perenne di forme storiche e istituzionali.
Inoltre, la spiegazione della rivoluzione come naturale ciclicità degli eventi non corrisponde affatto ad elementi, fattori e processi totalmente innovativi rispetto a tutti i precendenti valori etici ed a tutti gli anteriori rapporti politici, quale sono stati appunto le diverse fasi della creazione di forme di civiltà (dal lontano Oriente, alla Grecia, a Roma, al medio-oriente della Giudea).
E qui nelle conclusioni, in questa sua critica al formalismo razionalistico illuminista (che suona come una condanna dello stesso edificio istituzionale razionalisticamente costruito dal Regime fascista, sopprimendo ogni sostanziale vitalità morale e politica), - Curcio approda alla decisiva alternatività, all’ultima e vera antitesi che adesso meglio gli si delinea come vero volto dell’epoca contemporanea. L’antitesi, cioè, fra una volontà restaurativa dell’antica sostanzialità etica, da reintrodurre nell’ ‘ordine antico’ sotto forma di un’apparente cesura radicale posta nelle forme di un ‘ordine nuovo’ ed invece una volontà effettivamente ed essenzialmente innovativa, cioè avversa ed incompatibile non solo con le forme, ma con la sostanza etico-politica dell’‘ordine antico’ stesso.
A motivo di questa scelta interpretativa, qui Curcio riduce in sostanza la nozione di rivoluzione all’ultima e conclusiva antitesi, che spetterà all’uomo contemporaneo affrontare e risolvere, quella fra Cristo e Machiavelli. L’antitesi fra il superamento di ogni antagonismo nell’amore e nella fratellanza universale, e – per converso – l’insuperabilità, la perennità dell’antagonismo quale sentimento basilare dell’uomo.
La via della mediazione, della possibile risoluzione dell’antitesi, si potrebbe avere soltanto da quella sorta di ‘costruzione artificiale’, nel senso di una creazione non naturalisticamente intesa, ma eventualmente voluta dall’uomo, di riferirsi ad un più alto paradigma etico-politico, a quei ‘primi princìpi’ di cui l’origine andrebbe comunque ricercata in una superiore visione etica, anch’essa trascedente, anche se non più nel suddetto senso di un’esperienza ‘meta-politica’ comunque espressa in un ‘mito politico’, bensì nel senso della ‘trascendenza’ cristiana.
La conciliazione di questa conclusiva antitesi va ritrovata dunque in una dimensione in cui certamente hanno valore le scelte, le decisioni, le volontà eticamente motivate, ma nel referente ad una visione dell’ordine le cui basi appaiono sempre più chiaramente poste al di fuori ed al di là di qualsiasi assolutizzazione di quell’antagonismo pur ineludibile, ed anzi necessario nella contesa fra ordine e disordine, fra eticità ed istintualità esclusiva. Al di là, cioè, della semplice logica dei fatti, dei meri rapporti di potenza, ossia in un contesto che pare tracciato da una sapienza più alta della ragione umana, superiore al pur imprescindibile talento politico di determinate individualità, popoli e periodi storici.
Un ‘al di là’ cui Curcio dà qui il nome di ‘provvidenza’, e che non è qui quella nozione di ‘providentia’ di cui parla Cicerone, come sapiente valutazione politica del nesso fra passato-presente-futuro. Si tratta infatti di quella provvidenza cristiana che Curcio, nelle ultime righe del saggio, riconduce al Rosmini. E nel referente a questa trascendenza che Curcio può affermare che malgrado le sue crisi e gli errori dei suoi governanti, la ‘società civile’ permane, e lo stesso Stato continua, nella perenne ricerca di forme migliori di quelle passate e di quelle attuali.
D’altro canto, nemmeno qui Curcio disconosce l’incidenza di una qualche storica effettualità, nel senso che il referente ad un più alto paradigma come non è in queste sue conclusioni riferito ad un concetto di rivoluzione intesa come naturalistico abbandono all’istinto, una volta abbattuti i tiranni, così non consiste nemmeno nell’evocazione di in un’universale adesione immediata, naturalistica, istintuale, spontanea a questo messaggio cristiano. La rivoluzione si deve impersonare in un popolo, in una nazione, in uno Stato per poi comunicarsi a tutti gli altri uomini, Stati e nazioni
"Da ciò l’evidenza dell’adeguazione di rivoluzione e Stato. La teoria, che ammetteva rivoluzioni universali, ipotetiche, astratte si rivela piena di equivoci. Fu Tocqueville per primo che, criticando la rivoluzione francese, la quale aveva voluto avere questo carattere universale, tipico delle rivoluzioni religiose, mise in evidenza la necessità, per una rivoluzione, di ‘avere una patria’(40); e cioè di essere in uno Stato, di collegare la sua vita a quella dello Stato. Questa esigenza, messa oggi in rilievo, è fondamentale. Una rivoluzione fuori dallo Stato è un’ipotesi assurda, astratta, irreale(41); una rivoluzione non agisce che in funzione ed in relazione allo Stato"(42).
Intesa in questi suoi tratti, la stessa vita dello Stato consiste in una ricerca faticosa, drammatica, con tragici ritorni indietro, frutto di errori di sopravalutazione del proprio ruolo da parte di coloro che detengono il timone del periglioso navigare della politica. Da qui il necessario antagonismo, il riproporsi dell’ineludibile confronto e della lotta fra opposti princìpi, che vanno comunque considerati nella prospettiva di un superamento, nella speranza che davvero alla fine si riveli e prevalga il disegno della Provvidenza, più alto di quanto possano mai raggiungere gli errori degli uomini. L’antagonismo deve avere di mira questo superiore paradigma, che gli si deve porre costantemente come un limite ed una mèta, altrimenti nessuna lotta, nessuna rivoluzione sortirà mai altro effetto che quello di peggiorare la situazione. Persino uno Stato che sorge da una rivoluzione non può indefinitamente restare estraneo a questi fondamenti della sua legittimità. E qui il discorso è criticamente rivolto al Regime.
"Ma la rivoluzione non è già soltanto l’atto di conquista, la rivolta immediata; è qualche cosa di più vasto, di più comprensivo, di più significativo. Il diritto nuovo, che solo giustifica e legittima la rivoluzione, non sorge all’improvviso; ma ha bisogno di un processo che non si verifica in un momento; onde la necessità, spesso di una dittatura rivoluzionaria, la quale serve appunto, all’atto della frattura, a preparare il diritto nuovo, la quale si appalesa essa stessa come un jus speciale, onde scaturirà la sovranità nuova, il nuovo dominio"(43).
Soltanto a condizione di rispettare quei fondamenti di legittimità che in una ‘rivoluzione per la continuità’ devono essere sempre presenti; solo a questa condizione lo Stato sopravvive e permane, malgrado crisi e regressioni che parrebbero mortali e potrebbero davvero esserlo definitivamente. La Provvidenza c’è, ma va assecondata dagli uomini, altrimenti non sussiste quell’antagonismo morale da cui può malgrado tutto risultare ancora una volta la continuità(44). E pertanto, "come con vivida espressione ebbe a dire il nostro Rosmini, esso ‘si rinnovella e si ripurga, ripigliando quasi un’altra esistenza"(45). In un tale processo catartico, di rinnovamento, lo Stato "ha fatto un passo innanzi nella civiltà e nella prosperità politica; un passo, però, che gli costa le angosce della morte, cruenti sacrifici, innumerate vittime, ma che è scritto come un bianco segno di grazia nell’eterno volume della Provvidenza"(46)".
VII. Miti politici e rivoluzioni: la relatività delle forme politiche e la tradizione del ‘governo misto’.
Si è visto (nell’ultimo punto, il quinto ed ultimo di quelli che ho considerato nel primo paragrafo di questa mia ricerca) come nel saggio del 1930 appunto nell’OdD, in ultima analisi Curcio avesse posto al centro delle sue riflessioni la rilevanza del fattore volontaristico in un contesto di scelte e decisioni di significato etico-politico, traendo la conclusione della persistenza di una polarità fra l’idea di un’instaurazione di un ordine di valori etico-politici totalmente innovativo (un ‘ordine nuovo’ appunto) e, sull’altro polo, la persistenza una concezione basata sulla sterile ‘ripetizione dell’identico’, nella quale cioè si manifesterebbe una sorta di perenne ‘corto circuito’ delle medesime passioni umane, dunque inordinabili alla luce di una superiore razionalità, mai acquisibile.
Qui, - in altre parole - Curcio contrappone Cristo a Machiavelli, ossia davvero un ‘ordine nuovo’ ed il concetto di anakyklosis, di ‘circolarità’ delle medesime forme e dei medesimi errori in cui si era perso il mondo antico. In realtà, poi, al di là di questa polarità argomentativa, nel contesto del saggio, cioè nella considerazione di tutto il Machiavelli (e non solo questo della fatale e monotona ripetizione dell’identico), Curcio aveva già lì nell’ OdD, posto in risalto nella riflessione del Segretario fiorentino non soltanto la presenza di un fattore radicalmente innovativo (reperibile nell’esaltazione del volontarismo e del demiurgismo descritti e teorizzati nel Principe), ma anche di un elemento realativamente, e forse proprio per questo più positivamente innovativo, nel senso della relatività fra fasi di cesura e fasi di continuità nello svolgimento della storia, quale appunto risulta nel rapporto ‘virtù-fortuna’.
In ultima analisi, nel 1930 il concetto curciano di rivoluzione non resta affatto in mezzo ad un guado, fra una nozione di ‘ordine nuovo’ e quella di un ‘ordine antico-nuovo’. Nella considerazione di questa categoria, che qui indico per comodità espositiva appunto come una specie di vetus ordo novus, entrano peraltro in gioco due diverse prospettive, risolvendosi in una possibile sintesi di una medesima tendenziale ripetizione di modelli ed esperienze precedenti. Per una prima prospettiva, risulta dominante un ‘naturalistico slittamento’ da un regime all’altro (secondo il concetto poliziano del trapasso dalla monarchia all’aristocrazia alla democrazia) per il prevalere di istintive pulsioni che si rivelano appunto in Machiavelli quali costanti dell’instabilità di passioni e sentimenti umani, eternamente insoddisfatti e d insoddisfacibili in qualsiasi conquista ed acquisizione.
Per il secondo aspetto, - senza peraltro poter decisamente affermare che nell’OdD vi sia la consapevole ricerca di una teorizzazione del sistema di ‘governo misto’(47) - tuttavia Curcio considera l’esistenza, in riferimento alle stesse formulazioni di Machiavelli, di una qualche misura possibilità di evitare il prevalere delle suddette pulsioni istintuali verso la continua innovazione dell’esperienza politica, cioè incanalando passioni ed istinti verso l’adeguazione ad un superiore paradigma di valori etici accomunanti, evitando così all’umanità di ripercorrere una volta di più lungo il fatale ciclo che conduce verso la degenerazione e morte dei sistemi politici.
Nell’ OdD, questa possibilità di mediare istinto e volontà, passioni e razionalità, viene argomentata sul piano etico, volontaristico-decisionale in senso morale, quello delle scelte e decisioni da prendere per evitare di riprecipitare quella creazione artificiale (che è l’ordinamento istituzionale) nel caos delle pulsioni meramente istintuali, naturalistiche. Nei Miti della politica, dieci anni dopo, nel 1940, Curcio pone quindi l’accento proprio sulle modalità per cui possano realizzarsi socialmente queste scelte etiche, questa volontà morale di creare una superiore dimensione di esistenza giuridica e politica. Ed è proprio nel ricorso alla teoria del ‘mito politico’ che Curcio vede ora la possibilità di sfuggire all’irrisolvente ‘monotonia’, peraltro sempre tragica nei suoi esiti disastranti, della naturalistica, istintuale ‘circolarità’ fra nascita, sviluppo, maturità e degenerazione dei sistemi politici.
Sotto questo profilo, a ben vedere, già nell’ OdD l’ anakyklosis non è considerata solo ed unicamente sul piano naturalistico di un’inarrestabile pulsione istintuale al dominio. È infatti anche più compiutamente sul piano di una ‘tensione etica’ che Curcio considera il significato di questa anakyklosis, e cioè nel senso della stessa nozione di ‘virtù’ in Machiavelli, quale fattore indispensabile non soltanto nell’eventualità di voler realizzare ‘ab imis’ un ordine nuovo (vera e propria creazione di un ordine di cose che resta essenzialmente artificiale rispetto a questa naturalezza immediata di referenti etici e di rapporti socio-giuridici, e quindi politici), ma anche laddove si vogliano ‘ripetere’ i ‘primi princìpi’ di un ordine etico-politico, ritrovandoli nei modelli antichi.
Detto altrimenti, Curcio scorge in Machiavelli l’asserzione della necessità di questa tensione etica anche per riavviare quel fatale ciclo che a torto verrebbe considerato in Polibio e nello stesso Machiavelli come naturale clinamen delle umane passioni. In realtà, conclude Curcio, nell’ OdD qualsiasi ‘innovazione radicale’, come qualsiasi ‘ripetizione di modelli’ del passato, ricercate attraverso una rivoluzione, acquistano una legittimità sociale e politica solo se ci si riferisce ad una scelta etica. In simili tratti, la razionalità politica è vista da Curcio nelle sue implicazioni concrete, nella necessità di fondarsi su di una perenne tensione etica (la virtù), per non venire riassorbita dalla casualità, dall’accidentalità, dalla forza caotica della natura (appunto la fortuna). Il punto che qui bell’ OdD rimane irrisolto è quello del modo di attualizzare tale teorizzazione dell’urgenza di una progettualità politica intesa alla realizzazione di un ‘ordine etico’, sia nell’eventualità di una creazione ‘ex novo’, sia in quella del recupero dell’esempio di una tradizione antica.
Resta il fatto che fra 1930-40 Curcio dimostra di non ritenere più possibile il recupero nel Regime fascista di una tale rifondazione di un ordine istituzionale eticamente fondato. A questa conclusione autorizzano quanto meno le formulazioni di Curcio nei saggi apparsi sulla RIFD, successivamente a questo dell’OdD. Il Regime gli si rivela sempre più attratto in quella fatale spirale della sempre incombente circolarità dei sistemi politici: ormai giunto cioè alla sua conclusione, a motivo dello sviamento, del tradimento stesso dei presupposti rivoluzionari che avevano pur animato il ‘movimento’.
Da qui, - e direi - fra oscillazioni e qualche ambiguità di un persistente ossequio formale al Regime, la chiave di lettura della posizione teoretica di Curcio negli anni 1930-40. Per quanto nel clima di mobilitazione generale, nel 1940 Curcio comunque pubblica tre saggi, raccolti sotto il titolo di Miti della politica, che a tutta prima vorrebbero sembrare una contrapposizione a quelle ideologie che lì vengono definite come espressioni di elucubrazioni intellettualistiche del pensiero utopico, del resto attentamente ripercorso nelle sue matrici Cinque-settecentesche. Del resto, l’intento della raccolta dei tre saggi non è semplicemente di denunciare l’utopismo delle formule ideologiche con cui si sono intese esaltare nell’epoca contemporanea la democrazia, il socialismo ed il liberalismo. Il modo tenuto da Curcio nell’ argomentare queste tre idee è tale che queste risultano le vere protagoniste, soprattutto in positivo, dell’intera esperienza politica moderna.
Riprendendo quanto già impostato nel 1930, con l’ OdD, qui nei Miti della politica Curcio dimostra anzitutto di voler riaffermare l’imprescindibile ruolo della ‘volontà’ politica di individui e gruppi, quale fattore sostanziale sia per ritrovare una migliore dimensione dell’esistenza morale e politica, come pure per non smarrirsi (in questa azione di riscoperta di valori più veri e più alti) nell’arbitrarietà di un despota o nell’astrazione razionalistica di intellettuali e filosofi intenzionati all’elaborazione di progettualità politiche senza alcun nesso con la realtà concreta.
Inoltre, ora Curcio focalizza ancor più da vicino il quesito della scelta e della decisione di realizzare determinati valori etico-politici piuttosto che altri. Nel 1940, infatti, l’idea di rivoluzione è da lui riconnessa più esaurientemente all’intenzionalità di perseguire un fine che non sia meramente potestativo, e che si ponga cioè nella linea di una valutazione morale della propria azione intesa alla politica.
Ora Curcio precisa meglio come questo fine etico dell’instaurazione di un nuovo ordine di valori sociali e giuridici (intimamente legato all’azione politica) debba essere efficamente evocato e reso visibile, quale programma-guida sia della minoranza organizzata che conduce le masse, sia come risposta alle loro istanze profonde. A questo fine evocativo serve appunto il ‘mito politico’ quale processo di rielaborazione psicologico-simbolica che Curcio riconduce alle teorizzazioni di Ernst Cassirer, tributandogli il dovuto riconoscimento(48) - al di là, direi, delle infauste leggi del 1938 - per i suoi studi sulla ‘filosofia delle forme simboliche’(49).
Ma non è questo soltanto l’aspetto su cui qui mi voglio soffermare. Si tratta infatti di porre in evidenza la singolarità stessa della generale impostazione di questa opera di Curcio. Nei Miti della politica, in cui pure domina ancora il reiterato riferimento al fascismo, in effetti la contrapposizione fra pensiero utopico e mito politico, risolta in favore di quest’ultimo, si incentra sulla considerazione della positività che, contrariamente a certe loro implicazioni utopistiche, hanno avuto questi tre ideali speculiari dell’epoca moderna e contemporanea. I tre miti politici presi qui in considerazione da Curcio sono la ‘democrazia’, il ‘socialismo’ ed il ‘liberalismo’. Dunque non il fascismo, anche se quest’ultimo resta, come dicevo, il riferente formale di una critica alle falsificazioni della democrazia (dell’utopicità, dell’illusorietà dell’utopismo democratico)(50), critica peraltro argomentata nel senso del recupero di una più vera o ‘nuova democrazia’(51).
Discorso ambiguo, certo, ma contestuale alla dichiarazione che questi tre miti-guida della democrazia, del socialismo e del liberalismo hanno determinato, nel bene e dunque non solo in negativo, l’epoca attuale. Certo il referente al fascismo c’è anche qui, come era da aspettarsi nel clima di mobilitazione ideologica del momento. Ma la positività del ‘mito-politico’ è non casualmente, bensì volutamente, ricondotta solo ed esclusivamente alla democrazia, al socialismo ed al liberalismo. Tutte e tre occasioni mancate, indubbiamente, ma alle quali, specialmente alla democrazia – sottolinea qui Curcio - molto deve il mondo moderno, a partire dalla stessa ‘dichiarazione dei diritti’ degli Stati Uniti d’America e della Francia(52).
E non è forse senza un qualche significato che questa apologia dei ‘diritti dell’uomo’ – sia pure, come si vede, argomentata con una qualche incertezza e cautela – sia stata pubblicata in data 5 giugno 1940 (un giorno prima che l’Italia fascista si unisse alla Germania nella dichiarazione di guerra all’Inghilterra ed alla Francia)(53). In sostanza, nei Miti della politica, il positivo della rivoluzione viene argomentato da Curcio nel referente a democrazia, socialismo e liberalismo come progettualità intese alla continuità di uno sviluppo di un’etica sociale che era stata coartata e tradita dapprima dai regimi dispotici dell’assolutismo, quindi dalla rivoluzione industriale che aveva affermato il primato dell’egoismo capitalistico, causa prima della questione sociale e dei successivi regimi collettivistici. Non va infatti dimenticato il contributo che la civiltà moderna deve alla Rivoluzione francese è stato proprio questo di riproporre questi ideali di uguaglianza civile, nei diritti e doveri dei cittadini di fronte alla legge(54).
E questo è stato il contenuto positivo della Rivoluzione francese come mito politico. Purtroppo si sono poi intesi questi diritti come espressione dell’immediatezza istintiva di una LN coincidente automaticamente con il sistema positivo di diritti e doveri concretamente affermati nella storia. Sarebbe dunque compito della democrazia operare questa trasformazione dei diritti universali concepiti come LN ed i diritti storici concretamente acquisiti(55). Specialmente sul piano sociale, - osserva Curcio – tutte le democrazie si sono dimostrate non solo incapaci di instaurare una eguaglianza sia pure approssimativa, "ma, anzi, hanno accentuato il distacco fra le classi, come ammoniscono le plutocrazie esistenti e prosperanti proprio nei regimi più democratici"(56). Ci vuole dunque una rivoluzione per attuare questa eguaglianza di diritti e di doveri. Ed una rivoluzione non può farsi senza un mito politico che rievochi e riassuma in un’immagine di battaglia tutto intero il progetto di ‘ordine nuovo’ da instaurare(57).
Vere rivoluzioni sono solo quelle che cambiano in profondo la società, le antiche istituzioni, coinvolgendo il consenso delle masse popolari, senza cui – dichiara qui Curcio riferendosi a Treitschke, ma non senza qualche eco del concetto di ‘rivoluzione passiva’ ripreso da Cuoco – questi rivolgimenti sarebbero solo dei ‘colpi di Stato’ o rivoluzioni ‘dall’alto’(58). Una vera rivoluzione, come appunto fu quella dell’89, deve avere indubbiamente una progettualità articolata in modo compiuto, in maniera razionale. Peraltro, una tale immagine logica deve poi tradursi in qualcosa che faccia presa sul popolo, qualcosa che esprima le istanze profonde della nazione. E cioè deve far leva su di una fede: in questo caso, nella Rivoluzione francese, la fede, la convinzione della piena coincidenza fra razionalità e libertà, fra diritti storici realizzati nelle nuove istituzioni ed eguaglianza, assunse l’alto significato di un ‘mito politico’ destinato in positivo a cambiare il mondo(59).
Un tale contenuto psicologico, che per quanto espresso in parole d’ordine razionali faceva leva sui motivi ‘pre-logici’, su impulsi irrazionali (nel senso di non definibili attraverso un’analisi razionale dei moventi), venne messo in azione attraverso un’ideologia che nelle intenzioni dei suoi autori pretendeva di essere perfettamente logica, ma in realtà scatenò la rivoluzione proprio perché assunse la forma di un mito politico, di un’immagine guida verso la battaglia da compiere e da vincere(60). E qui, poi, a conclusione di questa introduzione ai Miti dlla politica, ecco che Curcio riprende quel concetto di eticità della rivoluzione che già nel 1930, con l’OdD, aveva espresso, e sin da allora in un esplicito riferimento al Rosmini(61). Ora è il mito stesso ad essere opera della Provvidenza. E forse proprio per questo concetto Curcio non è adesso disposto ad identificare questo più alto disegno della Provvidenza con il Regime ed il suo protagonista, il Capo del governo. Come appunto ora potremo verificare nel paragrafo che qui segue.
VIII. L’incerta definizione della nozione di ‘rivoluzione fascista’.
È infatti fuori di dubbio che, in questo stesso intorno di tempo, nel 1940, Curcio non è affatto disposto a manifestare alcun entusiasmo nei confronti della nozione di rivoluzione retoricamente evocata dal Regime. Questo è quanto si evince dalla voce Rivoluzione fascista nel Dizionario di politica, dove – a fronte di una certa ampiezza di referenti storici ai fatti accaduti fra 1919 e 1921, ed alle realizzazioni del Regime - Curcio manifesta un’indubbia evasività dal punto di vista del raffronto con la nozione di rivoluzione espressa nell’OdD e nei di Miti della politica.
A questo proposito si potrebbe addirittura parlare di una certa voluta ambiguità rispetto alle sue precedenti analisi concettuali e definizione teoretiche della nozione. Qui, nella voce Rivoluzione fascista, dove si sarebbe potuto aspettare quanto meno una codificazione ideologica della rivoluzione da cui era scaturito il Regime, invece Curcio definisce semplicemente questo fenomeno alla stregua di una categoria molto generica di rivoluzione, qui identificata con una cesura più apparente che sostanziale rispetto ai precedenti periodi storici. La rivoluzione fascista - dichiara Curcio – per quanto si contrapponga alle epoche precedenti, "dalle quali è separata da una frattura che segna di essa il sorgere", tuttavia "non si distacca […] in una valutazione unitaria e complessiva della storia d’Italia"(62).
Qui, dunque, - quale che sia la fondatezza del referente di questa accezione di rivoluzione al fascismo – ci si trova al cospetto di una nozione delineata con una qualche superficialità, anche se incentrata sull’idea della ripresa di un discorso precedentemente interrotto. E cioè, il referente della ‘rivoluzione fascista’ ad un’antica progettualità politica (compromessa da precedenti cesure, e quindi riannodare e riprendere) risulta come un postulato appena sbozzato, affatto svolto in un’articolazione argomentativa che ci si poteva attendere da chi avesse davvero creduto ancora nel 1940 ad un’originaria sostanza rivoluzionaria del fascismo(63).
In questa luce di una superficiale evocazione delle implicazioni concettuali del termine, implicitamente scartando qualsiasi referente ad una sostanziale creatività etico-istituzionale del Regime, va visto il richiamo di Curcio a non considerare la rivoluzione come una vera creazione di un ‘ordine nuovo’. Piuttosto – dichiara qui Curcio, a livello ufficiale, nel Dizionario voluto dal Regime - è semmai vero il contrario, ossia che la rivoluzione si riconduce più o meno consapevolmente a quello che appare lo spirito della nazione, il suo costume, le sue collaudate tradizioni(64). D’altra parte – insiste Curcio - anche questa rivoluzione fascista non poteva consistere solo ed unicamente in pur drastiche trasformazioni dell’ordinamento istituzionale e sociale(65).
Doveva essere formazione di coscienze, rafforzamento del carattere della nazione, innovazione nel modo stesso di concepire la vita, e cioè una vera e propria trasformazione di una civiltà(66). Se, in una sorta di compendiosa adeguazione formale alla retorica del Regime, qui mette assieme la definizione della ‘rivoluzione’ come idealità e creazione (e quindi come cesura innovativa), poi però ne dichiara il carattere e l’essenza come determinati da fattori trascendenti la politica, quindi riconducibili al contesto di miti non comprensibili attraverso la sola razionalità, né esauribili nel contesto del sistema di leggi positive volute dal Regime(67).
IX. La Rivoluzione francese fra ottimismo illuminista, radicalismo ideologico e recupero della ‘virtù civile’.
Tale è dunque la conclusiva interpretazione del significato della nozione di rivoluzione quale viene sviluppata da Carlo Curcio negli anni 1930-40, nel senso suddetto di una contraddizione di fondo fra quanto formulato, per un verso, sia nel 1930, con l’OdD, sia nel 1940, nei Miti della politica , e – per l’altro verso – con quanto detto a livello ufficiale, nello stesso 1940, appunto nella voce Rivoluzione fascista, nel Dizionario di politica.
Qualcosa di sostanzialmente diverso viene invece da lui affrontato successivamente, anche se molto più tardi – nel secondo dopoguerra - nel 1965, nella prospettiva della realizzazione di quelle idee liberali, socialistiche e democratiche che - in palese contrapposizione al vuoto ideologico nel clima avventuristico dell’ultima parte del Regime fascista - egli aveva indicato già da vent’anni come i miti guida del futuro, allora in un’estrema alternativa al fallimento di tanti ideali e progetti di rifondazione rivoluzionaria dell’ordinamento.
Nel 1965 infatti, nel corso di lezioni tenute nella Facoltà di Scienze politiche di Firenze(68) - poi intitolato Idee politiche nella Rivoluzione francese -, Curcio riprende, da un lato, la trattazione di una specifica teorica delle rivoluzioni, mentre dall’altro entra nel vivo di una attenta considerazione del principale modello di rivoluzione verificatosi concretamente fra epoca moderna e contemporanea. Per il primo aspetto, sotto il profilo, cioè, di una teorica delle rivoluzioni, intanto Curcio constata l’inesistenza, sin lì, di un compiuto esame delle idee politiche della Rivoluzione francese, quantomeno quale risulta interpretata inesaurientemente dalle attuali correnti storiografiche, argomentata sulla base di giudizi affrettati e parziali, tali comunque da non permettere un’oggettiva individuazione delle grandi idee che animarono questo fenomeno storico e culturale.
Idee del resto da rivalutare, e non tanto nei termini di una filosofia politica, quale ambizione - sottolineava Curcio - del resto non del tutto infondatamente palesata da alcuni protagonisti (fra cui Saint-Just), quanto nei termini di una compiuta dottrina politica. E qui - ricordando sulla base dello specifico catalogo della Biblioteca nazionale di Parigi dedicato alla pubblicistica della Rivoluzione(69) - la miriade di studi su tale evento epocale sin lì apparsi - dal canto suo Curcio affermava che solo pochi studiosi - fra i quali comunque annoverava l’amico Giorgio Del Vecchio (autore di un saggio sulla dichiarazione dei diritti dell’uomo)(70) - avevano affrontato il quesito di un’analisi del complessivo sistema di idee, di dottrine, di motivazioni culturali o anche solo convinzioni intellettuali, che indubbiamente avevano animato quella Rivoluzione(71).
C’era qui, in sostanza, il proposito di Curcio di rivedere - in una panoramica ripercorsa in maniera spassionata ed oggettiva, sine ira ac studio, cioè al di là di pregiudiziali contesti idelogico-dottrinari -, quanto meno attraverso l’esame dei principali programmi e dei protagonisti, quali fossero i tratti salienti di quell’insieme di idee, di programmi, di istanze che si erano espresse nel variegato fenomeno della Rivoluzione.
Non si trattava di rifare del tutto inutilmente, una volta di più, la disamina delle origini, del contenuto ideologico di "taluni momenti e di taluni atti della rivoluzione", bensì di affrontare nel vivo il vero problema di quella rivoluzione, ossia "la carica dottrinaria che gli uomini più significativi della rivoluzione posero nella loro azione"(72). Si doveva, finalmente, tentare una globale valutazione di quel fenomeno: "le sue implicazioni più che le sue esplicazioni"(73). Si trattava, in altri termini, di accertare ed apprezzare quanto di positivamente valido vi fosse di implicito nella Rivoluzione, piuttosto che continuare a discettare ancora una volta, appunto inutilmente, sui due opposti fonti di una superficiale ed unilaterale apologia anche della violenza e del radicalismo, oppure - sul versante ideologico opposto - di un’altrettanto sterile condanna di quegli aspetti in cui a torto si riduceva un fenomeno di ben più ampia portata.
In questa angolazione analitica, Curcio non voleva certo sottacere che, malgrado la configuarazione ‘borghese’, nella Rivoluzione francese vi fossero state implicazioni estremiste – peraltro, sottolineava, "di destra e di sinistra" – ed il prevalere, a tratti, di "qualche interesse logico ed ideologico", ossia di pericolose astrattezze intellettualistiche, echi dei sedicenti philosophes dell’illuminismo francese(74).
Tuttavia, - ammoniva Curcio - tale evento epocale non poteva onestamente esser ridotto solo a questi aspetti negativi, né tanto meno – come sembrava alludere citando alla prima pagina il saggio del Mounier(75) - all’idea di un complotto latomistico. Una vera e propria illazione, quest’ultima, divenuta sia in senso apologetico che svalutativo un articolo di fede ‘storiografico’ appunto dell’interpretazione ideologica della Rivoluzione. Interpretazioni ‘da destra come da sinistra’, che Curcio indicava come mere categorie manichee, gnostiche, dicotomiche, alla fine comunque semplicistiche e fuorvianti rispetto alla complessità del fenomeno che indebitamente si pretendeva di afferrare. Da qui l’impegno che Curcio profonde nell’individuare invece le coordinate di una valutazione esaustiva delle molteplici posizioni ideali e programmatiche(76).
In questo suo saggio sulle idee politiche della Rivoluzione francese Curcio insiste sul fraintendimento della storiografia troppo ideologicamente fissata alla considerazione di un solo lato della questione. Quale è allora, malgrado tutte queste interpretazioni, per un verso soverchiamente apologetiche o per l’altro troppo denigratorie, il vero significato e la portata storica della Rivoluzione? Certo non in quegli aspetti e momenti in cui si espresse in maniera violenta l’antinomia fra la concreta situazione storica e l’ottimismo intellettualistico, alla fine ideologico. Un ottimismo che fece da sfondo ai propositi di rifondazione integrale della società, quale atteggiamento maturato nel corso dello stesso illuminismo francese, pervaso da convincimenti naturalistici sulla base di una pretesa coincidenza fra istinto e razionalità politica.
Nondimeno, riguardo alla Rivoluzione del 1789 "molte questioni pregiudiziali andrebbero almeno accennate, a prescindere da una valutazione della capacità del pensiero illuministico di trasmettere idee e problemi alla generazione dell’89[…]"(77). In linea generale, nessuna rivoluzione politica può mai nascere da un processo meramente intellettuale, dalla mente di filosofi o dottrinari troppo distaccati dalla realtà concreta. Ecco un motivo per cui è inconsistente l’accusa contro-rivoluzionaria dei critici ‘alla Barruel’, per i quali l’89 andava visto come un prodotto filosofico, sortito dalla mente alterata di un Voltaire o degli altri philosophes(78).
