Sandro CIURLIA, Unitas in varietate. Ragione nominalistica e ragione ermeneutica in Leibniz, Galatina (Le), Congedo Editore, 2004.
Come sintetizza efficacemente l’autore, "la ricerca si articola lungo un triplice asse problematico: per un verso, intende determinare il senso dell’attenzione critica da Leibniz dimostrata nei riguardi della tradizione logico-ontologica del nominalismo; per l’altro, tende a studiare il senso delle suggestioni neoplatoniche su cui si fonda il sistema dell’armonia; su un ulteriore versante, mira a definire i termini di quel modello ermeneutico di ragione promosso da Leibniz negli anni in cui si infittiscono le sue riflessioni sul ruolo dell’ipotesi nella ricerca filosofica".
Nella Dissertazione preliminare al Nizzoli, Leibniz definisce il nominalismo come la corrente filosofica piú conforme allo spirito dell’età moderna. Nei nominalisti riconosce i cultori di un modello non dogmatico di ragione, i fautori della prospettiva metodologica del principio di ‘economia’, meglio noto come regola del "rasoio" di Ockham, volti a riconoscere nell’individuo come entitas tota e come termine semplice di combinazione l’unica realtà ontologicamente concepibile.
Il tema del nominalismo è stato, a lungo, analizzato dalla letteratura secondaria. Ciurlia, del resto, ha al suo attivo una monografia dedicata all’interpretazione del pensiero di Leibniz offerta da Antonio Corsano, pubblicata con questi stessi tipi nel 2002, che ha conseguito un ampio consenso di critica. Corsano aveva individuato in Leibniz un deciso nominalista, ponendo l’accento sull’influenza di Suárez e di Hobbes negli anni della formazione leibniziana, sollevando un vasto dibattito. Aveva provveduto, poi, a studiare come tale credo nominalistico sopravviva negli scritti logici maturi, sino alle soglie della monadologia. Prendendo le mosse da quest’impostazione, Ciurlia ha cercato di mutare la domanda: non piú quanto nominalismo permanga nell’impostazione speculativa leibniziana matura, ma in che misura ed in quali forme la lezione attinta dalla tradizione del nominalismo ne plasmi l’atteggiamento filosofico, fino a diventare un sottofondo critico riconoscibile nei piú vari progetti speculativi leibniziani, un Denkstil che ne suggella l’originalità.
Quella nominalistica viene definita una "vocazione ambivalente, ma irresistibile". Infatti, diventa un richiamo molto forte, per Leibniz, utile a sottrarlo ai dogmi della metafisica. In piú, gli permette di addentrarsi con sicuro piglio critico nella sua "filosofia dell’individuo", vale a dire la monadologia. Nell’espressione prima citata, compare l’aggettivo "ambivalente". Ciurlia insiste molto sulla compresenza, nella prima produzione leibniziana, di un robusto nominalismo accanto ad un altrettanto visibile realismo, da Leibniz a piú riprese manifestato, specie a proposito della sostanzialità degli enti matematici. La Disputatio de principio individui del 1663 è assai significativa al riguardo: mentre si sostiene che l’individuo è l’unica realtà concepibile, non si esita a ribadire che il numero è "essenza", perché gode degli attributi dell’idea platonica. L’attenta analisi dei testi permette di comprendere le ragioni di quest’ambivalenza. Erano gli anni in cui Leibniz avviava i propri studi matematici, ma erano anche quelli in cui il convenzionalismo gli sembrava un’utile arma per battere in breccia i dogmi della tradizione metafisica classica.
Tutto ciò offre a Leibniz la felice intuizione di mettere a punto una tavola dei termini primi del pensiero, tale da valere come guida per la scoperta. È qui che nasce la celebre arte combinatoria, da subito presentata come la nuova ars inveniendi.
Quest’attenzione per il tema dell’universale, tuttavia, rimane un fenomeno carsico. Affiora qua e là nelle riflessioni leibniziane sulla questione della definizione dello statuto degli oggetti e ritorna nelle meditazioni sulla natura delle figure geometriche e sulle strutture algebriche volte a definirle. Ed anche negli anni della piena maturità, per esempio nella Confessio philosophi, riemergono tracce di essenzialismo, che Ciurlia ravvisa e pone puntualmente in evidenza.
