Sandro CIURLIA, Unitas in varietate. Ragione nominalistica e ragione ermeneutica in Leibniz, Galatina (Le), Congedo Editore, 2004.
Come sintetizza efficacemente l’autore, "la ricerca si articola lungo un triplice asse problematico: per un verso, intende determinare il senso dell’attenzione critica da Leibniz dimostrata nei riguardi della tradizione logico-ontologica del nominalismo; per l’altro, tende a studiare il senso delle suggestioni neoplatoniche su cui si fonda il sistema dell’armonia; su un ulteriore versante, mira a definire i termini di quel modello ermeneutico di ragione promosso da Leibniz negli anni in cui si infittiscono le sue riflessioni sul ruolo dell’ipotesi nella ricerca filosofica".
Nella Dissertazione preliminare al Nizzoli, Leibniz definisce il nominalismo come la corrente filosofica piú conforme allo spirito dell’età moderna. Nei nominalisti riconosce i cultori di un modello non dogmatico di ragione, i fautori della prospettiva metodologica del principio di ‘economia’, meglio noto come regola del "rasoio" di Ockham, volti a riconoscere nell’individuo come entitas tota e come termine semplice di combinazione l’unica realtà ontologicamente concepibile.
Il tema del nominalismo è stato, a lungo, analizzato dalla letteratura secondaria. Ciurlia, del resto, ha al suo attivo una monografia dedicata all’interpretazione del pensiero di Leibniz offerta da Antonio Corsano, pubblicata con questi stessi tipi nel 2002, che ha conseguito un ampio consenso di critica. Corsano aveva individuato in Leibniz un deciso nominalista, ponendo l’accento sull’influenza di Suárez e di Hobbes negli anni della formazione leibniziana, sollevando un vasto dibattito. Aveva provveduto, poi, a studiare come tale credo nominalistico sopravviva negli scritti logici maturi, sino alle soglie della monadologia. Prendendo le mosse da quest’impostazione, Ciurlia ha cercato di mutare la domanda: non piú quanto nominalismo permanga nell’impostazione speculativa leibniziana matura, ma in che misura ed in quali forme la lezione attinta dalla tradizione del nominalismo ne plasmi l’atteggiamento filosofico, fino a diventare un sottofondo critico riconoscibile nei piú vari progetti speculativi leibniziani, un Denkstil che ne suggella l’originalità.
Quella nominalistica viene definita una "vocazione ambivalente, ma irresistibile". Infatti, diventa un richiamo molto forte, per Leibniz, utile a sottrarlo ai dogmi della metafisica. In piú, gli permette di addentrarsi con sicuro piglio critico nella sua "filosofia dell’individuo", vale a dire la monadologia. Nell’espressione prima citata, compare l’aggettivo "ambivalente". Ciurlia insiste molto sulla compresenza, nella prima produzione leibniziana, di un robusto nominalismo accanto ad un altrettanto visibile realismo, da Leibniz a piú riprese manifestato, specie a proposito della sostanzialità degli enti matematici. La Disputatio de principio individui del 1663 è assai significativa al riguardo: mentre si sostiene che l’individuo è l’unica realtà concepibile, non si esita a ribadire che il numero è "essenza", perché gode degli attributi dell’idea platonica. L’attenta analisi dei testi permette di comprendere le ragioni di quest’ambivalenza. Erano gli anni in cui Leibniz avviava i propri studi matematici, ma erano anche quelli in cui il convenzionalismo gli sembrava un’utile arma per battere in breccia i dogmi della tradizione metafisica classica.
Tutto ciò offre a Leibniz la felice intuizione di mettere a punto una tavola dei termini primi del pensiero, tale da valere come guida per la scoperta. È qui che nasce la celebre arte combinatoria, da subito presentata come la nuova ars inveniendi.
Quest’attenzione per il tema dell’universale, tuttavia, rimane un fenomeno carsico. Affiora qua e là nelle riflessioni leibniziane sulla questione della definizione dello statuto degli oggetti e ritorna nelle meditazioni sulla natura delle figure geometriche e sulle strutture algebriche volte a definirle. Ed anche negli anni della piena maturità, per esempio nella Confessio philosophi, riemergono tracce di essenzialismo, che Ciurlia ravvisa e pone puntualmente in evidenza.
In definitiva, il nominalismo professato da Leibniz raccoglie un programma politico-culturale di ampio respiro e si configura non piú come sinonimo di occamismo o come commento delle posizioni dei "nominales", ma come un "termine singolare collettivo", i cui motivi persistono in molteplici modi sin negli anni della piena maturità, permettendo a Leibniz di costruire una filosofia all’altezza del secolo che celebra i trionfi della ‘rivoluzione scientifica’.
Lungo quest’articolazione problematica, lo studio qui analizzato ha modo di fare i conti con i propositi leibniziani di redigere una Caratteristica universale, cioè una forma di linguaggio formalizzato, governato da una sintassi logica rigorosa, tale da rendersi il "nuovo organo" della Scienza, di mettere a punto la Scienza generale come canone di coordinazione metodologica tra le scienze e di rinnovare l’immagine e la funzione dell’enciclopedia.
Il proposito leibniziano è tanto piú ambizioso, quanto piú si considera che la struttura del linguaggio viene ritenuta l’immagine dei processi di pensiero, cui tocca il gravoso còmpito di descrivere l’essere. Tutto ciò designa un’immagine filosofica della scienza rinnovata sin dai suoi fondamenti, in cui l’enciclopedia del sapere concorre ad alimentare la "logica della scoperta". Emergono, cosí, l’attenzione per il dato particolare, la necessità di partire dalle questioni, liberandosi dal peso delle auctoritates, la tendenza a costruire modelli di soluzione dei problemi, fondati sulla loro intrinseca coerenza logica e validi solo finché ne spiegano le cause ed i meccanismi. Il luogo deputato a rendere operativa una simile concezione della scienza è l’accademia. Leibniz condivide con il suo secolo l’idea di istituzionalizzare il sapere, ma l’intenzione di fondo è quella di renderlo libero sia dai condizionamenti politici, sia dalle controversie religiose. In questo modo, l’istituzione accademica diventa il centro di riferimento di intellettuali e ricercatori retribuiti all’unico scopo di pensare per il progresso dell’umanità.
Lungo quest’itinerario, il pensiero di Leibniz si carica di venature realistico-neoplatoniche. Ne sono un limpido effetto l’immagine dell’uomo come microcosmo teso a riprodurre gli equilibri tra determinazioni individuali su cui si fonda il macrocosmo, l’idea che l’uomo sia parte dell’Uno, il frequente utilizzo del termine "emanazione", per esprimere l’attività di continua "folgorazione" mediante cui Dio crea gli elementi del mondo.
Su questo robusto sostrato neoplatonico, maturato da Leibniz a seguito della meditazione di fonti di varia natura, si fondano tanto la teoria dell’armonia, quanto il pansensismo monadologico. Nella ricerca del vero, la teoria dell’armonia universale si determina come categoria in grado di rendere ragione della concatenazione dei fatti del mondo e gli occorre a definire l’assetto dell’‘organismo-mondo’: l’uomo da estasiato contemplatore dei misteri dell’universo ne diventa il principe e l’interprete.
Un simile universo è retto, per l’appunto, dalla legge ontologico-matematica dell’armonia, la quale contempera l’attenzione leibniziana per l’individuale con l’afflato universalistico su cui si fonda l’intera sua filosofia. In quest’ottica, si pone il credo ontologico leibniziano volto a definirsi come "la sintesi di Unitas e Varietas, anzi come un modo di celebrare l’Unitas in varietate e la Varietas in unitate". L’unità dell’universo, infatti, è la fusione ontologica degli enti di cui è composto, i quali assumono significato sia in relazione ai sistemi-mondo di cui sono parte, sia in seno a quella categoria di relazione che li lega vicendevolmente e ne coordina le espressioni.
Seguendo questo percorso, si avverte ancor di piú l’incidenza della sensibilità neoplatonica di Leibniz, allorché pensiero ed essere trovano un superiore momento di sintesi in seno al linguaggio, il quale deve rendersi all’altezza sia del pensiero che pensa le cose, sia dell’armonica perfezione dell’universo che deve essere pensata. L’unità del linguaggio garantisce e suggella l’unità dell’essere: impadronirsi di un metodo idoneo a rendere la logica una tecnica di calcolo di concetti serve a celebrare l’unità del genere umano. Un’umanità che si riappropria della propria unità rifonda i propri interni equilibri.
Da ciò emerge l’immagine di un Leibniz "individualista metodologico, per il quale la lezione attinta alla tradizione del nominalismo diviene una sorta di sottofondo critico o Denkstil, che ne condiziona i principali passi speculativi". Da qui scaturisce l’attitudine a fare della ratio una forma di interpretatio, fondata sulla capacità di elaborare ipotesi e sulla tendenza a promuovere il dialogo tra i cultori delle singole scienze, contro lo "spirito di setta" dei filosofi dogmatici. Ne emerge "un’idea finita e fallibile di filosofia, da intendersi piú come uno stile di pensiero che come un sistema di conoscenze".
Lo studio si segnala per il rigore filologico e storiografico con cui si porta ad affrontare i non facili problemi critici connessi con la giovanile professione di fede nominalistica leibniziana. Il problema viene seguito nella sua evoluzione storica, vedendone le incidenze sui tanti piani della ricerca filosofica di Leibniz. Reca, inoltre, un utile contributo di chiarificazione alla delicata questione delle componenti neoplatoniche su cui si fonda il sistema dell’armonia prestabilita. L’analisi delle fonti da cui Leibniz trae ispirazione è ampia, ben condotta ed altrettanto ben documentata.
Colpisce, infine, la presentazione di un Leibniz "filosofo ermeneutico". Tutta l’ultima parte del lavoro è dedicata alla ricostruzione dell’itinerario delle riflessioni leibniziane sul tema della ‘supposizione’ ed avvince l’immagine di un Leibniz persuaso del carattere ipotetico di ogni conoscenza umana, valida solo fino a che non venga provato il contrario. Non è cosa da poco, se si considera che si sta parlando di un filosofo che scrive nel secolo dei grandi sistemi metafisici ed in un’epoca votata a determinare i principî su cui si fonda la scienza, per realizzare il sogno baconiano di un pieno ed incontrastato dominio dell’uomo sulle forze della Natura. Per Leibniz, viceversa, occorre compiere un passo per volta, è necessario ‘dare la caccia all’ignoto’ mediante un continuo ricalibrare il tiro. In questo, scrive Ciurlia, si riflette la "mentalità del matematico", attento solo a dimostrare ogni passaggio dei suoi ragionamenti. Quanto questo "atteggiamento mentale" sia la conseguenza della lezione metodologica tratta dalla tradizione del nominalismo il libro lo dimostra in modo chiaro ed efficace.
Marilena Marangio
Enzo LAURETTA, I due preti, Catania, La Cantinella, 2004.
L’ ultimo lavoro di Enzo Lauretta è, come sempre, ancora un romanzo d’amore, appassionato e tenero, tormentato e struggente, ma è anche un romanzo che apre forti problematiche sociali.
E’ un romanzo che si legge tutto d’un fiato, non solo per la scorrevolezza dello stile e la piacevolezza del racconto, ma anche per la curiosità di conoscere un finale che tutto sommato non c’è, ovvero, stranamente è lasciato alla scelta del lettore.
Dalla storia d’amore di due adolescenti, Luigi e Margherita, vissuta, lo sottolineiamo, secondo i costumi della società contemporanea, tenerezza e sesso, romanticismo e impatto con scomode realtà quotidiane, Lauretta, che riesce a entrare perfettamente nei panni dei giovani di oggi, pur avendo vissuto in un’altra generazione, ci porta a meditare, non solo sulle problematiche dell’adolescenza, sulle paure e le aspettative dei giovani, ma soprattutto su problemi scottanti della realtà che ci circonda, come la prostituzione, la sofferenza dei figli non amati, il mal di vivere dei ragazzi cresciuti in ambienti moralmente bacati, ma soprattutto ci invita a riflettere sul problema delle vocazioni e del celibato ecclesiastico.