Ed appunto per questo che vale la pena di ripetere ancora che la Rivoluzione non va vista se non dal punto di vista delle idee politiche efficaci, di programmi di azione che invece sfuggono del tutto alle astratte elucubrazioni di intellettuali, filosofi e dottrinari(79). Dunque la Rivoluzione come ideologia di un ‘ordine nuovo’, da fondare distruggendo dalle fondamenta l’antico regime? Ed in tale ipotesi, sarebbe allora del tutto infondata l’impressione che Curcio attribuisca un qualche valore complessivamente positivo alla Rivoluzione, per aver fondato un ordine di cose radicalmente diverso da quello del passato?
"Artefici ed avversari dell’89 si resero conto – precisa Curcio - che gli eventi dei quali erano protagonisti o spettatori avrebbero, in misura maggiore o minore, cangiato l’aspetto politico e sociale in molta parte d’Europa"(80). In una lettera del giugno 1789, - continua Curcio - lo stesso Mirabeau sosteneva, sia pure con qualche cautela, appunto questo convincimento. ‘Il nous est permis d’espérer que nous commeçons l’histoire des hommes"(81). Del resto, anche Sieyès – non diversamente da gran parte dei protagonisti di quell’evento - aderì al concetto di una rivoluzione come cesura radicale, totalmente innovativa della storia(82).
Dopo avere riconsiderato per grandi linee la teorica delle rivoluzioni di Curcio, in chiave di idee, di miti politici (espressione non già di utopiche ricostruzioni intellettualistiche ed astratte, ma di profonde istanze di rinnovamento etico-politico) dobbiamo qui far cenno ad alcune tipologie delle idee, dei programmi e della motivazioni dei protagonisti di quell’esemplare evento rivoluzionatrio.
Riguardo a questo complesso panorama, Curcio entra nel vivo della questione ricercando quali e quante "indicazioni di grande portata" ci siano venute "dagli uomini dell’89", rivelandosi capaci di rialimentare di vivo fuoco "taluni problemi della grammatica politica moderna", nel senso cioè "di suscitare problemi non solo di carattere pratico, ma persino talvolta teorici, sia pure carichi di una ideologicità talvolta pesante e scoperta"(83).
In questo suo ripensamento critico del quadro storiografico relativo alla Rivoluzione, del resto Curcio riconsidera anche il ruolo avuto in tale evento epocale da Jean Paul Marat, sin qui considerato come il più radicale e violento assertore di un ordine irreconciliabilmente opposto all’antico regime, appunto di un ‘ordine nuovo’ inteso come totale rifondazione dell’ordinamento etico-politico ed istituzionale.
Eppure, persino qui - rileva Curcio - ad una più attenta lettura del personaggio, delle sue idee e della sua vemente predicazione, non si può fare a meno di valutare l’incidenza che nella visione di Marat ebbero convincimenti profondi ed una cultura di rilevante livello filosofico-sociale e scientifico, quali caratteri entrambi maturati e palesati sin dalla fase che precede la Rivoluzione, cioè nell’epoca conclusiva dello stesso movimento illuminista francese(84). Qui dunque Curcio sembra evocare ancora una volta uno dei problemi di fondo della continuità fra antico e nuovo regime, fra tematiche, interessi dell’illuminismo e idee, progettualità rivoluzionarie. Ma che ne è - sembra chiedersi - dell’umanitarismo palesato da Marat prima della rivoluzione? E quali i motivi del suo sopravenuto radicalismo?
Forse qui vanno viste le ragioni stesse della Rivoluzione, da parte di una società insoddisfatta nelle sue pressanti richieste di cambiamenti sostanziali nei criteri di governo dell’antico regime? Anzitutto - come si legge nel Plan de législation criminelle - Marat intendeva correggere un sistema economico basato sulla proprietà intesa come ‘furto’, e da qui le sue istanze di ‘solidarietà’, di sostegno ai più bisognosi, a cui diceva che si dovrebbero sempre assicurare "la sussistenza, il vestiario, il soccorso nelle malattie, le cure nella vecchiaia, una protezione intera"(85).
Precise anticipazioni di questa critica radicale al diritto di proprietà, Curcio indica comunque in Mably, nel Morelly, e soprattutto in Brissot de Warville, con le sue Recherches philosophiques sur la proprieté et sur le vol, del 1780). Nondimeno, è anche sotto un altro aspetto che il pensiero rivoluzionario di Marat merita grande attenzione, ossia proprio relativamente ad un’idea di LN che anch’egli, come tanti illuministi e protagonitsi della rivoluzione francese riconduceva all’idea di Rousseau di uno ‘stato di natura’ originario, da recuperare nel superamento del dispotismo, cioè nel progresso verso la ‘società civile’(86), in un itinerario che una ‘rivoluzione sociale’ avrebbe dovuto rendere però più rapido e risolutivo.
"In ogni caso bisogna ammettere che lo scrittore dell’ Ami du peuple seppe dare una carica ideologica assai potente ai suoi convincimenti. Per lui libertà significava soprattutto liberazione dalla miseria e dalla prepotenza. La rivoluzione avrebbe dovuto essere inflessibile nel risolvere il problema politico in uno col problema sociale"(87).
Un altro lato estremamente positivo della Rivoluzione francese è poi scorto da Curcio negli scritti e nell’opera di Mirabeau, che aveva anche lui palesato convincimenti sociali ed idee di giustizia già prima dell’89: sia con il significativo Essai sur le despotisme, sia anche con Des lettres de cachet (pubblicato nel 1782 come critica degli imprigionamenti arbitrari), sia con le Considerations sur l’Ordre de Cincinnatus, nel 1785(88), sia con una serie di opuscoli incentrati sull’equità, sulla ‘giustizia economica’, relativi agli ebrei, all’usura, alle casse di sconto ed all’aggiotaggio, sia con la critica della nobiltà e dell’istituto monarchico (come si legge nel Conseil à un jeune Prince e nel De la Monarchie prussienne)(89).
Un siffatto spirito di giustizia si traduceva nel Mirabeau nell’idea di dover operare una rigenerazione morale, in contrapposizione allo snaturamento che il cristianesimo avrebbe - a suo dire - prodotto, attraverso l’annientamento degli antichi sentimenti civici. Dunque ancora il richiamo ad una LN da rivalutare e riscattare dal dispotismo, qui indicato non tanto (come in Rousseau) nella società politica, quanto, soprattutto nella religione(90). Se Mirabeau credeva, in qualche misura analogamente a Rousseau, alla necessità di una ‘nuova religione’ che avrebbe dovuto sostituire quella cristiana, tuttavia - a differenza del Ginevrino – egli aveva in mente un preciso progetto politico, nel senso di una monarchia costituzionale, come precisò in un suo progetto segreto rimesso al sovrano, nell’ottobre 1790, nel quale si leggeva che "la carta dei diritti avrebbe dovuto costituire ‘la sacra teoria della libertà’ (91). Resta il fatto che se questa tipologia rivoluzionaria si differenziava totalmente dalla concezione democratico-popolare di Marat, per le cui connotazioni moraleggianti "il pensiero corre a Robespierre"(92).
X. Il positivo ed il negativo della Rivoluzione come mito politico della libertà coincidente con l’eguaglianza nel modello di ‘ordine nuovo’ repubblicano mutuato dall’antichità classica. La rivalutazione di Rousseau e di Robespierre.
E qui Curcio molto acutamente indica in uno dei più convincenti artefici della Rivoluzione una consapevole avversione per l’illuminismo dei philosophes, profondamente sentita appunto da Robespierre, non solo nel riferimento alle formule di Rousseau, in parte almeno attentamente studiate, ma anche del requisito della virtù indicato da Montesquieu come essenziale della ‘repubblica’. Si è qui, in maniera singolare, di fronte ad un’interpretazione dei presupposti che mossero i protagonisti della Rivoluzione di segno del tutto contrario a quella di conservatori e tradizionalisti come Burke e Maistre, per i quali proprio l’intellettualismo razionalistico, la concezione astratta di progetti, era il filo rosso che univa l’ottimismo dei philosophes ai programmi giacobini di radicale rifondazione dell’ordine sociale.
Al contrario, - Curcio sottolinea - Robespierre aborriva i philosophes, e precisamente perché vi scorgeva la personificazione dell’astrattezza razionalistica, estranea al sentimento ed alle passioni. Questi erano i veri moventi dell’uomo secondo l’Incorruttibile, che pertanto – sulla base di una percepibile eco di una pur incompleta lettura di Rousseau - detestava per il loro immorale naturalismo i philosophes, del resto distinguendone pienamente le posizioni da quelle degli enciclopedisti e dello stesso Diderot(93).
"Perciò [Robespierre] ogni volta che gli capitò disse male dei filosofi. Il 5 dicembre 1792, essendosi presa la decisione di intitolare una strada di Parigi ad Helvétius, gridò il suo dissenso: questo filosofo, oltrecché essere stato un intrigante, fu un ‘immorale’. […] Disse male di Diderot e degli enciclopedisti. Riteneva che il razionalismo fosse oltre tutto privo di efficacia sociale, che solo le voci dell’animo fossero capaci di avere una reale influenza sugli uomini. Quest’è l’eredità più schietta di Rousseau"(94).
Dunque per Curcio questo Robespierre va considerato uno dei protagonisti della Rivoluzione proprio perché riconosceva come fondato sulla virtù civica quello che riteneva il nuovo ordine da instaurare(95).
"Si potrebbe dire che il vero fondamento della dottrina politica di Robespierre sia stato costituito dall’idea di virtù. Lui, uomo onestissimo, tra i pochi onesti della rivoluzione, faceva del carattere, dei costumi, della moralità la base di una ricostruzione civile e sociale. Si appellava alla virtù dei cittadini e a quella dei legislatori, alla virtù del popolo e a quella dei capi. Virtù significava per lui giustizia e nuovo metro di rapporto sociale, benevolenza umana e custod[ia] delle istituzioni. Montesquieu, nel primo libro dello Spirito delle leggi, aveva gettato le basi di una simile concezione"(96).
In conclusione, secondo Curcio il vero nesso fra rivoluzione ed illuminismo andava visto non sul piano di un’ideologia, contro o a favore, ma sui molteplici lati di un processo per molti aspetti positivo anche se con indubbie risultanze anche in negativo. In positivo, la Rivoluzione andava riconosciuta sotto il profilo di un processo eticamente motivato, veicolo di quei diritti di libertà che, sulla traccia di intuizioni ed accenni di Montesquieu, soprattutto Rousseau aveva immaginato e Robespierre realizzato.
"C’è un brano di discorso, molte volte citato […] nel quale è efficacemente delineato il passaggio dall’idea di virtù privata all’idea di virtù pubblica. Eccolo, all’incirca" - , afferma Curcio, interpolando parti delle parole di Robespierre. E precisamente dove in sostanza questi identifica il vero giacobinismo in quei rivoluzionari che nella loro vita privata hanno avuto un costume di vita virtuosa, e che pertanto sono inclini ad esercitare queste virtù anche nella sfera pubblica. Questi rivoluzionari infatti professano "altamente i princìpi che non si devono considerare come dogmi di religione, ma come sentimenti di socialità, senza dei quali, come diceva Gian Giacomo, è impossibile essere buon cittadino"(97).
Princìpi del giacobinismo vero, genuino, sono secondo Robespierre "l’esistenza della Divinità, la vita futura, la santità del contratto sociale e delle leggi, […] basi immutabili della morale pubblica", sulle quali deve poggiare la Repubblica, "una, indivisibile, imperitura"(98). Ed a questi veri princìpi (che dovevano secondo lui essere riconosciuti a fondamento della nuova società, come base della democrazia) proprio Robespierre dava un nome preciso, parlando di "diritti imprescrittibili di ogni cittadino", risultanti dalla stessa legge di natura"(99).
Se è innegabile che in queste sue alte motivazioni confondeva legge di natura (=LN) e legge positiva (=LP), diritti universali intangibili ed autorità legislativa, comunque la LP doveva rappresentare la volontà di tutti, dell’universalità dei cittadini, di ogni individuo e persona collettiva, per poter corrispondere al dovuto rispetto della stessa LN(100). Dopo aver visto un lato positivo della Rivoluzione nell’opera malgrado tutto rimoralizzatrice dell’ Incorruttibile, è sintomatico che Curcio invece consideri sotto l’angolazione negativa questo radicale sovvertimento dell’ordine antico particolarmente nella prospettiva assunta ben prima di Robespierre da quello che Curcio definisce il più ideologico dei protagonisti della rivoluzione. Sieyès è questo protagonista negativo, proprio per la sua concezione totalizzante la complessità sociale nel primato assoluto del Terzo stato. Concezione alla fine individualistica e per niente sociale.
E tuttavia, nemmeno l’opera dell’abate Sieyès viene vista da Curcio in maniera unilaterale. Malgrado la negatività della sua teoria, l’ Abbé rivoluzionario aveva almeno il merito di aver ricondotto le concezioni politiche fuori dalla dimensione delle astratte fantasie illuministico-razionaliste, ricollegandosi all’illuminismo più vero, appunto quello etico-politico, quello di Montesquieu e di Rousseau. Un illuminismo in questo caso del tutto valido, attento alle esigenze sia di solidarietà - sottolinea Curcio in un percepibile riferimento, anche qui, a Robespierre - , sia di riscatto delle classi povere e popolari, e soprattutto all’importanza della pubblica istruzione e del lavoro(101). Da ciò l’importanza, la legittimazione stessa della rivendicazione da parte di Sièyes di un improcrastinabile riconoscimento dei diritti umani e della loro ineliminabile connessione con dei correlati doveri, ossia nel rispetto di precise condizioni poste dalla storia e dalla capacità politica (nel senso di un inserimento di tali diritti-doveri nel contesto di diritti storici concreti)(102).
Sotto questo stesso profilo va visto anche, ma qui più in positivo che in negativo, il recupero dell’idea di virtù civica che analogamente a Robespierre anche Saint-Just mutua dall’antichità classica, dalle suggestioni dell’ideale democratico-repubblicano riprese da Rousseau dalle fonti greche e romane. Da qui una sostanziale rivalutazione dell’etica rivoluzionaria intesa appunto al recupero di questi valori etico-politici. Una rivalutazione che non riguarda certamente gli eccessi del Terrore, anche se - a conferma dell’estraneità di Curcio da qualsiasi demonizzazione della Rivoluzione - la violenza qui trova una relativa giustificazione nell’insopprimibile fattualità storica.
Qui in effetti Curcio riconosce realisticamente l’extremus casus necessitatis in cui – non diversamente dagli altri rivoluzionari - Robespierre si viene a trovare rispetto agli eventi, per cui qualsiasi cedimento sarebbe stato la sua rovina. Se Curcio non ne scusa gli eccessi, comunque riconosce la tensione etica dell’Incorruttibile, preso in maniera antinomica fra due finalità inconciliabili. Da un lato c’è per lui il dovere di riaffermare la libertà contro i tiranni e dall’altro l’urgenza di impiegare nei loro confronti dei metodi non diversi, quantunque nell’immediato peggiori, da quelli da loro impiegati.
"[…] Si dimentica che Robespierre era immerso fino alla gola in un’azione politica di estrema violenza e nel corso della quale non poteva indulgere a considerazioni pietistiche o a momenti di debolezza. Possiamo e dobbiamo deplorare quella violenza. Ma abbiamo il dovere di spiegare, se non proprio giustificare, certe contraddizioni"(103).
D’altra parte, Curcio insiste ancora su di un’altra apparente antinomia nei criteri di azione di Robespierre, che parrebbe in modo contraddittorio porre in essere le procedure contro la proprietà dei ‘nemici della repubblica’ ed al tempo stesso riconoscere nella proprietà un diritto fondamentale della politica, indispensabile per dare concretezza alla libertà ed all’eguaglianza. A ben vedere - sottolinea Curcio - in quest’ultima ipotesi si considera un diritto regolamentato dalla legge positiva (=LP) e non più abbandonato alle incertezze, alla confusione, all’ambiguità, all’arbitrio di un riferimento alla LN da parte dei ‘nemici’ della rivoluzione(104).
Nondimeno, Curcio non intende affatto sottovalutare che anche nel caso della complessiva progettualità rivoluzionaria l’inferno – come si suol dire - sia lastricato di buone intenzioni. Ricollegandosi alle idee di un altro protagonista degli eventi rivoluzionari, Vergniaud - acerrimo avversario di Robespierre - ne sottolinea il ben diverso modo di intendere la politica, quantunque anch’egli si fosse sempre opposto alla concezione razionalistica della politica, dimostrando a sua volta la distanza da un certo frainteso illuminismo(105). Sulle suggestioni classiciste della libertà e dell’eguaglianza palesate da Robespierre, da parte sua Vergniaud infatti ricordava il modo più misurato di considerare quei lontani modelli da parte di Montesquieu e di Rousseau(106).
"Dopo l’insurrezione del 10 marzo del 1793, Vergniaud prese un atteggiamento ancora più deciso contro le concezioni rigoristiche di Robespierre. Egli fu uno dei primi a mettere in evidenza l’assurdo che c’era nel voler imporre la libertà: dire al popolo che è libero, osservava, e poi imporgli di pensare come vuole una volontà superiore significa che non è libero affatto. O si è liberi o no"(107). Malgrado la considerazione di questa opportuna distinzione di Vergniaud, per il resto Curcio considera prevalentemente in positivo la concezione di Robespierre e Saint-Just, sostanzialmente in quella che sembra essere stata una loro intenzionalità etica di riscatto dei diritti di tutti i più deboli e più indifesi. Un riscatto che - sottolinea Curcio - in questi due protagonisti si configurava come un programma d’azione fortemente suggestionato dalla lettura dei classici, animandosi di immagini idealizzate, anche se in parte fraintese, delle virtù morali e politiche della polis greca e della res publica romana.
Fra i due, non diversamente da Robespierre, e persino in maniera più articolata sul piano istituzionale, Saint-Just riconduce la sostanza della rivoluzione al rinnovamento morale, nell’ambito dell’attuale società corrotta moralmente dalla monarchia, da attuare tramite l’educazione pubblica(108). Del resto, su questo binomio antinomico di libertà e dittatura, vero ossimoro della politica, si era concentrato già Rousseau, ora Robespierre e Saint-Just, e più tardi Karl Marx(109). Anche Saint-Just non confondeva LN e LP. Voleva anzi che la LN fosse riscattata da secoli di oblìo tramite l’azione del nuovo Stato, che con un’educazione appropriata avrebbe avuto il compito di formare la gioventù. La natura è importante, ma non è tutto. La patria non è solo un elemento fisico, naturale, ma è opera della formazione da parte dello spirito(110).
Un riscatto della vera LN da perseguire con un’azione eticamente motivata, anche se non realizzabile senza eccessi e senza violenze, quali fattori storici che inevitabilmente prendono forma nelle rivoluzioni. Tali esiti negativi si verificano puntualmente anche laddove la tensione morale anima davvero i rivoluzionari, in quanto la perentoria affermazione della virtù politica non evita errori e fraintendimenti. E, soprattutto, il richiamo alla virtù non impedisce, ma semmai incentiva, lo scatenamento di violenza su quanti a torto o a ragione siano considerati come il ‘nemico oggettivo’, come avversari da combattere ed estinguere.
In positivo, prescindendo – fin dove è possibile – dalle "esplicazioni"(111) certamente negative delle rivoluzioni, e considerata invece l’indubbia positività delle loro motivazioni etiche, si può pertanto affermare che Curcio considera di queste ultime appunto le "implicazioni"(112) che riavvicinano la progettualità e gli intenti di Robespierre e di Saint-Just a idee, nozioni e categorie specifiche ancor oggi del mondo politico, quali quelle di libertà ed eguaglianza, interesse comune e solidarietà, disinteresse ed abnegazione personale, dedizione allo Stato e tutela dei più deboli.
D’altro canto, questo non significa affatto che Curcio risolva l’antinomia fra libertà naturale ed eguaglianza politica in quella di una dittatura inevitabile per comporre le diversità native in un comune paradigma di comportamenti istituzionali. Non c’è affatto qui un’idea del male necessario per conseguire un bene altrettanto irrinunciabile per la società e per gli individui.
Al riguardo, dopo aver passato in rassegna le principali antinomie della progettualità politica di Robespierre -, Curcio raffronta proprio su questo piano del contrasto, del diverso discorso logico attorno alla libertà individuale ed alla coazione politico-giuridica le principali differenze fra l’Incorruttibile e Rousseau. E poco importa il frainteso di Curcio sulla lettera ed il significato del roussoviano ‘bisogna costringere ad essere liberi’, poiché quel che preme qui sottolineare è che egli scorge una diversità fra Rousseau e Robespierre nel fatto che soltanto il Ginevrino lascerebbe davvero spazio alla libertà individuale, alla ‘volontà particolare’.
"In una specie di catechismo, ritrovato fra le sue carte, Robespierre ravvisandosi la povertà e l’ignoranza del popolo, concludeva[…] che la libertà si dovesse imporla: ‘Il governo della Rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannide’(113). Su questo audace passo di un celebre discorso tenuto il 5 febbraio 1794 alla Convenzione nazionale si è molto discusso. Si è voluto attribuirne la responsabilità al Rousseau. In realtà nel Contratto sociale, al capitolo VII del libro I, […] è detto che il patto sociale […] racchiude l’obbligo per il quale ‘chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto da tutti gli altri’. Ma Rousseau continuava: ‘Ciò non significa che lo si costringerà ad essere libero’(114). Era esattamente il contrario di quel che affermava Robespierre […]"(115).
In queste pagine di Curcio si avverte una torsione argomentativa che contraffacendo la lettera sia di Rousseau che di Robespierre è intesa a sottolineare i pregi ed i difetti, il positivo ed il negativo dell’uno e dell’altro. L’Incorruttibile ragiona infatti in mezzo al periglioso guado di una rivoluzione, in una contesa mortale in cui è coinvolto da vicino, per cui la sua concezione del nesso fra libertà ed autorità rivela due prospettive diverse riguardo ai tempi normali rispetto a quelli appunto di un radicale cambiamento istituzionale(116). Finché pensò potere evitare un estremo confronto fra i suoi antagonisti, dunque Robespierre parlò con moderazione. E questo spiega almeno in parte le suddette antinomie (fra libertà ed eguaglianza, fra diritti individuali e coercizione terroristica, fra la virtù come benevolenza e virtù come rigorosa sanzione, fra politica e religione) e le numerose altre palesate nella sua predicazione politica: fra volontà particolare e volontà generale, fra diritto di proprietà ed espropri per ‘pubblica utilità’, con la ventilata ipotesi di ‘legge agraria’(117).
Antinomie che Curcio riassume nel contrasto fra utopia e realtà, fra ottimismo filosofico e progettualità rivoluzionaria, fra un valido proposito di correggere ingiustizie insopportabili, di risanare la morale pubblica, e – per converso – un’accezione di ‘virtù politica’ troppo rigorosa, troppo innaturale per l’animo umano e dunque causa di tragedie, di drammatiche scelte erronee e di accanimenti contro le resistenze inevitabilmente incontrate nella realizzazione di un simile troppo elevato paradigma.
"In fondo, l’ideale di Stato che scaturiva dal tormento morale e dall’esperienza intellettuale di Robespierre era quello, nel quale l’onestà, la giustizia, la bontà avessero governato assai più delle leggi e degli uomini. In questo sentimento purtroppo vago della politicità e della socialità potrebbe ravvisarsi la più vera eredità di Rousseau. Ma Rousseau aveva pur detto, in una pagina assai nota del Contratto, che gli uomini perfetti non si sarebbero mai avuti(118). Robespierre, invece, credeva alla sua mirabolante teoria. Nel discorso dell’ 8 luglio 1794, nel quale si difese con estrema energia dagli attacchi degli avversari, disse che voleva fondare sulla terra la prima repubblica del mondo, per ‘servire e difendere l’innocenza oppressa’(119). Ma, oltre tutto, siffatti ideali affogavano nel sangue. Glielo rimproveravano i suoi avversari, che lo definirono molto spesso utopista"(120).
C’è qui - come si rileva - la localizzazione delle coordinate essenziali di questo processo di radicalizzazione delle antinomie, in un accanimento ideologico spinto sino al terrorismo, per far quadrare in una realtà umana e sociale refrattaria un tale progetto utopico di ‘rimoralizzazione’ integrale della società, attraverso una ‘rivoluzione’ che doveva radicalmente cambiare il mondo in un ‘ordine nuovo’. Nondimeno, Curcio non disconosce il positivo delle implicazioni etico-politiche di Robespierre, a prescindere dalle innegabili aberrazioni nell’applicazione, nell’espressione di una tale intenzionalità morale. E qui, certo, un maggior realismo, una più convincente progettualità rispetto all’incorruttibile viene indicata in atteggiamenti più moderati e ‘cauti’, almeno fino ad un certo punto, non solo di Vergniaud, come si è visto, ma anche di Danton, che pure aveva anticipato molte posizioni di Robespierre ("l’idea di una religione di Stato, di una festa della Ragione"), ma ne criticava "il moralismo eccessivo"(121).
XI. La denuncia dell’ottimismo filosofico nella teoria del progresso di Condorcet.
Non è dunque un caso che Curcio più avanti consideri altrimenti il ruolo svolto da alcune figure di tardo-illuministi, che poi confluirono nella Rivoluziome, in gran parte nel senso di una consapevole continuità di istanze. Anzituuto Condorcet, ma anche Brissot de Warville. Il marchese Marie Jean Antoine Nicolas Condorcet de Caritat rappresenta per Curcio il punto di congiunzione in negativo fra la filosofia illuminista e l’ideologia rivoluzionaria. Dai suoi scritti, ed in particolare dalla sua ultima opera, l’Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain (scritta in carcere, dove i giacobini lo rinchiusero e dove morì), comunque Curcio trae il convincimento di un’ indubbia superiorità rispetto agli altri protagonisti dell’ideologia rivoluzionaria(122).
Punto focale della concezione condorcettiana è l’idea di una naturale eguaglianza fra gli uomini, nel senso di una LN anteriore ad ogni istituzione sociale, per la quale nella ‘società civile’ si sarebbe dovuto "assicurare il mantenimento dei loro diritti naturali", diritti che, essendo eguali per tutti, avrebbero dovuto "essere dalla società assicurati egualmente a ciascuno"(123).
Sin lì, fino al tempo della Rivoluzione, secondo Condorcet questi diritti naturali non erano stati riconosciuti. Ed anzi erano stati coartati dal dispotismo politico e dall’oscurantismo religioso, e solo con l’affermazione rivoluzionaria dei lumi di ragione avrebbero potuto d’ora in avanti trovare libera ed eguale manifestazione e riconoscimento politico(124). Vero è che - continua Curcio - questo concetto di LN non si traduceva in un insieme di doveri morali per l’individuo, al quale che infatti - anche secondo Condorcet - incombeva l’obbligo di adeguare le sue pulsioni naturali, per quanto giuste e razionali, alla LP, che poi avrebbe dovuto riconoscere ed affermare quanto di questi istinti fosse compatibile con l’idea di diritti naturali(125). Ne derivava, pertanto, una subordinazione di questa LN alla funzione dichiarativa del diritto positivo, della LP. Una funzione senza la quale i diritti di natura non avrebbero potuto affermarsi nei rapporti sociali e politici(126).
D’altro canto - precisa ancora Curcio - non sfuggiva a Condorcet l’intima problematicità di questo rapporto fra LN e LP. Intanto a motivo dell’impreparazione sia del popolo che della borghesia (titolari della rivendicazione rivoluzionaria di tali diritti). Per un verso, si trattava di emendare la stupidità del popolo, ottenebrato da secoli di dispotismo e di superstizione(127). Per altro verso, lo stesso ‘Terzo stato’ era formato da ausiliari del dispotismo, o comunque da sottoposti al ceto economico dominante(128).
La diffusione dei lumi e del progresso avrebbe invece richiesto la presenza o la valorizzazione di una borghesia creativa, legata alla produttività, al mondo del lavoro. Da qui, in Condorcet, sia le critiche all’antica tipologia di rapporti economici, in quanto basati sullo sfruttamento, sia - e comunque - il riconoscimento del ruolo fondamentale della proprietà nello stesso ‘nuovo ordine’ sociale.
"Condorcet fu il portatore, nella rivoluzione, delle esigenze, degli ideali della borghesia. Egli voleva, in parte rifacendosi alle teorie degli illuministi, in parte tenendo conto della esperienza inglese e americana, che il lavoro dell’uomo fosse il protagonista della nuova storia, nel senso che ogni uomo avesse potuto difenderne i frutti. La proprietà, segno della conquista, dell’iniziativa, del lavoro, della capacità, della uguaglianza originaria degli uomini, costituiva per Condorcet, nonostante l’accenno [...] ad una interpretazione di essa come furto, il baluardo della difesa dei diritti"(129).
In certo qual modo si vede qui – osserva Curcio – che malgrado il suo indubbio radicalismo rivoluzionario, Condorcet almeno sul piano dei rapporti socio-economici era un moderato che in definitiva concepiva la rivoluzione non come un sovvertimento totale di questi rapporti, ma semplicemente "l’instaurazione dei diritti umani calpestati", per cui qualsiasi "legge rivoluzionaria" non doveva "andare oltre i limiti di quella severità che la sicurezza pubbblica esige"(130).
Era dunque il suo un messaggio rivolto alla borghesia, ma non senza sinceri propositi di rivendicare l’eguaglianza dei diritti naturali fra tutti gli individui, i ceti, le nazioni. Diritti coartati ed oppressi da secoli di dispotismo e di superstizione. Ecco quanto Condorcet credeva e predicava, sin dal periodo pre-rivoluzionario.Non diversamente da Marat, dunque, anche Condorcet voleva riscattare i diritti naturali di tutti, anche delle donne, dei poveri, dell’intera nazione e dei popoli delle colonie(131). Si trattava, semmai, di capire quanto di valido, di concreto, vi fosse in questa sua concezione del progresso verso un riconoscimento dei diritti naturali universali(132). E qui Curcio rilevava alcune significative incongruenze e contraddittorietà del marchese rivoluzionario. Intanto, - come si è visto - questa predicata ‘eguaglianza naturale’ aveva bisogno della presenza di un’ ‘élite filosofica’, superiore per cultura e moralità al popolo ed ai ceti sociali, abbrutiti e traviati - secondo Condorcet - dal dispotismo politico e dall’oscurantismo religioso.
Inoltre era nella stessa concezione del progresso che anche lui (non diversamente da Rousseau e da Robespierre) palesava un’antinomia di fondo nel suo sistema teorico. Anzitutto, appunto, il contrasto fra l’asserzione perentoria della libertà e dell’eguaglianza universali e, per converso, la rivendicazione di un ruolo instaurativo da parte dell’ ‘élite filosofica’, alla fin fine non meno assoluta ed illimitata nella sua egemonia culturale del ceto assolutistico di governo. Inoltre, Condorcet evocava nella sua immagine del progresso un ‘mito politico’ negativo, - precisa Curcio, chiarendo anche qui la non onnivalenza etico-politica della funzione mitopoietica di questa come di ogni altra ‘élite’ che si configuri come instauratrice di un nuovo ordine del mondo.
Un mito politico negativo, questo del progresso, in quanto fondato sul falso presupposto che l’umanità si sarebbe avviata sulla strada di un continuo ed inarrestabile avanzamento verso la razionalità politica e la piena identificazione fra LN, LP e legge morale, solo a condizione che avesse abbattuto definitivamente quello che si indicava come il precedente, secolare impedimento (ossia l’oscurantista religione cristiana) ad ogni ‘spontanea’ manifestazione di questi diritti naturali, intesi come perfettamente coincidenti con diritti politici e precetti etici(133).
Ma si trattava - appunto - di un ‘mito negativo’, in quanto visione allucinante di una pretesa ascesa inarrestabile dell’uomo verso il progresso infinito. E proprio l’idea che questo progresso fosse ormai a portata di mano, ed anzi già avviato dall’illuminismo stesso, inverato adesso dalla rivoluzione, dopo che si era finalmente distrutta ogni traccia di quello che aveva sin lì coartato la LN - ossia l’annientamento della religione cristiana -, testimonia quanto Condorcet fosse molto prossimo all’illuminismo di Voltaire e discosto invece dall’avversione di Robespierre verso atei, materialisti e, in una parola, le altre tipologie dell’illuminismo radicale.