In definitiva, il nominalismo professato da Leibniz raccoglie un programma politico-culturale di ampio respiro e si configura non piú come sinonimo di occamismo o come commento delle posizioni dei "nominales", ma come un "termine singolare collettivo", i cui motivi persistono in molteplici modi sin negli anni della piena maturità, permettendo a Leibniz di costruire una filosofia all’altezza del secolo che celebra i trionfi della ‘rivoluzione scientifica’.
Lungo quest’articolazione problematica, lo studio qui analizzato ha modo di fare i conti con i propositi leibniziani di redigere una Caratteristica universale, cioè una forma di linguaggio formalizzato, governato da una sintassi logica rigorosa, tale da rendersi il "nuovo organo" della Scienza, di mettere a punto la Scienza generale come canone di coordinazione metodologica tra le scienze e di rinnovare l’immagine e la funzione dell’enciclopedia.
Il proposito leibniziano è tanto piú ambizioso, quanto piú si considera che la struttura del linguaggio viene ritenuta l’immagine dei processi di pensiero, cui tocca il gravoso còmpito di descrivere l’essere. Tutto ciò designa un’immagine filosofica della scienza rinnovata sin dai suoi fondamenti, in cui l’enciclopedia del sapere concorre ad alimentare la "logica della scoperta". Emergono, cosí, l’attenzione per il dato particolare, la necessità di partire dalle questioni, liberandosi dal peso delle auctoritates, la tendenza a costruire modelli di soluzione dei problemi, fondati sulla loro intrinseca coerenza logica e validi solo finché ne spiegano le cause ed i meccanismi. Il luogo deputato a rendere operativa una simile concezione della scienza è l’accademia. Leibniz condivide con il suo secolo l’idea di istituzionalizzare il sapere, ma l’intenzione di fondo è quella di renderlo libero sia dai condizionamenti politici, sia dalle controversie religiose. In questo modo, l’istituzione accademica diventa il centro di riferimento di intellettuali e ricercatori retribuiti all’unico scopo di pensare per il progresso dell’umanità.
Lungo quest’itinerario, il pensiero di Leibniz si carica di venature realistico-neoplatoniche. Ne sono un limpido effetto l’immagine dell’uomo come microcosmo teso a riprodurre gli equilibri tra determinazioni individuali su cui si fonda il macrocosmo, l’idea che l’uomo sia parte dell’Uno, il frequente utilizzo del termine "emanazione", per esprimere l’attività di continua "folgorazione" mediante cui Dio crea gli elementi del mondo.
Su questo robusto sostrato neoplatonico, maturato da Leibniz a seguito della meditazione di fonti di varia natura, si fondano tanto la teoria dell’armonia, quanto il pansensismo monadologico. Nella ricerca del vero, la teoria dell’armonia universale si determina come categoria in grado di rendere ragione della concatenazione dei fatti del mondo e gli occorre a definire l’assetto dell’‘organismo-mondo’: l’uomo da estasiato contemplatore dei misteri dell’universo ne diventa il principe e l’interprete.
Un simile universo è retto, per l’appunto, dalla legge ontologico-matematica dell’armonia, la quale contempera l’attenzione leibniziana per l’individuale con l’afflato universalistico su cui si fonda l’intera sua filosofia. In quest’ottica, si pone il credo ontologico leibniziano volto a definirsi come "la sintesi di Unitas e Varietas, anzi come un modo di celebrare l’Unitas in varietate e la Varietas in unitate". L’unità dell’universo, infatti, è la fusione ontologica degli enti di cui è composto, i quali assumono significato sia in relazione ai sistemi-mondo di cui sono parte, sia in seno a quella categoria di relazione che li lega vicendevolmente e ne coordina le espressioni.
Seguendo questo percorso, si avverte ancor di piú l’incidenza della sensibilità neoplatonica di Leibniz, allorché pensiero ed essere trovano un superiore momento di sintesi in seno al linguaggio, il quale deve rendersi all’altezza sia del pensiero che pensa le cose, sia dell’armonica perfezione dell’universo che deve essere pensata. L’unità del linguaggio garantisce e suggella l’unità dell’essere: impadronirsi di un metodo idoneo a rendere la logica una tecnica di calcolo di concetti serve a celebrare l’unità del genere umano. Un’umanità che si riappropria della propria unità rifonda i propri interni equilibri.