Se nel personaggio di Margherita viviamo le paure di una ragazza rifiutata dalla famiglia, la cui procacità e sensualità sembra un marchio impressole dalla madre per ricordare al mondo il suo "mestiere", provocandole quasi vergogna della sua abbagliante e precoce bellezza, in Luigi viviamo il tormento del sacerdote che ha scelto la Chiesa perché ha perso l’amore profano, da lui vissuto anche in maniera profondamente spirituale, e si ritrova, superata la crisi d’abbandono, nuovamente attratto dal mondo, incerto su un futuro che sarà vissuto, comunque, come una terribile rinunzia.
Il bellissimo quadro che Lauretta dipinge con le parole, dell’amore fra un uomo e una donna, dolce, romantico, appassionato, fulcro della vite, espressione di un aspetto della natura umana che, proprio perché così voluto da Dio, non può essere considerato peccato, si presenta come un immane interrogativo che il cattolico di oggi pone alla sua Chiesa perché risponda, risolvendo un disagio e colmando un vuoto che, altrimenti, potrebbe portare ad una irreversibile crisi vocazionale e ad un progressivo allontanamento dei giovani da una religione troppo intrisa di formalismo: "La legge può ridurre l’uomo in schiavitù" – afferma il protagonista alla fine del racconto – "Ricordo che Gesù ha preso posizione nei confronti di certa legge: nel racconto evangelico il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Ora ho la netta impressione che l’antica tentazione di rendere schiavo l’uomo attraverso la legge, che non solo è fuori moda ma anche fuori dal contesto della Scrittura e della Tradizione, ritorni nella Chiesa attraverso la legge sul celibato" (p. 144).
Gabriella Portalone
Gaspare FRUMENTO, Un uomo ingiusto, San Donato Milanese, Collana I Salici (Narrativa) Montedit, 2004, pp. 103.
Si tratta di un giallo che appare, peraltro, un vero e proprio bozzetto della nostra Sicilia di alcuni decenni addietro.
La piazza del paese frequentata dai soliti sfaccendati, il bar principale, crocevia di affari, malizioso salotto e centro propulsore della vita cittadina, i giovani sempre in attesa di un lavoro che non arriva, soddisfatti, nell’attesa, magari del semplice possesso di una cinquecento, anche se di seconda mano. Un borgo immerso nella miseria, nella noia della routine quotidiana, avvolto in un omertoso silenzio che non è espressione di connivenza con la mafia, ma paura, solo paura delle sue terribili vendette.
In questo sfondo si svolge l’esistenza grama, ma semplice e serena, di uno dei tanti giovani di questa nostra Sicilia, che sarà anch’egli vittima di quell’ingiustizia che, in questa nostra bella, quanto tormentata terra, si accanisce sui più deboli, inesorabilmente.
Appunto il titolo del romanzo Un uomo ingiusto, dove l’aggettivo indica non l’autore, bensì la vittima dell’ingiustizia, secondo le parole di un’umile donna del popolo che con tale espressione grammaticalmente sbagliata, ma densa di appassionato dolore, piangeva il marito condannato ingiustamente, ci riporta alla dolorosa realtà della nostra Isola e alla tragica impotenza della sua gente.
Il protagonista, Tano Miceli, è un uomo semplice, non particolarmente baciato dalla sorte, che viene condannato ingiustamente per la trappola tesagli, dal suo datore di lavoro, da un farmacista, una persona unanimemente considerata " per bene", per coprire il delitto di un mafioso suo amico a cui non può rifiutare il " favore".
Tano morirà in carcere, da reo, colpevole per la società, abbandonato da tutti, solo ed innocente e la sua innocenza gli sarà un giorno riconosciuta, anche se tale riconoscimento, quasi una beffa del destino, arriverà troppo tardi, rendendolo per sempre una vittima immolata all’altare della mafia e dell’omertà, imperanti in quel piccolo paese che era stato la sua culla, la sua scuola e la sua famiglia, che tanto aveva amato e dove si era sentito altrettanto amato dalla sua gente.
Il pessimismo di cui il romanzo è intriso, ci riporta a quel concetto di sicilitudine tanto caro ad un siciliano vero come Sciascia fu, travagliato fino alla fine dall’ottimismo del sentimento e dal pessimismo della ragione, ma la sottile ironia di cui sono imbevute le pagine del libro, il continuo rifarsi al dialetto siciliano, ci ricordano anche il brioso realismo di Camilleri.
Per la vivacità dei dialoghi e la rara capacità di cogliere ed esprimere la sottile ironia insita nella tragedia siciliana, l’autore appare un consumato professionista della penna, più che un dilettante, un economista che, mosso dal sentimento e trascinato dall’immaginazione, viene prestato alla letteratura.
Gabriella Portalone
Ho avuto la ventura di essere uno dei protagonisti dell’Operazione Milazzo in quanto, essendo nel 1958 deputato al Parlamento siciliano e presidente del Gruppo del MSI, partecipai agli incontri che precedettero la nascita del Governo Milazzo e ne fui uno dei componenti quale Assessore all’Agricoltura e Foreste.
Nel 1996, con la Casa editrice Sellerio, ho pubblicato il saggio La rivolta siciliana del 1958. Il I governo Milazzo la cui elaborazione mi ha portato a svolgere una approfondita analisi del milazzismo e anche alla collocazione dell’avvenimento in una posizione diversa da quella fino ad allora pubblicizzata.
Comunemente nel passato l’operazione Milazzo era vista con riferimento all’insieme dei tre governi che dall’Ottobre 1958 al febbraio del 1960 si erano susseguiti, mentre io dimostrai che essa andava riferita solo ed esclusivamente al I Governo, perché nella maggioranza che aveva costituito il secondo e il terzo Governo non c’erano più le destre, non c’era il MSI e non c’era il PDM e mancava, quindi, quell’essere insieme di destre e sinistre o più esattamente come si diceva allora quell’essere insieme di fascisti e comunisti che diede vita al Milazzismo. Erano in pratica, il secondo e il terzo, governi di Centrosinistra, sostenuti dal PCI soprattutto per impedire ai socialisti di realizzare l’alleanza con la DC, a quel tempo ai primi passi.
Ciò detto, andiamo a questo nuovo libro di Gabriella Portalone Gentile dal titolo Sturzo e l’Operazione Milazzo, un libro che a me sembra di grande interesse per tre motivi principali.
Primo motivo: perché documentatamente fa chiarezza nei rapporti tra Don Luigi Sturzo e Silvio Milazzo per quanto riguarda specificatamente l’Operazione.
Secondo motivo: perché esso aggiunge ulteriori elementi a dimostrazione che il I Governo Milazzo non ebbe niente da spartire con la mafia.
Terzo motivo: perché porta un ulteriore contributo alla definizione della personalità di Silvio Milazzo.
In ordine al primo motivo va infatti detto che la tesi che il libro sostiene e cioè di un Don Luigi Sturzo che non dà un effettivo consenso al Milazzo dell’Operazione, ma neppure mai lo sconfessa, mi sembra - considerata in una valutazione complessiva - la più corretta.
È pur vero infatti che c’è un indiscutibile appoggio nella fase inziale, quando l’Operazione serve anche per scalzare Fanfani dal potere e così impedire lo slittamento a sinistra del partito DC, che è la grande preoccupazione di Don Luigi Sturzo, ma è altrettanto vero che l’illustre sacerdote - anche se Milazzo non accoglie il suo invito di dimettersi -, continua a difenderlo quando la Direzione nazionale della DC lo espelle dal partito e in seguito continua a colloquiare con Lui, dandogli consigli sulle iniziative legislative e amministrative da portare avanti.
E i consigli, che a volte diventano vere e proprie direttive, continueranno per tutto il I governo e, in certo senso, fino alla sua morte che, come è noto, avvenne nell’Agosto 1959.
Per quanto riguarda le questioni oggetto di discussione tra i due, rivestono particolare importanza quelle riguardanti l’agricoltura, le leggi elettorali e il caso La Cavera. Gabriella Portalone ben rende le tre questioni. E in merito alla agricoltura ha fatto benissimo a presentarci la diversità di pensiero tra i due: un pernsiero indubbiamente conservatore, quello di Sturzo, un pensiero di gran lunga evoluto, caratterizzato da principii di modernizzazione, quello di Milazzo.
Pur nella diversità di pensiero Milazzo però, nei termini in cui è possibile, inserisce nei vari progetti di legge non poche proposte del Maestro. Naturalmente non esita a respingerle quando le proposte intaccano la sua stessa visione dell’agricoltura, sia pure accampando giustificazioni. In proposito è istruttiva la lettera che la Portalone riporta a pag. 596.
In merito alle leggi elettorali in dissenso è più marcato. Sturzo è per l’abolizione del voto segreto, per l’abolizione delle preferenze e sostanzialmente contro la proporzionale. In un certo senso Sturzo è un anticipatore del bipolarismo: il centro destra da un lato e il centro sinistra dall’altro.
E bisogna dargli atto che fu il primo a riconoscere la legittimità costituzionale del MSI e a proporre, nelle elezioni amministrative di Roma del dopoguerra, che con esso la DC si dovesse alleare per combattere il comunismo, che considerava il male di tutti i mali.
Milazzo per non scontentare il Maestro non si imbarcherà in una legge di riforma elettorale vera e propria e si limiterà a trasformare la proporzionale corretta in proporzionale pura. Sturzo però non terrà conto del comportamento del figlioccio e non solo sarà polemico, ma addirittura anche molto pesante negli articoli che pubblicherà contro di Lui sul "Giornale d’Italia", come si può leggere a p. 647.
Il caso La Cavera è oggetto di una quasi rottura tra Sturzo e Milazzo. E ben lo evidenzia la Portalone nel suo libro. Milazzo, pressato dalle forze politiche a favore di La Cavera e al tempo stesso fortemente richiamato da Sturzo, prenderà tempo e non porterà mai in Giunta di governo il provvedimento di nomina di La Cavera a direttore generale della Sofis.
La nomina infatti avvenne il 5 maggio, ad Assemblea sciolta e a Governo praticamente concluso, essendo già alle ultime battute la campagna elettorale regionale del 1959.
Per quanto concerne il secondo motivo, quello del rapporto Mafia-Milazzo, va premesso che nel mio saggio è affermato che Milazzo non solo non ha avuto alcun rapporto con la mafia, ma anzi che proprio durante il primo Governo si sono avute le prime importanti iniziative antimafia.
E ho potuto realizzarle perché ero stato proprio io, quale assessore all’Agricoltura e Foreste:
1) ad avviare e portare a termine nel giro di tre mesi l’inchiesta sull’Eras che documentò una chiara collusione tra mafia e pubblica amministrazione e diede luogo, a parte la trasmissione degli atti alla Magistratura, alla defenestrazione del presidente dell’Eras, prof. Zanini e alla sospensione dall’incarico di direttore generale del dottore Cammarata;
2) a mettere sotto inchiesta quasi tutti i consorzi di bonifica;
3) a destituire da presidente del Consorzio di bonifica del Birgi il dott. Ignazio Salvo in quanto eletto irregolarmente;
4) a varare le norme di riordino dei Consorzi e di nuovo ordinamento della stessa Eras.
La Portalone riporta scrupolosamente queste iniziative, però ad ulteriore comprova riferisce l’episodio della sorgente dell’Eleuterio, che è anteriore all’Operazione, ma che presenta un Silvio Milazzo che prende una posizione durissima contro la mafia. Ed è, forse, storicamente il primo intervento che afferma l’autorità dello Stato contro la mafia.
Una certa pubblicistica, al fine di accusare Milazzo di collusione con la mafia, riporta l’episodio dell’on. Pivetti che sarebbe stato schiaffeggiato dal mafioso Bontade per un presunto rifiuto a sostenere l’Operazione Milazzo. Io però, con riferimento ai miei ricordi, debbo dire che le cose andarono diversamente e cioè che l’on. Pivetti fu schiaffeggiato, sì, ma al contrario, proprio perché si rifiutava di abbandonare Milazzo.
Il terzo motivo è dato invece dalla tesi che Milazzo, anche se tiene conto dei consigli di Don Luigi Sturzo, non è per niente strumento nelle sue mani, né in quelle del gruppo di notabili che avversa Fanfani e i fanfaniani. E non è neppure strumento nelle mani dei comunisti, come da tante parti si è sostenuto e fatto credere. E la prova è riscontrabile nel fatto che Milazzo ascolta sempre i consigli di Sturzo, ma entro i limiti del possobile; e quando essi non collimano con il proprio modo di vedere, eccolo fare di testa sua, scrivendo magari al Maestro una lettera garbata per addolcirgli la pillola, come avviene in sede di elaborazione del d.d.l. sulla riforma agraria e nella legislazione elettorale.