Si trattava di un ‘mito negativo’, a questo del progresso naturalisticamente inteso. Un ‘mito politico’ che avrebbe scatenato il più assoluto individualismo, l’egoismo di classe, l’odio fra le nazioni. E dunque non un ‘mito’ come immagine-programma del recupero dell’ordine attraverso una rivoluzione, ma un ‘mito distruttivo’, che avrebbe veicolato un dispotismo ancor peggiore dell’antico, quello del primato dell’egoismo, del materialismo naturalistico, ed alla fine dell’utile economico sul fine politico. La scristianizzazione avrebbe partorito non già l’eguaglianza dei diritti universali, ma una borghesia rapace, creatrice di una nuova e certo non migliore diseguaglianza, quella instaurata dal capitalismo(134). Rispetto a questa concezione della rivoluzione come veicolo di un progresso inarrestabile, nel continuo manifestarsi spontaneo della ‘vera natura’ dell’uomo, Curcio rivaluta invece la visione attivista di Robespierre, cioè il primato che la volontà rivoluzionaria, eticamente motivata, deve esercitare sulle passioni, sugli istinti egoisti, in un antagonismo inconciliabile, in una lotta mortale fra la ‘virtù civile’ ed il ‘vizio insociale’.
XII. Al di là dell’oscillazione ideologica fra naturalismo, suggestioni ‘americane’, presunte affinità con il messaggio cristiano e mito delle origini: la nozione di ‘rivoluzione per la continuità’.
A questo punto, nell’ultima parte del suo saggio, Curcio è molto prossimo ad elaborare, sia pure con qualche incoerenza argomentativa, una nozione di ‘rivoluzione per la continuità’. Un concetto che potremmo dire anzitutto, in certo modo dedotto ‘a contrario’, rispetto cioè alle antinomie roussoviane-robespierriane, fra il richiamo alla ‘virtù civile’ e l’annientamento radicale di ogni ordine. In consimile recupero della primigenia virtuosità di contro alla corruttela della società contemporanea, veniva meno l’ipotesi stessa di una ‘virtù civile’, di un rigore morale relativo comunque ad un contesto storico ed istituzionale specifico a tale accezione di ‘virtù’.
In sostanza, la ‘virtù civile’ non poteva essere recuperata, veicolata da una rivoluzione che - annientando ogni forma dell’ordine istituzionale antico – operava una cesura radicale’ con il ‘passato prossimo’, proiettandosi in un mitizzato ‘passato remoto’ in cui vi sarebbe una ‘virtù primigenia’, riconoscibile più per il carattere ‘naturalistico’, come ‘virtù naturale’ di un’umanità rientrata nell’arcaica dimensione dello ‘stato di natura’, che non appunto la ‘virtù civile’, specifica di uno stadio di progresso istituzionale indubbiamente corrottosi e da emendare, ma non con una cesura radicale, bensì con una ‘rivoluzione per la continuità’ dello sviluppo istituzionale interrotto dal dispotismo.
Inoltre, a questa più ponderata accezione di ‘rivoluzione’, Curcio perviene rivalutando anche le posizioni sin da quella fase rivoluzionaria espresse da personalità come Mallet du Pan, Mounier, Malouet, ed in qualche misura dallo stesso Burke. Una nozione però volutamente distinta dalle posizioni di Maistre e Bonald, ancora al tempo in cui Curcio scrive annoverati storiograficamente sul versante fra i tradizionalisti irreconciliabilmente avversi alle idee ed ai princìpi dell’89(135).
Qui, in altre parole, Curcio localizza, sia pure confusamente, una nozione molto prossima a quella di ‘rivoluzione conservatrice’ esprimendone tuttavia le implicazioni in chiave di sviluppo, di una sostanziale continuità, sia pure fra parziali cesure violente e contingenti ritorni indietro. Dunque, per un verso, Curcio riconnette ai suddetti rivoluzionari ‘moderati’, la nozione di ‘rivoluzione’ quale riaffermazione dei valori di libertà, di giustizia, di virtù da recuperare sul piano etico e non nell’ottimistica fede nei lumi di ragione(136).
Per l’altro verso, Curcio ricerca un più profondo senso della tradizione al di là delle ‘staticizzazioni conservatrici’, dei formalismi ‘tradizionalisti’,cioè nel recupero sostanziale di una tradizione intravista non solo nel Montjoie, che definisce "cattolico intransigente", né unicamente in "quel Giuseppe Antonio Cerutti che nel 1789, esponendo quelle che avrebbero dovuto essere le linee essenziali della nuova costituzione, avvertiva che i diritti dell’uomo avrebbero dovuto mantenersi nell’ordine naturale, sociale monarchico"(137).
Infatti, quello che soprattutto Curcio cerca in questa sua teorizzazione della nozione complessa di rivoluzione, come ‘rivoluzione nella continuità’, è la posizione di tradizionalisti veri e propri, di coloro, cioè, che sin da quegli eventi ebbero l’intelligenza ed il coraggio di far udire una loro voce nell’Assemblea nazionale. Si trattava degli "arcivescovi di Chartres e di Aix", e di Montlosier e del vecchio Mirabeau", rappresentanti "più qualificati della conservazione", che ebbero modo di farsi ascoltare in quell’Assemblea(138). Un tratto accomunante fra tutti questi autori è riassunto dal Curcio nell’ "avversione alla teoria del contratto", e dunque non soltanto alle concezioni naturalistico-razionaliste di Voltaire e di Condorcet, ma allo stesso richiamo alla virtù morale negli scritti di Rousseau e di Mably, le cui formulazioni si erano già allora rivelate al Mounier (appunto nel suddetto suo scritto intitolato De l’influence attribuée aux philosophes, aux francs-maçons et aux illuminés sur la Révolution de France) nulla più che "esercitazioni brillanti e piene di spirito"(139).
Motivo di fondo di questa loro opposizione era appunto la concezione malgrado tutto naturalistica dell’imperativo morale presente nelle opere di Rousseau, la cui influenza sulle idee della Rivoluzione avrebbe comportato questa sorta di ambiguità fra LN, legge morale e legislazione positiva introdotta dalla Rivoluzione(140). Con silmili formulazioni Curcio poneva a fuoco uno degli aspetti più problematici dell’ideologia rivoluzionaria, appunto un certo naturalismo di fondo, una confusione fra istintualità e legge morale, fra LN e LP, quali matrici non soltanto di una certa letteratura utopistica, quanto delle più problematiche e fuorvianti idee programmatiche di alcuni dei protagonisti della Rivoluzione(141). Altri invece, - osserva comunque Curcio - più intelligentemente colsero il valido della teoria di Rousseau proprio nella problematicità del passaggio dallo ‘stato di natura’ allo ‘stato civile’, o ‘società civile’. Fra questi Joseph Michel Servan, magistrato e scrittore politico, anche lui autore di un Projet di dichiarazione dei diritti e doveri, di alcune Réflexions sur les Confessions de J.J.Rousseau e di un Discours sur l’administration de la justice criminelle . Opere nelle quali si legge una precisa consapevolezza che nel passaggio dallo ‘stato di natura’ allo ‘stato civile’ l’uomo non può più appellarsi semplicemente all’istintualità, ad un suo diritto esclusivo alla libertà, ma deve accettare diritti correlati a doveri, una LN mediata dalla legge morale e dal diritto positivo, dalla LP(142).
E poi, - continua Curcio - oltre a queste di Rousseau, c’erano anche altre "influenze ideologiche e ideali", fra le quali quelle delle concezioni di Montesquieu, considerate più coerenti con l’imprescindibile antefatto storico. Fra i referenti dell’ideologia rivoluzionaria vi erano infatti anche significativi accenni all’America, come comprovano le numerose traduzioni del Federalist, raccolta di articoli dedicati alla teorizzazione della necessità di superare l’iniziale disorganicità, la frammentazione del sistema decisionale nella prima strutturazione federale(143).
Fra coloro che avvertirono maggiormente l’importanza degli eventi americani vi fu Brissot de Warville, di cui Curcio ricorda anche la critica radicale della proprietà, anni prima del 1789, quando questo giurista aveva palesato grande attenzione per l’attenuazione dei rigori del diritto penale (o diritto criminale, come allora si diceva), in questo seguito dagli stessi Marat e Robespierre. D’altra parte, dimentico – non diversamente dai Marat e Robespierre pre-rivoluzionari – delle questioni penali, nel corso della Rivoluzione poi Brissot si limiterà prevalentemente alla ridefinizione del diritto di proprietà. Affrontando così in termini attuali la questione sociale, Brissot venne seguito da altri, come Simon Nicolas Linguet (che Marx cita nella Miseria della filosofia), o come Sylvain Maréchal, Rétif de la Bretonne, Proudhon(144).
Ormai il ‘moderatismo’ si applica, nel corso della rivoluzione stessa, prevalentemente alla questione sociale, con formulazioni di alcuni che si riferiscono alle verità del Vangelo indicandovi l’antefatto degli stessi princìpi rivoluzionari di libertà, di eguaglianza, di emancipazione(145). Anche qui, però, equivoci nella concezione di una legge morale derivata dal Vangelo e poi confusa con la LN. D’altro canto, se in alcuni altri scrittori il tema sociale si riconduceva esclusivamente alla LN, senza alcun referente alle verità del Vangelo, non minori risultavano le ambiguità di un simile referente. Nel complesso, la soluzione rivoluzionaria della questione sociale riferita alla LN veniva variamente spiegata. E non solo, appunto, in riferimento alla legge morale codificata nel Vangelo (e qui senza spiegare il nesso fra LN, legge divina e LP instaurata dalla Rivoluzione), ma anche come legge dell’istintiva, come ‘legge morale naturale’, come LN, in quanto tale non necessitante di alcuna mediazione. Ma anche, infine, si parlò di LN in un altrettanto inspecificato e confuso riferimento alle origini(146), allo ‘stato di natura’ di cui non si sapeva però spiegare né la genesi, né il momento del trapasso, delle metamorfosi nello ‘stato civile’(147).
Inoltre, dal momento che poi questo referente alla LN evocava immediatamente l’idea di eguaglianza, la questione sociale, la rivendicazione della giustizia e della moralità nei rapporti sociali urtava contro l’evidente diseguaglianza nei rapporti esistenti, ed indicava nella borghesia un nemico non meno colpevole degli ordini privilegiati(148). Ci si accorgeva da parte di molti (Maréchal, Babeuf, Fauchet, Doliver, e persino Sieyès) che all’interno del Terzo stato c’erano radicate differenze di finalità, per cui si sarebbe dovuta ritenere una parte della borghesia "come complice o quanto meno come alleata dei grandi privilegiati"(149).
Di più, la borghesia "appariva privilegiata essa stessa"(150). Si errerebbe però - sottolinea Curcio - a considerare, come del resto si è poi fatto, queste motivazioni ed istanze come l’antefatto, come la legittimazione formale del materialismo storico quale ideologia della borghesia. Si trattava invece di un riflesso dell’impegno morale profuso dal Terzo stato negli ideali della rivoluzione, come riflesso politico delle virtù private(151).
Tirando le somme di questa sua lunga disamina, - nella prima metà degli anni Sessanta (fra 1963-65) – Curcio conclusivamente codificata nella successione seguente soprattutto i motivi ideali di cui il mondo contemporaneo era debitore, in positivo, alla Rivoluzione francese. Anzitutto, sotto il profilo dei rapporti di lavoro, liberati dai vincoli corporativi con il decreto di Le Chapelier, fatto approvare il 14 giugno 1791, basato sul presupposto di un intervento regolatore dello Stato. Intervento che non sempre, invece, ci sarà, nei termini pur allora previsti di provvedimenti di assistenza, ai poveri, agli inabili, ai vecchi, ai malati. C’era dell’ottimismo in queste proposte, fondate sulla fede nei diritti dell’uomo, sul postulato che si sarebbero naturalmente armonizzati i rapporti fra datori di lavoro e lavoratori. Anche qui dunque una drammatica confusione fra LN e LP: fra le forme del loro rapporto nell’antico regime e le forme della loro correlazione nell’ordine nuovo.
La LN era il referente della LP che veniva instaurando il nuovo ordine ed al tempo stesso l’oggetto della più rigida regolamentazione da parte di quest’ultima, spesso in un senso contrario, antinomico rispetto ai predicati diritti naturali dell’uomo e del cittadino. Un siffatto contrasto risulta anche al livello della pretesa liberazione dei rapporti produttivi dal giogo delle corporazioni. La legge positiva del regime rivoluzionario non è meno oppressiva per i diritti naturali del lavoratore di quanto lo fossero le corporazioni, che peraltro avevano il vantaggio di offrire una tutela ed una forma di rappresentanza collettiva al mondo del lavoro di fronte al prepotere della ricchezza finanziaria(152).
Sul piano di uno sviluppo di questi sentimenti solidaristici, - in una prospettiva dunque nettamente diversa da qualsiasi conservatorismo retrivo – Curcio sottolinea il debito che abbiamo nei confronti della Rivoluzione, nel corso della quale non mancò anche l’affermazione di un certo umanitarismo o, meglio, di un universalismo che implicava anche il riscatto delle popolazioni soggette all’effetto del colonialismo(153). Superati i confini e gli egoismi nazionali, si sarebbe alla fine parlato di Europa. Ecco un’altra idea, ben più antica, ma a cui la Rivoluzione diede certamente nuova forza in termini di solidarietà fra nazioni unite dallo stesso destino(154).
Oltre a queste anticipazioni di idee da parte della Rivoluzione al mondo contemporaneo, un’altra rilevante acquisizione - su cui Curcio insiste in questi anni - per quanto sembri a tutta prima contraddittoria rispetto alle suddette componenti universalistiche dell’ideologia rivoluzionaria, è la rivalutazione dell’ideale nazionalitario(155). E questa idea di nazione, proiettata nel contesto universalistico, si doveva necessariamente tradurre nel principio dell’autodecisione dei popoli(156).
In ultima analisi, - sottolinea con molto acume Curcio – dobbiamo alla Rivoluzione francese tutti questi e molti "altri spunti di idee, se non proprio di teorie", perché in quel clima rovente ogni teorizzazione parve sterilirsi nell’impellenza pragmatica(157). Ma fra tutte queste formulazioni di nuove istanze, talvolta appena intraviste e confusamente intese, alcune più di altre erano destinate a perpetuarsi con "echi […] sorprendenti, anche quando, nella reazione trionfante" se ne intese negare ogni significato(158).
Istanze che poi, "proprio come semi sepolti sotto la cenere, sbocciarono dopo parecchio tempo", come l’idea della libertà sia di pensiero che di stampa, idea "che di solito si fa risalire a Mirabeau, ma che stava un po’ dovunque"(159). Istanze che incontrarono però subito un loro massimo interprete, fra i tanti "spiriti sensibili che ne avvertirono l’importanza intrinseca – nonostante alcune contraddizioni che implicavano e talune conseguenze che avrebbero prodotto" – in Emmanuel Kant, il quale ne definì "il loro valore assoluto, universale", scorgendo nella Rivoluzione "un avvenimento destinato a rendere il processo dell’umanità più celere e sicuro"(160). Proprio Kant, alla luce di queste idee elaborò poi un nuovo sistema istituzionale, una ‘costituzione repubblicana’, ponendo in una nuova luce, ossia incentrandola sull’ imperativo morale, l’identità fra LN, razionalità individuale, decisione etica e LP(161).
Forse c’era in questa asserzione dell’entusiasmo eccessivo, ma vi era anche qui la prova - afferma Curcio, scorgendovi una nuova concretizzazione dei processi mitopoietici (a suo dire fondamentali per la politica) – di come "idee, teoriche appena abbozzate, considerazioni e talvolta persino enunciazioni vaghe e prive di solido fondamento, quali furono per la maggior parte quelle che s’ebbero nella rivoluzione dell’89, potessero avere forza penetrante e capacità di suggestioni immediate e per l’avvenire"(162).
XIII. Il nesso fra tradizione e rivoluzione: il primato della volontà creativa di un ordine superiore all’ancestrale immediatezza istintuale.
Ripercorrendo quanto siamo venuti esponendo, possiamo quindi affermare che il fondamento sulla teoria delle rivoluzioni di Carlo Curcio consiste nell’intuizione di dover ricercare la sostanza del processo storico al di là della dicotomia fra ‘ciclicità’ e ‘progresso’. Da tale questione (affrontata nel par. I) siamo pervenuti alla constatazione (nel par. II) che Curcio colloca il fenomeno rivoluzionario fra trascendenza di valori ‘metapolitici’ e ‘fattualità’ storica.
Sulla base di questa trascendenza abbiamo poi (nel par. III) considerato nella sua teoria la centralità di un’antitesi di fondo fra ‘etica’ e ‘politica’. Antitesi che sabbiamo visto (nel par. IV) Curcio coglie al livello dell’ordinamento istituzionale, per cui la rivoluzione si rende necessaria per superare le degenerazioni formalistiche e reintrodurre la sostanzialità etico-politica del diritto.
D’altro canto, dal momento che la rivitalizzazione dell’ordinamento istituzionale avviene, secondo Curcio, attraverso la rivoluzione, si è dovuto accertare (nel par. V) se per tale processo anti-formalistico debba intendersi il recupero dei ‘primi princìpi’, dei valori fondamentali dell’ordinamento, – in una sorta di circolarità, di ‘ciclicità’, attraverso cioè una cesura parziale con il sistema vigente, per ritrovare il momento fondante -, oppure di una radicale ‘novazione’, cioè attraverso in un sistema politico totalmente cambiato, - qui tramite una ‘cesura radicale’ con il passato.
Considerata quindi la possibile alternativa fra una circolarità e ‘novazione’ dei sistemi politici, si è dovuta esaminare (nel par. VI) la critica di Curcio alla teoria del ‘progresso continuo’, ascendente, unilineare e senza cesure. Dalla denuncia dell’inesaurienza, dell’utopicità di queste concezioni progressiste, ci si è rivelata (nel par. VII) la consapevolezza di Curcio di dover operare una netta distinzione fra le visioni utopiche che costellano in maniera totalmente tragica l’esperienza storica ed invece i ‘miti politici’, intesi come immagini riassuntive della complessità sociale e delle molteplici articolazioni attraverso le quali rivitalizzzare l’ordine istituzionale.
E qui la ripresa della tradizione del ‘governo misto’, di matrice aristotelico-polibiana (poi ripresa da Machiavelli e dal Vico), si è delineata in Curcio come un superamento delle distinzioni fra le forme politiche, relative rispetto alla complessità dell’ordine politico, appunto nell’immagine-mito del ‘’governo misto’, nel quale si assommano cioè i caratteri positivi della monarchia (l’unità del comando, della sovranità), dell’aristocrazia (la funzione di controllo giurisdizionale del potere) e della democrazia (la necessità del consenso all’autorità esecutiva ed alle leggi).
Qui dunque l’immagine-mito del ‘governo misto’ assume il significato ed il valore di un’evocazione della necessaria contestualità della distinzione di diversi ambiti funzionali e della loro complementarietà. Necessaria contestualità (molto prossima all’accezione crociana della storia e della politica come un processo dialettico fra ambiti distinti, interattivi ed in certa misura complementari) di funzioni e di controlli che vuol significare in Curcio un rifiuto netto e deciso dell’esperienza totalitaria, quale appunto si è considerata definendo (nel par. VIII) questa sua come un’incerta definizione del fascismo stesso come vera rivoluzione fascista.
Si è quindi (nel par. IX) seguito Curcio nella ricerca dei veri caratteri del fenomeno rivoluzionario negli eventi francesi del 1789, a partire peraltro dalla valutazione di quanto di negativo e di positivo vi si produsse, nel senso appunto di una ‘cesura radicale’ oppure di una cesura parziale, intesa al recupero dello sviluppo politico-istituzionale iniziatosi già nel medioevo e perfezionatosi notevolmente già nell’epoca moderna, per poi essere interrotto dall’assolutismo monarchico, fra XVII-XVIII secolo.
La contestualità fra potenzialità negative e positive nel corso della Rivoluzione è stata qui considerata attraverso le puntuali indagini con cui Curcio ha colto il negativo, la portata ‘catastrofica’ della persistenza dell’utopismo illuminista nelle formule e nei programmi dei principali protagonisti degli eventi fra 1789-93, per cui il quesito di fondo si è rivelato quello di accertare l’antinomia, la contraddittorietà fra la prassi rivoluzionaria, l’imposizione potestativa della volontà di un’oligarchia ed i pretesi referenti ‘naturalistici’ delle motivazioni di una tale obbligazione politica imposta alla maggioranza.
In altre parole, Curcio coglie la contraddittorietà, la drammatica antinomia, fra l’egemonia imposta dall’oligarchia ‘giacobina’ e l’ideologia appunto di matrice illuministica della politica, qui intesa come meccanica adeguazione alla ‘legge di natura’, quasi fosse immediatamente coincidente con lo ‘stato civile’, alla sola condizione dell’abbattimento della ‘superstizione’ (la Chiesa) e della tirannia (la monarchia e l’aristocrazia).
Sotto questo profilo, il preteso recupero rivoluzionario della ‘virtù civile’ è stato valutato (nel par. X) alla luce della contraddittorietà fra le nozioni di ‘libertà’ e di ‘eguaglianza’, delimitate ed imposte dalla volontà egemone di un’ ‘Assemblea nazionale’ in cui si concentravano tutti i poteri, tutte le funzioni, tutti i controlli. Da qui la distinzione fra le diverse connotazioni del violento utopismo di quanti identificavano sommariamente legge di natura e legge positiva, istintualità individuale e coercitività politica, inevitabilmente sfociando in una tragedia senza senso e senza soluzioni, ed invece il referente dell’azione rivoluzionaria, restauratrice o innovatrice di valori etici, ad una scelta morale, ad una volontà di superare l’immediata istintualità, concepita come qualcosa da superare ed ordinare non già in abbandoni istitualistico naturalisti, ma attraverso la più rigorosa auto-disciplina nell’élite rivoluzionaria e nell’imposizione di consimili regole ai concittadini.
Sotto questo profilo, la superiorità della visione etico-politica di Rousseau e del suo più attento lettore, Robespierre, è individuata da Curcio (come si è accertato nel par. XI) nella contrapposizione rispetto all’ottimismo filosofico di un altro protagonista della Rivoluzione, Condorcet, animato da un’ingenua, incomprensibile, imperdonabile fede nell’irreversibilità del progresso.
Pertanto, si è potuto constatare (nel par. XII) come Curcio ricerchi il più vero significato della rivoluzione al di là delle incertezze ed oscillazioni ideologiche dei protagonisti. Al di là, cioè, della loro confusione fra un’azione rivoluzionaria incentrata sulla volontà di trasformare la realtà, ed un postulato ritorno a spontanee adeguazioni di individui e gruppi ad una ‘legge di natura’, pertanto identificata con gli indeflettibili precetti, con l’irresistibile coercitività della legislazione positiva in cui consiste la creazione di un ‘ordine nuovo’ rivoluzionario.
Ma il vero significato positivo della Rivoluzione consiste secondo Curcio non soltanto al di là sia della suddetta oscillazione ideologica fra naturalismo e pragmatismo, fra istintuale manifestazione della ‘legge di natura’ e volontarismo egemone. Ma si pone anche al di là sia dell’occasionale suggestione del precedente americano, sia di più o meno presunte affinità con il messaggio cristiano, sia anche di una qualsiasi riproposizione del mito delle origini.
La sua nozione di ‘rivoluzione per la continuità’ riprende tutti questi referenti parziali, anzitutto nel senso di ripetere come nel mito delle origini l’idea di un’imprescindibile momento genetico, dunque diverso dal meccanicismo naturalistico di un istintivo progresso verso la piena coincidenza fra natura e ragione, libertà e necessità, volontà individuale e ‘volontà generale’. Ma nella nozione di ‘continuità’ è ripresa anche l’idea di un progresso, sia pure condizionato, reversibile, sottoposto a cesure. Contro le quali - però – si staglia la volontà di riprendere – attraverso una ‘rivoluzione verso i primi princìpi’ – lo sviluppo di una ‘società civile’ come ordine complesso, articolato in una molteplicità di ceti e di funzioni, e dunque irriducibile alle dimensioni ancestrali della ‘società naturale’ come a quelle attuali della vita privata, individuale.
In questa accezione di ‘rivoluzione per la continuità’ si assommano in Curcio le esigenze di un costante riferimento ad una tradizione che non è immobilismo delle forme, ma dinamico recupero di un’originaria sostanza etica di un ordine civile sviluppato e perfezionato nel corso di innumerevoli secoli e generazioni. Una rivoluzione quindi non come una radicale cesura con tutto il passato, né come utopico ritorno alla spontaneità naturale, ma incardinata nella volontà morale di riscattare l’ordine istituzionale dalle sopravvenute alterazioni individualistiche, dalla corruzione egoistica, materialista, utilitarista, meramente economica.
E rispetto a questo ordine al tempo stesso tradizionale e continuamente innovato, nella permanenza della sostanza etica e nel diuturno divenire delle forme, l’idea di rivoluzione è qualcosa che Curcio fra gli anni Trenta-sessanta del XX secolo non intende confondere né con il Regime fascista, né con il marxismo, né con la riduzione capitalista della ‘società civile’ al primato del fine economico.
Precisamente in questo la sua teorizzazione della ‘rivoluzione per la continuità’ è qualcosa di ancora suscettibile di utili riflessioni sulla deriva materialistica, edonista ed economicista del nostro tempo, per troppi aspetti pervaso ancora nel senso di una ‘guerra civile mondiale’ (la weltliche Bürgerkrieg, di cui parla Nolte), nella quale cioè gli irrisolti contrasti etico-politici interni all’Occidente si ripercuotono sull’intero pianeta in termini di globalizzazione dei processi economici.
NOTE
(1) Paolo Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di Carlo Curcio (1898-1971). Fra liberalismo, fascismo e democrazia, ‘Annali di storia moderna e contemporanea. Istituto di Storia moderna e contemporanea. Università cattolica del Sacro Cuore’, VIII, 202, pp. 345-466.
(2) Curcio, L’ostetrica del diritto (Note per la storia del concetto di rivoluzione, ‘Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto’ (=RIFD), X, 1930, fasc. VI (giugno-luglio), [da qui in poi: OdD], pp. 720-754- Nel prosieguo, daremo la paginazione dell’estratto, e fra parentesi quadre quella del testo della RIFD.
(3) OdD, pp. 7-8 [pp. 724-725].
(4) Ibidem, p. 4 [ p. 721].
(5) "La palingenesi si effettua, certamente, nel mondo dello spirito; ma i segni si appalesano nel mondo esteriore, in una visione integrale apocalittica della storia del mondo. L’ordine attuale dell’umanità, imperfetto, peccaminoso, volge alla fine; la trasformazione, la rivoluzione, si verificherà e si attuerà con estrema violenza. Vi saranno terremoti, guerre, turbamenti, sollevazioni, fami, pestilenze; ‘Quando udirete guerre e rumori di guerre non vi turbate; perciocché conviene che queste cose avvengano, ma non sarà ancora la fine" [in nota: Marco, XIII, 7-8; Matteo, XXIV, 6-7]’. Peggio: ‘Il sole scurerà , la luna non darà il suo splendore’[in nota: Marco, XIII, 24; Matteo, XXIV, 29]; ‘In quei giorni vi sarà afflizione tale qual non fu giammai’[in nota: Marco, XIII, 19]"(Ibidem, p. 10 [p. 727]).
(6) "È il momento terribile, estremamente drammatico della trasformazione dell’ordine. Allora ‘il fratello darà il fratello alla morte, e il padre il figlio; e i figliuoli si leveranno contro ai padri e le madri e li faranno morire’[in nota: Marco, XIII, 12]’. Quale orribile tragedia accompagna, dunque, la trasformazione dell’ordine, su quale spaventosa catastrofe s’erge l’ordine nuovo! Ma solo dal dolore nasce la vita. L’immagine che questi dolori son simili a quelli del parto [in nota: Marco, XIII, 9; Matteo, XXIV, 8] è estremamente significativa" (Ibidem, l.c.)
(7) "Qui, certo, la rivoluzione è vista nel suo motivo etico, umano soprattutto; mentre che in essa affiorano esigenze, oltrecché storiche, giuridiche. Ma alla costruzione faticosa del concetto, alla cui definizione si giunge attraverso una lavoro immenso del pensiero, contribuiscono – mentre l’ammonimento di Gesù non è mai sminuito nel suo valore universale – quelle salde correnti dottrinarie che, innestandosi sul pensiero giuridico romano, apportano nuovi elementi per la delimitazione del problema" (Ibidem, pp. 11-12 [pp. 728-729]).
(8) "Per i popoli, dunque, esiste, ad un certo momento, la necessità di una rinascita, di una nascita nuova, onde soltanto è possibile fondare un ordine migliore, una vita migliore. Ma la rivoluzione non si esaurisce nel momento drammatico, angoscioso, della catastrofe del vecchio mondo; ma si realizza, anzi, nell’ordine nuovo, che verrà poi, a torto, considerato come la conclusione dell’azione rivoluzionaria. La rivoluzione, anzi, è dopo; si palesa, trae i suoi frutti, si esplica tutta quanta nella realizzazione del nuovo ordine, che impererà sulle genti; la palingenesi offre all’umanità il modo di entrare in una vita nuova, dopo che quella già consumata s’è appalesata peccaminosa, ingiusta, impossibile. La rivoluzione è la redenzione; è il momento fatale che segna il distacco da un tempo all’altro" (Ibidem, pp. 10-11 [pp. 727-728]).
(9) "L’inizio di una interpretazione della rivoluzione da un punto di vista giuridico è in Roma, collegato con le prime affermazioni del diritto naturale, che nei giureconsulti romani incominciò ad acquistare ampio valore. […] V’è un formidabile motivo attivistico nella concezione giuridica romana, il quale non solo accompagna lo svolgersi del processo formativo dell’impero – che è un processo rivoluzionario perché muta profondamente i rapporti di diritto in tutto il mondo antico e dà luogo a istituzioni politiche completamente nuove – ma lo giustifica appieno" (Ibidem, p. 12 [p. 729]).
(10) "Nelle Istituzioni e nel Digesto vi sono passi caratteristici al riguardo […]. In Gaio, Marciano, Papiniano è, così, radicata l’idea che ogni popolo ha diritto a darsi l’ordinamento che vuole, ordinamento proprium, che ipse sibi constituit atque jubet […]. Del resto anche negli scrittori della Chiesa lo stesso concetto è accennato con chiarezza e con precisione; e i passi di Graziano non danno luogo ad equivoco" (Ibidem,, pp. 12-13 [pp. 729-730]). Qui, in nota, oltre ai riferimenti alle fonti, Curcio rinvia ai suoi studi precedenti: Curcio, L’eredità romana nel pensiero politico italiano del Medio Evo, RIFD, VIII, 1928, fasc. II, al cap. I; ID., Il rinnovamento dell’idea del diritto nel pensiero italiano del Rinascimento, RIFD, VIII, fasc. III, capp. I-IV.
(11) "Che vuol dire tutto questo? Senza dubbio qui è posto il principio di un diritto storico, fondato sul momento etico della collettività – populus – che realizza il suo diritto; è posto, cioè, il principio della libertà che ha ciascun popolo di realizzare in un momento qualsiasi della sua storia quegli ordinamenti giuridici che meglio confanno alle sue esigenze pratiche ed ideali. Lo sviluppo integrale di queste premesse è nei giuristi e negli scrittori italiani del periodo comunale e del Rinascimento" (ID., OdD, p. 13 [ p. 730]).
(12) "La concezione ciceroniana dell’jus gentium, vero fine ultimo concreto della storia, rappresenta, infatti, la giustificazione della conquista romana intesa come perfezione della giustizia; concezione non statica, del resto, quando si pensi che, dopo Cicerone, il diritto naturale è considerato come il vero principio di quel diritto storico che i popoli realizzano di volta in volta, secondo le loro esigenze e la loro volontà. Il diritto naturale, dunque, è innanzi tutto motivo etico, spinta alla conquista, all’azione" (Ibidem, p. 12 [ p. 729]).
(13) "Oltre che in alcuni passi di Cicerone, questo carattere prevalentemente etico che sta alla sorgente di ogni diritto è visibile nella maggior parte delle definizioni che i giureconsulti dettero del diritto. Bisogna, in questa valutazione del concetto del diritto presso i romani, saper distinguere l’apparenza, che può ingannare, dalla sostanza, che è invece dominata dal senso della conquista e del volere. Le parole di Livio – se in armis ius ferre et omnia fortium virorum esse [in nota: LIV, V, 36] – non sono affatto discordanti dallo spirito della concezione generale del diritto de’ romani. Basti, in ogni caso, pensare al valore che l’jus civile acquistò nella coscienza degli scrittori e della dottrina giuridica, i quali vi videro la vera attuazione storica di ogni diritto, incarnato nella volontà dei popoli, assurti a veri creatori dei loro ordinamenti giuridici e politici" (Ibidem, l.c.).
(14) "San Tommaso, del resto, finisce col distinguere i diritti umani – diritti politici, derivanti dall’azione politica – da tutti gli altri [in nota: Summa Inst., l. I]" (ibidem, p. 13 [ p. 730]).