Da ciò emerge l’immagine di un Leibniz "individualista metodologico, per il quale la lezione attinta alla tradizione del nominalismo diviene una sorta di sottofondo critico o Denkstil, che ne condiziona i principali passi speculativi". Da qui scaturisce l’attitudine a fare della ratio una forma di interpretatio, fondata sulla capacità di elaborare ipotesi e sulla tendenza a promuovere il dialogo tra i cultori delle singole scienze, contro lo "spirito di setta" dei filosofi dogmatici. Ne emerge "un’idea finita e fallibile di filosofia, da intendersi piú come uno stile di pensiero che come un sistema di conoscenze".
Lo studio si segnala per il rigore filologico e storiografico con cui si porta ad affrontare i non facili problemi critici connessi con la giovanile professione di fede nominalistica leibniziana. Il problema viene seguito nella sua evoluzione storica, vedendone le incidenze sui tanti piani della ricerca filosofica di Leibniz. Reca, inoltre, un utile contributo di chiarificazione alla delicata questione delle componenti neoplatoniche su cui si fonda il sistema dell’armonia prestabilita. L’analisi delle fonti da cui Leibniz trae ispirazione è ampia, ben condotta ed altrettanto ben documentata.
Colpisce, infine, la presentazione di un Leibniz "filosofo ermeneutico". Tutta l’ultima parte del lavoro è dedicata alla ricostruzione dell’itinerario delle riflessioni leibniziane sul tema della ‘supposizione’ ed avvince l’immagine di un Leibniz persuaso del carattere ipotetico di ogni conoscenza umana, valida solo fino a che non venga provato il contrario. Non è cosa da poco, se si considera che si sta parlando di un filosofo che scrive nel secolo dei grandi sistemi metafisici ed in un’epoca votata a determinare i principî su cui si fonda la scienza, per realizzare il sogno baconiano di un pieno ed incontrastato dominio dell’uomo sulle forze della Natura. Per Leibniz, viceversa, occorre compiere un passo per volta, è necessario ‘dare la caccia all’ignoto’ mediante un continuo ricalibrare il tiro. In questo, scrive Ciurlia, si riflette la "mentalità del matematico", attento solo a dimostrare ogni passaggio dei suoi ragionamenti. Quanto questo "atteggiamento mentale" sia la conseguenza della lezione metodologica tratta dalla tradizione del nominalismo il libro lo dimostra in modo chiaro ed efficace.
Marilena Marangio
Enzo LAURETTA, I due preti, Catania, La Cantinella, 2004.
L’ ultimo lavoro di Enzo Lauretta è, come sempre, ancora un romanzo d’amore, appassionato e tenero, tormentato e struggente, ma è anche un romanzo che apre forti problematiche sociali.
E’ un romanzo che si legge tutto d’un fiato, non solo per la scorrevolezza dello stile e la piacevolezza del racconto, ma anche per la curiosità di conoscere un finale che tutto sommato non c’è, ovvero, stranamente è lasciato alla scelta del lettore.
Dalla storia d’amore di due adolescenti, Luigi e Margherita, vissuta, lo sottolineiamo, secondo i costumi della società contemporanea, tenerezza e sesso, romanticismo e impatto con scomode realtà quotidiane, Lauretta, che riesce a entrare perfettamente nei panni dei giovani di oggi, pur avendo vissuto in un’altra generazione, ci porta a meditare, non solo sulle problematiche dell’adolescenza, sulle paure e le aspettative dei giovani, ma soprattutto su problemi scottanti della realtà che ci circonda, come la prostituzione, la sofferenza dei figli non amati, il mal di vivere dei ragazzi cresciuti in ambienti moralmente bacati, ma soprattutto ci invita a riflettere sul problema delle vocazioni e del celibato ecclesiastico.
Se nel personaggio di Margherita viviamo le paure di una ragazza rifiutata dalla famiglia, la cui procacità e sensualità sembra un marchio impressole dalla madre per ricordare al mondo il suo "mestiere", provocandole quasi vergogna della sua abbagliante e precoce bellezza, in Luigi viviamo il tormento del sacerdote che ha scelto la Chiesa perché ha perso l’amore profano, da lui vissuto anche in maniera profondamente spirituale, e si ritrova, superata la crisi d’abbandono, nuovamente attratto dal mondo, incerto su un futuro che sarà vissuto, comunque, come una terribile rinunzia.