Eppure la figura di Milazzo è stata tramandata dalla storiografia come quella di un debole, di un re travicello succube soprattutto del PCI.
Io, che ho avuto la ventura di essere stato suo collega per parecchie legislature e di aver fatto parte del suo I Governo, standogli vicino nei momenti più importanti, devo testimoniarvi - almeno in riferimento al I Governo - che non è così e che è corretto invece il ritratto che ne fa Felice Chilanti nel suo bel libro e cioè quello di un tribuno, di un eroe popolare, di un grande siciliano.
E la Portalone ha fatto bene a fare emergere con tali caratteristiche la figura di Milazzo. Io infatti continuo a sostenere che il momento più esaltante che l’Autonomia siciliana è riuscita ad esprimere è quello dell’Operazione, artefice Silvio Milazzo.
Il libro ha anche altri pregi. Per esempio, in ordine al secondo partito cattolico non c’è dubbio che la Portalone faccia ulteriore chiarezza, mettendo in evidenza che molte gerarchie della Chiesa, con in testa Don Luigi Sturzo, alla fine presero posizione contro Milazzo più per la condanna emessa dal Santo Uffizio che per la rottura dell’unità dei cattolici.
Il vescovo di Agrigento, monsignore Peruzzo, ad un certo momento dirà a Milazzo che con dispiacere è impossibilitato a seguirlo oltre. E così dicasi del Cardinale Ruffini.
Che la Chiesa, almeno nei riguardi del I Governo Milazzo, fu tollerante non ci sono dubbi. Io stesso, da Assessore regionale all’Agricoltura, mi incontrai un paio di volte con il Cardinale Ruffini e, quel che ebbe a raccomandarmi, non fu l’abbandono del governo, ma di tenere presente i valori cristiani e cattolici nell’azione di governo.
Concludendo: credo che dobbiamo essere grati a Gabriella Portalone per le importanti e documentate puntualizzazioni che opera nei rapporti Sturzo-Milazzo. Sono puntualizzazioni che ci restituiscono sia la figura di Sturzo che quella di Milazzo nel loro profondo attaccamento alla Sicilia: grandissimo siciliano l’uno, grandissimo siciliano l’altro.
In un momento in cui in varie sedi si intensificano le iniziative e le discussioni sulla validità e l’attualità dell’autonomia regionale siciliana, ospitiamo due interessanti interventi dell’On. Angelo Capodicasa (DS) e dell’On. Guido Virzì (AN) entrambi deputati all’Assemblea Regionale Siciliana e membri della Commissione speciale per la revisione dello statuto.
Angelo Capodicasa - Interrogarsi oggi, come in alcuni settori della destra succede, su categorie quali "Autonomismo", "Sicilianismo", "identità culturale" equivale a fare i conti con lo scenario europeo e mondiale e le tendenze dell’economia moderna.
Che non si tratti del rifiorire di un frutto fuori stagione ma del riproporsi di antiche vocazioni che ciclicamente necessitano di verifiche e aggiornamenti in relazione all’evolvere dei nuovi contesti politici e culturali ce lo dicono i tanti movimenti che in Europa, e non solo, sono nati ed operano nel segno della riscoperta dell"piccole patrie", dell’Autonomismo, del Federalismo o anche dell’indipendentismo e del secessionismo.
Il vecchio equilibrio politico economico ed istituzionale, che ha prevalso per circa un secolo si è rotto. La fine della guerra fredda e la divisione bipolare del mondo hanno liberato energie, hanno fatto riemergere vecchi e nuovi particolarismi ed hanno favorito l’accelerazione della globalizzazione.
Il mondo prima incapsulato nell’equilibrio del terrore, nella pace armata ha ripreso a camminare. E prima ancora che gli stati e la democrazia sono arrivate le multinazionali, sono arrivate le merci e i commerci, sono arrivati i capitali.
La globalizzazione, da fenomeno che in sé poteva costituire un fattore di benessere, di superamento degli squilibri, di lotta alla fame, alle malattie, al sottosviluppo, in assenza di un governo politico e di una finalizzazione sociale si è tradotta prevalentemente in fattore di moltiplicazione degli squilibri, di acutizzazione delle contraddizioni e di ulteriore impoverimento ed emarginazione sociale.
Le conseguenze sono identità culturali e religiose che si sentono minacciate, vecchi assetti e gerarchie sociali sconvolte, sono l’immigrazione, sono le tante guerre dimenticate del mondo, sono i fondamentalismi e il terrorismo: è un mondo diventato più piccolo ma anche più insicuro.
In Europa, già alle prese con il problema epocale della sua unità monetaria e politica, ad una opinione pubblica inquieta, attraversata da mille tensioni si offrono soluzioni contrastanti.
Da un lato chiusure xenofobe, velleitari inasprimenti di pene, esclusivismi, obsolete ed antistoriche barriere doganali ritorni ad improbabili "piccole patrie"; dall’altra in nome della giustizia, dell’equità sociale e dell’umanitarismo si oppone il sogno di un "nuovo ordine mondiale", una globalizzazione guidata ed ispirata a principi etici ed umanitari e non solo a quelli commerciali e di mercato.
Anche in Sicilia, seppure con incertezze e ambiguità concettuali, in alcuni settori della destra si è riaperta la questione che da noi è antica di secoli e che nel dopoguerra ha ricomposto contrasti e tensioni nella scelta autonomista dentro lo stato unitario.
Ci chiediamo cosa ci sia all’origine di questo reintorrogarsi sul "sicilianismo", sull’identità dei siciliani, sulle "piccole patrie".
La domanda non è oziosa. Se infatti il tema non ha solo una valenza culturale, un interrogarsi sul senso della "sicilianità", sulla "insularità d’animo" dei siciliani, come la chiamava Sciascia, ma è un interrogarsi anche sulla spendibilità politica immediata di questi concetti, una ricerca, cioè, di qualcosa che possa fondare una linea politica e non solo definire un connotato storico e culturale, allora è necessario che intervenga una risposta chiara.
Occorre sapere se tutto ciò rientra, consapevolmente o no, tra i fenomeni di rigetto che pullulano in Europa, dalla Carinzia alla Padania, da Le Pen ad Haider; se il "ritorno alle piccole patrie" costituisce un tentativo di difesa dal nuovo, la costruzione di trincee volte a spostare più in qua il confine della propria identità dopo la crisi degli stati-nazione. Se di questo si tratta allora saremmo di fronte ad un’operazione regressiva e perdente che non parla al comune sentire dei siciliani di oggi.
La storia della Sicilia ci dice che la nostra identità è frutto di sincretismo, (qualcuno dice di meticciato) del fondersi di culture, stili di vita che di essa ne hanno fatto, come scriveva Antonio Gramsci, una "quasi-nazione".
E questa identità, nei secoli, non si è mai costruita in opposizione a quella degli altri. Dai Greci, ai Romani, dai Goti, ai Bizantini, dagli Arabi, ai Normanni, agli Svevi, agli Aragonesi, agli Angioini, fino al Regno delle Due Sicilie, la nostra Storia, se non per brevissimi periodi, non è mai stata storia di aborigeni, di regni e ambiti i cui confini coincidevano con le coste della nostra isola.
La nostra collocazione al centro del Mediterraneo, che per secoli è stato l’unico mare attorno a cui si formò e crebbe la civiltà in questo angolo di mondo, non ci metteva al riparo da influenze e invasioni e ci faceva terra obbligata di conquista.
Braudel scrive che attorno a questo mare sono nate e si sono fuse culture, stili di vita, tecniche di lavorazione e di coltivazione, modi di vivere e di abitare, relazioni, sonorità e sapori che sono diventati comuni a popoli anche diversi tra loro.
Con alle spalle una storia così, la Sicilia, i siciliani, hanno costruito la loro identità, ma in modo esclusivo, ed escludente, ma aperto e polivalente che ci ha indissolubilmente legato all’Italia, all’Europa e agli altri popoli del Mediterraneo.
Il passato della Sicilia è stato quindi "euromediterraneo", e così come lo è stato il suo passato, non riusciamo ad immaginare, se non "euromediterraneo" anche il suo futuro.
In questo contesto, e solo in questo contesto, ha senso parlare di identità siciliana da far valere anche sul piano politico-istituzionale.
Le identità e le tradizioni di un popolo non sono un elemento statico, ma dinamico; non sono date una volta per tutte. Le identità si rinnovano e si implementano. Sarebbe paradossale che la nostra propensione allo scambio, al dialogo anche se non privo di conflitti, che in passato è stata alla base del rinnovarsi alla nostra identità, debba essere interrotta in epoca moderna quando tutto ciò si avvia ad essere un tratto distintivo, un connotato della modernità.
Se si condivide questo discrimine allora va sciolto un nodo, un equivoco, l’equivoco "sicilianista".
Il "sicilianismo" in letteratura, come nel costume e nella politica ha dato luogo storicamente ad una ideologia regressiva, isolazionista, intrisa di sufficienza più che di orgoglio.
Rientra in quel sentimento, come scriveva Tomasi di Lampedusa, che fa pensare ai siciliani di essere "il sale del mondo", che da un lato genera supponenza consolatoria e dall’altro inclina verso il vittimismo: sentimenti, entrambi, che portano al fatalismo e alla rassegnazione, e politicamente hanno alimentato separatismo e conservazione.
Non è ciò di cui oggi la Sicilia ha bisogno.
Questa strada in Sicilia è stata già sperimentata ed è risultata perdente sul fronte della politica e sul piano culturale.
Tanto più oggi, in epoca di federalismo e di integrazione europea, giocare la nostra identità in chiave di contrapposizione alle identità degli altri sarebbe sterile ed antistorico.
Serve, al contrario, un rilancio dell’idea autonomistica, una rimotivazione ed un aggiornamento che si misuri con le spinte più moderne e progressiste, che abbandoni un’idea vittimistica e piagnona della "specialità", che sappia assumere su di sè le proprie responsabilità e abbia le "carte in regola" per poter ambire a collocare la Sicilia nei nuovi assetti e competere nei mercati aperti e nella globalizzazione.
Il logoramento, fin quasi alla consunzione, dell’idea autonomistica, causata dall’uso nefasto che di essa si è fatto nel recente passato, ma ha estinto le ragioni storiche e culturali che ne stanno alla base. In ogni caso la cattiva prova data dalle classi dirigenti siciliane e nazionali nell’esercitare le potestà statutarie, non può giustificare lo scetticismo, o perfino la contrarietà all’Autonomia di un filone politico-culturale che di tanto in tanto, seppure timidamente, riaffiora.
Si addita l’istituto autonomistico come la causa che ha impedito lo sviluppo pieno della nostra economia, che ha impigrito la società, che ne ha spento il dinamismo sociale ed economico, che l’ha lasciata sprofondare nell’assistenzialismo e nel clientelismo. Ecco, mi sembra un bell’esempio di come si possa scambiare la causa per l’effetto.
La riprova di cosa sarebbe oggi la Sicilia senza la sua autonomia non l’abbiamo. Sappiamo cos’è la Sicilia con l’Autonomia, non sappiamo cosa sarebbe stata senza di essa. Se si pensa che all’origine dei nostri mali ci sia la specialità del nostro Statuto, rimarrebbe da spiegare com’è che la Calabria, la Campania e le altre regioni meridionali, senza autonomia, non abbiano avuto più successi di quanti non ne abbia avuti la Sicilia, ed accusino anzi, in tanti campi, ritardi ben più gravi pur avendo avuto qualcuna di esse, condizioni iniziali di partenza perfino più favorevoli delle nostre.
L’autonomia è uno strumento, ed in quanto tale non è responsabile dell’uso che di essa una classe dirigente ne fa, o ne ha fatto in passato.
Allora non basta dirsi autonomisti; occorre una strategia che nella cultura, nell’economia, nelle realazioni sociali, nell’idea dello sviluppo connoti e caratterizzi l’essere autonomisti.
Ed è qui che intervengono le differenze politiche, i diversi modi di intendere l’organizzazione della società, tra liberisti e non, tra assistenzialisti e non, tra statalisti e non; tra chi pensa ad una società aperta e chi no, in poche parole chi la pensa a destra o a sinistra, in un modo o nell’altro.