(15) D’altra parte, "Dante, con la sua concezione attivistica del diritto, che è non solo una proportio, ma è prodotto per duellum, e cioè diventa proporzione, stabilità di rapporti (legge) dopo il duello, la lotta (guerra o rivoluzione), non fa che sviluppare le premesse tomistiche" (ibidem, l.c.).
(16) "Ma è nei romanisti che la concezione di un diritto attuantesi come libertà di popolo, sgorgante da un moto rivoluzionario, è più evidente. Qui il diritto naturale perde del tutto il suo carattere statico, si fa molla all’azione, alla lotta, alla conquista. Il diritto naturale è identificato con la libertà stessa […]; è il principio etico dell’umanità. Baldo dice che dal diritto delle genti scaturisce l’esigenza per i popoli di avere un ordinamento positivo proprio autonomo; secondo quei principii del diritto naturale – considerato come momento etico del processo ideale della conquista dei popoli alla giustizia – che è superiore ad ogni altro diritto […]" (Ibidem, p. 14 [ p. 731]).
(17) Ibidem, l.c.
(18) Ibidem, l.c.
(19) "Sorge lo Stato quando sorge la coscienza della realizzazione del diritto. L’ affermazione dell’ jus e dell’ imperium è simultanea […]; e nasce ex propria naturali justitia, secondo una interpretazione tutta storicistica della vita giuridica e politica. Di qui l’ jus statuendi, che è una delle più grandi conquiste del pensiero giuridico e politico del nostro prima rinascimento; di qui l’affermazione recisa dello svincolamento delle città-stato dall’Impero; di qui quella teoria del diritto come creatura del popolo, della collettività, che giustifica appieno tutte le altre teorie" (Ibidem, l.c.).
(20) "È il passaggio dal momento giuridico a quello politico; o, meglio, è il presupposto politico che serve di base alla costruzione giuridica. Che cosa, infatti, vuol dire, come già aveva accennato Ulpiano [in nota: I, 1, 11, Lex de imperio] e diranno poi Azone ed Irnerio, Andrea da Isernia e Bulgaro […] e gli stessi scrittori della Chiesa - Umberto Cardinale, Placido di Nonantola, Gregorio VII, Egidio Romano […] - che il potere è nel popolo? Vuol dire proprio che è il popolo che sente, fa il diritto; che è dal popolo che nasce il diritto. Sarà l’imperatore o il Papa che, mediante quella finzione della translatio potestatis farà poi la legge, realizzerà, cioè, l’ordinamento giuridico positivo […]; ma è, tuttavia, ben chiaro, nella maggioranza degli scrittori, che il popolo resta sempre il detentore del potere; che, anche quando lo trasferirà al capo, ne tratterrà sempre tanto da potersene servire; che il capo, come dice Andrea da Isernia, è constitutus dal popolo e non può mai togliere a questo la sua capacità politica e giuridica" (Ibidem, pp 14-15 [pp. 731-732]).
(21) "[…] Non c’è una regola fissa, ma […] ogni popolo, costituito come unità politica, potrà sempre che lo vorrà e lo sentirà, darsi quegli ordinamenti che meglio si adatteranno alle sue esigenze, secondo il criterio giuridico della storicità delle forme istituzionali e secondo quello politico – affermato da S. Tommaso in poi – della relatività storica delle forme politiche; e cioè che non esiste una forma di governo migliore di un’altra se non nella valutazione concreta" (Ibidem, p. 15 [p. 732]). Qui, come in numerosi altri dei passi che abbiamo riportato, Curcio si rifersice al suo saggio intitolato: Il rinnovamento dell’idea di diritto nel pensiero italiano del Rinascimento, cap. VI.
(22) ID., OdD, pp. 15-16 [ pp. 732-733].
(23) "[…] Non è una rivoluzione di schiavi o una progressiva rivolta di uomini attaccati alla gleba; ma è, invece, giustificata da una teoria quasi compiuta, che considera il diritto un punto di vista rivoluzionario; ove il diritto è scorto prima in un momento etico efficace, attivo (momento rivoluzionario) e poi in un assetto istituzionale normativo (momento legale, statuale); ove, cioè, il concetto di rivoluzione è colto nel suo duplice momento politico e giuridico, come il segno e l’angoscia di un trapasso da un ordine ad un altro, da una formazione statuale ad un’altra" (Ibidem, p. 16 [p. 733]).
(24) Ibidem, l.c.
(25) Ibidem, l.c.
(26) "Così, come il diritto, che è il vero ordinatore della vita dei popoli, è mutevole, immediato, storico in una parola; lo Stato è anch’esso non mai una entità fissa; ma sottoposto a quell’umana legge della trasformazione; è cosa viva, e perciò si trasforma, s’ingrandisce, decade e muore" (ibidem, l.c.). Qui Curcio si riferisce esplicitamente al suo: La modernità di Machiavelli, RIFD, VII, 1927, fasc. IV-V.
(27) "Tuttavia, di fronte a questa legge fatale, compito dello Stato è quello di conservarsi e di non morire; di sforzarsi di mantenere la sua compatezza e i suoi ordini; o, quanto meno, la sua vitalità. Com’è possibile ciò? Dovrà, per questo, lo Stato rinnegare il suo principio e cioè soffocare quegli che sono aneliti vitali della collettività che lo compone? Se lo Stato è la resultante di una volontà morale e di interessi dei consociati, se questa volontà vien meno, se i legami etici che sostengono quelli giuridici si allentano, come sarà possibile mantenere in vita lo Stato stesso? Il problema è angoscioso, è risoluto con quel concetto del ‘rinnovarsi’, che è potentemente sentito da Machiavelli e che forma la salvezza di uomini e popoli. O rinnovarsi o morire: quest’è la verità suprema" (ID., OdD , pp. 16-17 [pp. 733-734]).
(28) "Ma come rinnovarsi? Mediante riforme interne, pacifiche? Qualche volta Machiavelli lo ammette; ma le rivoluzioni possono assai di più.[…] Quell’interesse per il bene della collettività, che è sempre così vivo nel Machiavelli, in questo caso è preminente. Il segreto delle rivoluzioni è questo: ch’esse siano a beneficio del bene comune della collettività tutta intera. La rivolta di parte è, dunque, condannata. I mali di Firenze vennero da questo; che quei moti non ottennero di ‘satisfare all’universale’ [in nota: Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze]" (Ibidem, p. 17 [ p. 734]).
(29) "Ora è chiaro che ‘i principii’ non sono tanto la tradizione, le antiche leggi o, addirittura, l’ordinamento dello Stato che s’è corrotto; ma sono i principii stessi per cui gli uomini sono nella società uniti; i principii di solidarietà nazionale, che ha dato poi luogo alla formazione dello Stato. Quando questo è corrotto, insomma, è necessario che la collettività si liberi da quell’apparato di istituti che ormai si mostra insufficiente ai suoi bisogni e ai suoi ideali e, tornando allo stato iniziale del suo formarsi, sentendosi, cioè, per un momento, soltanto unità etica, si appresti a formare il nuovo Stato secondo i suoi nuovi bisogni e i suoi nuovi ideali" (Ibidem, p. 18 [p. 735]).
(30) In nota: Discorsi, III, 8 (Ibidem, pp. 18-19 [ pp. 735-736]).
(31) "Machiavelli è quegli che ha scorto nelle rivoluzioni l’origine e la nascita del diritto e dello Stato; quegli che ha scorto nel principio del rinnovarsi degli ordinamenti il fondamento della vita, traendo, secondo il ritmo implacabile della storia del mondo, da quello sempre il meglio. Le rivoluzioni sono sante, quando rispondono a volontà collettive che vogliono assurgere a nuova vita, ringiovanire, trarre da un moto e da un ideale nuovo una linfa vitale più bella. La vita dei popoli è realizzazione di libertà, di atti spirituali, che s’estrinsecano in un processo continuo. La vita del diritto e dello Stato è in questo processo fatale. […] Quest’è, infine, l’insegnamento di Machiavelli" (Ibidem, pp. 20-21 [pp. 737-738]).
(32) A questo punto, Curcio cita (Ibidem, l.c.) direttamente Machiavelli: "Sogliono le provincie il più delle volte, nel variare che le fanno, dall’ordine venire al disordine, e di nuovo di poi all’ordine trapassare; perché non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come elle arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino; e, similmente, scese che le sono, e per gli disordini all’ultima bassezza pervenute, di necessità, non potendo più scendere, conviene che salghino; e così sempre dal bene si scende al male, e dal male si sale al bene. Perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina; e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine la virtù, da questa gloria e buona fortuna ([Machiavelli,] Istorie fiorentine, lib. I, c.1".
(33) Curcio, OdD , p. 36 [p. 753].
(34) Eugenio Garin, Polibio e Machiavelli [lezione inaugurale dell’anno accademico dell’Università di San Marino, letta il 30 settembre 1989], ora in: ID., Machiavelli fra politica e storia. Torino, Einaudi, 1993, pp. 3-28.
(35) Ibidem, p. 6.
(36) Curcio, OdD, p. 35 [ p. 752].
(37) "[…] E, in primo luogo, appare sormontata del tutto l’antitesi tra il diritto e rivoluzione, quando s’intenda per diritto non solo l’ jus conditum, ma altresì il diritto nuovo, che s’afferma con la violenza spasmodica della vita che reclama il suo posto al mondo; violenza che è legge essa stessa, in quanto contiene in se stessa il limite, la regola e cioè l’ordine" (Ibidem, pp. 35-36 [pp. 752-753]). Qui Curcio si riferisce, in nota, a: S. Panunzio, Diritto, forza, violenza. Bologna, 1922.
(38) In nota, Curcio si riferisce a: Giovanni Gentile, Diritto e politica, ‘Archivio di Studi corporativi’, I, pp. 17 e ss.
(39) Curcio, OdD, p. 36 [ p. 753].
(40) In nota: Alexis de Tocqueville, L’ancien régime et la Révolution. Paris, 1856, c. III..
(41) Anche qui, in nota, Curcio indica i principali capisaldi di questa interpretazione, anzitutto in: Jellineck, Revolution und Reichsverfassung, ‘Jahrbuch des öffentliches Rechts’, Bd. IX, 1920.
(42) Curcio, OdD, p. 36 [ p. 753].
(43) Ibidem, l.c. Qui Curcio si riconduce a: Carl Schmitt, Die Diktatur, München, 1928; ID., Verfassungslehre, München, 1928, pp. 206 e ss.
(44) "Lo Stato non può perire; - afferma Curcio in questo 1930, riferendosi alle parole di Giorgio Del Vecchio - ed è, anzi, appunto dal rinnovamento dei suoi istituti, delle sue leggi, dei suoi ordinamenti, secondo modi di sentire, di operare vivi nella coscienza comune, che quella vita rafforza, che quell’esigenza rende più valida […] (Curcio, OdD, pp. 36-37 [ pp. 753-754])".
(45) Antonio Romini SerbatiI, Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le umane società, in: ID., Filosofia della politica (Opere, XX). Milano, 1858, pp. 29-30. Su questa opera, che è la prima parte della Filosofia politica, pubblicata nel 1837, si vedano i rilievi di: Mario D’Addio, Libertà e appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini. Roma, Edizioni Studium, 2000, pp. 69-70.
(46) Curcio, OdD, p. 37 [ p. 754].
(47) Curcio, OdD, p. 30 [ p. 754]. A proposito di questa concezione antagonistica della creazione di un ordine eticamente fondato, molti anni dopo, in tutt’altro contesto politico-istituzionale, Mario D’Addio sottolinea come in Rosmini i conflitti "svolgono una funzione maieutica" – ecco anche qui il concetto di rivoluzione come ‘ostetrica del diritto’ – "per quanto riguarda il progresso civile e politico della società: essi sono inscindibili dalla dinamica politica e storica" (D’Addio, Libertà e appagamento…, cit., p. 162). In effetti, continua D’Addio, per Rosmini "i conflitti sono la manifestazione storica della ‘legge dell’antagonismo’ che caratterizza l’attività dell’uomo, che, a motivo della sua natura finita, deve lottare per adempiere la legge morale di preferire ‘l’entità maggiore a quella minore’, come quando è chiamato a difendere la patria anche a rischio della vita, o quando avverte l’impegno di ‘riconoscere l’essenza dell’essere’, di adempiere cioè ai supremi doveri posti dalla morale divina, affrontando tutti i possibili sacrifici, compreso quello della vita"(ibidem, l.c. [qui D’Addio si riferisce a: ROSMINI, Filosofia del diritto. A cura di R. Orecchia. Padova, Cedam, 1967, n. 2057, vol. V, p. 1378). Pertanto, D’Addio conclude nei termini seguenti. "La perfezione morale è frutto di una lotta che l’individuo deve sostenere per superare i limiti della sua ‘realità’ : l’ordine delle cose create è tale che ‘il MASSIMO ANTAGONISMO [è] il mezzo indispensabile alla MASSIMA LORO MORALE PERFEZIONE’. Ed è proprio per questo motivo che gli uomini si uniscono o per operare contro la virtù o per sostenerla e promuoverla"(ibidem, pp. 162-163). Qui D’Addio si riferisce a: Rosmini, Teodicea. A cura di U. Muratore. Roma, Città nuova, 1977, vol. II , l. III, nn. 725, 730, pp, 435-436, 437.
(48) Come è noto, per la teoria del ‘governo misto’, risulta possibilesi - mediando il positivo delle tre forme classiche di governo (cioè riprendendo dalla monarchia l’univocità di comando, dall’aristocrazia la selezione di un corpo capace di mediare il potere, dalla democrazia la formulazione di istanze e dell’erogazione del consenso) - evitare gli esiti negativi delle tre forme (rispettivamente il dispotismo, l’oligarchismo, la demagogia-anarchia).
(49) "[…] Cassirer deriva da Schelling, attraverso Bachofen (l’indagatore delle prime forme sociali di convivenza, l’assertore del mito come ‘sottosuolo’ della civiltà, come ‘rappresentazione delle esperienze delle razze alla luce della religiosità’, come, infine, vera realtà ‘interna’). È stato Cassirer a dire che vi sono forme di conoscenza non riducibili alla misurabilità (conoscenza scientifica), ma riducibili a simboli (lingua, arte, mito). Sarebbe difficile dire fino a che punto la teoria di Cassirer confini col sensismo e col misticismo. Essa ha avuto una influenza considerevole sul pensiero, specie tedesco, contemporaneo" (Curcio, Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul socialismo e sul liberalismo, con una introduzione intorno ai miti moderni ed una conclusione sull’utopia. Roma, Cremonese, XVIII [1940], pp. 20-21).
(50) Nella bibliografia, Curcio cita appunto (ibidem, p. 305): Cassirer, Philosophie der Symbolischen Formen. Berlin, 1923.
(51) Curcio, Miti della politica, cit., pp. 108 e ss.
(52) Ibidem, pp. 130n e ss.
(53) "Indubbiamente gl’ideali sui quali si basava la democrazia nel secolo XVIII (ideali in gran parte rimasti inalterati durante il secolo XIX) suscitarono un fascino notevole […]. In sostanza i capisaldi di questa [teoria], realizzata nelle dichiarazioni d’America e di Francia , promettevano all’umanità molti vantaggi, di carattere politico, sociale, sentimentale e pratico. Già l’idea stessa di uguaglianza civile e politica […]; e, soprattutto per quel che concerne la soppressione dei privilegi accordati a determinate categorie (nobiltà e clero), un progresso c’era e notevole. Poi l’ideale di giustizia, creduto realizzato in pieno; e, di conseguenza, quello del benessere e della felicità degli uomini. Liberi, uguali e sovrani tutti : questo il programma della democrazia, quale si rivelava dalle dichiarazioni del secolo XVIII. Una formidabile fede animava il mito. Che a mano a mano s’arricchiva di elementi che scaturivano dal dogma iniziale del popolo libero uguale sovrano" (Ibidem, pp. 90-91).
(54) Per la data, si veda il verso del frontespizio di Miti della politica., dove - inusualmente - si indica anche il giorno di edizione, appunto il 5 giugno 1940.
(55) "[…] Indubbiamente in quel gran moto di idee e di stati d’animo che sboccò nella rivoluzione francese è sorto il principio, universalmente valido ed accettato, della uguaglianza civile dei cittadini, reagendo ai privilegi di casta, ai soprusi, alle immunità, […]. Specialmente nel campo del diritto privato e della giustizia civile e penale quel principio […] ha avuto una efficacia considerevole per la civiltà moderna" (Ibidem, p. 102).
(56) "Altra cosa, tuttavia, è parlare di uguaglianza naturale, oltre quegli effetti civili. Purtroppo gli uomini non nascono tutti uguali, se non nel senso che la loro umanità è sempre rispettabile e rilevabile indifferentemente, ai sensi legali, dalle loro diseguaglianze fisiche, intellettuali e morali. Certo, la democrazia tenderebbe ad attenuare, idealmente, codeste differenze. Ma con quali mezzi?" (Ibidem, l.c.).
(57) Ibidem, pp. 102-103.
(58) "Non deve sorprendere, – precisa Curcio – dopo quel che s’è detto, sia pure in modo frammentario ed approssimativo, se s’arriva direttamente, discorrendo de’ miti, alla rivoluzione; ad uno dei suoi aspetti essenziali e quasi sempre necessari. Senza un grande mito una rivoluzione veramente degna di tal nome, innovatrice, radicale, profonda, sarebbe impossibile o quanto meno incompleta" (Ibidem, p. 52).
(59) "Ma qui ci si riferisce prevalentemente a queste ultime; le quali, quando fossero prive di miti diffusivi ed evidenti, o non sarebbero rivoluzioni vere e proprie, e cioè non sarebbero dirette ad intaccare dalle fondamenta le antiche istituzioni o, per la mancata partecipazione delle masse, sarebbero al massimo dei colpi di stato, delle rivoluzioni, come acutamente diceva Treitschke, dall’alto" (Ibidem, p. 53).
(60) "Una rivoluzione, qualunque e comunque sia, può essere ispirata a motivi logici, a fattori perfettamente giustificati dalla ragione; ma non può non diventare, almeno in parte, per taluni suoi elementi ed aspetti, mitica. Nulla di più razionale guidava la rivoluzione francese, che la ragione proprio esaltò e portò sugli altari; eppure la rivoluzione diventò popolare ed universale quando si mitizzarono e ragione e libertà, e diritti e uguaglianza" (Ibidem, l.c.).
(61) "I filosofi che elaborarono quei motivi disdegnavano i miti; eppure, se quelle idee non fossero divenute miti non ci sarebbe stato né l’ 89, né il resto" (Ibidem, l.c.).
(62) "[…] I miti, che superano il confine dell’individuo o della categoria, che abbracciano sentimenti e fedi di moltitudini nazionali, e che per la ricchezza del loro contenuto rivelano l’umana sostanza spirituale degli uomini, sono i meravigliosi strumenti dei quali la Provvidenza si serve per conseguire nella storia i suoi civili fini di elevamento, di giustizia, di ordine" (Ibidem, p. 55).
(63) Curcio, [S.v.:] Rivoluzione fascista, in: Plures, Dizionario di politica. A cura del Partito Nazionale Fascista. Vol. IV. R/Z. Roma, Istituto della Enciclopedia italiana. Anno XVIII E.F. [1940], p. 88.
(64) "Frattura, dunque, la rivoluzione fascista; ma frattura che, pur distaccando un periodo di storia da un altro precedente è piuttosto una ripresa; reazione a determinate forme di decadenza" (Ibidem, l.c.).
(65) "La rivoluzione senza dubbio innova, segna l’inizio di un tempo diverso, ma, come sempre è avvenuto, si riporta a taluni caratteri inalterabili della nazione, che proprio per questa sua costante vitalità e perennità è davvero nazione e grande nazione" (Ibidem, l.c.).
(66) "Che la rivoluzione avesse dovuto e dovesse mirare a creare non solo istituti e leggi ed opere più rispondenti alle esigenze degl’italiani ed ai fini politici sociali e civili che il fascismo segnava alla nazione; ma soprattutto creare una coscienza di quei fini, un ideale vasto e diffuso onde proprio quegli stessi fini si giustificassero, anzi scaturissero, è per più ragioni evidente" (Ibidem, p. 102).
(67) "Insomma la rivoluzione doveva e voleva penetrare negli spiriti e nelle coscienze, essere in primo luogo una trasformazione dei modi di concepire vita e mondo e cioè una trasformazione della civiltà" (Ibidem, l.c.).
(68) "D’altro lato la rivoluzione, anche nelle sue origini, non aveva mai tradito, nonostante talune sue apparenze pragmatistiche, un intimo contenuto tutto ideale, una sua fede, che si richiamava alle coscienze degli Italiani; e che nelle stesse sue manifestazioni tipiche rivelava motivi quasi trascendenti o mitici, che tuttavia non s’esaurivano nel richiamo di valori tradizionali, ma s’esprimevano come mentalità di quegli Italiani e soprattutto delle nuove generazioni" (Ibidem, l.c.).
(69) Il cui testo poi apparve sotto forma di un lungo saggio sulla rivista ‘Storia e politica’, dell’Istituto di Studi storici e politici della romana Facoltà di Scienze politiche della Sapienza. Si veda: ID., Idee politiche nella rivoluzione francese, ‘Storia e politica’, IV, 1965, fasc. II (aprile-giugno), pp. 169-215.
(70) "[…] Basti dare uno sguardo agli ultimi due volumi di bibliografia del Martin e del Walter in appendice al Catalogue de l’histoire de la révolution française per averne la conferma […]" (ibidem, p. 170). Si tratta di: André MARTIN – Gérard WALTER, Bibliothèque nationale. Catalogue de l’histoire de la Révolution française, Paris, Bibliothèque nationale, 1936-43, vol. 1-6.
(71) G. Del Vecchio, La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nella Rivoluzione francese. Genova, Tipografia della gioventù, 1903.
(72) Curcio, Idee politiche nella rivoluzione francese, cit., p. 170.
(73) Ibidem, p. 170.
(74) Ibidem, l.c.
(75) Ibidem, p. 171.
(76) Jean Joseph Mounier, De l’influence attribuée aux philosophes, aux francs-maçons et aux illuminés sur la révolution de France. Tubingen, chez J. G. Cotta, 1801.
(77) "Ecco – dice qui Curcio - quel che si vuol qui prospettare, in brevi tratti, sommariamente: quali idee politiche animarono gli uomini della rivoluzione, quale sostrato dottrinario (o pseudo-dottrinario) ebbero le loro iniziative, quale la loro posizione di fronte alle grandi teoriche precedenti ed alla filosofia politica in sé e per sé" (Curcio, Idee politiche nella rivoluzione francese, cit., p. 171).
(78) Ibidem, l.c.
(79) "Anche qui, a voler fare questioni di metodo s’andrebbe lontano. Basterà dire che – a parte una problematica puramente speculativa, di fondamentale importanza, del resto – bisogna identificare le idee politiche efficaci, capaci di fecondare nuovi istituti, di dare la spinta a nuovi problemi, di migliorare la condizione umana, là dove si trovano" (Ibidem, p. 172).
(80) "La rivoluzione francese non ebbe un vero teorico, nessuna grande rivoluzione è sortita dal cervello di un filosofo o comunque di un dottrinario (anche la rivoluzione sovietica, che è stata la più ideologica delle rivoluzioni, è sorta e si è sviluppata ad opera di interpreti non sempre ortodossi delle teoriche marxiste)" (Ibidem, l.c.).
(81) Ibidem, p. 169.
(82) Ibidem, l.c.
(83) "Non tutto era nuovo nella predicazione rivoluzionaria di Sieyès e quel ch’era nuovo o appariva tale non sempre aveva una sua logica, non sempre era limpido ed evidente. Ma non si può negare che la rivoluzione ebbe anche da lui una caratterizzazione ideologica assai rilevante. Egli ebbe la coscienza, come del resto, l’ebbero quasi tutti i suoi compagni di lotta, di operare una rottura nella storia degli istituti e fors’ anche delle idee" (Ibidem, p. 194).
(84) Ibidem, pp. 172-173.
(85) "Dei protagonisti della rivoluzione, colui i cui interessi culturali furono più lontani dall’89 bisogna dire che sia stato Marat. Tra 1760 e 1774 pubblicò a Londra alcuni opuscoli, dei quali il più notevole è quello intitolato Les chaînes de l’esclavage. Nel 1778 pubblicò il Plan de législation criminelle. Mentre fervevano i preparativi per la convocazione degli Stati generali scrisse quell’ Offrande à la patrie ancora di sapore legittimista" (Ibidem, p. 173).
(86) Ibidem, p. 174.
(87) Ibidem, l.c.
(88) Ibidem, p. 175.
(89) Opera, quest’ultima, in cui faceva sua la critica argomentata negli Stati Uniti, soprattutto da Aedanus Burke, per aver concepito (da parte di Washington e di altri alti ufficiali delle guerre di indipendenza) un ordine nobiliare dalle implicazioni ereditarie, dunque poco adatto ad un sistema di eguaglianza repubblicana.
(90) Ibidem, l.c.
(91) "Molte volte [Mirabeau] accennò alla triste condizione degli uomini, assetati, diceva, di giustizia, bisognosi di aiuto. Due condizioni poneva acché la rigenerazione civile dell’umanità si compisse: una di carattere morale e religiosa, un’altra di carattere istituzionale. Voleva imprimere negli uomini un altro carattere, un’altra coscienza. Faceva colpa al cristianesimo di aver dato all’umanità una direzione diversa da quella impressa dagli antichi, quando c’era il senso della gloria, al servizio della patria" (Ibidem, p. 177).
(92) Ibidem, p. 178.
(93) Ibidem, pp. 178-179.
(94) In tutta questa parte, Curcio si riferisce evidentemente al discorso di Robespierre intitolato Sur les rapports des idées religieuses avec les principes républicains (18 floréal an II=7 mai 1794), ora in: Maximilien Robespierre, Discours et rapports, avec une introduction et des notes par Charles Vellay. Paris, Librairie Charpentier et Fasquelle, 1908, pp. 346 e ss.
(95) Curcio, Idee politiche nella rivoluzione francese, cit., pp. 180-181. Qui comunque Curcio non riporta esattamente l’insieme di distinzioni operate invece da Robespierre, il quale considera partitamene: gli enciclopedisti, i philosophes , i settari. Categoria quest’ultima che lo stesso Robespierre considera molto variegata e composita: intanto, nel senso di una trasversalità latomistica fra enciclopedisti e philosophes (in una sorta di settarismo filosofico, progressista, ottimista, razionalista ed ateo, che qui l’Incorruttibile definisce come la setta "plus puissante et plus illustre", quella conosciuta "sous le nom d’encyclopédistes", alla quale, del resto, lo stesso Robespierre qui riconduce anche i philosophes); ed inoltre, nel senso dell’individuazione di un contrapposto settarismo ‘tradizionalista’, ‘bigotto’ e reazionario, che "défendait bêtement le clergé et le despotisme" (Robespierre, Sur les rapports des idées religieuses avec les principes républicains, cit., p. 364).
(96) Un ordine, questo suo, che si sarebbe configurato come una restaurazione, come la riaffermazione di un’etica sociale che i philosophes avevano considerata superata e retriva, attirandosi le critiche dello stesso Rousseau. Un ordine che rappresentava non solo qualcosa in più di quanto aveva detto Rousseau, ma anche costituiva qualcosa in meno rispetto alla distinzione di Montesquieu dei diversi fondamenti di legittimità dei tre tradizionali modelli politici (ossia non solo la repubblica democratica, ma anche la monarchia e la repubblica aristocratica). Un ordine, infine, che proprio per i suoi presupposti etici sarebbe dispiaciuto soprattutto agli avversari di Robespierre, che ne decisero la morte proprio per un suo residuo di spirito religioso, per questa sua predicata etica civile.
(97) Curcio, Idee politiche nella rivoluzione francese, cit., p. 181.
(98) Ibidem, l.c. Anche qui Curcio interpola in diverso modo il suddetto rapporto, come si vede da quanto effettivamente è detto in Robespierre. "Parmi ceux qui, du temps dont je parle, se signalèrent dans la carrière des lettres et de la philosophie, un homme, par l’élévation de son âme et par la grandeur de son caractère, se montra digne du ministère de précepteur du genre humain. Il attaqua la tirannie avec franchise; il parla avec enthousiasme de la divinitè; […] son éloquence […] défendit ces dogmes consolateurs que la raison donne pour appui au coeur humain […]. Ah! S’il avait été témoin de cette révolution dont il fut le précurseur […]"(Robespierre, Op. cit., p. 365).
(99) Curcio, Idee politiche nella rivoluzione francese, cit., p. 181. Analogamente, si veda il seguente luogo: "[…] Il résulte du même principe qu’on ne doit jamais attaquer un culte établi qu’avec prudence et avec une certaine délicatesse, de peur qu’un changement subit et violent ne paraisse une attente porté à la morale […]. Au reste, celui qui peut remplacer la Divinité dans le système de la vie sociale est à mes yeux un prodige de génie; celui qui, sans l’avoir remplacée, ne songe qu’à la bannir de l’esprit des hommes me paraît un prodige de stupidité ou de perversité" (Robespierre, Op. cit., p. 362).
(100) Curcio, Idee politiche nella rivoluzione francese, cit., p. 181
(101) "Che cosa intendeva - Robespierre - per democrazia, per governo popolare, per popolo? Sarebbe difficile, e in ogni caso azzardato , costruire, cucendo brano con brano, frase con frase, una teoria chicchessia […]. Parlava di diritti dell’uomo, del cittadino. Nel discorso del 9 maggio del 1791, sul diritto di petizione, disse che i diritti imprescrittibili di ogni cittadino derivavano dalla natura – da quella natura che riteneva avesse fatto tutti gli uomini buoni. Parlava anche di rappresentanza popolare, alla quale voleva si conferisse un carattere sacro. Riteneva possibile ed anzi lecito e necessario che ogni essere, collettivo o no, avesse il diritto di esprimere la propria opinione, nelle forme prescritte dalla legge" (Ibidem, pp. 181-182).
(102) "[…] Eppure sarebbe ingiusto giudicare Sieyès del tutto negativamente. Dei diritti rivendicò, facendo tesoro della tradizione illuministica, quello dell’istruzione per tutti, al fine di creare una coscienza civile e politica; e – forse rifacendosi a un cenno di Montesquieu – quello dell’assistenza (ignorata del tutto nella Dichiarzione dei diritti del 1789 e indicata in quella del 1793). Tra le libertà ebbe particolarmente care quella di pensiero e quella di lavoro" (Ibidem, p. 194).
(103) "[…] Bisogna apprezzare di lui l’identificazione che fece nel privilegio di una delle cause essenziali dell’ingiustizia civile e sociale; e l’identificazione, nonostante talune incongruenze, di un senso unitario dello Stato e della nazione, considerati nella loro sostanza operosa e fattiva" (Ibidem, l.c.).
(104) Ibidem, p. 182.
(105) "[…] E che dire del sostanziale contrasto tra le spoliazioni e le confische da un lato e la concezione della proprietà esposta in un altro celebre discorso, quello del 24 aprile 1793? Proprio qui, in questo discorso, può trovarsi la spiegazione di quel contrasto. Robespierre attaccò con l’irruenza di cui era capace i mercanti di carne umana, per i quali la proprietà era considerata senza morale. Voleva la proprietà, ma in altro modo da quello fin lì tenuto e legittimo. Si dichiarò contro la eguaglianza dei beni. La chiamò una chimera, soggiungendo che la riteneva meno necessaria alla felicità privata che a quella pubblica. Negò che la proprietà fosse un diritto naturale: doveva essere un diritto regolato dalla legge. Che cos’era stata la proprietà fin’allora? Uno strumento di oppressione. Bisognava farne un mezzo pacifico di convivenza, renderla incapace di limitare la libertà e la esistenza stessa di coloro che ne fossero privi" (Ibidem, p. 183).
(106) "Anche Vergniaud combatté la concezione geometrica della politica. Rifiutava il razionalismo, notava che bisognava fondare la società e lo Stato sulla passioni" (Ibidem, p. 185).
(107) Ibidem, l.c.
(108) Ibidem, l.c.
(109) "Anche Saint-Just, come Robespierre, faceva della virtù una leva importante per l’instaurazione di un mondo migliore. Nell’ Esprit de la révolution si chiedeva: a che porta la rivoluzione? […] Il re di Francia di che cosa s’era essenzialmente macchiato? Di aver oltraggiato la virtù, diceva nel discorso del 27 dicembre 1792. I costumi s’erano guastati, il pudore […] aveva cominciato ad arrossire dopo che il cuore s’era reso colpevole e i governanti s’erano indeboliti. Lo spirito umano vedeva affievolito, ammalato. […] Tutta questa generazione di rigoristi, di supermoralisti attingeva, e non sempre opportunamente e a proposito, a piene mani dalla cultura greca e romana" (Ibidem, pp. 188-189).