Il bellissimo quadro che Lauretta dipinge con le parole, dell’amore fra un uomo e una donna, dolce, romantico, appassionato, fulcro della vite, espressione di un aspetto della natura umana che, proprio perché così voluto da Dio, non può essere considerato peccato, si presenta come un immane interrogativo che il cattolico di oggi pone alla sua Chiesa perché risponda, risolvendo un disagio e colmando un vuoto che, altrimenti, potrebbe portare ad una irreversibile crisi vocazionale e ad un progressivo allontanamento dei giovani da una religione troppo intrisa di formalismo: "La legge può ridurre l’uomo in schiavitù" – afferma il protagonista alla fine del racconto – "Ricordo che Gesù ha preso posizione nei confronti di certa legge: nel racconto evangelico il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Ora ho la netta impressione che l’antica tentazione di rendere schiavo l’uomo attraverso la legge, che non solo è fuori moda ma anche fuori dal contesto della Scrittura e della Tradizione, ritorni nella Chiesa attraverso la legge sul celibato" (p. 144).
Gabriella Portalone
Gaspare FRUMENTO, Un uomo ingiusto, San Donato Milanese, Collana I Salici (Narrativa) Montedit, 2004, pp. 103.
Si tratta di un giallo che appare, peraltro, un vero e proprio bozzetto della nostra Sicilia di alcuni decenni addietro.
La piazza del paese frequentata dai soliti sfaccendati, il bar principale, crocevia di affari, malizioso salotto e centro propulsore della vita cittadina, i giovani sempre in attesa di un lavoro che non arriva, soddisfatti, nell’attesa, magari del semplice possesso di una cinquecento, anche se di seconda mano. Un borgo immerso nella miseria, nella noia della routine quotidiana, avvolto in un omertoso silenzio che non è espressione di connivenza con la mafia, ma paura, solo paura delle sue terribili vendette.
In questo sfondo si svolge l’esistenza grama, ma semplice e serena, di uno dei tanti giovani di questa nostra Sicilia, che sarà anch’egli vittima di quell’ingiustizia che, in questa nostra bella, quanto tormentata terra, si accanisce sui più deboli, inesorabilmente.
Appunto il titolo del romanzo Un uomo ingiusto, dove l’aggettivo indica non l’autore, bensì la vittima dell’ingiustizia, secondo le parole di un’umile donna del popolo che con tale espressione grammaticalmente sbagliata, ma densa di appassionato dolore, piangeva il marito condannato ingiustamente, ci riporta alla dolorosa realtà della nostra Isola e alla tragica impotenza della sua gente.
Il protagonista, Tano Miceli, è un uomo semplice, non particolarmente baciato dalla sorte, che viene condannato ingiustamente per la trappola tesagli, dal suo datore di lavoro, da un farmacista, una persona unanimemente considerata " per bene", per coprire il delitto di un mafioso suo amico a cui non può rifiutare il " favore".
Tano morirà in carcere, da reo, colpevole per la società, abbandonato da tutti, solo ed innocente e la sua innocenza gli sarà un giorno riconosciuta, anche se tale riconoscimento, quasi una beffa del destino, arriverà troppo tardi, rendendolo per sempre una vittima immolata all’altare della mafia e dell’omertà, imperanti in quel piccolo paese che era stato la sua culla, la sua scuola e la sua famiglia, che tanto aveva amato e dove si era sentito altrettanto amato dalla sua gente.
Il pessimismo di cui il romanzo è intriso, ci riporta a quel concetto di sicilitudine tanto caro ad un siciliano vero come Sciascia fu, travagliato fino alla fine dall’ottimismo del sentimento e dal pessimismo della ragione, ma la sottile ironia di cui sono imbevute le pagine del libro, il continuo rifarsi al dialetto siciliano, ci ricordano anche il brioso realismo di Camilleri.
Per la vivacità dei dialoghi e la rara capacità di cogliere ed esprimere la sottile ironia insita nella tragedia siciliana, l’autore appare un consumato professionista della penna, più che un dilettante, un economista che, mosso dal sentimento e trascinato dall’immaginazione, viene prestato alla letteratura.
Gabriella Portalone