L’autonomia costituisce un primo discrimine, un minimo comune denominatore che mette in relazione forze anche molto diverse tra di loro, e che in momenti particolari, in circostanze storiche determinate, quando sono in gioco diritti fondamentali e sono minacciati interessi decisivi dei siciliani, possono ritrovarsi per combattere in loro difesa.
L’esperienza Milazzo credo sia stata una di queste.
Chi ha guardato ad essa come ad una esperienza capace di prefigurare una strategia "ordinaria" di governo della Sicilia ha sbagliato, e non può che parlare, oggi, di "occasione mancata".
Chi invece assegna a quella esperienza un significato più modesto, più delimitato, ma storicamente più fondato, di una operazione volta a dare ad una nascente borghesia un punto di riferimento, a rompere un predominio politico soffocante per la Sicilia, a contrastare un disegno delle forze politiche nazionali allora dominanti volto ad escludere la Sicilia e il Mezzogiorno dall’impresa e dalle opportunità che la ricostruzione economica del Paese e la ristrutturazione del suo apparato industriale (in vista dell’ingresso del nascente mercato comune europeo) potevano offrire; ad impedire la colonizzazione economica conseguente alla cosiddetta "calata dei monopoli", probabilmente meglio degli altri dà di quella operazione la interpretazione più corretta e le attribuisce la dignità politica e culturale di precedente storico da meditare ed approfondire.
Se si dà questa interpretazione, a mio giudizio più vicina al vero, sull’operazione Milazzo non hanno senso i rimpianti, le recriminazioni, gli imbarazzi, le reticenze che per decenni a destra come a sinistra ne hanno accompagnato l’analisi e la memoria.
In definitiva vorremmo dire che a nostro giudizio ci può essere una Sicilia di solido impianto autonomistico e nello stesso tempo rigorosa, pulita, moderna; una Sicilia autonoma, gelosa e orgogliosa delle proprie radici e nello stesso tempo aperta al mondo e alle diversità; una Sicilia autonoma ma dinamica, competitiva che gioca la sua specialità (culturale, storica, geografica) come una opportunità in più da far valere in un Mediterraneo tornato nuovamente "pianura liquida" come dice Braudel, e non confine invalicabile; area di "libero scambio" come avverrà nel 2010, e non teatro di tensioni etniche, religiose e politiche.
Queste opportunità non si trasformeranno in concrete occasioni se non ci daremo al più presto una mossa.
In un’epoca in cui gli uomini, le merci, i capitali, le idee, le tecnologie viaggiano e si muovono non più su caravelle, feluche, barche e catamarani, ma su aerei, su autostrade informatiche, in modo sempre più veloce, la nostra centralità geografica non ci dà più alcuna garanzia se non diventa al contempo qualcos’altro: capacità di offrire ciò di cui gli altri hanno bisogno, di fare "sistema" nei Beni Culturali, nel turismo, nell’industria come nell’agricoltura, con paesi e popoli a noi vincitori ed affini.
Questo rappresenta un banco di prova, già oggi, per le forze autonomistiche comunque collocate.
Se non muta il rapporto dell’Italia e dell’Europa con l’area del Mediterraneo; se non vengono attuate politiche che spostino verso Sud il baricentro dell’Europa; se non cresce il PIL dei paesi nordafricani oggi ancora ad un livello troppo basso per alimentare un interscambio significativo con la sponda nord del Mediterraneo, la Sicilia rimarrà sì al centro, ma di un’area povera e sottosviluppata. E questo significherebbe restare nel mondo sviluppato.
Guido Virzì - "Sicilianismo", autonomismo, patto per la Sicilia, federalismo avanzato: qualcuno dice che dovremmo aprire un "grande" dibattito su questi temi, confrontarci su questi "nodi" per arrivare ad un largo movimento politico, perfino trasversale, sostanzialmente mirato ad aprire, o a "riaprire" una forte Vertenza con Roma. Ce ne occupiamo, pertanto, per senso del dovere e per obbligo intellettuale perché l’argomento, siamo sinceri, non è di quelli che, come usa dire, ci scaldino il cuore. Perché ci muoviamo su un terreno scivoloso dove generalizzazioni e luoghi comuni sono in agguato ad ogni angolo.
"Sicilianismo", dunque. Dovrebbe significare, come fatto culturale di partenza, una sorta d’orgoglio per le "radici" (composite) della nostra Storia isolana, una richiesta di maggiori margini di Autonomia rispetto alle altre regioni oppure una specie di generalizzata richiesta di Giustizia per una terra che, oggettivamente, è "rimasta indietro" rispetto al resto del territorio nazionale?
Vogliamo pensare ad una sorta di "Lega Nord" al contrario? Vogliamo ragionare in termini di micro-patrie come baschi ed irlandesi?
Ma questa Sicilia da reinventare come "soggetto politico" è pensabile come un "quid" riconducibile all’unità? Cominciamo a porre le questioni perché un soggetto politico deve avere una sua fisionomia precisa e, posto in discussione, deve evocare automaticamente un concetto preciso, dai contorni netti. Per essere più chiari: quando pensiamo alla Sicilia da riportare alla ribalta nazionale, pensiamo ad una "Sicilia Normanna" o Sveva oppure ad una "Sicilia araba", ad un’Isola spagnola (coi suoi bravi Viceré, le carrozze, il barocco, i pennacchi e tutto il resto) o ad una Sicilia borbonica o piemontese coi suoi burocrati d’assalto, coi campieri ed i "bavaresi" ed i suoi generali alteri e felloni?
Pensiamo ad una Sicilia irta di castelli o ad una Sicilia beata nei suoi salotti gattopardeschi?
Abbiamo in mente una Sicilia rigorosa o una Sicilia "molle" che continua a chiedere "ristori" all’aborrito Stato centralistico? Come lo concepiamo questo "pargolo", come ci immaginiamo il suo carattere distintivo, come lo vorremmo, che futuro desideriamo per Lui?
Perché per tornare ai nostri giorni, noi, ad esempio, vorremmo una Sicilia di Destra. Una Sicilia laboriosa, seria, civile, ordinata, rigorosa e cortese, gelosa delle sue tradizioni ed insieme aperta al moderno. Ma siamo convinti che anche nel centro-sinistra ci siano menti fervide che hanno a cuore il destino della nostra Madre-Terra. La risposta, semi-obbligata, è che bisogna pensare ad una Sicilia "trasversale" (perché più si è, meglio è). Ma, di fronte ad atti concreti di Governo, in cosa potrebbe concretizzarsi questa trasversalità? Tutti, a parole, vogliamo lo "Sviluppo dell’Isola"; ma dietro il velo delle "parole magiche" e delle ovvietà (l’italiano è una lingua splendida) non è ragionevole pensare che molti, dentro il concetto di Sviluppo, ci mettano, ad esempio, il Ponte sullo stretto di Messina, mentre molti altri, in assoluta buona fede, tendano ad escluderlo con orrore?
E questo "sicilianismo" si esprime con le sanatorie edilizie o col rigore della "politica delle ruspe?" E mira ad una Regione "rurale", industrializzata, aperta al Turismo di qualità, a quello di massa o cos’altro?
Ed ancora, è un "sicilianismo" che ci ricollega all’Occidente oppure è una porta aperta verso il petrolio arabo con annesse strizzatine d’occhio a Gheddafi ed ai "moderati" di Riad?
Ci si dice allora che dobbiamo pensare alla Sicilia come ad una "sintesi di Civiltà", "luogo d’incontro pacifico per culture diverse e magari antagoniste". Bellissimo a dirsi. Peccato che la Storia, in genere, non si muova così: in realtà in ogni momento della Storia (perfino in questo) le scelte concrete di Governo sono figlie della cultura egemone in quella fase. Ed i "passaggi" non sono mai stati indolori: quando qui governavano gli Arabi (senza Osama) i crocifissi furono tutti rimossi, le chiese ed i monasteri devastati e chiusi, le cappelle votive distrutte; era perfino vietato farsi in pubblico il segno della croce. Ed i Normanni li ripagarono pan per focaccia, passandoli tutti a fil di spada, lasciando vivo soltanto qualche capo-cantiere, qualche matematico e qualche poeta o giullare di corte. E tutto ciò mentre gli Ebrei del Muro Duro, prima ben chiusi nel loro ghetto, sparivano misteriosamente nelgirodi poche notti, spediti, si dice verso "migliore destinazione" a cui non s’è mai capito bene se siano davvero arrivati. Altro che "pacifica convivenza"!
"Trasversalità di tipo patriottico" da rapportarsi alle nostre emergenze? Vogliamo ritornare con la mente ai tentativi di Silvio Milazzo? Alla "unione sacra" di Destra e Sinistra "nel nome e negli interessi superiori della Sicilia"? Sappiamo tutti che non funzionò; ricordiamo tutti che alla fine prevalse la linea "antifascista" nazionale e che il MSI fu escluso dall’esperimento. E ricordiamo anche che, isolato dalla vecchia DC, Silvio Milazzo si ridusse con un micro-partito (i famosi "uscocchi") che finì a coda di topo.
E, solo che facciamo un passo indietro, andiamo all’Indipendentismo. Una cosa di cui i "sicilianisti" attuali non parlano scopertamente ma a cui alludono insistentemente quando ricordano "il sangue versato dai Siciliani che sognavano la Libertà". Ma come si fa, soprattutto a Destra, a dimenticare il ruolo decisivo dei servizi segreti "alleati" nel pompare le speranze degli indipendentisti siciliani prima in funzione antifascista e poi per mantenere in difficoltà l’autorevolezza del Regno del Sud provvisoriamente governato dal generale Badoglio? I Finocchiaro-Aprile ed i Canepa erano, certo, idealisti in buona fede. Ma di essere accompagnati da vaghe promesse future e da concreti aiuti presenti da parte degli anglo-americani erano certamente consapevoli. Ma di queste parleremo in altra sede. Il vero punto è che gli indipendentisti persero non sul fronte delle armi o della diplomazia, ma sul terreno della coscienza e del consenso popolare. Cento anni d’Unità, anche discutibili, e venti di fascismo non erano passati senza lasciar traccia. Nella sensibilità comune era penetrato il concetto che la Sicilia era ed è ITALIA. Siamo Italiani "diversi" (per Storia, cultura, sensibilità), ma lo siamo a pieno titolo. Anzi l’Italia abbiamo contribuito a farla (anche con i nostri difetti caratteriali) in maniera decisiva con un contributo imponente di azione e di pensiero da Crispi a Vittorio Emanuele Orlando ed a Giovanni Gentile, e con un contributo, questo sì, imponente di vite umane sul Piave, sul Carso, sul Monte Grappa. Non siamo mai stati "una cosa a sé", ma sempre profondamente intrecciati alle evoluzioni ed alle involuzioni della Storia d’Italia dai tempi di Dionisio e Crasso fino a Ciullo d’Alcamo, Verga e Pirandello e poi fino ad Alessi, Mattarella e Lima ed ai giorni nostri. Non siamo "una Nazione". Siamo un importante tassello del grande mosaico italico. Non siamo vittime innocenti solo di predoni "alieni". Siamo stati e siamo largamente artefici e responsabili del nostro destino. Ed abbiamo pagato, anche a caro prezzo, tutti i nostri difetti. Specie a partire dalla capacità effettuale di produrre una classe dirigente che fosse pensosa dei nostri destini, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi. Sì, nel nostro Statuto, nel famoso art. 38, abbiamo scritto e fatto sottoscrivere che lo Stato si sarebbe, nel tempo, fatto carico di eliminare il gap che ci separava, sul piano socio-economico, dal livello medio di vita del resto degli Italiani. Ma ancora oggi questa "differenza", questa "distanza" (anche in termini di prodotto interno lordo, servizi ed infrastrutture civili) è evidentissima agli occhi del più distratto osservatore. In realtà di grandi ed efficienti "paladini" del riscatto siciliano, fuori dai fumi demagogici di comizi e convegni, ne ricordiamo davvero pochi.
A ciò si aggiunga che, sia pure per salvare la faccia ai suoi proconsoli isolani, Roma ha mandato soldi in Sicilia a palate e che queste immense risorse sono state se non proprio sperperate, quanto meno, certamente mal gestite ed investite non in termini di Futuro ma di immediate esigenze occupazionali, clientelari e, diciamolo pure, schiettamente elettorali e localistiche, giusto per far "ben figurare" certi baronati. Come a dire che troppa acqua è stata versata sulla sabbia, senza saggezza, senza lungimiranza.