(110) "Saint-Just assai spesso parlando della libertà o d’altro tirava fuori esempi o nomi dell’antichità classica. Nel discorso che fece per difendere Robespierre disse fra l’altro: Demostene fu un tiranno? Ebbene, se lo fu, la sua tirannia salvò per molto tempo la libertà della Grecia. Marx rilevò acutamente non solo siffatte evocazioni, ma il loro significato, in una pagina del suo 18 brumaio di Luigi Bonaparte" (Ibidem, p. 189).
(111) "In un discorso sulla polizia, la guerra, la giustizia, il commercio, indicava le virtù che, a suo parere, si sarebbero dovute imporre ai cittadini: la probità, il rispetto per la libertà, per la natura e per i diritti dell’uomo. Anche perciò pensava che l’educazione avrebbe dovuto essere compito dello Stato: appartenendo i fanciulli alla patria, essi avrebbero dovuto aver una adeguata formazione. A questo proposito nelle Institutions républicaines diceva che la patria non è il suolo, ma è l’istruzione" (Ibidem, p. 188).
(112) Si veda quanto detto a questo proposito, qui supra, relativamente alla "carica dottrinaria che gli uomini più significativi della rivoluzione posero nella loro azione"(ibidem, p. 170)
(113) Anche a questo riguardo, si vedano le indicazioni della nota precedente.
(114) "[…] On dit que la terreur était le ressort du gouvernement despotique. Le vôtre ressemble-t-il donc au despotisme? Oui, comme la glaive qui brille dans les mains des héros de la liberté ressemble à celui dont les satellites de la tirannie sont armés. Que le despote gouverne par la terreur ses sujets abrutis; il a raison, comme despote; domptez par la terreur les ennemis de la liberté; et vous aurez raison, comme fondateurs de la République. Le gouvernement de la Révolution est le despotisme de la liberté contre la tirannie" (ROBESPIERRE, Rapport sur les principes de la morale politique qui doivent guider la Convention (18 Pluviôse an II = 5 février 1794), in: ID., Discours et rapports, cit. , pp. 332-333).
(115) Invece Rousseau dice proprio il contrario: "Afin donc que le pacte social ne soit pas un vain formulaire, il renferme tacitement cet engagement, qui seul peut donner de la force aux autres, que quiconque refusera d’obéir à la volonté générale y sera contraint par tout le corps: ce qui ne signifie autre chose sinon qu’on le forcera d’être libre; car telle est la condition qui donnant chaque Citoyen à la Patrie le garantit de toute dépendance personnelle […]"(Jean Jacques Rousseau, Du Contract social, ou principes du droit politique, À Amsterdam, chez Marc Michel Rey, 1762, p. 22).
(116) Curcio, Idee politiche nella rivoluzione francese, cit., p. 182.
(117) "C’era, crediamo di poter dire, un Robespierre impegnato fino in fondo a realizzare un suo programma, a realizzarlo a qualunque costo, e c’era un Robespierre che delineava un altro programma, un programma per il futuro, allorché fosse stata superata la fase di rottura, la fase iniziale della rivoluzione. Qui, la violenza, la ghigliottina, la dittatura; lì la virtù, la calma, l’impero della giustizia. Come spiegare altrimenti l’opposizione di Robespierre alla proposta di codificare la pena di morte? Nel discorso del 30 maggio 1791 diceva che non bisognava mettere la collera e la vendetta al posto di una severità calma, moderata; e che non si doveva far scorrere sangue umano" (Ibidem, pp. 182-183).
(118) Ibidem, pp. 183-184.
(119) "[…] S’il y avoit un peuple de Dieux, il se gouverneroit démocratiquement. Un Gouvernement si parfait ne convient pas à des hommes" (Rousseau, Op. cit., p. 87).
(120) Qui la citazione è relativa al lunghissimo Discours du 8 Thermidor an II (in realtà corrispondente non all’8 ma al 26 luglio 1794), dove alle prime righe si legge appunto: "Citoyens […] je vais défendre devant vous votre autorité outragée et la liberté violée. […] Les cris de l’innocence outragée n’importunent point votre oreille, et vous n’ignorez pas que cette cause ne vous est point point étrangère. […] La révolution française est la première qui ait été fonde sur la théorie des droits de l’humanité, et sur les principes de la justice. Les autres révolutions n’exigeaient que de l’ambition; la nôtre impose des vertus. L’ignorance et la force les ont absorbées dans un despotisme nouveau : la nôtre, émanée de la justice, ne peut se reposer que dans son sein" (ROBESPIERRE, Discours du 8 Thermidor, in: ID., Discours et rapports, pp. 382).
(121) Curcio, Idee politiche nella rivoluzione francese, cit., p. 184.
(122) Ibidem, l.c.
(123) Ibidem, p. 195.
(124) Ibidem, p. 196.
(125) "Perché fin lì non si era avuta una società adeguata ai suoi fini, l’eguaglianza, il soddisfacimento dei diritti naturali, la libertà? Perché v’era stato oscurantismo, perché era stato ostacolato il progresso della ragione. Nelle Lettres d’un citoyen des Etats-Unis à un francais teneva a chiarire proprio questo, che […] sans lumièrs non ci sono né godimento di diritti, né libertà" (Ibidem, l.c.).
(126) Ibidem, l.c.
(127) Ibidem, p. 197.
(128) Ibidem, l.c.
(129) "Nelle Lettres d’un gentilhomme à monsieurs du thiers état [Condorcet] rilevava esattamente questa carenza che v’era nei rappresentanti del terzo stato: una carenza di istruzione, di educazione, non solo per non aver avuto essi mezzi sufficienti per darsi una istruzione, ma anche per la diversità della loro provenienza – erano impiegati statali, agenti del fisco, fattori […]. La borghesia aveva bisogno di rappresentanti migliori" (Ibidem, p. 198.)
(130) Ibidem, l.c.
(131) Ibidem, l.c.
(132) "A che cosa mirava specialmente il pensiero di Condorcet? A sradicare la schiavitù dalle istituzioni, dai costumi, dalle opinioni pigre dell’umanità. Nelle Refléxions sur l’esclavage, che sono del 1781, codesto anelito ad una totale liberazione degli uomini incatenati è già evidente, anzi angoscioso. Le conseguenze erano molte e radicali. Toccavano innanzi tutto la condizione della donna, da sottrarre alla soggezione degli uomini. Condorcet non parlava di una parità assoluta dei sessi, vi poneva qualche limite; tuttavia era già importante la precisa richiesta di una modificazione sostanziale della situazione politica e sociale della donna. Eguaglianza anche per i popoli, per le razze. Libertà di coscienza, poi: anche questa era una conseguenza della libertà riconquistata. E citava, a questo proposito, l’America" (Ibidem, p. 199).
(133) "L’Esquisse d’un tableau hsitorique des progrès de l’esprit humain riassume e conclude il tormentoso cammino del pensiero di Condorcet: qui, con una certezza ammirevole, egli indicò gli errori e le conquiste dell’umanità, il valore delle passioni e della ragione, dei vizi e della scienza nel corso della storia umana" (Ibidem, p. 200).
(134) "Gli uomini, dunque, liberati da ogni catena, avrebbero riscattato tutti i loro diritti, la società sarebbe stata purificata dai tiranni, le istituzioni tutte, politiche, sociali, culturali, poste al servizio del bene, della ragione, della felicità degli uomini. Padroni della loro ragione, scriveva, gli uomini si sarebbero sentiti liberi da despoti e da preti; alle massime che indeboliscono, soggiungeva, le facoltà umane (i precetti della religione cattolica) si sarebbero sostituite quelle che ne favoriscono l’energia e l’azione. E le nazioni si saranno ravvicinate e si sentiranno tutte eguali e il rispetto per l’indipendenza di ciascuna di esse, così come dei singoli individui, sarà sovrano e sul globo non resterà spazio inaccessibile ai lumi…" (Ibidem, p. 201).
(135) "[…] Quel che la nuova epoca stava per apportare, e che egli vedeva non già come un profeta, ma come un veggente, e cioè nei dettagli, come se l’avesse sotto gli occhi […] questo [era] il disegno ambizioso che l’ideologia del progresso suggeriva a colui che compendiava le aspirazioni, gli ideali politici e sociali dell’illuminismo. Era l’atto di nascita non solo di un mito allucinante, il mito dell’ascesa dell’umanità verso le vette più alte del suo destino, per la sua felicità, il suo benessere, ma altresì del protagonista di codesta conquista fatale, e cioè il borghese. Cominciava allora, in maniera assai più precisa dei decenni precedenti, l’era della corsa al guadagno, al predominio di un altro despota, quello delle imprese economiche, degli affari, del denaro. Una radicale scristianizzazione della concezione politica portava a questo. Giusto, senza dubbio, il principio fondamentale della lotta per l’eguaglianza e la libertà; ma esso, così come era concepito, portava ad un’altra diseguaglianza e, certo, a un’altra schiavitù" (Ibidem, l.c.).
(136) Ibidem, p. 203.
(137) Ibidem, p. 202.
(138) Ibidem, p. 203.
(139) Ibidem, l.c.
(140) Ibidem, l.c.
(141) "Una storia dell’influenza roussoiana, però, più che tener conto delle apparenze, dovrebbe mirare alla sostanza e cioè alla effettiva partecipazione degli uomini della rivoluzione, prima e dopo gli eventi dell’89, alle teorie di Gian Giacomo. Un tema suggestivo potrebbe essere quello della natura. Furono in molti a parlar di natura, e non solo come madre dei nostri sentimenti, ma come legge regolatrice delle azioni umane, come norma di giustizia, di rapporti" (Ibidem, p. 205).
(142) "In lontananza talvolta s’udivano echi fisiocratici; ma non solo poemi – come l’Etude de la nature di Fabre d’Eglantine – e varia letteratura - come quella di Bernardino di Saint-Pierre, grande ammiratore di Gian Giacomo, […] ma anche idee e teorie di molti protagonisti della rivoluzione erano fondate sulla natura come madre generosa e sublime, quella natura che Robespierre scriveva con la iniziale maiuscola. Saint-Just e Mirabeau parlavano di natura con tono quasi religioso; Vergniaud, allorché si diè a difendere le razze di colore, lo fece in nome della Natura; Hércule de Séchelles, sul ‘Moniteur universel’ del 12 agosto 1793, diceva che tutto quello che la rivoluzione voleva - eguaglianza, libertà, leggi - stava nella Natura […]" (Ibidem, l.c.).
(143) Ibidem, pp. 205-206.
(144) Ibidem, p. 207.
(145) Ibidem, pp. 208-209.
(146) "Abati, curati, che come Fauchet e Doliver cercarono di conciliare il Vangelo con la rivoluzione […]. Religiosi che predicavano riforme radicali, in nome del Vangelo. La più sonora di queste voci fu quella di Fauchet, autore di uno scritto intitolato La religion nationale […]. E moralizzazione, ovunque: condannare i blasfemi, tener chiuse le macellerie nei giorni di digiuno, proibire ai protestanti di esercitare il culto pubblicamente […]. La rivoluzione fu carica di moralismo. Moissel criticava con molto vigore l’utilitarismo su cui si erano fondati i rapporti sociali […]. Doliver […] in nome del diritto naturale chiedeva che in certe circostanze si proibisse di ottenere col denaro il necessario alla vita. […] La verità è che spunti di comunitarismo stanno nei Padri della Chiesa e non c’è bisogno di scomodare Rousseau per giustificare la presenza di enragés religiosi. La storia è piena di teoriche avanzatissime desunte dal vangelo" (Ibidem, pp. 209-211).
(147) Ibidem, p. 211.
(148) "Ma non solo codesti religiosi parlavano di diritto naturale. Proprio questo tipo di letteratura sociale scaturito dalla rivoluzione francese può offrire le prove degli equivoci che l’idea di diritto naturale ha suscitato allora e non solo allora. Da quale natura si volevano far scaturire i nuovi diritti di giustizia, di eguaglianza, di umanità? Da quella che il Dio rivelato ha creato per gli uomini, o quella che nasce da sé, che è natura sottoposta alle sole leggi fisiche dell’universo?" (Ibidem, l.c.).
(149) Ibidem, l.c.
(150) Ibidem, pp. 211-212.
(151) Ibidem, p. 212.
(152) Ibidem, l.c.
(153) "Sembrava una conquista, sembrava la liberazione dell’uomo, dei lavoratori, dalla coercizione e dall’oppressione esercitate dalle coalizioni. […] S’era certi che, liberata la nazione da ogni forma di dispotismo, i salari sarebbero aumentati e le condizioni di lavoro medesime migliorate. E, però, veniva riconosciuto allo Stato il dovere di prendersi cura dei poveri, di assisterli, scaturendo dalla dichiarazione dei diritti anche un diritto per i cittadini all’esistenza. […] Su di un piano meno sonoro degli altri la rivoluzione si fece interprete di questi bisogni. Marat […] fu molto esplicito su questo argomento" (Ibidem, p. 213).
(154) "Una carica di socialità avevano altresì i sentimenti, e diciamo pure gli ideali, umanitari che animarono e mossero non solo filantropi come Anacharsis Clootz e l’abate Grégoire, ma anche, come si è accennato, filosofi come Condorcet e Brissot. Se l’abate Grégoire proponeva una dichiarazione universale dei diritti delle genti e se Anacharsis Clootz proponeva una repubblica universale, una nazione unica […], Condorcet e Brissot si batterono per ottenere riforme più concrete e immediate, come l’estensione dei diritti delle colonie e la lotta contro la schiavitù. I conservatori fremettero: all’Assemblea, Dillon e Malouet prounciarono discorsi fortemente contrari. […] Ma, benché la critica al colonialismo fosse già antica, si deve a Brissot e Condorcet se l’idea di una riabilitazione dei negri poté cominciare ad avere un contenuto non solo patetico e generico, ma concreto, ricco di prospettive" (Ibidem, p. 214).
(155) "[…] Anche l’idea d’Europa, sia pure in sordina, acquistò una carica più viva di realtà politica. Antica, quell’idea; l’illuminismo e tutto il Settecento l’avevano riscaldata con il loro entusiasmo; ma la rivoluzione intuì che c’era una solidarietà delle genti europee, che le teorie rivoluzionarie avrebbero rafforzato, resa veramente salda" (Ibidem, l.c.).
(156) "[…] E, anche qui, apparente contraddizione, accanto a codeste idee che slargavano i rapporti tra le genti, altre idee sembravano, invece, restringere l’area di quei rapporti. L’idea di nazione, già adombrata nel Settecento, si riproponeva non solo come una entità genericamente unitaria, compatta – la nazione francese! – ma come una formazione politica ben individuata e distinta, la vera sede della sovranità" (Ibidem, pp. 214-215).
(157) "[…] Meglio definita l’idea di autodecisione dei popoli, che ora si fa risalire a Martin de Douai e a Lazare Carnot, il quale nelle istruzioni redatte nel 1792 a nome del Comitato di Salute pubblica avvertiva che, appartenendo la sovranità ad ogni singolo popolo, non avrebbe potuto aversi comunità o riunione di genti senza l’espresso consenso di queste" (Ibidem, p. 215).
(158) Ibidem, l.c.
(159) Ibidem, l.c.
(160) Ibidem, l.c.
(161) Ibidem, l.c.
(162) "[Kant] considerò la Costituzione, che chiamò repubblicana. (nel senso che il popolo tutto fosse l’artefice del diritto cui obbedire), come l’espressione dell’impero del diritto naturale, della ragione, della libertà" (Ibidem, l.c.).
Parte Prima - Note a margine della concezione filosofico-politica negli anni 1924-30
I. Un decennio decisivo (1924-33).
Nel riproporre il valore ed il complesso significato dell’opera di Carlo Curcio dopo un lungo ed immeritato oblìo, reitero il convincimento che questa sua magistrale interpretazione delle vicende storiche della nostra nazione, in certa misura esemplari della stessa crisi della politica dell’Occidente nel Novecento, possa essere apprezzata pienamente solo attraverso due diversi registri interpretativi.
Penso infatti che la sua attività di pubblicista, la sua prosa evocativa di incisive immagini, ma anche pervasa da troppo rapide sintesi, siano qualcosa che richiede una specifica trattazione analitica. E del resto, si tratta qui di altrettanti mezzi espressivi con cui Curcio riesce, malgrado tutto, ad infrangere la vuota forma retorica dell’ideologia di quel Regime a cui non desiste, dal 1930, dal riproporre la critica per un’occasione mancata di operare una ‘rivoluzione’ promessa ed ormai chiaramente tradita. A questa ‘residua’ progettualità rivoluzionaria peraltro Curcio continuerà a professare, almeno fino al 1940, un ossequio non meramente fideistico e certamente non formale.
Su di un ben diverso versante si staglia invece la sua riflessione di maggior momento, che ci mostra la traccia di una sua geniale indagine nei penetrali della filosofia del diritto, della storia delle dottrine politiche, non senza una qualche incisiva anticipazione di formule oggi dominanti nella pretesa di una ‘scienza’ razionale ed oggettiva, con cui si vorrebbe afferrare la dinamica sostanza della politica.
A questo secondo aspetto della sua opera ho dedicato uno precedente studio, gentilmente pubblicatomi sugli Annali di Storia moderna e contemporanea, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dall’amico Cesare Mozzarelli, purtroppo prematuramente scomparso ed a cui qui rivolgo il riconoscente e commosso ricordo(1).
Tuttavia, una seconda occasione per affrontare questi quesiti, forse non solo per me tanto impegnativi, è stata una più recente relazione, presentata per la giornata di studio sulla figura di Curcio, organizzata dall’Istituto ‘Luigi Sturzo’ il 20 novembre 2003. In quest’ultima occasione, ho inteso evidenziare una sorta di ‘filo rosso’ nella teoria filosofico-politica di Curcio, che si ‘sdipana’ attorno all’idea di ‘rivoluzione’, una rivoluzione però da intendersi come ‘rivoluzione per la continuità’, il cui significato costituisce il vero sostrato argomentativo dell’intero fulcro della sua concezione storica e politica.
Qui, adesso, inizio, dunque, con l’indicare le motivazioni dei limiti temporali del presente scritto e della decisione di dargli un taglio eminentemente cronologico e bibliografico. Comincio da quest’ultimo aspetto, precisando che la gran quantità di scritti di Curcio (del resto non solo nel periodo in esame), il complesso intreccio delle sue collaborazioni a differenti giornali e riviste, la produzione di più ampio respiro nelle sue numerose monografie, costituiscono a mio avviso un tale intreccio di argomentazioni e di diversissimi criteri di indagine da richiedere, comunque, una preliminare, e non sempre facile, definizione quanto meno cronologico-bibliografica.
I limiti temporali sono qui dati dal terminus a quo rappresentato dal 1924 (anno dell’inizio della sua militanza ideologica su ‘Critica fascista’) e dal terminus ad quem del 1934, l’anno in cui Curcio sostanzialmente rifluisce sulla storia del pensiero politico, a tratti sulla ‘scienza politica’ (allora ai primordi) e soprattutto sulle dottrine politiche. Seguendo queste diverse direzioni, Curcio gradualmente si allinea al tema risorgimentale della ‘tradizione italiana’, comunque in maniera originale sviluppando la ricerca di una continuità, dall’epoca ‘romana’ della fondazione di un geniale ordine etico-giuridico all’orma profonda che lungo tutto l’arco del faticoso recupero del suo significato si compie, fra medioevo ed epoca moderna.
A questa ‘scuola italiana’ Curcio attribuisce la funzione di fulcro di ideali ‘repubblicani’, incentrati sulla rivendicazione delle autonomie, sul recupero della pluralità di ordinamenti giuridici all’interno di una necessaria unitarietà politica. Dunque è questo il volto del processo di cui Curcio indica una continuità (malgrado le molte cesure subìte) di ideali e di programmi d’azione : dalla romanità, all’ Impero ‘romano-germanico’ e da qui alla rivendicazione di libertà nazionale, latina, italiana (dapprima per lo ‘Stato-città’, o ‘Stato-regione’, poi per la nazione).
Nell’immediato prosieguo della sua riflessione - della metà, circa, degli anni Trenta - Curcio amplia poi lo sguardo su molte altre dimensioni della storia e della politica, giungendo, fra l’altro, a considerare l’importanza di fattori pre-logici, di elementi ‘meta-razionali’ e non pertanto meno decisivi per la politica. Da qui, riprendendo suggestioni soreliane, paretiane e soprattutto delle teorie di Cassirer, la genesi del suo studio sui ‘miti politici’, del 1940(2). Ma anche, e soprattutto - accentuata dai tragici rovesci delle sue speranze di pace e di armonico ordine internazionale - l’attenzione di Curcio per il pensiero ‘utopico’, per i pur generosi sogni di una ‘ritrovata’ armonia fra le nazioni d’Europa. Tema a lui familiare e caro da tanti anni, che particolarmente riassume una precisa incidenza nella sua riflessione alla fine del secondo conflitto mondiale, nella riproposizione dei progetti di pace ‘perpetua’ del Saint-Pierre, di Rousseau e di Kant, da questi autori formulati in un analogo clima ‘post-bellico’, negli echi di inenarrabili tragedie ed aberrazioni(3).
Infine, la sua grande opera, nel 1958, Europa. Storia di un’idea, in due ponderosi volumi editi da Vallecchi nel 1958, in quella Firenze in cui Curcio svolge la seconda e conclusiva esperienza di docente universitario alla ‘Cesare Alfieri’, allora prestigiosa Facoltà di Scienze Politiche. Né con questo, non si può dire che fossero ora del tutto cancellati e scomparsi i suoi interessi per l’idea di nazione, per l’ideale ‘nazionalitario’, distinto e contrapposto ai trascorsi, tragici deliri del nazionalismo esasperato. Tutt’altro. Lungo tutto l’arco della sua produzione post-bellica, Curcio raffronta incessantemente il diritto di ‘autodecisione dei popoli’, la volontà di ogni nazione di darsi proprie strutture politiche indipendenti, alla necessità di realizzare pienamente le condizioni per la garanzia dei diritti universali, indicando, peraltro, il luogo ottimale di questa contestuale rivendicazione nell’Europa. Tutti aspetti sui quali vorrei soffermare questa mia rievocazione nell’immediato nelle pagine che seguono, non senza ripropormi ulteriori ricerche.
II. La militanza politica e la ‘vexata quaestio’ del corporativismo: la collaborazione a ‘Critica fascista’ (1924-30).
Riguardo ai limiti non solo cronologici della presente rievocazione, e precisamente alle motivazioni di una tale delimitazione fra il 1924-34, va qui sottolineato che sono questi gli anni in cui si può cogliere in piena luce una decisa svolta di Curcio. Appunto dal piano puramente ideologico a quello dell’indagine filosofico-politica e filosofico-giuridica. Una svolta che si delinea proprio su due precisi versanti. Da un lato, con la collaborazione alle riviste ‘Critica Fascista’ (dal 1924) e ‘Lo Stato’ (dal 1930). E, dall’altro lato, con il salto di qualità che nel 1926 Curcio compie iniziando a collaborare alla prestigiosa ‘Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto’ [da qui in poi: ‘RIFD’](4).
Lo spazio delineato da questo intreccio fra linee di riflessione tanto diverse (definibile grosso modo come quella politico-ideologica e quella filosofico-giuridica) è del resto localizzabile nel periodo iniziale della presenza di Curcio nella Facoltà di Scienze politiche di Perugia, testimoniato soprattutto dalla prolusione, del 26 marzo 1928, al corso di Storia delle dottrine politiche, più tardi pubblicata con il titolo Il carattere storico del pensiero politico italiano.
Va subito precisato, e più volte dovrò ripetermi al riguardo, che questa svolta avviene contestualmente ad una persistente adesione formale al Regime, come si può constatare particolarmente sulle pagine di ‘Critica Fascista’ rispetto soprattutto alla ‘RIFD’. Sarà successivamente al 1929 che si avverte nei suoi scritti una graduale attenuazione delle tematiche ideologiche, con un immediato riflesso sul piano filosofico-politico. A partire specialmente dal 1930 la fase di attenuata intensità ideologica è visibile non solo in alcuni suoi importanti contributi sulla ‘RIFD’, ma anche nell’inizio della sua collaborazione alla rivista di Costamagna, ‘Lo Stato’.
E questo è un fatto che apre comunque alcuni interrogativi sui quali ci dovremo qui interrogare. L’aspetto che comunque dobbiamo adesso porre al centro della nostra analisi riguarda la profluvie di scritti su ‘Critica Fascista’. Troppo brevi composizioni, che il più delle volte non parrebbero aprire alcuno spazio alla riflessione critica(5), ma non di rado anche qui si accende una maggior ampiezza tematica, che, è pur vero, caratterizza soprattutto i lavori di maggior momento, a partire dalla ‘trilogia’ di articoli, del 1925, intitolata Il Mezzogiorno e la nuova politica nazionale(6). D’altronde, proprio questa del Mezzogiorno si pone al centro delle sue principali tematiche, come si può constatare in quello stesso intorno di anni, a cominciare dalla rivista ‘Sud’, in quello stesso anno 1927 in cui viene da lui fondata e diretta(7).
Un altro tema che lo impegna seriamente in quegli anni 1925-27 è quello del corporativismo, nella cui trattazione si coglie la crescente disillusione di Curcio, come si può vedere da diversi lavori, monografie, articoli su giornali e saggi su riviste: Le Classi nello Stato corporativo(8), Le funzioni extraeconomiche delle associazioni sindacali(9), L’extraeconomicità dei sindacati(10), La crisi e la trasformazione del diritto(11).
Testi dai quali in un crescendo di parole, frasi e formule si evince che, dietro le dichiarazioni ufficiali (in una sua pur formale ortodossia ideologica), il quesito del corporativismo occupa ancora seriamente Curcio, intensificandosi dal 1926, in una consapevolezza delle inadempienze del ‘fascismo-regime’.
In tale contesto, con Le funzioni extraeconomiche delle associazioni sindacali, si delinea una critica dell’idea della presenza nell’ordinamento statuale di una ‘pluralità di ordinamenti giuridici’ irriducibili all’assoluto primato dello Stato. Tesi invece sostenuta allora da Santi Romano e da Sergio Panunzio. In quel momento, proprio lo scrittore pugliese era impegnato in un duro confronto con Costamagna, il quale - recensendolo(12) - aveva attaccato le tesi contenute nel suo volume Lo Stato fascista(13), dove il vecchio sindacalista aveva a sua volta polemizzato con Alfredo Rocco e Oreste Ranelletti (sostenitori invece del primato dello Stato sui sindacati)(14).
Per inciso, va sottolineato che non a caso questo dibattito, a partire appunto dalla suddetta recensione di Costamagna, poteva avvenire sulla ‘RIFD’, che in quegli anni si stava imponendo come il vero ed unico luogo di una seria critica all’involuzione del movimento fascista in Regime(15). In questo dibattito Curcio intese inserirsi con il secondo dei due suddetti saggi del 1926 (Le funzioni extraeconomiche delle associazioni sindacali), sostenendo la necessità di raffrontare il significato dei sindacati alla vigente statuizione in materia (la legge del 3 aprile 1926), per la quale il conferimento della personalità giuridica alle associazioni professionali riguardava lo Stato. A questa interpretazione, a sua volta, Panunzio allora oppose che solo attraverso i sindacati si creava il nuovo diritto, come espressione della forza rivoluzionaria creatrice di un nuovo ordinamento(16).
Con il tempo la distanza fra Panunzio e Curcio si sarebbe attenuata, e precisamente verso il 1930-31, anche qui sulle pagine della ‘RIFD’, come a suo tempo vedremo. Sul momento, però, Curcio procede nel senso suddetto, cioè considerando ancora da definire il quesito dell’autonomia dei sindacati e del necessario riconoscimento della loro personalità giuridica da parte dello Stato. Temi da lui sempre meglio precisati sin dall’anno seguente, nel 1927 : sia sulla ‘RIFD’ - con un saggio (Lineamenti filosofico-giuridici dell’ordinamento corporativo)(17) e tre recensioni(18) -; sia con L’extraeconomicità dei sindacati ( pubblicato, come si è accennato, su ‘Lo Stato corporativo’).
Nei saggi successivi, a cominciare dal 1928 - con la monografia intitolata Il problema metodologico nel diritto corporativo(19), e con l’ articolo su ‘Critica fascista’, intitolato La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia(20) - si scorgono chiaramente i segni di una crescente consapevolezza dell’occasione perduta dal Regime, quella di risolvere con la ‘rivoluzione fascista’, l’antico antagonismo della lotta di classe. Un antagonismo che proprio nel secolo precedente aveva animato i due avversi campi di un capitalismo senza remore, né scrupoli, e di una non immotivata rivendicazione socialistica purtroppo scaduta nel riformismo compromissorio con la pratica di governo clientelare o nell’eccesso del massimalismo.
Con questa elusione di maggiori questioni, tuttavia Curcio non manca di operare attenti affronti con quanto in positivo avviene invece nel mondo del lavoro di altre nazioni. Anzitutto, qui Curcio si riferisce alle teorie di Sombart e Weber, ma anche alle esperienze socialistiche di Walther Rathenau (nel corso della Repubblica di Weimar) e non ultimo al nuovo atteggiamento imprenditoriale statunitense.
In effetti, ancora con La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia, Curcio si riferisce alla ‘rivoluzione fascista’ interpretandola in questo momento come tanti altri ‘della prima ora’. E particolarmente secondo quanto veniva da tempo scrivendo Sergio Panunzio (sempre più suo interlocutore, non solo su questo tema del corporativismo), identificandola con una ‘rivoluzione sindacalista’, cioè come la creazione rivoluzionaria di una ‘economia mista’. E tale sarà, non a caso, il titolo di un saggio panunziano ancora nel 1936. Dunque, un’ economia ‘nuova’, come composizione e mediazione degli interessi legittimi dell’imprenditore e del capitalista. Ma anche, e soprattutto, dei diritti del mondo del lavoro, rispetto all’esclusivismo implicito al diritto di proprietà borghese, inteso fra Otto-Novecento come formale eguaglianza senza sostanziali possibilità di concreto eguagliamento.
Diritti imprescindibili - secondo Curcio - per ogni ‘rivoluzione’, e particolarmente quella fascista, se non si voleva che scadesse in mero strumento di salvaguardia del conservatorismo proprietario di fronte alla ‘rivoluzione bolscevica’. In questa malaugurata evenienza, ci si sarebbe trovati di fronte alla degenerazione delle ‘rivoluzione fascista’, ridotta ad una pur sterile surrogazione (con la forza statuale) alla carenza di motivazioni sociali da parte di ceti per un verso troppo avidi e per l’altro irresoluti, disposti a cedere senza lottare, senza confrontarsi, senza ridimensionare razionalmente le proprie pretese e le altrui prepotenze(21).
Diritti, del resto, proprio su queste stesse pagine di ‘Critica fascista’ tenuti da Curcio ben distinti dagli intenti apparentemente corporativi del Regime, ed invece riconnessi ad una voluta e palese rivalutazione dell’alternativa costituita ab antiquo dal ‘solidarismo’ cattolico.
Il corporativismo, la ‘nuova economia’, - chiede retoricamente Curcio - è forse "una salvezza temporanea o definitiva? Una panacea gravida di pericoli o un sistema sicuro?"(22). Inutile rispondere. La storia è un colossale Saturno, che divora non solo gli uomini, ma le idee e le forme della civiltà, di tutte le civiltà. E pertanto, "al lume della filosofia della storia tutto è caduco; e la sola teoria agostiniana è vera"(23).
Da un lato, qui, dunque (ed ancora a lungo, altrove) l’ossequio a Mussolini, Capo del Governo e Duce del Regime. Dall’altro, invece, una riproposizione di quella ‘rivoluzione etica’ verso i ‘primi princìpi’ che secondo Curcio era nelle originarie intenzioni del ‘fascismo-movimento’, inteso come una rifondazione rivoluzionaria dell’ordinamento su basi nuove. Nuovi fondamenti da cui sviluppare l’antico principio solidale, senza negare distinzioni, diversità di capacità e di ruolo. Mai tali, comunque, da negare un diritto ed una tutela ai meno capaci o più bisognosi di incentivi e sostegni(24).
Non è qui, comunque, va ripetuto, su queste pagine di ‘Critica Fascista’ che Curcio mostra di volere sviluppare a fondo il suo incipiente convincimento del fallimento della ‘rivoluzione corporativa’. In definitiva, è del tutto innegabile che qui Curcio affronta sempre unicamente temi e questioni di immediata attualità. Questo è quanto risulta da quanto di lui possiamo leggere su ‘Critica Fascista’, sia in precedenza - al di là cioè di queste pur dense pagine di La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia - sia anche quando, più avanti, su questa stessa rivista i suoi scritti si riveleranno non semplicemente apologetici delle ‘imperiture sorti’ del Regime. Tale è la netta impressione che si trae dai suoi scritti, sia nel 1929(25), sia nel 1930(26), sia dopo il lungo silenzio su ‘Critica Fascista’. Un silenzio significativo della collaborazione, altrove, di maggior momento(27), interrotto solo nel 1942(28) e nel 1943(29).