La Sicilia, insomma, nel suo complesso, non ha messo in campo di sicuro una classe dirigente proprio di giganti. Ed il suo "peso specifico" a Roma lo sottolinea e lo controprova.
Ma se si volesse provarci "sul serio" adesso? Non può darsi che un nuovo tentativo, in questa fase politica, avrebbe più successo che in passato?
Bisognerebbe partire da un programma, da una piattaforma precisa, non genericamente "rivendicazionista", da una "ipotesi di Sviluppo" dai contorni chiari. E qui andrebbe subito a quel paese la "trasversalità"; la convergenza non potrebbe che avvenire tra forze vive e vere, culturalmente assimilabili se non proprio omogenee. Giusto per evitar "pasticci", compromessi esiziali ed inciuci traballanti e dall’esito improbabile.
Ed allora AN siciliana dovrebbe proporre questa santa "crociata"... a chi? Ed il "forte confronto con Roma" dovremmo suggerirlo... al partito che esprime il Presidente del Consiglio? O dovremmo federarci solo coi partitini di Bartolo Pellegrino e Ciccio Nicolosi? Non è uno scenario limitato? Non appare, già di primo acchito, un panorama piccolo e povero rispetto alla vastità dell’Impresa?
Oppure ancora AN dovrebbe liquefarsi in un difficilmente ipotizzabile Partito Popolare Siciliano accanto alla compagine di Cuffaro e Lombardo? Francamente, a questi livelli, ci sentiamo in pieno territorio dell’irreale, ai confini della fanta-politica e, tra i fumi delle favole, si sembra di scorgere orchi, nani e paladini scorazzare nella Terra di Mezzo su carrettini siciliani, in marcia verso "l’Isola che non c’è" ed una destinazione ardua, incerta ed improbabile.
In realtà il primo "confronto" dovremmo averlo con la Gente, coi Siciliani, fuori dagli schemi dei partiti. Per dir loro che non si può vivere di Federico II e Duomo di Monreale, contemplando immobili i propri simboli araldici, mentre, ad esempio i Sindaci non definiscono mai i loro Piani Regolatori ed i turisti vengono regolarmente scippati, feriti, truffati, male accolti e trattati come polli da spennare invece che come risorse da preservare. E per dir loro che non si possono in eterno chiedere soldi nelle Finanziarie dello Stato per mantenere "al lavoro" una turba di "precari infiniti" quando poi, all’unica Fiera italiana nel mondo arabo, a Tripoli, giusto di fronte a casa nostra (sulla famosa "quarta sponda"), su 230 ditte nazionali che partecipano ed espongono, solo tre (dicansi tre!) sono siciliane.
Servono in realtà dei Siciliani nuovi. Con una mentalità diversa. Da incentivare, da costruire, da incoraggiare in tutti i modi. Per far fuori le scorie d’una "vecchia" Sicilia "assistita", accomodata come Giobbe tra i suoi rifiuti ed i suoi difetti, per cancellare, letteralmente, il retaggio d’una Sicilia immobile e buona solo a bofonchiare dei suoi buoni titoli per ottenere nuove "leggi speciali" ed elargizioni a fondo perduto e "a pioggia" da uno Stato ridotto alla funzione di grande elemosiniere, d’una Sicilia protervamente chiusa nella sua arretratezza che attende "dagli altri", sempre dagli altri, messianicamente, l’intervento salvifico, l’azione demiurgica, ma pozione miracolosa, l’investitore straniero o il nostrale Mattei di turno che venga, LUI! (senza disturbarci troppo nel nostro sonnellino pomeridiano o nelle nostre meditazioni profondissime quanto inconcludenti), a scoprirci qualche altro pozzo di petrolio o meglio ancora un nuovo modello di pozzo di San Patrizio.
Servono Siciliani capaci d’impresa, disintossicati dai fumi del vecchio potere partitocratico che è stato, purtroppo, l’unica formula con cui si sia saputo rappresentare da queste parti (ma non solo) lo Stato dal 1943 e la Repubblica Democratica "fondata sul lavoro" dal 1946 in poi.
Sul piano politico, poi, questa "filosofia" del "forte confronto con lo Stato" lascia un po’ perplessi perché odora lievamente di "opposizionite" atteso che è il Presidente della Regione delegato istituzionalmente a rappresentare la Sicilia in seno al Consiglio dei Ministri. Ed il Presidente è stato espresso da quella Casa delle Libertà che è lo stesso schieramento politico cui appartengono i 61 deputati e senatori su 61 chiamati a rappresentare e difendere la Sicilia ed i suoi legittimi interessi nei due rami del Parlamento nazionale e che è la stessa coalizione che, guarda un po’, ha dato forma e volti all’attuale compagine nazionale di Governo.
Ed allora, prima di lanciare certi appelli, non sarebbe il caso di riunire i numerosi rappresentanti siciliani del centro-destra per dir loro di "darsi una mossa" e di "portare a casa" un qualche risultato tangibile ed apprezzabile? Oppure si deve trovare il coraggio civile per dire che la rappresentanza siciliana del centro-destra (e della Destra) è "inadeguata alla bisogna" e che bisogna largamente sostituirla con un personale politico più risoluto ed intransingente nella difesa della propria gente, del proprio elettorato, della propria Terra. E qui tutti i partiti del centro-destra (Destra compresa, anzi in prima linea) dovrebbero avviare, già a partire dal loro interno, una grande opera di rinnovamento, di palingenesi e catarsi capace di sboccare nella messa in campo d’un personale politico nuovo di zecca e d’una classe dirigente di più elevato profilo e di superiore credibilità.
Senza di che parlare di "nuovo sicilianismo", al di là delle frasi fatte, diventa un fuor d’opera: una "marcia indietro", addirittura, ai limiti della riscoperta dell’acqua calda. Venendosi a configurare, tra l’altro, come il sintomo d’una assoluta incapacità d’inventare un’Idea nuova davvero, come il segnale d’una assoluta afasia culturale, come la spia d’una evidente infecondità storica che induce, quasi fatalmente, alla ciclica riproposizione di temi più che vecchi, logori, consunti, inflazionati e, sia detto schiettamente, perfino ampiamente screditati da precedenti promotori e pseudo-protagonisti che tali argomenti hanno troppo a lungo sbandierato per fare schermo e velo ad un vuoto programmatico di livello pneumatico o peggio per dare una bandiera di facciata a ben altri intenti meno nobili come quello di fare della Sicilia una specie di grande Las Vegas mediterranea, una sorta di Casablanca o di Marrakesh balcanizzata. Intelligenti pauca.
Volutamente in questo excursus non abbiamo parlato di Mafia. Per non involgarire il discorso. Ma la Mafia c’è. Ed il "nuovo sicilianismo" sull’argomento come si esprime e/o si esprimerebbe?
Indicherebbe come "eccessiva" la presenza dei bersaglieri e dei paracadutisti dei Vespri? Li chiamerebbe "truppe d’occupazione", direbbe (di nuovo!) che fa una brutta impressione "l’immagine d’una Sicilia militarizzata?".
E la Mafia, infine, sarebbe "sicilianista" o anti-sicilianista? E se fosse filo-sicilianista e nemica (naturalmente) d’una eccessiva "presenza dello Stato" (che, ad oggi, invero, non ha mai eccessivamente brillato) come manterrebbe le distanze "di sicurezza" una nuova classe politica "sicilianista"? E di che "filtri" si munirebbe per monitorare delibere, convenzioni, gare d’appalto, etcetera? Ed in relazione alle scelte sul territorio e l’ambiente, come dovrebbe atteggiarsi? Col proibizionismo miope dei "professionisti dell’antimafia" o col lassismo interessato dei "raccoglitori di preferenze?".
Per cinquant’anni ci hanno raccontato che l’Autonomia era la migliore arma contro la delinquenza organizzata... la "partecipazione consapevole dei cittadini", il loro "coinvolgimento diretto nelle istituzioni"... tutte balle. Non è andata così e lo sappiamo tutti.
Così come ci avevano detto che l’Autonomia Speciale della Sicilia, surrogato dell’Indipendenza, sarebbe stata la nostra "marcia in più": Non è stato così, anzi, spesso, s’è rivelata quanto meno un handicap quando non una vera e propria "marcia indietro". Perché troppo spesso abbiamo inalberato il nostro orgoglio per essere "autonomi" perfino dalla logica e dalle regole del buon senso oltre che da quelle dell’aritmetica (ed in tal senso urlano vendetta tanti Bilanci di previsione del passato!).
Diciamo allora che un "sicilianismo" genericamente enunziato, ricco di troppe "pagine in bianco" e che sembra scivolare sul piano inclinato di un Grande Centro qualunquista ci lascia assolutamente freddi, se non altro per i suoi esiti sociali, politici, istituzionali, civili e perfino contabili. Per i suoi portati opinabili sul terreno del "modello sociale", per i suoi lasciti antropologici, per la sua eredità di trombonismo, di velleitarismo e d’inconcludenza. Per i debiti di credibilità che stiamo ancora pagando a prezzi altissimi nel consesso internazionale non solo a livello d’immagine (a proposito, quanti sono informati che, proprio sotto governo di centro-desta, la Sicilia, con tanto di voto dell’ARS, s’è "gemellata" con la Cuba della dittatura marxista, della miseria pianificata e del partito unico?).
E, purtuttavia, nonostante tutto ciò (che non è poco e che non si deve dimenticare), potremmo e vorremmo essere convinti diversamente dalla esposizione d’una Strategia precisa, dalla enunciazione d’una tesi propedeutica ad un Grande Cambiamento della Sicilia. Questo sì, ci affascina. Al punto che ci pensiamo sempre. Ma lo facciamo coi nostri (angusti) parametri culturali. Ci pensiamo "da Destra". Nel contesto del nostro universo di Valori poco mutevoli. Dentro il binario di quel "senso dello Stato" che ci viene così difficile mettere da parte per l’insegnamento congiunto che abbiamo assimilato da quei due grandi Maestri Sicilani che furono Giovanni Gentile ed Julius Evola. Ci pensiamo "da Destra" nel quadro della nostra "etica del servizio", della nostra idea qualitativa del "bene comune", del nostro tradizionale rifiuto del classismo, della nostra "cultura del dovere", della nostra concezione organica della società e del nostro approccio rigoroso, morale sui temi della pubblica amministrazione, della sicurezza e della legalità. Sì, da Destra.
Quella stessa Destra che, già nel secondo dopoguerra, di fronte alle sue prime elezioni regionali, sintetizzò il suo pensiero ed i suoi sentimenti nella formula "Alla Regione per la Nazione".
Che ci appare un buon punto per ripartire, per ricominciare a parlare del futuro siciliano. Senza sbandamenti, senza acritici innamoramenti, senza trasformismi, senza trasbordi culturali o ideologici, senza ipocrisie, senza confusioni da bazar o contorsioni da circo equestre.
Perché il Capitolo-Trinacria può farci ancora sognare (guai a chi non spera più) ma a condizione di non estrapolarlo da quel magnifico Libro di Civiltà che si chiama Italia.
Il processo di modernizzazione del diritto che ha caratterizzato nel secolo XX molto paesi del mondo arabo non ha risparmiato la Tunisia, che cinque mesi dopo l’indipendenza, acquisita nel marzo del 1956, si è dotata di un Codice di Statuto Personale ispirato a principi laici e moderni. La Mağalla al-ahwāl al-šahsiya costituisce uno dei codici più all’avanguardia non solo nel Maġrib ma nell’ampio panorama arabo, spiccando per la sua audacia riformatrice, soprattutto nei riguardi della donna. L’introduzione di importanti riforme quali l’abolizione della poligamia, l’eliminazione del ripudio, la concessione ai coniugi di pari opportunità al fine di ottenere lo scioglimento del matrimonio mediante il ricorso al giudice, è opera di un riformismo rivoluzionario, che attraverso una nuova lettura, adatta la šarī‘a ai tempi moderni.
Prima del 1956, i musulmani tunisini erano sottomessi, per ciò che riguarda lo statuto personale, al diritto musulmano applicato dai tribunali šaraitici. Un diritto costituito da prescrizioni contenute nel Corano, da soluzioni elaborate dai dottori della legge di scuola mālikita e da un insieme di elementi consuetudinari. Tali tribunali consacravano, da un lato, lo stato di inferiorità della donna nel matrimonio, nelle procedure di divorzio, nei riguardi dei figli e nella successione, dall’altro la precarietà del legame coniugale attraverso la poligamia e il ripudio.
Il legislatore tunisino del 1956 ha avuto il coraggio di affermare che la codificazione che ha immobilizzato la donna nell’islām è storica, ed è andato oltre, nel tentativo di proporre delle leggi che, precedendo i tempi, potessero fare evolvere le strutture sociali del paese. Il ruolo della corrente riformista modernista, rappresentata in Tunisia da Tāhir Al-Haddād, ha senza dubbio giocato un
ruolo fondamentale; tuttavia, non si potrebbero comprendere le acquisizioni del CSP senza riconoscere che è stato necessario un uomo come Habīb Bourguiba, profondamente convinto delle sue idee, detentore di un potere assoluto, figura carismatica e visionaria, perché le modifiche allo Statuto Personale, e i successivi emendamenti, fossero possibili.
Dal 1956, il legislatore tunisino ha perseguito una politica coraggiosa in favore della donna sempre alla ricerca di un compromesso, tra i principi universali progressisti del modernismo e la specificità dell’islām, affinché queste riforme non venissero avvertite come minacce d’assimilazione culturale e perdita di identità. Sebbene le riforme giuridiche, fino ad ora attuate, costituiscano uno stimolo verso una reale emancipazione della donna, tuttavia qualsiasi emendamento legislativo risulterebbe vano se non avvenisse il passaggio dalla teoria alla pratica: è questo un compito duro e un impegno costante, che ancora oggi, dopo 35 anni dalla promulgazione dello Statuto, caratterizza la società tunisina.
Nell’euforia dei primi mesi di indipendenza, la Costituzione del 1 giugno 1959 riconosce la pienezza del godimento dei diritti senza alcuna distinzione o discriminazione, affermando che "Tutti i cittadini hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, essendo uguali di fronte alla legge". In seguito, conformemente a ciò, si costituirà un edificio giuridico il quale applicherà il principio di uguaglianza in altri campi: parità di salario, protezione dagli incidenti sul lavoro, uguaglianza nella funzione pubblica, congedo di maternità e assegni familiari, pari opportunità lavorative, insegnamento obbligatorio.
Tuttavia, la mentalità della stragrande maggioranza della popolazione sembra evolversi lentamente e in modo conservatore. Certo, in Tunisia le donne lavorano, ma il matrimonio rimane lo scopo della loro esistenza; il marito mantiene un ruolo predominante nella famiglia; le donne sono attive ed evolute nella vita pubblica, ma arretrate sul piano privato. Nei rapporti di coppia, gli uomini mantengono i tradizionali pregiudizi. Nonostante la famiglia, come struttura fondamentale della società si vada evolvendo, in base alle nuove esigenze e ai moderni bisogni, permane la condizione di inferiorità della donna, il suo status di persona sottomessa, il suo dovere d’obbedienza, radicato in comportamenti e mentalità maschiliste e patriarcali, che prescindono dall’islām.
È innegabile che il processo di modernizzazione si stia dirigendo verso una crescente equiparazione dei diritti e dei doveri dei coniugi, ma nella realtà i risultati sono scarsi. Intorno alla donna si cristallizzano le più importanti contraddizioni tra modernità e tradizione: è lei, ad essere oggetto insieme di incomprensione e di conflitto tra culture, di rigido controllo sociale da parte della propria comunità, oltre ad essere ridotta a simbolo ora del rifiuto ora dell’accettazione dell’occidentalizzazione.
L’analisi avrà per oggetto lo status della donna all’interno della famiglia secondo il CSP tunisino: in essa, partendo dalle fonti storiche dello statuto personale, comuni a tutti i paesi musulmani, fino al momento delle influenze europee, attraverso l’opera degli esponenti del riformismo in Tunisia, si coglieranno gli aspetti di continuità e di rottura con la tradizione.
I Le fonti dello statuto personale
L’ordinamento giuridico-religioso dell’islām poggia principalmente su due fonti: il Corano e la Sunna. Il Corano è il libro sacro dell’islām, parola stessa di Dio rivelata al profeta Muhammad per essere trasmessa agli uomini. Secondo la tradizione, fu l’angelo Gabriele, nell’arco di circa venti anni, a dettare letteralmente il Corano a Muhammad, inviato di Dio. La rivelazione divina si costituisce di precetti morali, esortazioni, racconti biblici e disposizioni giuridiche, facendo del Corano la base della dottrina islamica.
Laddove non risultino esaustive le indicazioni della rivelazione coranica, viene in aiuto dei credenti l’esempio del profeta stesso. La Sunna, infatti, è l’insieme delle azioni, delle decisioni e delle parole del profeta, a noi pervenute mediante la tradizione orale (racconti o hadīt), rivestendo un’importanza fondamentale per la codificazione del diritto islamico. La šarī‘a, dunque, è l’espressione stessa della volontà divina, nota agli uomini attraverso la rivelazione diretta (Corano) e indiretta (Sunna) elaborata, in seguito, dai dottori della legge nel fiqh.
I.1Dalla società pre-islamica a Muhammad: šarī‘a e Consuetudine
Prima della predicazione di Muhammad, tanto in Arabia quanto nel Maġrib, predominava il principio del patriarcato patrilineare, che attribuiva al maschio il possesso esclusivo della donna. Secondo il diritto consuetudinario beduino, l’uomo poteva prendere come mogli quante donne gli fosse piaciuto e a suo totale arbitrio poteva ripudiarle. La nascita di una figlia era considerata un elemento di debolezza per il gruppo familiare, una vera e propria sventura domestica, un disonore: così che il padre poteva decidere di uccidere la neonata. Alla donna non era riconosciuta alcuna personalità giuridica: al momento della morte del marito, la vedova cadeva in successione, annoverata tra i beni cui aveva diritto l’erede più prossimo del de cuius. Tuttavia, bisogna notare come già all’epoca di Muhammad, alcune donne svolgevano ruoli sociali tutt’altro che trascurabili e, ancora prima dell’avvento dell’islām, vi era una partecipazione attiva delle donne, persino in funzione di leader, a un’ampia gamma di attività comunitarie.
Tenendo conto, dunque, dello specifico retroterra culturale e sociale nel quale la rivelazione islamica opera, è innegabile la portata del cambiamento segnata dall’avvento dell’islām. Muhammad, infatti, apporta delle profonde riforme all’organizzazione familiare pre-islamica: numerosi versetti del Corano e hadīt sono consacrati alla donna e alla famiglia. Attraverso il riconoscimento della personalità giuridica, la donna diviene un soggetto capace di decidere e, dopo le nozze, di amministrare i suoi beni in autonomia. Nel Corano si condanna energicamente l’infanticidio e vengono posti dei limiti al diritto dell’uomo di prendere più mogli, attraverso delle precise prescrizioni; si riducono gli abusi legati all’istituto del ripudio e si concede alla donna, a determinate condizioni, la possibilità di chiedere e di ottenere il divorzio. Tali riforme apportate allo statuto della donna rappresentano un progresso considerevole per l’epoca, facendo vacillare i costumi primitivi della società. Già al tempo del profeta, tanti furono i tentativi di reazione che tesero a minimizzare se non ad annullare la portata innovatrice della nuova situazione giuridica della donna, da parte dei partigiani delle tradizioni patriarcali; se, infatti, le prescrizioni relative allo statuto personale nelle società islamiche hanno ricevuto un’applicazione distorta, ciò è dovuto a tradizioni tendenzialmente maschiliste latenti, mai sopite, che hanno preso indebitamente il sopravvento, tradendo lo spirito egualitario del messaggio islamico. Ed è soprattutto nell’ambito delle relazioni matrimoniali, più che altrove, che si avverte il divario tra teoria e prassi: molte disposizioni šaraitiche, infatti, sono palesemente disattese venendo applicato il diritto consuetudinario locale. In particolar modo, i berberi, popolazione autoctona del Nord Africa, pur essendo stati islamizzati in seguito alle conquiste arabe del VII secolo, rimasero sempre legati alle loro consuetudini essenzialmente patriarcali.
Dunque, il diritto di famiglia islamico nell’area maġrebina, trova il suo fondamento, oltre che nella šarī‘a, di rito mālikita, nella consuetudine berbera preislamica. Tra l’una e l’altra fonte si sono realizzati fenomeni di osmosi, attraverso i quali elementi di origine consuetudinaria sono entrati a far parte del diritto musulmano; mentre, laddove la dottrina musulmana non ha metabolizzato la regola giuridica estranea, šarī‘a e consuetudine hanno convissuto insieme, a volte in una potenziale opposizione. Sebbene lo statuto personale è uno dei campi dove più forte è stato l’intervento normativo della legge divina, si deve constatare che quest’ambito è anche quello dove maggiori sono le discrepanze tra principi e prassi. I costumi berberi, infatti, hanno opposto un’invincibile
resistenza all’imporsi della šarī‘a, persistendo ancora oggi in tradizioni e usi locali, che si mescolano e si confondono a prescrizioni coraniche.
Dunque, è erroneo pensare che nelle società musulmane la pratica degli insegnamenti coranici sia osservata rigidamente: il più delle volte, quando queste prescrizioni non si adattano alla realtà sociale, vengono deformate o del tutto trasgredite.
I. 2 L’influenza occidentale
L’accelerato processo tecnologico ha reso forse più traumatico l’impatto del mondo arabo musulmano con la moderna civiltà occidentale; le sfide lanciate dalla modernità hanno imposto delle azioni riformatrici sul piano economico, politico, legislativo, demografico, educativo e culturale, che hanno avuto per modello il processo di modernizzazione occidentale.
Il diritto civile, pubblico, commerciale, penale dei paesi del Maġrib sono stati praticamente calcati sul modello francese, mentre il diritto di famiglia è rimasto inizialmente immune da ogni forma di penetrazione. La Francia, che costituì a partire dal 1881 un protettorato in Tunisia, si è astenuta dall’imporre la sua legge in materia matrimoniale, di divorzio, filiazione e successione. La potenza coloniale, infatti, non mostrò alcun interesse in merito e mantenne lo statu quo, venendo a mancare quello stimolo al cambiamento che invece si era realizzato nelle altre materie; cosicché, se da un lato i diversi settori dell’ordinamento giuridico furono riorganizzati attraverso delle leggi laiche e moderne, dall’altro restò in piedi un sistema caratterizzato dalla condizione di inferiorità della donna e dalla precarietà del legame coniugale: un diritto di famiglia che continuò ad attingere dal diritto islamico classico e da tradizioni ancestrali .
Tuttavia, l’influenza dei modelli europei nella codificazione del diritto islamico di famiglia, in particolare del Codice Civile francese nel caso della Tunisia, è indubbia e viene particolarmente enfatizzata da alcuni autori.
I. 3 Da Tāhir Al-Haddād, a Bourguiba e a Ben ‘Alī: Conservatorismo e Riformismo
Se il diritto di famiglia in Tunisia rimase, in una prima fase, estraneo all’influenza straniera che investì gli altri settori dell’ordinamento giuridico e ogni comunità continuò ad avere i propri tribunali e le sue leggi, è incontestabile che il periodo coloniale abbia influito sul modo di vita e i costumi soprattutto nelle città.
Infatti, il protettorato francese e l’impatto con l’occidente contribuirono sicuramente al sorgere delle correnti di pensiero che, scuotendo la società tunisina tradizionale, ispirarono un movimento progressista in favore della donna. Tāhir Al-Haddād, padre del femminismo in Tunisia, affermava
nel 1929 l’importanza dell’emancipazione della donna per la famiglia e l’intera società, rilevando come dall’istruzione e dall’educazione delle donne possa trarne profitto l’intera società.