D’altro canto ora ci dobbiamo interrogare sulle ben diverse posizioni che, in confronto a queste del 1926-28, Curcio assume nei confronti del Regime nei successivi scritti su tale tema del corporativismo. Resta che, come constateremo nei prossimi paragrafi, ci si troverà di fronte al significato complessivo da attribuire alla sorta di ‘dispersione’ pubblicistica della collaborazione di Curcio sui diversi periodici, secondo la sequenza con cui apparvero questi suoi ulteriori contributi alla vexata quaestio del corporativismo, intanto ancora sulla ‘RIFD’, fra 1928-29.
III. La riscoperta della tradizione politica italiana (gli anni 1926-29).
Riguardo allo spazio che gli scritti sul tema corporativo di maggior momento trovano sulle pagine della ‘RIFD’ è necessaria un’ulteriore precisazione. A questa rivista, Curcio inizia a collaborare nel 1926, continuando ininterrottamente fino al 1937-38(30). Da quella data Curcio interrompe la collaborazione. Un fatto che si ricollega all’allontanamento di Del Vecchio, per le leggi razziali, dalla direzione della rivista (sostituito, nel 1939, con cui comincia la Serie II, da un ‘triumvirato’ formato da Amedeo Giannini, Felice Battaglia e Giuseppe Capograssi). Sintomatico è che su questa rivista Curcio riprenderà l’attività di pubblicista, in tono minore, solo dopo la guerra, fra il 1947 ed il 1968.
Invece, fra 1926-38, fra i numerosi scritti apparsi su quelle pagine va qui anzitutto ricordato il primo di questi contributi, il saggio intitolato Il concetto di legge nel pensiero italiano del secolo XVI, che segna il momento d’inizio della riflessione filosofico-giuridica di Curcio. Qui infatti egli localizza il risveglio di nuove correnti e di nuove idee che - nella ripresa di suggestioni presenti in "tutta la tradizione politica e giuridica italiana, dal secolo XIII in poi" - segnano la cesura con "il punto di vista strettamente teologico", soprattutto con le componenti "teistico-razionalistiche presenti in Tommaso d’Aquino"(31).
Da allora, - continua Curcio - e fino alla scoperta machiavelliana che la politica ha sue proprie leggi (irriducibili alla religione ed alla morale) si è venuta affermando una concezione non più idealistica del diritto, bensì strettamente connessa con l’attualità dei singoli periodi storici. Senza però che da allora il diritto sia mai stato confuso del tutto con il potere, ed anzi ritenendone invece necessaria la correlazione con l’unanime consenso di tutti i governati.
Come si può notare, siamo al cospetto di una concezione giuridica riconnessa a quella che qui è definita come la ‘tradizione italiana’. La tradizione di pensiero che da Marsilio da Padova a Egidio Romano, da Bartolo da Sassoferrato a Baldo connette in un contesto coerente la speculazione di "molti altri giuristi" fra medioevo ed età moderna(32). Più avanti Curcio ricorda, infatti, le concezioni ‘giusnaturalistiche’ di Giordano Bruno, di Paolo Paruta e principalmente di Alberico Gentili, il quale - teorizzando una ‘legge di natura’ superiore e contrapposta alla statuale ‘legge positiva’ - escludeva che questo diritto naturale fosse qualcosa di immediatamente riferibile alla religione, alla fede, alla trascendenza(33).
In sintesi, da questa analisi di alcuni capisaldi del pensiero politico italiano del Cinquecento, Curcio trae quelli che a suo avviso sono i caratteri salienti della moderna concezione del diritto. E cioè pone in rilievo il ruolo della volontà istitutiva della compagine istituzionale. Un ruolo caratterizzato nella distinzione di consimile volontà fondatrice da ogni suggestione ateistica, come da ogni astrattezza razionalistica. Un ruolo incentrato appunto sull’unanime consenso, sulla partecipazione di tutti all’ordinamento che si sta costituendo(34). C’è da parte di Curcio in questa sua concezione del diritto esplicitamente il richiamo ad "un fattore tutto spontaneo, tutto intimo, che è coscienza, volere, libertà"(35). Una libertà d’altronde da conciliare con l’autorità, "che è nella legge stessa", senza però che la norma giuridica giunga ad annullare questa volontà responsabilmente libera, racchiudendola nel rigido schema formale delle leggi(36).
A questo primo rilevante contributo fecero seguito, nel 1927, non soltanto, come si è accennato, la ripresa della riflessione sui temi del corporativismo, ma soprattutto - nel saggio La modernità di Machiavelli - un significativo approfondimento del tema della ‘tradizione politica italiana’. Qui tale tradizione è interpretata come l’espressione, appunto a partire dal XVI secolo, in termini più propriamente costituzionali, del carattere stesso della politica, intesa come secolare ricerca e costruzione di un appropriato sistema rappresentativo-parlamentare(37).
In consimili referenti, si capisce perché negli scritti del periodo successivo si accresca in Curcio l’atteggiamento critico verso il Regime, con un approfondimento dell’indagine in senso filosofico-giuridico sui fondamenti etico-politici dell’ ‘ordine nuovo’ fascista. In tre saggi pubblicati sulla ‘RIFD’, nel 1928 - vero ‘annus mirabilis’ nella riflessione di Curcio - viene affrontato analiticamente il tema della trasformazione dello Stato (tale è appunto il titolo del primo saggio)(38).
Argomento poi sviluppato nel secondo saggio (L’eredità romana nel pensiero politico italiano del Medio Evo), nel riferimento della ‘tradizione italiana’ all’antefatto di una ‘tradizione giuridica romana’, della quale Curcio passa in rassegna le ‘reinterpretazioni’ avvenute nel medioevo italiano, da parte di glossatori e scrittori politici(39).
Nel terzo saggio (Il rinnovamento dell’idea di diritto nel pensiero italiano del Rinascimento)(40) Curcio infine evidenzia la conclusiva diversificazione che dello stesso referente ‘all’eredità romana’ si ebbe nella successiva svolta della ‘tradizione italiana’. Una svolta che ora Curcio interpreta diversamente da quanto aveva asserito l’anno precedente (con la Modernità di Machiavelli), riconoscendo l’evoluzione di tale tradizione dalle forme medievali dei glossatori ai nuovi contenuti più propriamente politico-istituzionali. Ora, nel terzo di questi saggi del 1928, Curcio indica, invece, la cesura che si è venuta operando in questo sviluppo della ‘tradizione’ rappresentativa, a partire dal XV-XVI secolo, coi primordi dei regimi signorili, assolutistici, che hanno posto termine ad un tale referente alla tradizione e democratica e repubblicana.
Si spacca allora la contestualità tanto pazientemente elaborata nel medioevo (dalla scolastica ai ‘glossatori’) fra - da un lato - la libertà dei singoli, la volontà dei popoli (aspetti entrambi della sovranità popolare come fondamento dello Stato), e - dall’altro lato - l’affermazione perentoria di forti individualità. Queste ultime, nella crisi delle città-stato, fra XV-XVI secolo, inserirono la propria azione risolutiva, nei termini di primato assoluto, motivato dalla loro personale capacità coesiva-impositiva, tale da farne comunque i demiurgi del nuovo Stato nazionale.
Tutti gli autori dell’umanesimo, sino al Machiavelli, sono concordi in questa interpretazione pervasa di "vigore attivistico"(41). Nel Rinascimento, alla fine il diritto si configura come l’atto di individualità concrete, di principi e capitani di ventura, e persino di personalità anarchiche. Se la conseguenza di un simile modo di intendere il diritto sono gli "Stati nuovi", questo significa anche che il problema raggiunge una nuova "fase drammatica"(42). Se il diritto è nell’uomo, come si realizza nella società? "Se il diritto è un’entità imponderabile, dinamica, continuamente mutevole, come regolerà i rapporti fra gli uomini? Come conciliare Stato e diritto? Come fissare una organizzazione giuridica valevole?"(43).
E qui Curcio sembra volersi riferire proprio a quella che gli appare come la sin lì insoluta problematicità dello stesso fascismo. Qui la sua argomentazione risulta coerente, quanto meno nel raffronto fra un elemento volontaristico, attivistico, rivoluzionario, come fattore originario del diritto, e d’altro canto l’ineludibile necessità di una composizione di tale primato della volontà in un misura etica irriducibile alla volontarietà assoluta.
Si tratta, è pur vero, di un passaggio soverchiamente dialettizzato da Curcio, nell’indubbio, palese eccesso di rapidità argomentativa. In definitiva, qui la pur postulata esigenza di eticità rimane, malgrado tutto, troppo concettualmente interiorizzata nella volontà dell’individuo, peraltro tanto impegnato nel processo attivistico di creazione di nuova realtà da non configurarsi affatto come intenzionato ad auto-limitarsi, o comunque capace di un minimo controllo morale delle sue pulsioni(44).
Nondimeno, il criterio del limite etico - sin qui chiamato in causa ma non risolto in una trattazione del tutto coerente - trova nell’ulteriore sviluppo del discorso di Curcio la sua logica conclusione. Una conclusione che certo non implicava un immediato riferimento agli approdi autoritari del Regime. Ma, come si è detto, quello che qui ci interessa è evidenziare quanto di valido resta ancor oggi della sua teorizzazione filosofico-giuridica, cioè del suo concetto della tradizione politico-istituzionale, quanto meno da lui rapportata alla sua connessione in positivo con l’accezione di rivoluzione (e questa, beninteso, una ‘rivoluzione per la continuità dello sviluppo istituzionale’).
Non ci interessano affatto, invece, quei tentativi di revisionismo storico del significato del fascismo che sono stati esperiti, sia pure con motivazioni apprezzabili, o che potranno essere tentati ancora utilmente nel futuro. Peraltro, ritengo impossibile la dimostrazione di una piena e perfetta consapevolezza della complessità di implicazioni di questa identità fra tradizione, rivoluzione e fascismo. Una dimostrazione forse intuibile più in personalità come Curcio, piuttosto che in qualsiasi altro protagonista, teorico o pratico, del fascismo. Nondimeno, una relativa consapevolezza emerge in lui, e forse meglio che in altri, dell’inconsistenza del Regime, fino al punto cioè di scorgervi consapevolmente solo una delle possibili forme politiche ed una sola delle possibili soluzioni istituzionali al problema della continuità dello sviluppo della società civile in rapporto allo Stato ed alla molteplicità di aggregati, ruoli e funzioni rispetto all’omologazione dittatoriale.
Si considerino, infatti, le conclusioni di Curcio in merito alla suddetta problematicità fra il concetto rinascimentale, attivistico-volontarista del diritto e la tradizione ‘romano-italica’ - come la chiama Curcio – dell’ineludibilità di un raffronto etico di questa libertà demiurgica. A tal riguardo, si vedano le parole con cui chiama in causa Marsilio da Padova, riferendosi esplicitamente al suo criterio democratico-repubblicano. Sulla base del Defensor pacis, la legalità, la giuridicità stessa dello Stato sono configurati appunto come espressione della volontà del popolo, dei cittadini, come una translatio di autorità da questi al governo, implicando da quest’ultimo il più compiuto rispetto di quella sovranità che si configura come volontà costitutiva degli antenati e del consenso di tutte le successive generazioni, sino all’attuale.
"[…] Da Marsilio, che ha posto saldamente questo concetto (Defensor pacis, l. I, c. x), lo Stato è in quanto v’è la legge; eppertanto lo Stato è imperio, potere, autorità; attributi che gli vengono conferiti dalla volontà dei cittadini […], dalla sapienza dei maggiori […], dalla coscienza degli individui […], dalla forza stessa e dalla volontà di colui che ha fondato lo Stato e lo regge […]; e cioè, in ultima analisi, in tutti i casi, da quella forza etica che ha generato l’organizzazione statuale, che non può essere giuridica, fondata, insomma, sul diritto"(45).
Una simile valutazione in negativo dello Stato moderno, scaturito dal periglioso primato della volontà singolare, dell’individuo egemone, è da Curcio intenzionalmente delineata con significative implicazioni rispetto all’attuale situazione politica totalitaria. Al riguardo, si potrebbe anche avanzare l’ipotesi di una precisa intenzionalità di evidenziare l’abisso venutosi a produrre sin dall’inizio dell’epoca moderna fra il riferimento formale alla ‘tradizione romana’ da parte di queste volontà egemoni (facenti capo ad una struttura autoritaria, assolutistica dello Stato moderno) e la vera sostanza di questa tradizione ‘romano-italica’.
Sostanza tradizionale, dunque, che sarebbe da intendere non solo in una sua essenza dinamica (incompatibile sia con il formalismo giuridico della passata ‘società borghese’, sia con la monoliticità del nuovo ordine totalitario), ma anche in una sua funzione ‘veicolare’ di una concezione pluralistica della società civile. E questa, cioè, vista come un complesso organismo di elementi dotati di una certa loro autonomia, del resto espressa storicamente (soprattutto nell’epoca comunale, ma anche nel processo storico che conduce ai sistemi rappresentativi) nel riconoscimento di una pluralità di esperienze e livelli normativi, gerarchicamente ordinati nel riferimento ad uno ius naturale, inteso come legge morale, come riferimento cioè a valori etici diversi e superiori rispetto alla norma positiva, ad uno ius publicum, comunque impersonato, espresso e formulato.
Per un verso, - in altre parole - poteva qui delinearsi in Curcio la denuncia che lo Stato totalitario ignorasse del tutto l’evoluzione che invece, fra medioevo ed epoca moderna, si era prodotta nel riconoscimento della piena legittimità di uno ius statuendi alla ‘pluralità di ordinamenti giuridici’ (ieri le ‘città-stato’, oggi la molteplicità di ceti sociali e gruppi professionali)(46). Per altro verso, - in parole più esplicite - si poteva scorgere in queste asserzioni il convincimento di Curcio che in generale nello Stato moderno, ed in maniera specifica nel regime totalitario, venisse ad essere disconosciuta la sostanza etico-giuridica di questa evoluzione, di questo passaggio dallo ius naturale (relativo al tipo di diritto vigente nella fase gentilizia delle origini di Roma) allo ius civile (quello della successiva fase di una ‘società civile’ articolata in molteplici classi di cittadini, le cui funzioni erano sia economico-privatistiche che politico-pubblicistiche) per giungere infine ad uno ius publicum, più evoluto, ma più coerente con questi antefatti.
Se in questi tratti, il discorso di Curcio non poteva che configurarsi come una critica rivolta (nemmeno poi in modo troppo indiretto) alla monolitica struttura dello Stato totalitario ed all’incondizionato potere del Capo del governo, d’altro canto non si può qui fare a meno di confrontare queste posizioni espresse sulla ‘RIFD’ con quelle manifestate in quello stesso intorno di anni in altre direzioni della sua produzione politico-filosofica.
E proprio l’esperienza nella ‘fascista’ Facoltà di Scienze Politiche di Parugia, che inizia in questo stesso 1928, andrebbe in effetti studiata attentamente, cioè ricostruita su basi comunque diverse dalla stessa rievocazione di Curcio, nel secondo dopoguerra(47). Basterebbe infatti pensare allo sviluppo della sua attenzione, proprio allora crescente, per il pensiero illuminista italiano, quale risulta proprio da uno degli ultimi suoi contributi di questo periodo perugino(48). Peraltro, sin dall’inizio di questo ‘momento’ vanno infatti riconsiderate ben altre e rilevanti formulazioni che, fra l’altro, segnano il punto di svolta di Curcio sul tema del corporativismo.
Una svolta che in questo 1928 si produce sia con il saggio intitolato Il problema metodologico nel diritto corporativo(49), sia con due recensioni apparse sulla ‘RIFD’, in riferimento a quanto Costamagna stava pubblicando in quel periodo(50), sia - e soprattutto - con la sua prolusione tenuta il 26 marzo di quell’anno al corso di Storia delle Dottrine politiche in quell’Ateneo. Testo altamente significativo, che infatti venne poi ristampato, con il titolo Il carattere storico del pensiero politico italiano, in un volume collettaneo(51). Qui si palesa significativamente la divaricazione fra una persistente adesione formale all’ideologia fascista e d’altra parte il sostanziale approfondimento critico della del Regime. Siamo al cospetto indubbiamente di una tormentata vicenda personale che conferma il ripensamento da parte di Curcio dei fondamenti stessi del ‘nuovo ordine’, visto ormai come sostanzialmente estraniato dalle premesse (e promesse) della ‘rivoluzione fascista’. In quest’ultima, come in tutte le altre vere rivoluzioni, - precisa adesso Curcio - si era inizialmente inteso dar corpo alle istanze di libertà espresse dai ‘moti popolari’, ossia da quella ‘volontà’ o ‘sovranità’ del ‘popolo’ che sin dagli inizi era stata alla base della ‘tradizione italiana’(52).
Nel 1929 – sempre nel contesto dell’insegnamento perugino - appare poi il saggio intitolato Per una metodologia della storia delle dottrine politiche(53), in cui Curcio mostra di saper cogliere pienamente la specificità di questo campo di indagine, il metodo da seguire in questa materia ancora agli albori. Immediatamente dopo, Curcio affronta conclusivamente, su diversi organi di stampa, la questione del ‘corporativismo’, adesso nel riferimento non solo alle conclusioni di Costamagna, bensì qui soprattutto di Sergio Panunzio.
In particolare, L’ordine corporativo(54) segna un ulteriore momento del complessivo percorso di Curcio verso il superamento sostanziale di uno dei cardini dell’ideologia del fascismo. Un superamento sostanziale che, come abbiamo più volte precisato, non esclude affatto una persistente adesione formale al Regime. A tali ambiguità fanno comunque seguito nuove prospettive, come si vede in un altro saggio della fine dello stesso anno 1929, L’ideale del lavoro (testo della conferenza tenuta all’ Istituto fascista di cultura di Perugia, il 16 maggio 1929)(55), dove viene esaurientemente definito il quesito che aveva a lungo impegnato la sua riflessione su come rendere appunto armoniche le esigenze della pluralità di ordinamenti giuridici e quelle dell’unitarietà dello Stato(56).
È di nuovo una prospettiva di solidarismo che, così come è posta, rappresenta un’alternativa di fondo al fallimento dell’idea corporativa realizzata solo formalmente dal Regime. Tesi, ovviamente, non argomentata in maniera così diretta ed inequivoca, bensì negando ora qualsiasi fondamento a quelli che nella retorica ideologica erano posti come gli antefatti, i punti di riferimento del corporativismo fascista, ossia le ‘corporazioni medievali’, e persino quelle ‘romano-imperiali’ (non a caso qui definite da Curcio prodotto del ‘tardo impero’).
Infranto è dunque la sfondo ideologico del Regime come rivoluzione. Da qui, poi, l’inizio di una piena ed univoca rivalutazione del ‘solidarismo cristiano’, indagandone le origini, ritrovandole ancor prima dei contrasti fra Chiesa e Stato nel XII-XIII secolo (fra Comuni, Papato e Impero), ossia in quella rinascita al tempo stesso spirituale, religiosa, politica ed economica che coincise con l’Ordine fondato da ‘Colui’ - come lo definisce Curcio - che fu il primo tipo di uomo davvero ‘romano-cristiano’, Benedetto da Norcia, animato da nuovi intendimenti etico-politici rispetto all’ ‘agostiniana’ fuga verso la ‘Città celeste’, ossia determinato a ristabilire il nesso sostanziale fra valori morali e partecipazione alla ‘res publica’(57).
IV. Il superamento dell’ ideologia statalista nella rivalutazione del pluralismo sociale ed il significato metapolitico della ‘rivoluzione’ (1930).
Nell’ulteriore sviluppo della sua produzione, nel 1930 Curcio elabora proprio sulle pagine della ‘RIFD’ - oltre alle solite recensioni(58) - diverse altre analisi filosofico-politiche. C’è qui, indubbiamente, anche un ‘dovuto’ ossequio al Regime, nell’articolo intitolato Per la teoria generale dello Stato fascista(59), scritto che, dunque, segna una battuta d’arresto nella già incipiente critica integrale del Regime. Nell’articolo in questione, infatti, Curcio professa adesione a quello che ora definisce il "concetto mussoliniano dello Stato"(60), titolo del primo paragrafo del saggio, completamente formato da perentorie asserzioni del Capo del Governo, riportate fra virgolette. Sono citazioni senza quasi commento, se non per definire queste posizioni una sorta di ‘realtà fattuale’ su cui gli studiosi di politica avrebbero avuto materia per riflettere.
Affermazione di per sé senza alcuna incidenza né ideologica, né tanto meno dottrinale, ma appunto di formale allineamento ai ‘desiderata’ del Duce, come si evince dall’asserzione di Curcio che quanto adesso ci vorrebbe per rivitalizzare il Regime sarebbe semplicemente il costante confronto fra il dato oggettivo delle nuove leggi in materia corporativa e la teoria politica. In altre parole, gli scrittori fascisti non avrebbero dovuto far altro che interpretare senza discussioni questa nuova produzione normativa, per recepirne l’intima logica, onde adeguarvi una mera spiegazione sistematica(61).
E qui Curcio non poteva ignorare che rivitalizzare un Regime facendo riferimento alle sue leggi, voleva semplicemente scadere in un nuovo genere di formalismo, in una nuova forma di solo apparente giuridicità, nella dimenticanza e nel traviamento degli iniziali progetti rivoluzionari del fascismo, cioè della rivendicazione di una sostanziale eticità dell’ordinamento sociale, precedentemente smarrita e corrotta dal formalismo del diritto borghese del XIX secolo. Rivitalizzare il Regime facendo appello alle sue leggi voleva dire semplicemente farsi concettualmente irretire, farsi ingannare sul piano della valutazione teoretica, dall’illusione che dall’antitesi fra due opposti formalismi (quello totalitario e quello capitalistico-borghese) potesse davvero scaturire una sintesi fra eticità e giuridicità sostanziale.
Su questa ambigua equazione totalitaria di lì a poco Curcio ritornerà, cercando di superare questa ossequiosa confusione fra la volontà del capo del Governo e la coerenza logico-giuridica, la definizione filosofico-giuridica dei valori fondativi del nuovo ordine, lo spirito della rivoluzione. Sarà allora il suo un ripensamento profondo, che peraltro non ci spiega più di tanto la sorta di ‘fiammata ideologica’ prodotta in questo Per la teoria generale dello Stato fascista, se non appunto come un atto ‘dovuto-richiesto’, al quale per il momento non ritenne o non seppe opporre quelle obiezioni e critiche che più tardi lo animeranno di ben altra carica etica e teoretica.
Indubbiamente di maggior momento sono comunque altri due saggi apparsi sulla ‘RIFD’, ossia I problemi del diritto corporativo(62) e L’ostetrica del diritto. Note per la storia del concetto di rivoluzione(63). Sin dal primo di questi due, relativamente all’irrisolta problematicità del diritto corporativo, si avverte un qualche ripensamento sostanziale. Viene qui anzitutto ripreso quanto già era stato argomentato nel 1929, con Il diritto sindacale-corporativo e l’unità del mondo giuridico, in un’analisi che adesso si precisa sui due diversi livelli: sia della considerazione della pluralità di ordinamenti giuridici all’interno dello Stato fascista, sia della valutazione anche del tipo di correlazione da instaurare fra lo Stato totalitario ed i sistemi statuali delle altre nazioni.
In altri termini, qui i princìpi solidaristici del corporativismo vengono intesi da Curcio come un correttivo ‘pluralista’ non solo alla stessa monoliticità dello Stato totalitario, ma anche dei rapporti di potenza che questo avrebbe dovuto stabilire nei confronti degli altri Stati e nazioni. Qui, cioè, nella visione di Curcio il diritto corporativo viene proiettato al di fuori della concezione totalitaria e della conseguente politica imperialista, per riallacciarlo invece alla ‘tradizione universalistica romana’, allo ius gentium. Su questa base, di un reiterato significato solidaristico attribuito al ‘corporativismo’, Curcio delinea perciò il nuovo ruolo che l’Italia può avere nel mondo, appunto superando il sistema totalitario, l’imposizione di uniformità. E quindi si trattava per lui di riproporre su questi princìpi originari, al di là della politica di potenza del Regime, una migliore correlazione fra i diversi ordinamenti istituzionali, nel contesto, quindi, di una riconsiderazione delle stesse relazioni fra le nazioni(64).
D’altra parte, qui Curcio tenta di ricostruire più profondamente il significato di questa problematica coordinazione fra corporazione ed ordinamento giuridico, ed ancora sulla base della vicenda storica che ha caratterizzato in Italia ed in Europa la nascita, fra XII-XIII secolo, di una pluralità di ordinamenti, tendenzialmente antagonistici rispetto all’unità statuale. Oggi - sostiene infatti Curcio - sarebbe possibile una composizione di queste antinomie, in un sistema di distinzioni e complementarietà di funzioni e di ruoli. Un sistema peraltro da non confondere con le recenti interpretazioni organicistiche, per le quali - ad esempio - Gierke ha inteso spiegare l’insieme dei rapporti fra queste diverse entità corporative, senza cogliervi coerentemente l’elemento individuale, volontaristico, e quindi la difficoltà di un coordinamento con le esigenze di unità statuale. In tali concezioni organicistiche si viene in effetti riducendo il problema ad un’inammissibile interpretazione naturalistica del diritto(65), in un’immaginaria convergenza spontanea, istintuale, delle diversità di ruoli e di funzioni nel monolitico edificio dello Stato.
E questo anche se- specifica Curcio - la pur giusta intenzione di ricondurre questi elementi al loro carattere volontaristico (ed in certo modo individualista), oggi significa affatto riproporre una loro assoluta autonomia, che ricondurrebbe a quello stato di conflittualità, di disordine e di anarchia che già nel medioevo caratterizzò il sorgere e lo sviluppo delle corporazioni(66). Una simile volontà di assoluta indipendenza innescò a suo tempo quel processo di disintegrazione che poi diede quanto meno un’apparenza di legittimità all’imporsi dello Stato assoluto. Questo è quanto avvenne al sorgere dell’epoca moderna, con l’apparizione di teorie che "deificarono lo Stato", cancellando "con un frego di penna ogni specie di organizzazione nel suo seno"(67).
Che significa - si chiede Curcio - riproporre oggi questo antagonismo fra lo Stato e la pluralità di ordinamenti giuridici? Un antagonismo che fra medioevo e Rinascimento rappresentò "il dramma di tutto il mondo politico e giuridico", già in fermento sulla "soglia" dell’età moderna?(68). Indubbiamente, questa "colossale esperienza", su cui si basa l’inizio stesso del mondo moderno, ci deve ammonire sulla necessità che nel sistema giuridico siano ben definite, in un insieme di coordinamenti, le relazioni che intercorrono tra le diverse parti, tra individui, gruppi, funzioni, ruoli(69).
Nondimeno, in Curcio e soprattutto con il saggio L’ostetrica del diritto. Note per una storia del concetto di rivoluzione, del novembre-dicembre 1930, che - come preciso in un’altra mia ipotesi interpretativa su questa fase saliente del pensiero di Curcio(70) - siamo di fronte ad una compiuta elaborazione di una significativa teoria del fenomeno rivoluzionario. Teoria nella quale si indica il momento fondante della politica e dello stesso ordinamento giuridico-istituzionale appunto nella rivoluzione. Con rapidi ma incisivi riferimenti alle principali formulazioni di una teorica delle rivoluzioni nel corso di tutto il pensiero politico occidentale, qui Curcio focalizza attorno alla genesi del diritto nuovo, appunto tramite la cesura rivoluzionaria, il momento di connessione fra pensiero classico e pensiero moderno.
"Il diritto nuovo, che solo giustifica e legittima la rivoluzione, non sorge all’improvviso; ma ha bisogno di un processo che non si diversifica in un momento; onde la necessità, spesso, di una dittatura rivoluzionaria, la quale serve appunto, all’atto della frattura, a preparare il diritto nuovo, la quale si appalesa essa stessa come uno jus speciale, onde scaturirà la sovranità nuova, il nuovo dominio"(71).
Su questa base, nel 1930, Curcio cerca di esprimere - come ho inteso dimostrare in altro luogo(72) - la complessità del processo rivoluzionario, con la quale adesso sarebbe illusorio credere che si dovesse riconfrontare il Regime, per emendarsi delle molteplici reductiones ad unum con cui in effetti ha coartata la pluralità sociale e le molteplici esperienze, entità ed istanze storiche in un edificio monolitico, totalitario, quale occasione mancata di una rivoluzione improntata alla pluralità degli elementi, come momento fondante della politica e del diritto.
D’altro canto, tutto questo va raffrontato all’altro versante della produzione di Curcio in questo 1930, e precisamente alla collaborazione alla rivista di Costamagna, ‘Lo Stato’, iniziata da gennaio, con un’ampia produzione di scritti, in gran parte anche questi di minor momento (sia brevi riflessioni su molteplici argomenti di immediata rilevanza politica, sia nelle varie rubriche, Rassegna delle riviste e Note e discussioni)(73). Scritti di minor rilievo almeno nel senso del troppo breve spazio concesso alla riflessione(74), quantunque talvolta l’interesse di Curcio si ampli a considerare i problemi del mondo del lavoro, come pure la divulgazione all’estero, particolarmente in Germania, del significato corporativo del nuovo costituzionalismo fascista(75). Infatti, numerose altre segnalazioni vanno considerate di valore non meramente occasionale per l’attualità politica, come può vedersi da contributi come : Crisi dello Stato e forze economiche(76); Recenti dottrine italiane di diritto internazionale(77); I movimenti delle classi sociali(78); Sindacalismo antico(79); Il Consiglio legislativo rumeno(80); Il contratto di lavoro in Russia(81).
Tuttavia, sono soprattutto altri scritti che rivelano una sostanziale importanza nel complesso della riflessione filosofico-politica curciana. E fra questi certamente Politica corporativa(82) ed il saggio intitolato le Tendenze nuove della dottrina tedesca: C. Schmitt(83), che costituisce se non la prima, certo una delle prime testimonianze della presentazione del pensiero del giurista tedesco in Italia, anteriormente alla fase nazional-socialista.
Riguardo al primo di questi due scritti, con Politica corporativa Curcio riprende esplicitamente quanto aveva concluso sulla ‘RIFD’, in quello stesso anno, con il saggio I problemi del diritto corporativo(84), qui, peraltro, adesso ponendo l’accento sull’identità fra idea corporativa ed un perenne, naturale, sentimento di associazione che indurrebbe l’uomo sin dalle origini a stabilire una stretta correlazione con la comunità. Interpretato così, un po’ surrettiziamente(85), il corporativismo come espressione di una ‘naturale tendenza spirituale’ ad unirsi ed a collaborare (nel contestuale mantenimento della propria individualità e nello sviluppo delle istituzioni societarie), quindi Curcio lo identifica, tout-court, con il genuino ‘sentire politico’. In questi tratti, qui, il corporativismo è la facies attuale di una progettualità politica che la rivoluzione sarebbe perfettamente in grado di ‘restaurare’, come una riaffermazione della vera natura dell’uomo, cioè come espressione attuale di una sostanziale vitalità dell’ordine politico, snaturatosi nell’epoca contemporanea con il formalismo giuridico, per opera dell’egoismo di classe ‘borghese’, infine del liberismo economico ottocentesco(86).
Riguardo al secondo dei due scritti in questione, se tali erano le risultanze teoretiche argomentate, con qualche sconfinamento ‘giusnaturalistico’, nel saggio Politica corporativa, invece, con le Tendenze nuove della dottrina tedesca: C. Schmitt si compie in Curcio un altro decisivo passo (dopo quello sulla ‘RIFD’ con il saggio L’ostetrica del diritto) nella svolta verso la ‘fuoruscita’ dall’ideologia fascista. Un passo che qui su ‘Lo Stato’ - paradossalmente sulle pagine di questo organo di punta della filosofia politica fascista - si compie non solo attraverso la ricerca dell’originario significato ‘filosofico-giuridico’ della rivoluzione ‘fascista’ e del corporativismo, quali occasioni mancate dal Regime, ma soprattutto in relazione alla ‘scoperta’ del pensiero ‘pre-nazionalsocialista’ di Carl Schmitt.