Il velo, la claustrazione e l’istruzione delle ragazze sono i temi essenziali di cui discutono modernisti e conservatori all’inizio del XX secolo. Un dibattito che raggiunge l’apice nel corso degli anni ’30 in seguito alla pubblicazione del libro di Tāhir Al-Haddād dal titolo “Notre femme dans la législation et la société" . L’autore insorge contro il triste destino riservato alle donne dai musulmani e non crede che l’islām, nel suo messaggio originale rappresenti un ostacolo ai diritti delle donna . Non considera l’islām responsabile della miserevole e ingiusta sorte che alla donna è stata riservata, ma individua la responsabilità dei dottori della legge e le loro interpretazioni dogmatiche, non temendo di denunciare con forza il loro immobilismo. A causa delle sue idee all’avanguardia per l’epoca, l’opera suscita le ire dei conservatori, viene censurata e Tāhir Al-Haddād respinto dalla comunità dei fedeli e dei credenti, privato di tutti i suoi diplomi universitari, condannato dalle sfere ufficiali dell’università al-Zaytuna, alla quale gli è impedito l’ingresso. Abbandonato da tutti, la stampa lo presenta all’opinione pubblica come un apostata, un nemico dell’islām. Tāhir Al-Haddād può, a buon diritto, essere considerato il precursore di un’evoluzione che ha per oggetto lo statuto della donna; con la sua opera, ha prefigurato le linee essenziali delle riforme che trent’anni dopo, nella Tunisia indipendente, Bourguiba porterà avanti.
Una volta giunto al potere, il presidente Habīb Bourguiba forza il blocco conservatore dei dottori della legge e, durante trenta anni di potere, porta avanti una politica senza precedenti nel mondo arabo, soprattutto per le concessioni giuridiche riguardanti la donna. Il CSP è promulgato il 13 agosto 1956, giorno in cui ancora oggi, si celebra la "Festa della Donna". Esso opera, sul piano legislativo, una trasformazione radicale dello statuto giuridico della donna attraverso delle disposizioni fondamentali e innovative, per l’epoca e il contesto. Bourguiba non cessa nei suoi discorsi e interventi di sottolineare l’importanza della promozione della donna nella vita familiare, culturale, economica e politica di un paese; incoraggia le donne a uscire da sole e a studiare; afferma che la donna è un essere umano che ha diritto alla dignità e al rispetto e che "une société ne saurait être saine et équilibrée tant que la moitié du corps social, l’élément féminin, continue d’être asservi, exploité et humilié" .
Analizzando il CSP del 1956, il testo appare, nel suo insieme, fedele alle fonti del Diritto Islamico, e, per certi aspetti, innovatore attraverso un attento lavoro d’iğtihad. La referenza alle fonti coraniche, anche se non espressa in maniera esplicita nel testo legislativo, è costante ora nelle esegesi ufficiali del Codice ora nell’attività interpretativa della giurisprudenza.
L’azione di riforma è proseguita anche dopo "le changement historique" del 7 novembre 1987, quando divenne presidente Zayn Al-Âbidīn Ben ‘Alī, il quale non solo ha mantenuto le acquisizioni del CSP del 1956, ma ha fatto avanzare il processo di modernizzazione attraverso degli emendamenti, introdotti il 20 luglio 1993, riguardanti gli articoli relativi alla donna.
II La donna: fedeltà e innovazione nel csp
II. 1 La fedeltà alla šarī‘a
Riguardo agli obblighi personali tra i coniugi all’interno del matrimonio la Mağalla del 1956 conserva intatti i principi tradizionali fissati dalla giurisprudenza. Dall’art. 23, dedicato ai doveri coniugali, si evince che il matrimonio è fondato su dei rapporti ineguali: il marito è al di sopra della moglie, e in quanto chef de famille, deve provvedere ai bisogni materiali della sposa e dei figli; la donna, a sua volta, deve a lui obbedienza e sottomissione. La moglie nell’adempiere i suoi doveri deve attenersi a ciò che è conforme agli usi e alla consuetudine, rinviando direttamente e in maniera concisa alle regole del fiqh.
Si tratta di una concezione tradizionale attraverso la quale il legislatore garantisce l’interesse fondamentale della famiglia nell’unità e nella stabilità. Il marito è il capo della famiglia e in quanto tale ne ha tutti gli oneri: l’organizzazione della famiglia si fonda sotto la sua direzione.
L’art. 23 ha, tuttavia, rappresentato il cavallo di battaglia di associazioni e organizzazioni femministe tunisine che per anni chiesero la sostituzione del concetto di potestà maritale con nozioni di rispetto, aiuto e assistenza mutuale tra i coniugi.
Il 1993 fu l’anno della riforma: alcuni emendamenti furono introdotti nel Codice in favore della donna, esercitando un’influenza importante sugli equilibri all’interno del nucleo familiare. Le modifiche apportate dal legislatore sono legate ad un moderno dettato legislativo: il nuovo art. 23 attenua i diritti del marito, attraverso l’eliminazione del dovere di obbedienza della moglie; la relazione matrimoniale si ispira a principi quali il rispetto, la reciprocità e la solidarietà.
Si istaura una nuova concezione dei rapporti tra gli sposi: non più una netta separazione di ruoli e campi d’azione, ma una collaborazione nella conduzione del ménage. L’obbligo di cooperazione tra gli sposi ha trasformato la famiglia tunisina in una istituzione bicefala a servizio dei suoi membri e nell’interesse superiore dei figli. In questo nuovo senso, la Mağalla continua a riconoscere al marito
il ruolo di chef de famille esercitato non più come un diritto assoluto e arbitrario, ma, piuttosto, come un impegno, una responsabilità legata al dovere che sullo sposo incombe di provvedere ai bisogni della sposa.
Tuttavia, alcuni autori ridimensionano la portata di questi emendamenti sostenendo che la condizione della donna non é affatto cambiata. Il legislatore tunisino continua, infatti, a far diretto riferimento agli usi e ai costumi, e ad attribuire al marito il ruolo di chef de famille: il risultato è che l’uomo da un lato continua a mantenere le sue prerogative tradizionali, ad esempio esigere l’obbedienza, e dall’altro si riduce la sua responsabilità, per mezzo della nuova disposizione per la quale anche la moglie deve contribuire alle spese del ménage, se possiede qualcosa.
Dal punto di vista giuridico, la sottomissione della donna trova la sua causa e il suo fondamento nella corresponsione del mantenimento (nafaqa): assolutamente irrilevante è lo stato di bisogno della sposa, cosicché una donna ricca può a buon diritto pretendere di essere mantenuta dal marito.
Il mantenimento resta, come nella concezione classica del diritto musulmano, un dovere del marito, indipendentemente dalle sue condizioni economiche. L’inadempienza a questo obbligo può dar luogo alla domanda di scioglimento del matrimonio da parte della moglie. Il fatto che la donna lavori non dispensa il marito dal rispettare questo obbligo. Soltanto l’indigenza assoluta può esimerlo dalla corresponsione del mantenimento.
Questa situazione deriva direttamente dalla posizione preminente del marito all’interno della famiglia, di cui ha l’onere materiale.
La donna, inoltre, conformemente al diritto islamico classico, trova riconosciuta nell’art. 24 la sua completa autonomia patrimoniale. Il legame matrimoniale islamico non crea alcuna comunione di beni: ognuno dei coniugi conserva la proprietà e la piena disposizione dei beni che possedeva al momento del matrimonio e di quelli che acquista successivamente. La donna sposata, alla quale vengono riconosciute personalità giuridica e autonomia, ha la libera amministrazione del proprio patrimonio e può contrattare, tanto attivamente che passivamente, senza che le occorra l’autorizzazione del marito.
Dunque, una concezione, quella che regola i rapporti tra i coniugi, fedele, nonostante i timidi cambiamenti del 1993, al diritto islamico classico: come contropartita del mantenimento, spettante obbligatoriamente al marito, la donna deve rispettare l’uomo, al quale appartengono, come capo della famiglia, una maggiore autorità e responsabilità in merito alle decisioni più importanti.
Altri istituti, tuttavia, sono stati oggetto di riforme assolutamente radicali, le quali hanno contribuito a modificare la situazione della donna in rapporto al suo statuto anteriore.
II. 2 Le innovazioni del CSP
L’abolizione della poligamia costituisce, sicuramente, la riforma più audace alla quale si è spinto il legislatore tunisino. La completa interdizione si è affermata attraverso gli emendamenti del 1964 dell’art. 18. La Mağalla dichiara nullo e senza effetto, sul piano civile, ogni matrimonio con una seconda sposa, quando sussiste un primo contratto di matrimonio valido. La trasgressione comporta la prigione e/o il pagamento di un’ammenda pecuniaria.
La poligamia è l’istituto che sancisce in maniera chiara e significativa la sperequazione tra la posizione dell’uomo e quella della donna all’interno del matrimonio. Gli interpreti della Mağalla tendono a leggere questa riforma come fedele allo spirito dell’islām, attraverso un audace lavoro di iğtihād. Il permesso poligamico è una realtà indubitabile, che trova fondamento nel testo coranico nella sura IV, 3. Ma i riformisti interpretano tale versetto legandolo ad uno successivo (IV, 129) il quale sancirebbe l’interdizione stessa dell’istituto; anche se mosso dalle migliori intenzioni, l’uomo non è in grado di soddisfare la condizione di essere equo e giusto con le diverse spose: il trattamento eguale delle quattro spose si rileva, dunque, una utopia.
Risulta evidente come le riforme del legislatore tunisino sono state intraprese non affermando la separazione del diritto dalla religione, ma giustificandole nel quadro religioso, ossia nel quadro di una lettura nuova della šarī‘a .
La legge tunisina, inoltre, si distingue tra le legislazioni degli altri paesi islamici per l’abrogazione dell’istituto del ripudio, secondo il quale il marito poteva in modo del tutto arbitrario mettere fine al matrimonio. L’originalità del Codice tunisino sta nell’aver posto l’uomo e la donna su un piano di parità in materia di divorzio, mentre la šarī‘a riconosce solo al marito il diritto del ripudio privato unilaterale e non lascia alla donna che il ricorso al divorzio giudiziario in determinati casi. La Mağalla abolisce il ripudio, concedendo ai due sposi lo stesso diritto al divorzio ammesso soltanto in via giudiziale . Il divorzio può essere richiesto indifferentemente da uno dei due coniugi:
|
per danno, in questo caso l’istanza di divorzio viene presentata da uno dei coniugi che si ritiene danneggiato dal comportamento dell’altro; la parte lesa deve produrre delle prove del danno, materiale o morale, subito; |
|
per reciproco consenso; |
senza motivo, o come viene definito dalla giurisprudenza tunisina "per capriccio" in quanto il coniuge che richiede lo scioglimento del legame non è tenuto ad addurre giustificazioni
|
alla decisione di divorzio, con l’obbligo per il congiunto richiedente di assumersi tutte le responsabilità, accollandosi l’onere di pagare i danni e indennizzare il coniuge dal quale vuole separarsi. |
Una riforma del codice nel 1981 ha toccato il divorzio senza motivo, l’equivalente, nella pratica, al ripudio giudiziario, soprattutto esercitato dagli uomini. Il legislatore, in questo caso, rompe il principio di uguaglianza, a favore della donna. Il domicilio coniugale appartenuto alla coppia generalmente viene concesso in uso alla moglie, in quanto, nella grandissima maggioranza dei casi, è ad essa che viene affidata la custodia dei figli. Quando subisce il divorzio, la donna è in diritto di domandare la riparazione del pregiudizio subito sottoforma di una rendita vitalizia che il coniuge, il quale ha avviato il procedimento di divorzio, deve erogare. È un’innovazione giuridica molto importante che non trova precedenti né legami con la tradizione classica.
Conclusioni
Il diritto di famiglia tunisino occupa un posto a parte nel mondo arabo-musulmano, costituendo per certi aspetti un unicum. La Tunisia si è dotata di un Codice nel quale l’audacia riformatrice si è spinta fino all’innovazione. Il legislatore tunisino non si è limitato a codificare lo statuto personale ma è voluto andare oltre, agendo sul contenuto stesso del diritto, modernizzandolo per fare evolvere la società. Attraverso tali riforme il legislatore anticipa una evoluzione delle mentalità, ancora latente in larghe fasce della popolazione. Il problema del riscontro pratico delle riforme attuate a livello legislativo può ricondursi su un piano giuridico e su uno sociologico.
La giurisprudenza gioca un ruolo fondamentale, sia nell’opera di modernizzazione del diritto e che nell’evoluzione della società, attraverso la sua azione interpretativa. Il legislatore tunisino si serve di un testo molto conciso e coltiva l’arte del silenzio e dell’ambiguità. L’indeterminatezza della materia costringe il giudice ad assumersi interamente la responsabilità del giudizio, sulla base delle sue convinzioni e della sua formazione. Il risultato purtroppo è contrario a quello sperato, poiché i giudici, per formazione e mentalità tendenzialmente conservatori, interpretano la legge nella maniera più vicina alla regola tradizionale, profittando delle faglie o lacune della Mağalla, per ristabilire il legame tra testi attuali e diritto musulmano classico, facendo della Legge musulmana una referenza ordinaria per interpretare e supplire i testi.