Qui, infatti, attraverso i testi dello studioso tedesco, avviene in Curcio il primo contatto di quello che lui stesso definisce il lato positivo, al di là di quello nebuloso e negativo, delle teorie di Rousseau. Si tratta, come è noto, di uno Schmitt ancora non attratto e sedotto dalla spirale ideologica del Dodicennio nero. Alla quale, peraltro, il giurista tedesco giungerà attraverso una contestuale riflessione su Hobbes-Rousseau-Sieyès. È dunque lo Schmitt ancora affascinato se non proprio dalle teorie illuministiche, certo dalla Rivoluzione francese e - non ultimo - dalla stessa rivoluzione bolscevica, da Lenin, e dalla Repubblica di Weimar.
In un’attenta lettura di quei primi testi schmittiani(87), - qui Curcio indica nello scrittore tedesco il protagonista di una nuova concezione integrale dello Stato, concepito al di là di ogni formalismo, di ogni staticizzazione giuridica, in norme immobili e fisse, mera astrazione fuori dalla storia. Per Schmitt, invece - sottolinea, con partecipazione, Curcio - si deve andare al di là di ogni "teoria giuridica della sovranità in astratto, fuori dalla vita dei singoli Stati"(88).
Nell’effettuale realtà storica, secondo Schmitt, ogni singolo Stato rappresenta "l’unità politica di un popolo", che è data "dalla coscienza e dalla volontà nazionale del popolo stesso" e si realizza attraverso la costante rivitalizzazione rivoluzionaria delle forme istituzionali(89). Una volontà comune ed una consapevolezza di appartenenza nazionale che dunque, - sottolinea con forza Curcio - necessitano di una rappresentazione politica, ossia di una "rappresentanza spirituale", ancor prima di una ‘rappresentanza parlamentare’(90). E proprio in ragione di questa originaria unità spirituale che si concreterà poi nello Stato, sin dall’inizio individui e gruppi si costituirono storicamente in un ‘popolo’, in un’entità differente da una qualsiasi comunità, sia quella intesa in maniera naturalistica, che quella identificata semplicemente nella normatività-coercività che del resto si può riconoscere anche in una comunità di briganti(91).
Sottolineandone il valore e la novità, Curcio indica significativamente in queste concezioni di Schmitt una matrice complessa, da riferirsi cioè, nell’immediato alle teorie di un Treitschke, ma tali da recare appunto l’impronta più lontana delle idee di Rousseau(92). Scritto dunque importante, malgrado le ridotte dimensioni e l’apparente occasionalità della segnalazione - queste Tendenze nuove della dottrina tedesca… - nel marcare profondamente le tappe dell’evoluzione teoretica di Curcio, il quale del resto ritorna di lì a poco alle schmittiane suggestioni illuministiche e pre-rivoluzionarie.
Nell’immediato, a questi rilevanti contributi alla riflessione filosofico-politica seguono poi altre produzioni minori, cioè recensioni sulle stesse tematiche già viste, come pure un accenno troppo rapido sul ‘fuoruscitismo’ antifascista(93), o anche il fuggevole confronto con le istituzioni parlamentari britanniche(94). Per il resto, in questo 1930, i temi, comunque, restarono prevalentemente del genere suddetto(95). Nel frattempo, sempre in questo anno, esce in Germania un saggio di Curcio divulgativo della concezione corporativa fascista, intitolato Die geistigen Grundlagen der korporativen Ordnung in Italien(96).
NOTE
* La versione ridotta del presente saggio apparirà nel volume: Sindacalisti e nazionalisti a Perugia (1928-1944). Materiali per una storia della cultura umbra tra le due Guerre. A cura di Alessandro Campi. Perugia, Volumnia, 2005.
(1) P. Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di Carlo Curcio (1898-1971). Fra liberalismo, fascismo e democrazia, ‘Annali di Storia moderna e contemporanea. Istituto di Storia moderna e contemporanea. Università cattolica del Sacro Cuore’, VIII, 2002, n. 8, pp. 345-466.
(2) Carlo CURCIO, Miti della politica. Tre saggi sulla democrazia, sul socialismo e sul liberalismo, con una introduzione intorno ai miti ed una conclusione sull’utopia, Roma, Cremonesi, 1940.
(3) Nelle antologie degli scritti di: C. H. de SAINT-SIMON, Sogno d’una felice Europa, Roma, Colombo, 1945; e di: C.I.C. de SAINT-PIERRE - J.J. Rousseau - I. Kant, Progetti per la pace perpetua, Roma, Colobo, 1946).
(4) La rivista venne creata nel 1921 da Giorgio Del Vecchio, che la dirige fino alle al 1938, cioè alle leggi razziali, che fra gli altri effetti aberranti ebbero quello di discriminare anche tanti ebrei ex-combattenti e fascisti della prima ora, come appunto Del Vecchio, pluridecorato, ‘sansepolcrista’, fra i fondatori dei Fasci di combattimento, e figura di spicco fra gli intellettuali del Regime (tanto che lo stesso Mussolini lo volle rettore dell’ Università di Roma, nel 1925).
(5) E precisamente: nel 1927, n. 5 (1 marzo), pp.95-96; n. 6 (15 marzo), pp. 118-119; n. 7 (1 aprile), pp. 136-137; n. 8 (15 aprile), pp. 157-158; n. 9 (1 maggio), pp. 177-178; n. 10 (15 maggio), pp. 196-197; n. 11 (1 giugno), pp. 215-216; n. 12 (15 giugno), pp. 235-236; n. 13 (1 luglio), pp. 255-256; n. 14 (15 luglio), pp.276-277; n.15 (1 agosto), pp. 297-298; n.16 (15 agosto), pp. 317-318; n. 17 (1 settembre), p. 336; n. 18 (15 settembre), pp. 356-357; n.19 (1 ottobre), p. 376; n.20 (15 ottobre), pp.397-398; n.21 (1 novembre), pp. 417-418; n. 22 (15 novembre), pp. 435-436; n. 23 (1 dicembre), pp.456-457; n. 24 (15 dicembre), pp. 475-476. Analoga valutazione è da farsi per il 1928: Rassegna estera e coloniale, (nella rubrica: Rassegne di Politica e Cultura), n. 1 (1 gennaio): La relazione di Mussolini al consiglio dei ministri. - Problemi e sviluppi libici. - La rivolta rossa di Canton, p.16; n. 2 (15 gennaio): La guerra fuori legge e l’ultima utopia americana. - I sovrani dell’Afganistan a Roma. - Italia e Turchia, pp.36-37; n. 3 (1 febbraio), La conferenza panamericana e la politica degli Stati Uniti. - La missione uruguaiana e il ministri degli esteri romeno a Roma. - L’arrivo del nuovo ambasciatore di Francia, pp.57-58; n. 4 (15 febbraio): Italia, Romania e Piccola Intesa. - Dalla conferenza dell’Avana alle discussioni franco tedesche per il Reno, p.77-78; n. 5 (1 marzo): Italia, Austria e Alto Adige. - Il problema della sicurezza e dell’arbitrato a Ginevra. - Il nuovo Gabinetto Iugoslavo. - L’occupazione della Giofra in Tripolitania e l’inaugurazione della II Fiera di Tripoli,pp. 97-98; n. 6 (15 marzo): La risposta del Duce a Seipel e la campagna pangermanista contro l’Italia.- Ginevra, la Piccola Intesa e l’incidente di S. Gottardo. - La conferenza per Tangeri e l’Italia. - L’occupazione di Zella e Gialo in Tripolitania , pp.117-118; n. 7 (1 aprile): La conferenza per Tangeri. - Il torneo ginevrino per il disarmo. - L’occupazione di Merada in Libia, p.136; n. 8 (15 aprile): La politica dell’Italia e la sua portata internazionale. - Parker Gilbert e la revisione del piano Dawes. - La tensione anglo-egiziana, p. 157; n. 9 (1 maggio): L’amicizia italo-polacca.- Italia e Ungheria. - Un patto d’arbitrato tra Italia e Stati Uniti. - Le elezioni politiche in Francia. - Il viaggio dei Sovrani in Tripolitania. - La tutela del lavoro italiano all’estero, pp. 177-178; n. 10 (15 maggio): La nuova rete consolare italiana e la tutela degli italiani all’estero. - Il Giappone e la Cina. - Nei Balcani. - La chiusura dell’incidente anglo-egiziano.- La Francia dopo le elezioni, pp. 197-198; n. 11 (1 giugno): Il bilancio delle nostre colonie. -Le elezioni tedesche, pp. 215-216; n. 12 (15 giugno): Il discorso del Duce al Senato. - L’Italia e l’Europa. - Piccola Intesa e Balcani. - La politica dei trattati. -L’Italia e il mondo, pp.236-237; n. 13 (1 luglio): La Piccola Intesa. - Gli avvenimenti iugoslavi, pp. 256-257; n. 14 (15 luglio): I rapporti italo-austriaci.- Il nuovo ministero tedesco. - Il ritorno di Venizelos. - Nuovi trattati commerciali, p. 277; n. 15 (1 agosto): L’Italia a Tangeri. - Il patto contro la guerra e l’adesione dell’Italia. - Operazioni in Tripolitania, pp. 296-297; n. 16 (15 agosto): La nuova intesa franco-inglese. - Il nuovo Gabinetto iugoslavo e la morte di Radicembre - Il trattato italo-abissino, p. 316; n. 17 (1 settembre): La ratifica delle convenzioni di Nettuno e i rapporti italo-iugoslavi.- Il trattato italo-finlandese, p.336; n. 18 (15 settembre): La proclamazione di Ahmed Zogu a Re d’Albania. - La firma del patto Kellog e la IX Assemblea della Società della Nazioni, p.356-357; n. 19 (1 ottobre): Il trattato Italo-greco, pp.376-377; n. 20 (15 ottobre):Il compromesso navale anglo-francese e l’atteggiamento dell’Italia. - I lavori di Ginevra e le trattative per lo sgombero della Renania. - L’incoronazione di Ras Tafari a Re, pp.396-397; n. 21 (1 novembre): La pubblicazione dei documenti sul compromesso navale. - Il problema delle riparazioni e la revisione del patto Dawes, pp.416-417; n. 22 (15 novembre): Le elezioni presidenziali americane. - La crisi francese. - Provvedimenti per le colonie, pp.436-437; n. 23 (1 dicembre): Il problema delle riparazioni. - La nuova situazione in Romania, pp.456-457; n. 24 (15 dicembre):Italia e Francia. - L’Italia e la pace, pp.476-477.
(6) Sui numeri: 14 (15 luglio), pp. 261-265; 15 (1 agosto), pp. 281-285; 16 (15 agosto), pp. 310-314.
(7) Si vedano, in tal senso: L’emigrazione italiana nel Mediterraneo, I, 1927, n. 1 (15 gennaio), pp. 32-36; La funzione del Mezzogiorno nel Mediterraneo, n. 2 (20 marzo), pp. 82-91; La coscienza mediterranea negli scrittori del Risorgimento (I-IV), nn. 3-4 (marzo-aprile), pp. 121-131. Tale articolo continua, ma cambia titolo nei seguenti nn. 5-6 (maggio-giugno): La coscienza mediterranea dell’Italia negli scrittori del Risorgimento (V-IX). Sotto quest’ultimo titolo sono pubblicati il precedente articolo e questo che ne è la continuazione: Roma, Edizioni di Sud, 1927.
(8) ‘Lo Stato Corporativo. Rivista di dottrina e di prassi sindacale’, I, 1926, n. 1(novembre), pp. 10-16.
(9) Ibidem, n. 2 (dicembre), pp. 1-20.
(10) ‘Lo Stato corporativo’, 1927.
(11) ‘Vita Nova’, settembre 1927.
(12) Carlo Costamagna, [Recensione] a: S. PANUNZIO, Lo Stato fascista, in ‘RIFD’, 1926, fasc. I, pp. 166-168.
(13) Panunzio, Lo Stato fascista, Bologna, 1925.
(14) Da parte sua, Panunzio si riferiva ai sindacati come ad una pluralità di entità giuridico-politiche, autonome rispetto allo Stato, che pure ne doveva coordinare l’attività attraverso le corporazioni, e queste, dunque, viste come strumento di mediazione fra una molteplicità di organismi costituitivi la società e la necessaria unitarietà dello Stato. Su questo si veda l’accurata, ma inevitabilmente parziale, ricostruzione di: Francesco Perfetti, Un teorico dello Stato sindacale-corporativo (introduzione alla raccolta di scritti: Sergio Panunzio, Il fondamento giuridico del fascismo. Roma, Bonacci, 1987, p. 94). Inserendosi in questa polemica, Costamagna affermò che la posizione di Panunzio in sostanza riproduceva la visione contrattualistica, cioè individualistica, dello Stato liberale, pre-fascista, attribuendo ai sindacati u ruolo fondante, laddove si sarebbe dovuto riaffermare l’urgenza della sovranità dello Stato (Ibid., l.c).
(15) Dalle stesse pagine di questa rivista, intanto, Panunzio rispose a Costamagna, confermando la sua convinzione della priorità della società sullo Stato, secondo un rapporto fra ‘sostanza’ e ‘forma’, ossia fra impulso vitale, la ‘sostanza sindacale’, e l’adattamento normativo di questa sostanza, appunto nel ‘formalismo giuridico’ assicurato dallo Stato. S. Panunzio, Ancora sulle relazioni fra Stato e Sindacati (Il neosindacalismo di Stato), ‘RIFD’, 1926, fascicolo II, aprile-giugno, nella rubrica Note e discussioni, pp. 272-283). La replica di Costamagna non si fece attendere - sempre sulla ‘RIFD’ (C. Costamagna, Stato corporativo. A proposito del neo sindacalismo di Stato, Ibidem, III, luglio-settembre, pp. 414-423) - ribadendo le precedenti impostazioni, e suscitando un’ulteriore risposta di Panunzio, che - in una Postilla di seguito al suddetto scritto di Costamagna - lo accusò di teorizzare un ‘sindacalismo di Stato’ e di ispirarsi alle concezioni politiche di Giovanni Gentile (S. Panunzio, Postilla, Ibidem, pp. 423-426). Una nota della Direzione, sotto il testo della Postilla di Panunzio, pose fine a questa disputa (Ibid., p. 426). In realtà, sia Panunzio come del resto altri dissidenti sull’abbrivio autoritario del Regime anche in materia sindacale, non si rendevano conto, operando una lettura soggettiva della legislazione sindacale, che in effetti l’inquadramento autoritario dei sindacati era perfettamente coerente alle impostazioni di Alfredo Rocco (F. Perfetti, Op.cit., p. 96n), secondo appunto la deriva determinata dalla volontà di assoluto primato del capo del Governo.
(16) Si veda: S. Panunzio, Il riconoscimento rivoluzionario dei Sindacati, ‘Il Diritto del Lavoro’, aprile-maggio 1927 (cfr.: F. Perfetti, Op.cit., p. 98).
(17) ‘RIFD’, VII (1927), fasc. III (maggio-giugno), [nella rubrica: Note e discussioni] , pp. 335-339.
(18) Si tratta delle recensioni a: C. Costamagna, Diritto corporativo italiano. Torino, Unione topografica editoriale, 1927], ibidem, pp. 574-576; ed a: G. BOTTAI, L’ordinamento corporativo italiano. Discorso pronunziato alla Camera dei deputati nella tornata del 1° giugno 1927. Roma, Tip. Della Camera, 1927; ID., La Carta del Lavoro. Roma, Ediz. Del ‘Diritto del Lavoro’, 1927], ibidem, fasc. 6 (novembre-dicembre), pp. 706-707.
(19) Il problema metodologico nel diritto corporativo. Roma, Edizioni del ‘Diritto del Lavoro’, 1928.
(20) ‘Critica Fascista’, VI, 1928, n. 9 (maggio), pp. 163-165.
(21) "[…] La collaborazione tra i vari fattori della produzione predicata ed attuata da Mussolini, poggia […] su due pilastri fortissimi: il principio etico della nazione; l’organizzazione dello Stato supremo ente regolatore, entro il quale si risolvono tutti gli attriti; un massimo di libertà produttiva alle singole classi. V’è l’accordo, ma non la fusione; una ‘concordia oppositorum’ per dirla col linguaggio bruniano, non un già un livellamento. […] Marx predicava nel Manifesto che bisognava annullare le classi per far sorgere al loro posto uno Stato nuovo […]. Il segreto, invece, è un altro. Il segreto consiste nel non annullare gl’interessi di classe, ma soltanto nell’armonizzarli secondo una realtà che è implicita nelle stesse classi, la nazione (l’internazionalismo è un mito!); non smorzare le energie, ma dare ad esse una molla più forte" (La civiltà corporativa e il rinnovamento dell’economia, pp. 9-10 dell’estratto [Roma, Arte della Stampa, 1928]).
(22) Ibidem, p. 15.
(23) Ibidem, l.c
(24) "[…] Le classi produttrici devono trovare, se non in loro stesse, almeno nel loro limite esterno un minimo di tolleranza: esiste un’etica anche per gl’individui economici. […]. Il capitalismo si salva, dando, però, la mano alle classi lavoratrici. Il vecchio capitalismo […] è tramontato; ma al suo posto sorge una economia nuova, che non annulla la funzione del capitale, ma la nobilita nel senso che allarga il concetto di capitale a tutte le forse della produzione […]" (Ibidem, p. 14).
(25) La politica internazionale e l’Italia, 1929, n. 1 (gennaio), pp.6 – 8; Gli avvenimenti dell’Afganistan, n.3 (1 febbraio), pp. 60-61; Il problema universitario, n. 8 (15 aprile), pp. 148-150; Mussolini e la stabilizzazione della pace europea, n.12 (15 giugno), pp. 230-231; Aspetti dell’imperialismo inglese, n.19 (1 ottobre), pp. 375-377; Aspetti dell’imperialismo inglese. Il mandato sul Tanganika, n. 21 (1 novembre), pp. 415-417; Il disarmo navale e l’Italia, ibid., n. 24 (15 dicembre), pp. 482-483.
(26) I giovani di fronte alla Rivoluzione, n. 3 (1 febbraio 1930), p. 45.
(27) Con questo, con la cessazione della collaborazione di Curcio, non si vuol certo dire che ‘Critica Fascista’ non si occupasse più del tema del ‘corporativismo’, che anzi, molto più tardi di questo 1929-30, apparvero sulle sue pagine forti critiche al mancato appuntamento con la realizzazione del sistema sindacale-corporativo. Nel maggio 1940, ‘Critica Fascista’ pubblicò in proposito un editoriale che, come rileva Aquarone, altro non era che un elogio funebre del ‘corporativismo’, del quale si sperava comunque una rinascita a guerra finita (Alberto Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario. Tomo I. Torino, Einaudi, 1978, p. 221n).
(28) Guerra e dopoguerra, n. 15 (1 giugno 1942, pp.202-203).
(29) Le origini del sindacalismo rivoluzionario in Italia, "Civiltà fascista", 1943, fasc. di maggio, pp. 446-457.
(30) In pratica, poco prima che Del Vecchio venisse allontanato.
(31) ID., Il concetto di legge nel pensiero italiano del secolo XVI, ‘Rivista internazionale di Filosofia del diritto’ [d’ora in poi: RIFD], VI (1926), fasc. III (luglio-settembre), pp. 387-388.
(32) Ibidem, pp. 390-391.
(33) Ibidem, pp. 394-395.
(34) Ibidem, p. 397.
(35) Ibidem, p. 398.
(36) Ibidem, l.c..
(37) La modernità di Machiavelli, ib., VII (1927), fasc. 4-5 (luglio-ottobre), pp. 431-442. "L’ideale di forma politica di uno Stato giunto a maturità è quello che sappia tener conto degli interessi di tutte le categorie, di tutte le classi [...]. In uno Stato bene ordinato [...] le classi devono formare tra loro un equilibrio [...]. Machiavelli, da ciò, arriva non solo a concepire un modello di forma mista di governo - quasi uguale a quello moderno costituzionale, con un potere esecutivo e due Camere legislative, formate dall’elemento nobile (il Senato) e dall’elemento popolare (il Parlamento) in equilibrio; ma accenna a qualche cosa d’altro ancora: all’esigenza di coordinare tutte le classi di uno stato in un ordinamento fondato sui reciproci interessi e mirante al bene della collettività" (Ibid., pp. 438-439).
(38) ID., La trasformazione dello Stato, ‘RIFD’, VIII, 1928, fasc. 1 (gen.-feb.), pp. 68-73.
(39) Ibidem, fasc. 2 (marzo-aprile), pp. 179-224.
(40) ID., Il rinnovamento dell’idea di diritto nel pensiero italiano del Rinascimento, ib., fasc. 3 (mag.-giu.), pp. 285-304. Qui noi ci riferiamo però alla paginazione dell’estratto.
(41) Ibidem, pp. 17-18.
(42) Ibidem, pp. 18-19.
(43) Ibidem, p. 19.
(44) "Il concetto prevalente è questo: il diritto è una forza naturale umana, che ha carattere rivoluzionario, attivistico, cioè, in fondo, etico. Il passaggio da questa realtà allo Stato è dato dalla legge. La legge è la regola fissa, in un dato momento, in un dato Stato, della condotta; è l’espressione di quello spirito dinamico che si fissa in norma giuridica, per essere valida per tutti i cittadini" (Ibidem, l.c.).
(45) Ibidem, pp. 19-20.
(46) Una tradizione che, fra l’altro, al di là dei fraintesi e delle riduzioni, sin dal Medioevo, si era presentata sempre come espressione di una complessa ‘tradizione romana’. Complessa in quanto in essa si erano veicolate sia i criteri di aggregazione della proportio e coequatio fra le diversità dei singoli (riconosciuti come componenti dell’articolata pluralità del corpo della nazione); sia l’idea stessa di una translatio del potere dal popolo all’imperatore (translatio da intendere dunque come affidamento condizionato alla realizzazione di più alti e migliori destini della stessa nazione, del popolo).
(47) Al riguardo, appare elusivo, se non puramente sentimentale, lo scritto in questione, intitolato: Sindacalisti e nazionalisti a Perugia fra il 1928 e il 1933 (Sergio Panunzio e la facoltà perugina. I docenti di Scienze politiche a Perugia: Michels, Orano, Maraviglia, Coppola, Pianini, Pagano, Olivetti. La morte di A. O. Olivetti. I giovani e Panunzio. Le serate al ‘Brufani’: i discorsi di storia, letteratura e politica; problemi sociali e corporativismo. Morti da non dimenticare (‘Pagine libere’, 1956, fasc. di dicembre, pp. 19-26).
(48) Il pensiero sociale di un riformatore italiano del settecento [Giambattista Pini], ‘Annali della facoltà di Scienze politiche della R.Università di Perugia. Anno 1940-41’, Padova, Cedam, 1942, pp. 25-36.
(49) Roma, Edizioni del ‘Diritto del Lavoro’, 1928.
(50) E cioè: Carlo Costamagna, Diritto corporativo italiano secondo la Carta del lavoro, la legislazione e la dottrina a tutto l’anno 1927. Con presentazione di S.E. Alfredo Rocco. Torino, Utet, 1928, pp. viii, 622, ‘RIFD’, VIII (1928), fasc. 4-5 (luglio-ottobre), pp. 595-596; ID., Il principio corporativo. Roma, Il Diritto del lavoro, 1929, Ibidem, X (1929), fasc. VI, ibid., pp. 922-924.
(51) Il carattere storico del pensiero politico italiano [prolusione al corso di Storia delle dottrine politiche, tenuta nella R. Università di Perugia, il 26 marzo 1928], in: PLURES, Dottrina e politica fascista, Firenze, La nuova Italia, 1930, pp. 177-207.
(52) "I moti popolari, - dice Vico (che "nella sua visione organica delle forme storiche degli ordinamenti politici […] considerò eterno ed ineluttabile il fondamento rivoluzionario del diritto e degli Stati") - dettati da esigenze politiche ed economiche, sono la vera origine del perfezionamento politico che s’attua, poi, nella monarchia" (Ib., p. 201n). Pertanto, nella continuità di un medesimo processo, dalle teorie romaniste sino agli scrittori del Risorgimento, lo Stato ideale si fonda tramite un’energia rivoluzionaria, si basa e si sviluppa sulla spontaneità delle "forze morali della collettività nazionale che s’organizza a comunità giuridica (Ib., p. 200). Lo Stato nasce e si sviluppa sul moto interiore di queste forze rivoluzionarie, le quali - compiuta l’opera instaurativa - "s’adagiano, poi, nell’ordine statuale, che sgorga dal loro stesso impeto volitivo" (Ib., l.c.). Dal primo Umanesimo al pieno Rinascimento, sino al giurisdizionalismo ed all’anticurialismo dei Sei-settecento, e più oltre fino ad arrivare alla filosofia politica dell’Ottocento, questi ideali di schietta eticità stanno alla base della concezione italiana dello Stato" (Ib., l.c.).
(53) Ibidem, IX (1929), fasc. VI, pp. 830-845.
(54) Il saggio apparve su ‘L’industria umbro-sabina’, nel giugno-luglio 1929, sui nn. 3-4 (giugno-luglio), poi pubblicato come volumetto, con nuova paginazione, sotto lo stesso tit.: Foligno, R. Stabilimento Feliciano Campitelli, s.d..
(55) Pubblicato dapprima su ‘L’industria umbro-sabina’, 1929, nn.7-9 (ottobre-dicembre), quindi come volumetto, con nuova paginazione, sotto lo stesso tit.: Foligno, R. Stabilimento Feliciano Campitelli, s.d..
(56) Quesito cui ora Curcio fornisce risposte che, così come sono delineate, travalicano sia la prospettiva antagonistica del fascismo, sia la stessa enfatizzazione del concetto di nazione. Non a caso anche questa ora definita nella sua correlazione di finalità e di destino con le altre nazioni. Precisamente con L’ideale del lavoro è palese che nemmeno lui guarda ormai più al valore etico che all’inizio attribuiva alla ‘rivoluziona fascista’, ma ricerca altrove il referente ad altri e più antichi valori. Anzitutto, sebbene inizialmente non sempre in maniera univoca e lineare, adesso si volge a quella parte delle concezioni etiche di matrice ‘vetero-neotestamentaria’, nelle quali ora indica il più genuino significato morale dell’idea di lavoro.
(57) Ibidem, pp. 32 e ss.
(58) E cioè, le recensioni a: Atti del I Congresso di Studi romani. Roma, Istituto di Studi romani, 1929, vol. I, RIFD, X (1930), fasc. II (gennaio-febbraio), pp.165-166; Giuseppe Kohler, Il diritto nella evoluzione creatrice della civiltà. Con introd. di R. Sammarco. Palermo, A. Trimarchi, 1928, ibid., fasc. II (marzo-aprile), pp. 295-298; Antonio PAGANO, Idealismo e nazionalismo. Milano, Treves, 1928, ibid., pp. 298-301; Adriano Tilgher, Saggi di etica e di Filosofia del diritto. Torino, Bocca, 1928, ibid., pp. 301-303.
(59) ID., bPer la teoria generale dello Stato fascista, ‘RIFD’, X, 1930, fasc. II (marzo-aprile), pp. 275-283. Nella rubrica Note e discussioni.
(60) Ibidem, fasc. II (aprile-marzo), 275.
(61) "Tanto più" - giunge a dire Curcio (con qualche difficoltà non solo di sintassi)– "che la nuova legislazione fascista, permeata da una logica impeccabile, risponde, oltreché ad esigenze pratiche, a motivi ideali, che sono già sufficienti, nella loro interpretazione dei fatti e delle idee, a dare un quadro vivo della nuova ideologia politica, statale e filosofico-giuridica che promana dalla Rivoluzione Fascista" (Ibid., p. 276).
(62) Ibidem, fasc. III (maggio-giugno), pp. 412-422.
(63) Ibidem, fasc. VI (novembre-dicembre), pp. 720-754.
(64) In questa prospettiva universalistica, qui Curcio afferma - volutamente relativizzandone il senso - che "il nostro diritto corporativo non è il primo a fare il suo ingresso nella storia giuridica e sociale dei popoli, dove si sono prodotte molte esperimentazioni giuridiche similari" (Ibid., p. 418). L’argomento della pluralità degli ordinamenti giuridici è in questo breve saggio riproposto da Curcio: in rapporto alla stessa natura del diritto, di per sé relazionale, pluralistica. "Il diritto è soprattutto rapporto, coordinamento. Esso si esaurisce […], come nota acutamente Giorgio Del Vecchio, ‘nella relazione intersubiettiva o bilaterale, ossia nella coordinazione del contegno di più soggetti [Il riferimento è nuovamente a: G. Del Vecchio, Sulla statualità del diritto, ‘RIFD’, IX, 1929, fasc. I, pp. 1-21] (Curcio I problemi del diritto corporativo, cit., p. 415). Una conclusione che secondo Curcio va applicata allo stesso diritto corporativo, nel quale più che mai s’affermano i problemi di relazioni, di rapporti, di coordinazione; problemi - del resto - "non ancora chiariti", che però occorre affrontare e risolvere prima di altri, perché è dalla loro comprensione, valutazione soluzione che dipendono tutti gli altri problemi", che invece - ad uno sguardo superficiale - potrebbero apparire in qualche misura avulsi dal complessivo contesto delle questioni del diritto (Ibid., l.c.).
(65) "Secondo l’accezione più comune della dottrina, - riassunta appunto da Gierke - la corporazione è quel corpus unum, quella società unitaria, i cui membri sono tra loro come le membra del corpo umano: collegia, universitates, corpora moralia et politica hanno il loro carattere precisato da questa concezione organicistica, che dalla glossa ai più tardi scrittori del Rinascimento s’appalesa uniforme. Corporatus, di un corpus morale et politicum, vuol dire che questo è organizzato in modo che gli associati sono antropomorficamente collegati in un ordine che, sebbene di origine volontaria, trae dalla natura l’esempio" (Ib., pp. 416-417).
(66) Ibidem, p. 417.
(67) Ibidem, p. 418.
(68) Ibidem, p. 417.
(69) Le "[…] relazioni tra i suoi soggetti ed oggetti" (Ibidem, p. 418). D’altra parte, questo non vuol dire che sia stata necessaria la preventiva affermazione di "un criterio assolutistico, giacché nulla v’è di assoluto e di eterno nel mondo del diritto": ci sarebbe invece voluta - e ci vorrebbe ancor oggi - l’affermazione di "un criterio di chiarezza", che valesse a sciogliere ogni dubbio, a dirimere ogni controversia, a tagliare quei nodi che inevitabilmente si formano alla base di ogni discussione, ossia - afferma Curcio in un subitaneo passaggio dal passato al presente - ad eliminare ogni possibile motivazione di incertezza, persistendo la quale "è impossibile proseguire nell’opera di sistemazione e di precisazione delle figurazioni giuridiche del sistema" (Ibid., l.c.).
(70) E cioè, in: Paolo Pastori, Una teorica delle rivoluzioni come ‘mito politico’. Osservazioni a margine del saggio di Carlo Curcio ‘L’ostetrica del diritto’ (1930), pubblicata in questo stesso volume.
(71) Curcio, L’ostetrica del diritto. Note per una storia del concetto di rivoluzione, ‘RIFD’, X, 1930, fasc. VI, p. 36 [paginazione dell’estratto]). Da Machiavelli e Guicciardini (attraverso riferimenti puntuali a Mariana, Suarez, Althusius, ma anche a Milton e Locke) - , qui viene rintracciato un percorso teoretico strutturato attraverso alcune linee di pensiero inizialmente divergenti, che in qualche modo poi convergeranno per un largo tratto della speculazione filosofico-politica occidentale. Da un lato, qui si individua la linea di pensiero che da Rousseau arriva ai costituenti americani per giungere successivamente a Tocqueville. Dall’altro, si rintraccia anche la riflessione critica della rivoluzione, in quanti - avverte Curcio - con qualche sommarietà vi videro semplicemente la cesura radicale con il passato. Tale risulta essere, la linea speculativa che da Edmund Burke, giunge a Joseph de Maistre, e fino ad Antonio Rosmini. Venendo poi a tempi più recenti, infine, Curcio localizza il tipo di interpretazione che si diparte da Hegel per scindersi a sua volta: per un verso nella riflessione di Feuerbach (e da questo a Marx, a Proudhon, a Sorel e addirittura Lenin) e per l’altro verso nelle concezioni filosofiche che conducono a Gentile ed al fascismo.
(72) Pastori, La ‘via media’ nell’itinerario filosofico-politico di Carlo Curcio (1898-1971), cit., p. 454.
(73) E precisamente le recensioni a: Wilhelm HAAS, What is European Civilisation and what is its future?, London, Humphrey Milton - Oxford, University Press, 1929 (‘Lo Stato. Rivista di scienze politiche, giuridiche ed economiche’, diretta da Ettore Rosboch e Carlo Costamagna, I, 1930, pp. 242-243); Luigi Delitala, Il contratto di lavoro, Torino, Utet, 1929 (ibid., p. 243); Vincenzo Amoruso, Il sindacalismo di Enrico Corradini, Palermo, Soc. ed. O. Fiorenza, 1929 (ibid., pp. 243-244). Quindi ancora un gruppo di segnalazioni, ancora nella Rassegna delle riviste: La proprietà e il socialismo ( ibid., fasc. III, maggio-giugno, pp. 345-346); Umanismo e diritto (ibid., p. 246); Studi sociali (ibid., pp. 346-347); Teorie del lavoro (ibid., pp. 347-348); Il problema della nazionalità (ibid., p. 349). Seguirono poi, nell’ordine cronologico: un’altra recensione (Marcel de La Bigne De Villeneuve, Traité général de l’État. Essai d’une théorie realiste du droit politique. Préf. de Louis Le Fur, Paris, Libr. du Recueil Sirey, 1929, vol. I (ibid., pp. 357-363).
(74) D’altronde, sin qui, anche spigolando fra le molte altre composizioni apparse su ‘Lo Stato’ nel 1930, alcuni argomenti significativi non mancherebbero, cioè con brevi note sul momento attuale e recensioni (a libri che trattano delle funzioni sociali all’interno dell’ordinamento statuale, della storia del diritto pubblico italiano fra medioevo e primo rinascimento, ma anche del confronto fra ideale nazionale e rispetto delle minoranze etniche). Si vedano, in tal senso, sia Fascismo e università - nella rubrica: Note e discussioni (ibid., I, 1930, fasc. I, gennaio-febbraio, pp. 60-61); sia Motivi di lotta ideale (ibid., pp. 62-64). Ma soprattutto alcune recensioni, a: Adolfo Posada, Les fonctions sociales de l’État. Paris, Giard, 1929 (ibid., pp. 105-108); E. Betsa, Il diritto pubblico italiano. Dagli inizi del secolo decimoprimo alla seconda metà del secolo decimoquinto. Padova, Cedam, 1929 (ibid., pp. 111-112); Luca Dei Sabell, Nazioni e minoranze etniche. Bologna, Zanichelli, 1929, voll. 2 (ibid., pp. 112-113).
(75) Mario Casanova, Studi sul Diritto del lavoro. Pisa, Nistri-Lischi, 1929 (ibid., pp. 115-116); Walter HEINRICH, Die Staats- und Wirtschaftsverfassung des Fascismus. Berlin, Verlag für Nationalwirtschaft und Werksgemeinschaft, 1929 (ibid., pp. 116-117).
(76) Ibidem, fasc. II, marzo-aprile, pp. 209-210.
(77) Ibidem, pp. 210-215.
(78) Ibidem, p. 215.
(79) Ibidem, pp. 215-216.
(80) Ibidem, p. 217.
(81) Ibidem, pp. 217-221.
(82) Ibidem, fasc. IV, luglio-agosto, pp. 429-437.
(83) Nella rubrica: Note e discussioni, ibidem, pp. 480-484.
(84) Si veda: Politica corporativa, cit., p. 434n.
(85) Un atteggiamento, che qui risulta definito da Curcio se non proprio nel senso di una concezione istintualistica, sul tipo dell’aristotelica nozione dell’uomo ‘animale politico’, certo con qualche suggestione settecentesca, illuministica, per cui questa originaria - se così possiamo definirla - ‘istintuale spiritualità’ sociale riemergerebbe appena superato (con la ‘rivoluzione’) il formalistico edificio dell’ottocentesco ordinamento istituzionale ‘borghese’, reinnestando nel tempo presente il futuro sviluppo di un complesso sistema sia di regole, sia di reciproche obbligazioni giuridiche, sia di rapporti economici, sia di correlazioni politiche ed alla fine statuali. "[…] La politica corporativa […] rappresenta un’esigenza eterna dello spirito pratico, che si riconosce prima di tutto nel porsi come rapporto di relazioni, come società. Potrebbe quasi dirsi che nessun atteggiamento dello spirito sia tanto politico quanto questo che si attua nell’associazione. Il passaggio, anzi, dall’idea di società a quella di associazione di categoria segna, se mai, un perfezionamento dello spirito politico, che si raffina, si completa […] nel riconoscersi secondo affinità, particolarità, che si pongono come grado nel processo che va dall’individuo alla società in senso più vasto" (Ibid., p. 433).
(86) "La politica corporativa è, in definitiva, la vera politica […]. Di fronte a tutte le deviazioni, le corruzioni, i disorientamenti che la politica ha subito negli ultimi tempi, la politica corporativa rappresenta […] la reintegrazione della politicità, i cui riverberi efficaci si proiettano in tutti i rapporti della vita sociale, e cioè sul mondo giuridico, sul mondo economico, sul mondo morale dei popoli. Potrebbe dirsi, in ultima istanza, che la vera rivendicazione della politica incominci ora, con l’instaurazione del principio corporativo" (ibid., p. 435).
(87) A cominciare da Das Wert des Staates und die Bedeutigung des Einzelnen (1917) fino a Politiche Romantik (1922), Politiche Teologie (1923), per giungere a Die geistegeschichtliche Lage des heutiges Parlamentarismus (1923), a Die Diktatur (1925), e quindi alla più recente riflessione istituzionale di Verfassungslehre (del 1928).
(88) Ibidem, pp. 481-482.
(89) Ibidem, p. 483.
(90) Ibidem, l.c.
(91) Ibidem, p. 484.
(92) "Anche in Rousseau bisogna saper sceverare il grano dal loglio […]" (Ibid., l.c.).
(93) Nella rubrica: Rassegna delle riviste, cioè: I fuorusciti italiani di fronte al diritto (ibid., p. 485).
(94) Emilio Crosa, Lo Stato parlamentare in Inghilterra e Germania, Pavia, Treves, 1929 (ibid., fasc. IV, luglio-agosto, pp. 429-437, pp. 499-500).
(95) Si vedano, in tal senso: Le riforme costituzionali ed amministrative fasciste (ibid., p. 486); Un teorico dello Stato (ibid., pp. 486-489); Sorel e il fascismo (ibid., p. 489); Teorie anti-individualiste (ibid., pp. 489-490). Quindi un’altra recensione - a Giacomo Perticone, Il problema morale e politico, Torino, Paravia, 1930 (ibid., pp. 503-504) – e poi, nella rubriche Note e discussioni e Rassegna delle riviste : Un corporativista italiano di trent’anni fa [G. Velio Ballarini] (fasc. V, settembre-ottobre, pp. 587-589); Un critico della Rivoluzione francese [Edmund Burke] (, ibid., pp. 590-592); Sempre intorno alla crisi dello Stato (ibid., pp. 592-593); Per una riforma dello Stato (ibid., pp. 593-594); Il Partito e lo Stato ( ibid., fasc. VI, novembre-dicembre, pp. 675-677); Delusioni bolsceviche (ibid., pp. 682-684); Colonie e problema sociale (ibid., p. 685); Psicologia e politica (ibid., pp. 685-686); Democrazia e forze dello spirito (ibid., p. 686); La crisi della giuria popolare (ibid., pp. 686-687); Intorno al concetto di rivoluzione (ibid., pp. 687-688). L’annata 1930 si conclude infine con un gruppo di altre recensioni, a: G. BOTERO, Della Ragion di Stato. Con intr. e note di C. Morandi. Bologna, Cappelli, 1930; Politici e moralisti del Seicento. A cura di B. Croce e S. Caramella. Bari, Laterza, 1930; Tassoni, Prose politiche e morali, Bari, Laterza, 1931 (tutte e tre:ibid., pp. 701-704); Santi Nava, Il mandato francese in Siria dalle sue origini al 1929. Padova, Cedam, 1930 (bid., p. 712); Jacques VALDOUR, La doctrine corporative. Paris, Rousseau, 1929 (ibid., pp. 712-713)
(96) Sulla ‘Zeitschrift für Politik’, XX, 1930, Heft 6 (Sept.), pp. 399-411.
C’è una personale teoria federalista, tutta da rapportare agli ultimi anni ’30, alla base del forte interesse storiografico di Carlo Curcio per i progetti di unificazione del Vecchio Continente, così come essi nel 1958 vengono da lui esposti nel volume Europa - Storia di un’idea (Firenze, Vallecchi) e in altri pregiati scritti minori, antecedenti o successivi a quella data. Ci troviamo di fronte a un problema politico in cui è implicita la presenza del mito dell’unione europea, quale "ideale di una solidarietà europea internazionale", espresso negli ultimi secoli, appunto, attraverso le forme o le formule delle varie proposte di federazione.
L’attenzione di Curcio per tale affascinante mito, del quale egli auspicava il passaggio alla realtà politica, si può cogliere in pieno solo se ci si immerge nel clima del primo dopoguerra. Sotto la spinta delle tragiche esperienze vissute, l’idea d’Europa, che aveva trovato grande ospitalità nel pensiero politico del XVIII e XIX, tornava a essere riproposta e, per giunta, a essere elaborata sul modello degli Stati Uniti d’America, la cui influenza, accresciutasi nell’aprile del ‘17 con l’entrata in guerra a difesa dei valori della democrazia e della libertà dei popoli, cominciava già a imporsi sui destini dell’umanità. Si può dire che questo periodo segna l’inizio di un primo delinearsi del problema del federalismo europeo, che viene introdotto con precisi riferimenti politici e supportato da concrete soluzioni. Rientra in tale fase tutta una serie di iniziative culturali e politiche che è utile ricordare per un’esatta collocazione del mito curciano d’Europa: nel 1918 Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat, e Attilio Cabiati, professore al Regio Istituto Superiore di Commercio di Genova, davano alle stampe per i tipi dei Fratelli Bocca Editori un sostanzioso saggio dal titolo Federazione europea o lega delle Nazioni? (Milano-Torino-Roma), in cui prescrivevano un’efficace "terapia" per la pace; tra il 1918 e il 1920 Luigi Einaudi (sotto lo pseudonimo di Junius) criticava sul "Corriere della Sera" il fallace ordine internazionale scaturito dalla Società delle Nazioni e si faceva sostenitore di un progetto federale(1); nel 1923 nasceva "L’Unione paneuropea" ad opera del conte austriaco Riccardo Coudenhove-Kalergi, noto per avere in precedenza diffuso un messaggio alla stampa europea affinché si facesse paladina dell’unificazione del Continente; il 29 gennaio 1925 il radicale francese Édouard Herriot esponeva con successo, dinanzi all’Assemblea Nazionale, una sua proposta di "Europa unita"; quattro anni dopo, il 7 settembre 1929, un altro politico francese, il socialista indipendente Aristide Briand, assunta la carica di Presidente del Consiglio, presentava, a nome del suo Governo, un progetto di unione europea, alla stesura del quale, nel corso dei lavori della decima Assemblea generale della Società delle Nazioni, riunita a Ginevra, aveva partecipato il cancelliere tedesco Gustavo Stresemann. A queste voci ufficiali, nel frattempo, facevano eco quelle dei fuorusciti, dei confinati, degli esuli antifascisti, tra i quali non mancavano indicazioni di tipo federalista, come quelle di Luigi Sturzo, di Ernesto Rossi e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli.
L’ondata di europeismo, seppure ancora non ben definito e aperto a ogni equivoco, investì la cultura italiana. I segni maggiori si ebbero nel 1932 con due grossi eventi : la pubblicazione della Storia d’Europa nel secolo decimonono di Benedetto Croce (Bari, Laterza) e lo svolgimento a Roma, dal 14 al 20 novembre [esattamente 71 anni come oggi], di uno dei Convegni Volta, organizzati annualmente dalla Reale Accademia d’Italia, dedicato proprio al tema "Europa". Si trattava di fatti scaturiti da posizioni ideologiche divergenti, ma, almeno apparentemente, collegati da un unico filo conduttore. Croce, da parte liberale, annotava che in ogni parte d’Europa si assisteva "al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità [ ... ] così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s’innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate". E, subito dopo, aggiungeva che "questo processo di unione europea" era "direttamente opposto alle competizioni dei nazionalismi"(2). Il Convegno Volta, voluto dal senatore Guglielmo Marconi e sostenuto dall’ala moderata del fascismo con alla testa il giurista e ministro Vittorio Scialoia, avvertiva l’esigenza politica di una nuova Europa, senza, purtuttavia, giungere a una solenne condanna dei vecchi schemi e dei vecchi separatismi. Segretario e anima dell’assise romana fu il filosofo Francesco Orestano, che, tre anni prima, al Congresso storico internazionale di Berlino, tenutosi precisamente dal 2 al 4 ottobre 1929, aveva tenuto un’interessante e apprezzata relazione su Gli Stati Uniti d’Europa(3). Che sul tema, prettamente politico, del Convegno Volta, ci fosse l’autorizzazione dall’alto – come acutamente osserverà Rodolfo de Mattei, che di quel periodo fu testimonio – non ci dovrebbero essere dubbi di sorta(4). Ma non passò molto tempo che la conferma al beneplacitum a trattare argomenti di largo respiro sull’unione europea giunse dal massimo vertice del regime. Benito Mussolini, infatti, il 15 giugno 1934, rivolgendosi al popolo di Venezia, così si esprimeva: "Sia detto ancora una volta che una terribile alternativa sta dinanzi alla coscienza di tutti i popoli europei. O essi ritrovano un minimo di unità politica, di collaborazione economica, di comprensione morale, o il destino dell’Europa è irrevocabilmente segnato". Erano, certamente, frasi molto generiche su un problema che, invece, andava affrontato nel dettaglio, ma, in un’Italia da un decennio soggetta a leggi speciali, bastavano per legittimare un dibattito politico-culturale che, fra l’altro, aveva la sua fonte nella migliore eredità del Risorgimento.
E ciò spiega come il trentaseienne Carlo Curcio nel 1934 – anno in cui divenne professore ordinario di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Perugia - potè dare alle stampe un saggio dal significativo titolo Verso la nuova Europa (Napoli, Chiurazzi Editori), in cui, conciliando fede fascista e mito europeista, andava oltre gli stessi risultati ufficiali del Convegno Volta sino a sottolineare che il "problema relativo alla instaurazione di un sistema politico di collaborazione effettiva e pratica tra le Nazioni europee, dopo essere passato attraverso una fase utopistica, una fase demagogica ed una fase astrattistica", poteva finalmente "entrare in una fase di concretezza piena e sicura"(5). A tal fine egli giudicava positivamente il Convegno Volta, ma, ancor più di questa assise romana, egli asseriva di apprezzare la concretezza del Patto a quattro, siglato a Roma il 7 giugno 1933 da Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna per il mantenimento della pace in Europa e per la revisione dei trattati della prima guerra mondiale nello spirito e secondo gli scopi della Società delle Nazioni.
Curcio vide in quell’accordo i presupposti di una possibile unificazione dell’Europa(6), ma presto dovette ricredersi a causa della mancata ratifica del Patto da parte della Germania e della Francia. Indipendentemente dai fatti contingenti, il "nuovo spirito europeo – egli sosteneva - deve rifarsi a motivi attivistici, energetici; vuole essere una scuola di energia, di attività, di opere [ ...] Un mito, allora? Fors’anche un mito. Ma, si badi: quando si parla di "mito" ci si riferisce a una interpretazione nuova e moderna e politica del mito; ove, cioè, questo non sia inteso come mistero da accettare supinamente, non come trasfigurazione del reale; ma come idea precisa o abbastanza precisa, come, anzi, idea-forza vera e propria. Sotto tale aspetto se mito si vuol che sia, dev’essere attivo, cosciente, consapevole; non vago, incerto, impreciso. Volere, cioè, l’Europa; creare la coscienza europea"(7).
Curcio, affrontando con memoria storica e con senso realistico il problema della realizzazione dell’unione europea e indicandone le possibili soluzioni nella federazione o nella confederazione o nello stato federale, si rendeva conto che una qualsiasi di queste tre soluzioni avrebbe comportato necessariamente una limitazione della sovranità dei singoli Stati e che un’aspettativa del genere, almeno in quegli anni ’30, sarebbe stata vana e deludente. Il solo ammettere questa possibilità avrebbe costituito, secondo il professore perugino, "un forte ostacolo alla realizzazione di una efficace collaborazione europea, collaborazione non solo ideale, ma giuridicamente effettuata"(8).
Curcio era convinto che occorreva tenere presente un’esigenza di carattere prevalentemente pratico, ossia "di non ledere in nessun modo la sovranità dei singoli Stati". Pertanto s’imponeva la necessità di adottare uno strumento capace di stabilire giuridicamente una solidarietà europea anche allo scopo di scartare, a priori, sia ogni forma di superstato e, per conseguenza, di sovranità interstatale, sia ogni forma di organizzazione che intaccasse "comunque la sovranità statuale"(9).
La questione rilevata teoricamente da Curcio nel 1934, in pieno regime fascista, sarà, per taluni aspetti, analoga a quella in cui praticamente s’imbatteranno negli anni ’50 i sei uomini di governo che, su una linea rigorosamente democratica, daranno inizio al processo di integrazione europea. Anche per costoro il più grosso ostacolo all’unificazione del Continente sarà e continuerà a essere la sovranità dei singoli Stati che una guerra più tragica della precedente aveva costretti a riflettere sui propri destini e a cercare i rimedi per evitare catastrofi maggiori.
Il metodo che sarà adottato dai padri della Comunità Europea per superare quotidianamente le difficoltà frapposte dalle rispettive sovranità degli Stati membri non differirà molto da quello che Curcio sedici anni prima, nella sua diagnosi storica e politologica, aveva immaginato come l’unico possibile per tendere verso una meta lontana, ma non utopica. "Il problema – egli aveva scritto – consiste nel trovare una forma di collaborazione – e forse quasi di compenetrazione graduale – di tali sovranità. L’organizzazione giuridica dell’Europa, insomma, dovrà fondarsi prevalentemente sulla formazione di un identico concetto di sovranità e, per conseguenza, di Stato, in modo da consentire la minor possibilità di attriti e le maggior possibilità di identità di fini"(10).
A tal proposito non era sfuggito a Carlo Curcio il saggio di Vittorio Emanuele Orlando su I presupposti giuridici di una federazione di stati, pubblicato nel 1930 negli Studi di diritto pubblico in onore di Oreste Ranelletti (Padova, Cedam). Quello scritto gli appariva "seducente". La tesi dello statista siciliano consisteva nell’ammettere come fosse possibile dedurre dalla storia che l’idea di Stato e, parallelamente, le forme di governo subiscano nel tempo "un processo di allargamento", dalle prime organizzazioni sociali a quelle contemporanee, ossia dalla polis allo Stato moderno, e che tale processo non può, né deve considerarsi concluso. Curcio non escludeva, d’accordo con Orlando, che presto, per una naturale evoluzione storica, si sarebbe giunti alla federazione degli Stati europei, ma, per la sua parte, era, allora, persuaso che questa meta sarebbe stata perseguita allorquando lo Stato fascista e corporativo avesse acquisito un adeguato "perfezionamento intensivo ed estensivo"(11).
Si colgono nella riflessione di Curcio i limiti e i condizionamenti del regime politico del tempo. Ma egli, al mutare delle circostanze, riuscì a recuperare in pieno l’essenza di quel ragionamento e a riproporla in termini nuovi nel contesto democratico del secondo dopoguerra. La pubblicazione nel 1958 dei due volumi Europa Storia di un’idea (Firenze, Vallecchi), in coincidenza con l’entrata in vigore dei Trattati di Roma, segno di una forte ripresa in campo comunitario, fece dell’autore non solo lo storico ufficiale, ma anche il più accreditato pedagogo dell’europeismo. In tale veste egli fu accolto e considerato all’interno dello stesso Movimento Federalista Europeo, laddove i giovani – come da vecchio militante posso testimoniare - venivano indirizzati alla lettura o, meglio, allo studio dell’interessante opera, tanto da avvertirsi l’esigenza di richiederne una ristampa postuma alle Edizioni ERI (Rai radiotelevisione italiana). L’opera, seppure senza l’apparato delle note e in un unico volume per favorirne una maggiore divulgazione, uscì con una Prefazione di Gian Piero Orsello e una Nota introduttiva di Dino Pasini nell’ottobre del 1978 a sette anni dalla scomparsa dell’autore e – come dai due curatori è opportunamente sottolineato - alla vigilia delle elezioni a suffragio universale per il Parlamento Europeo.
Curcio fu consapevole del ruolo attribuitogli e lo svolse in tutta coerenza a un ideale, a un mito, a cui aveva dedicato gran parte della sua ricerca scientifica. Da qui la sua preoccupazione, accompagnata a tanta amarezza, quando dovette constatare che nell’Italia democratica, nell’Italia del miracolo economico, l’idea d’Europa non era popolare, non era diffusa(12). E, allora, pensò di intensificare il suo impegno puntando soprattutto sulle nuove generazioni. Tramite una serie di scritti e di interventi a convegni, sino a quando le forze fisiche glielo consentirono, volle ribadire l’importanza e la validità dell’idea d’Europa "quale componente della storia contemporanea ai fini dell’educazione e della formazione civile dei giovani"(13).
In queste circostanze riemergeva in pieno quella sua originaria idea di federazione europea, che, alimentata da linfa democratica e introdotta finalmente in un processo di integrazione economica e politica, consentiva a Carlo Curcio di cogliere, seppure in un lontano orizzonte, l’inizio della trasformazione del mito Europa in realtà.
NOTE
(1) Cfr. Junius, Lettere politiche, Bari, Laterza, 1920.
(2) B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1965 (prima edizione 1932), pp. 314-315.
(3) F. Orestano, Gli Stati Uniti d’Europa, discorso al Congresso storico internazionale di Berlino (2-4 ottobre 1929), riportato nel volume dello steso autore Verso la nuova Europa, Milano, 1941.
(4) Cfr. R. De Mattei, Il Convegno romano (1932) della ‘Fondazione Volta sul tema: Europa’ in Idem, Europa e unione europea, Appunti tratti dalle lezioni tenute dal prof. Rodolfo de Mattei nell’anno accademico 1963-1964, Roma, Edizioni "Ricerche", p. 123
(5) C. Curcio, Verso la nuova Europa, Napoli, Chiaruzzi Editori, 1934, p. 9.
(6) Ivi, pp. 24-25 e 105-110.
(7) Ivi, p.21.
(8) Ivi, pp. 31-32.
(9) Ivi, p. 32.
(10) Ivi, pp. 32-33.
(11) Cfr. C. Curcio, Verso una nuova Europa, cit., pp. 111-114.
(12) C. Curcio, Perché l’idea europea non è popolare in Italia, in "Europa", I, 1957, n. 1, pp. 50-51.
(13) C. Curcio, L’idea d’Europa quale componente della storia contemporanea, in AA. VV., Educazione civica e storia contemporanea nella scuola italiana d’oggi, Roma, De Luca Editore, pp. 109-113. L’intervento, con lo stesso titolo, è stato integralmente riportato anche in "Rassegna di cultura e vita scolastica", Anno XXII, n. 78, luglio-agosto 1968, pp. 1-3.
Pur non riconoscendomi uno specialista di Dottrine politiche, ho accettato di buon grado di presiedere questo ‘seminario di studio’, inteso a ricordare la figura e il pensiero di Carlo Curcio, per una serie di motivi, diversi fra loro, come sempre accade, e tuttavia mossi da una sotterranea tensione convergente. In primo luogo, e mi sia concesso di esprimerlo senza credere ad una civetteria, c’è un motivo sentimentale. Siamo qui nel campo quieto, ma non sempre, delle esperienze e dei ricordi esistenzialmente significativi, quelli che pesano e tornano, di tanto in tanto, alla superficie della coscienza nella vita d’una persona. Per me, il nome di Carlo Curcio si lega a quello, indimenticabile, dell’Istituto di Scienze Politiche ‘Cesare Alfieri’ di Firenze, in Via Laura, 48, a due passi da Piazza San Marco. Nelle aule e nei corridoi vedo ancora passare come in un curioso playback, struggente e irreale a un tempo, le amate ombre di tanti colleghi e amici, alcuni scomparsi, altri tuttora attivissimi, dal preside Giuseppe Maranini, dinamico e quasi ‘mercuriale’, al giurista e politologo raffinato Pompeo Biondi, all’economista Galli, al politologo Alberto Spreafico, a Silvano Tosi, autore di un eccellente studio sul ‘colpo di Stato’, all’insigne cultore di diritto pubblico Alberto Predieri, a Giovanni Sartori e ad Antonio Zanfarino, che è oggi qui con noi. Abitavo all’epoca, nei pochi giorni che ogni settimana trascorrevo a Firenze, in Via Boccacio, a san Domenico, nella villa di Gilberto Tinacci Mannelli, sulla strada per Fiesole, in una torre storica che serberò nella memoria finché avrò vita, insieme con il grato ricordo delle serate e delle conversazioni avute con molti amici fiorentini, fra i quali un posto speciale occupano Livio Livi e la sua famiglia, in particolare Livia e Maria Grazia.
A parte quelli personali, vi sono motivi di ordine scientifico che non possono essere sottaciuti. Di questi parleranno ampiamente i colleghi che sono stati tanto generosi o semplicemente temerari da accettare la mia presidenza e i cui nomi sono di per sé una garanzia di acume critico e profondità conoscitiva. [...] Per parte mia, vorrei limitarmi a poche osservazioni introduttive su alcuni nodi centrali del pensiero di Curcio.
Le critiche rivolte alla Rivoluzione francese da quel meticoloso storico delle Dottrine politiche che fu Carlo Curcio potranno, oggi, ad orecchi sprovveduti, suonare scandalose. Ma Curcio non potrà certo essere, per così dire, arruolato fra i sostenitori della Vandea. Semplicemente, sulle generose parole d’ordine della Rivoluzione – in particolare su quella dichiarazione a portata universale, come si è potuto ingenuamente supporre, ‘Liberté, égalité, fraternité’, Carlo Curcio versa, sine ira ac studio, l’acido corrosivo d’una critica storicamente e teoreticamente fondata, che scorge e, anzi, anticipa l’esito paradossale d’una rivoluzione che sbocca nella proclamazione di un ‘imperatore della repubblica’ e fa valere la libertà non per tutti gli esseri umani, ma soltanto per i citoyens francesi, vale a dire per i proprietari d’un lembo almeno del territorio dell’Héxagone. Carlo Curcio si muoveva, in questo senso, nella più bella e consolidata tradizione sociologica, tesa a smascherare i miti della politica, e si collocava autorevolmente nel solco a suo tempo tracciato da Gaetano Mosca e ancor più, con maggior veemenza e decisione, da Vilfredo Pareto.
Nel pensiero di Curcio, che sempre aveva rifiutato i dubbi onori di incarichi e cariche del regime fascista, si dipana un filo rosso, una sorta di basso ostinato che viene riassunto, di tanto in tanto nelle sue pagine, facendo ricorso alla formula ‘fascismo liberale’ e scorgendo nella ‘fase mediana’ una via di sintesi fra individualismo e collettivismo. Un siderossilo, avrebbe forse detto Schopenhauer, ossia: una contradictio in adjecto. Non è così. Ancora una volta, Curcio si mantiene in una posizione temperata dalla ragione storica e da quella tradizione moderata che, soprattutto in nome della Destra storica liberal-cavourriana, aveva dato impulso e infine realizzato l’unità politica della Penisola. In questa prospettiva, la figura di Curcio, per una interpretazione approfondita, è da vedersi a mezza strada fra quella di un ‘cattolico liberale’ come Stefano Jacini e l’estroso atteggiarsi di un ‘liberale cattolico’ come il poeta Giacomo Noventa.
Sarebbe infine imperdonabile tacere delle intuizioni piene d’avvenire che Curcio ci riserva a proposito dell’Europa. Ancora nel pieno della ‘guerra fredda’ fra Stati Uniti e Unione Sovietica, Curcio non solo non consente che si appanni l’idea dell’Europa, ma ne preconizza, anzi, una funzione salvifica non solo per gli europei. Mi permetto qui di citare un passo, tratto da Europa, storia di un’idea (Vallecchi, Firenze, 1958, vol. II, p. 956): "L’idea d’Europa, anche quando è parso che si dovesse cercarla nei meandri di quella intricata foresta che è la storia del pensiero, ha rivelato e rivela sempre questa sua attitudine a salire, a svettare come un immenso pino, nella folta vegetazione della storia. Sotto l’ombrello del pino, siamo, prima o poi, indotti a rifugiarci, per essere riparati e protetti, noi Europei e anche coloro che, vituperando questa vecchia Europa, non possono fare a meno di cercare la sua ombra e la sua protezione".
Quella di Curcio non è, dunque, soltanto l’Europa gaullista delle ‘patrie’. È un’Europa che indica e si regge su un autentico potere europeo, con una sua difesa armata, con una politica omogenea, con una funzione specifica, nel quadro delle grandi regioni del mondo, pienamente articolata. Non era facile, negli anni in cui Curcio intravedeva questa realtà ancora in fieri, elaborarne le caratteristiche portanti e significative. Carlo Curcio ha dato un appuntamento all’evoluzione storica che è puntualmente scattato. Per questa ragione, riflettere sul suo pensiero appare oggi più che mai necessario.
Questo numero della Rassegna Siciliana è interamente dedicato alla memoria di Carlo Curcio. I contributi di Franco Ferrarotti, Eugenio Guccione e di Paolo Pastori (il cui intervento è stato sviluppato nelle dimensioni di un saggio) fanno parte degli atti, che si è ritenuto opportuno recuperare, del Seminario di studio su Carlo Curcio e i miti della politica svoltosi il 20 novembre 2003 nell’ambito delle attività culturali dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma.
Giovanissimo volontario nella prima Guerra mondiale (era nato a Napoli il 3 ottobre 1898), al termine del conflitto Carlo Curcio si laurea in giurisprudenza a Napoli e inizia la sua attività di pubblicista sui maggiori quotidiani. Da posizioni idealistico-liberali aderisce al fascismo. Il suo intendimento etico-politico si palesa comunque nella collaborazione, a partire dal 1926, alla "Rivista Internazionale di Filosofia del diritto" (fondata da Giorgio Del Vecchio nel 1921) sulle cui pagine pubblica, fra l’altro, molteplici saggi che dimostrano la sostanza di cui si alimenterà per quasi un cinquantennio la sua pluridecennale ricerca, sia nell’ambito filosofico-giuridico, sia in quello della storia del pensiero politico. Si colloca in questo contesto il nucleo solido di una sua riflessione che viene svolgendo, in una crescente presa di distanza dalle posizioni totalitarie assunte dal Regime. La sua è una critica che nella persistente adesione agli ideali politici si traduce nel riferimento all’individualità delle forze sociali e produttive.
Sin dal 1925 amplia la sua prospettiva verso molteplici interessi, con la trilogia intitolata Il Mezzogiorno e la nuova politica nazionale, nella quale comincia a dar corpo ad una delle sue principali tematiche. Da qui, fra l’altro, la creazione della rivista "Sud", nel 1927. Sotto questo profilo va visto il suo ripensamento del sindacalismo e del corporativismo quali risultano dalla sua collaborazione sia a "Critica fascista" (dal 1924), sia a "Lo Stato" (dal 1930). Negli anni successivi si fa più chiara la sua crescente adesione ad un referente più saldo e più ampio, che - sia prima che dopo la seconda guerra mondiale - ha modo di manifestarsi con la sua riflessione etica e filosofico-giuridica nella rivista di Del Vecchio. Qui ripropone un’attenta indagine sull’idea di una ‘tradizione italiana’, intesa come paradigma di valori in netta antitesi con le principali polarità ideologiche dominanti fra i due dopoguerra.
Tali sono i termini scientifici e culturali da cui muove il suo insegnamento di Storia delle Dottrine Politiche all’Università degli studi di Perugia (dal 1928) e poi alla ‘Cesare Alfieri’ di Firenze (dal 1950). È il periodo in cui riscopre contestualmente le matrici profonde del pensiero politico italiano (fra romanità, medioevo e rinascimento), ripercorrendone le radici robuste fra ‘controriforma’ e ‘ragion di Stato’, sino a ritrovarle nel pensiero meridionale settecentesco, e nell’attenta riconsiderazione dell’illuminismo europeo. Nel contempo, seguendo un’altra sua linea di interessi attentamente considerata già prima della seconda guerra mondiale, fonda nel 1957 la rivista "Europa", sulla quale collabora da subito Del Vecchio, ma soprattutto pubblica nel 1958 la sua opera fondamentale Europa. Storia di un’idea. Pertanto, nelle sue riflessioni più tarde, l’illuminismo ed il riformismo meridionale, l’ideale nazionalitario e l’europeismo, la storia e la politica, si coniugano armonicamente tra fede ideale e spirito critico. In questi studi profonde il sincero e contestuale riconoscimento non soltanto dell’universalità dei diritti umani ma anche delle concrete forze storiche e dei valori etici e religiosi. Si spegne a Roma il 27 luglio del 1971, nella continuità del suo assiduo e fervente lavoro. La sua biblioteca personale, costituita da circa 2500 volumi, è stata donata all’Istituto Luigi Sturzo ed è consultabile in SBN.
carlo curcio e i miti della politica