Bisogna notare che una forte volontà politica si è opposta a questa tendenza dopo la rottura politica con il movimento islamista, avvenuta alla fine degli anni ’80, insieme alla lotta aperta dichiarata contro questo movimento. Le camere dei tribunali relative allo statuto personale di Tunisi, fino a qualche anno fa presiedute solo da magistrati di formazione teologica, si sono aperte alle donne formate all’università, che non hanno esitato ad applicare la legge positiva. Ma bisognerà attendere
l’inserimento di questa nuova linfa all’interno della Corte di Cassazione perché si attui veramente una rottura. È inconcepibile che la giurisprudenza faccia della šarī‘a e del fiqh non soltanto una fonte storica del Codice di Statuto Personale, ma una costante referenza giurisprudenziale applicabile ancora oggi.
Il carattere immutabile di certi dogmi viene messo sistematicamente al primo posto quando si tratta dei diritti della donna. L’islām costituisce un alibi, un pretesto che taglia corto di fronte a qualsiasi discussione giuridica possibile, come una legge superiore alla legge.
Tutto ciò porta a ritenere che il CSP sia stata l’iniziativa audace, dipendente dalla volontà di un singolo uomo nel 1956, la conseguenza diretta di una scelta politica portata avanti da élites illuminate. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e le diverse Convenzioni Internazionali ratificate dalla Tunisia, si sono rivelate insufficienti a sradicare le disuguaglianze sociali, economiche e culturali nei riguardi della donna.
Tuttavia, il problema non è soltanto la clausola di diritto, ma piuttosto quanto essa sia veramente rispettata in una società che mantiene la maggior parte delle donne in uno stato di ignoranza, confondendo la tradizione con l’applicazione dell’islām. In realtà molte donne tunisine, che vivono in ambienti rurali o zone suburbane, subiscono la pressione culturale che le circonda e non conoscono i diritti che la legge stessa concede loro. Esse, infatti, non sempre avvertono come ingiustizia la diversità della loro condizione, ricevuta come abitudine culturale e disciplina sociale. La questione centrale resta dunque l’educazione e l’istruzione. L’attaccamento alla tradizione di ampi strati della popolazione è tale che tutti quei principi e valori di carattere patriarcale anziché vacillare nell’impatto con le profonde trasformazioni socio-economiche, si mantengono stabili, apparendo certi e definitivi. È solo una èlite, cittadina e illuminata, che accoglie i nuovi valori, che promuove la modernità, che subisce l’influenza delle norme internazionali ispirate all’uguaglianza e alla parità.
Basterebbe che la giurisprudenza, nella sua azione interpretativa, non considerasse come referente naturale e assoluto, la legge islamica, ma prendesse a riferimento anche le norme di diritto
costituzionale, restando fedele nell’applicazione dei principi di quelle Dichiarazioni Universali e Convenzioni Internazionali che la stessa Tunisia ha sottoscritto, per poter migliorare le condizioni della donna e aspirare ad una maggiore eguaglianza.
Per giungere ad una reale trasformazione, che investa anche quegli strati sociali rimasti "immuni" ad ogni riforma, è necessario che le acquisizioni del legislatore e i valori a cui si ispirano, siano assimilati dalla società, nella sua interezza. Occorre, dunque, che la società abbia il tempo di assorbire e far propri tali principi; e, secondariamente, che sia messa nelle condizioni per farlo, creando strutture adeguate e disponendo un sistema educativo efficiente, capace di far evolvere le mentalità e, con esse, la società intera.
BIBLIOGRAFIA
Ahmed, Leila, 1995 : Oltre il velo: la donna nell’Islam da Maometto agli ayatollah, La Nuova Italia ed., Firenze.
Aluffi Beck-Peccoz, Roberta, 1990 : La modernizzazione del diritto di famiglia neipaesi arabi, Giuffrè ed., Milano.
Aluffi Beck-Peccoz, Roberta, 1997 : (a cura di), Le leggi del diritto di famiglia negli stati arabi del Nord Africa, "Dossier Mondo Islamico", 4, Fondazione Agnelli ed., Torino.
Ascha, Ghassan, 1997 : Mariage, polygamie et répudiation en Islam, L’Harmattan, Paris.
Bausani, Alessandro, 1996 : Il Corano, B.U.R. ed., Milano.
Bausani, Alessandro, 1999 : L’Islam, Garzanti ed., Milano.
Ben Achour, Yadh, 1994 : Normes, foi et loi: en particulier dans l’islam, Cérès, Tunisi.
Borrmans, Maurice, 1964 : Le Code tunisien du statut personnel et ses dernières modifications, in " Institut Belle Lettre Arabes ", XXVII (1964), Tunisi, pp.63-71.
Borrmans, Maurice, 1969 : Statut personnel et droit familial en pays musulmans, in " Comprendre ", LXXXX (aprile 1969), Roma, pp.1-14.
Borrmans, Maurice, 1971 : L’évolution du statut personnel en Afrique du Nord depuis l’indipèndence, in " Comprendre ", CVI (dicembre 1971), Roma, pp. 1-23.
Borrmans, Maurice, 1977a : Statut personnel et famille au Maghreb de 1940 à nos jours , Paris-La Haye, Mouton 1977.
Borrmans, Maurice, 1977b : Cours de Droit Familial musulman , Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, Roma.
Borrmans, Maurice, 1979 : Documents sur la famille au Maghreb de 1940 à nos jours (avec les textes législatifs marocain, algérien, tunisien, et égyptien en matière de Statut Personnel), in " Oriente Moderno ", LIX/1-5, Istituto per l’Oriente, Roma (1979 ), pp. 1-438.
Borrmans, Maurice, 1987 : L’Islam, religion de l’Etat, in " Etudes Arabes " : Dossiers, n. 72, 1987-1, PISAI, Roma.
Borrmans, Maurice 1995 : Les derniers changements du Code de Statut Personnel Tunisien, in "AZHAR" ( Studi arabo-islamici in memoria di Umberto Rizzitano, 1918-1980 ), Annali della Facoltà di Lettere, Palermo 1995, pp. 47-58.
Borrmans, Maurice 1999a : Convergenze e divergenze tra la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948 e le recenti Dichiarazioni dei Diritti dell’Uomo nell’Islam, in "Rivista Internazionale dei Diritti dell’Uomo", XII (gennaio-aprile 1999), pp. 44-59.
Borrmans, Maurice 1999b : Corano e Famiglia : problemi di interpretazione di alcuni versetti giuridici, in AAVV (a cura di), "Conoscere il Corano : introduzione e letture scelte del Libro sacro dell’Islam", Mille Libri ed., Torino, pp. 42-64.
Borrmans, Maurice 2001 : Matrimonio e famiglia nel mondo arabo-musulmano, in "Pedagogia e Vita", LIX/3 (maggio-giugno 2001), La Scuola ed., Brescia, pp. 57-73.
Burgat, François, 1988 : L’islamisme au Maghreb, Karthala ed., 1988 ( tr. It. di Ilaria Alessandra Scarcia , Il fondamentalismo islamico, Società Editrice Internazionale , Torino 1995 )
Bourquia R., Charrad M., Gallagher N. 1996 : Femme au Maghreb : perspectives et questions, in "Femmes, Culture et Société au Maghreb : Femme, Pouvoir Politique et Développement", 1996, pp. 9-14.
Caputo, Giuseppe, 1990 : Introduzione al diritto islamico, Giappichelli ed., Torino.
Charrad, Mounira, 1996 : Formation de l’état et statut personnel au Maghreb : esquisse d’une analyse comparatoire et théorique, in "Femmes, Culture et Société au Maghreb : Femme, Pouvoir Politique et Développement", 1996, pp.15-32.
Cilardo, Agostino, 2002 : Il Diritto Islamico e il sistema giuridico italiano: le bozze di intesa tra la Repubblica italiana e le associazioni islamiche italiane, ed. Scientifiche Italiane, Napoli.
CODIST 2000 : Per conoscere, per conoscersi : il matrimonio binazionale, Fiorini Maira e Trimarchi Antonino (a cura di), Tunisi.
CREDIF 1997 : Centre de Recherches, d’Etudes, de Documentations et d’Informations sur la Femme, Le statut juridique de la femme tunisienne: dix ans après le changement, Ministère des affaires de la femme et de la famille, Tunisi.
Mayer, Ann Elizabeth, 1995 : Reform of personal status laws in North Africa : a problem of islamic or Mediterranean Laws ?, in "Middle East Journal", 49 (1995) pp. 432-446.
Mayer, Ann Elizabeth, 1996 : Les lois sur le statut personnel en Afrique du Nord une évaluation comparative, in "Femmes, Culture et Société au Maghreb : Femme, Pouvoir Politique et Développement", 1996, pp. 33-52.
Medimegh, Darghouth Aziza, 1992 : Droits et vécu de la femme en Tunisie, L’Hermès-Edilis, Lyon.
Medimegh, Dargouth Aziza, 1996 : La femme tunisienne : pilier et enjeu de la démocratie et du développement, in "Femmes, Culture et Société au Maghreb : Femme, Pouvoir Politique et Développement", 1996, pp.97- 117.
Mernissi, Fatima, 1991 : Women and Islam, Blackwell ed., Oxford UK & Cambrige USA.
Meziou, Kalthoum, 1992 : Pérennité de l’Islam dans le droit tunisien de la famille, in "Le Statut Personnel des musulmans : Droit Comparé et Droit International Privé", Travaux de la Faculté de Droit de l’Université Catholique de Louvain, Bruylant ed., Bruxelles 1992, pp. 247-273.
Pacini, Andrea, 1998 : L’Islam e il dibattito sui diritti dell’uomo, Fondazione Agnelli ed., Torino.
Pruvost, Lucie, 1978 : Droit et religion en Islam, in " Institut Belle Lettre Arabes ", Tunisi, pp.48-68.
République Tunisienne 1993 : Code du Statut Personnel (Magalla), Imprimerie Officielle, Tunisi (Promulgato il 13 agosto 1956 e periodicamente aggiornato).
Santillana, David, 1943 : Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema shafiita, 2 volumi , vol. I, Istituto per l’Oriente, Roma.
Schacht, Joseph, 1995 : An introduction to Islamic Law, Clarendon Press, Oxford 1964, ( tr. it. a cura di Paola Guazzetti ed Enrico Lanfranchi in Introduzione al diritto musulmano, Fondazione Agnelli ed., Torino ).
Vacca V., Noja S., Vallaro M. 1982 , Detti e fatti del Profeta raccolti da al-Bahārī, UTET, Torino 1982.
Vercellin, Giorgio, 1996 : Istituzioni del mondo islamico, Einaudi ed., Torino.
NOTE
* Il presente studio costituisce un approfondimento che prende spunto dalla tesi intitolata "L’equiparazione dei diritti e dei doveri dei coniugi. Dalla šarī‘a ai Codici di Statuto Personale contemporanei di Tunisia, Marocco e Algeria", discussa nel giugno 2003, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Palermo. La ricerca è stata condotta grazie a fonti, documenti e riviste messe a disposizione dal PISAI di Roma, dall’Università Orientale di Napoli, dal CeSDI di Palermo, dal Centre d’Etudes des Carthage di Tunisi e dall’IBLA di Tunisi. Tale studio, inoltre, si avvale di citazioni coraniche tratte dalla traduzione di A. Bausani 1996. La seguente sigla, CSP, rimanderà al Codice di Statuto Personale promulgato in Tunisia nel 1956, al quale si farà riferimento nell’edizione del 1993 in lingua francese, mentre gli articoli fatti oggetto della riforma del 1993, rimandano al testo del CREDIF 1997, sempre in lingua francese. Il metodo di trascrizione seguito è quello scientifico, ad eccezione dei termini che sono entrati nel vocabolario italiano, per i quali si è utilizzata la forma più comune.
I. Dal periodo giolittiano alla prima guerra mondiale
Un commerciante di grande talento nella Palermo Liberty - Delle molte opere consultate come supporto all’argomento scelto, inerenti al periodo oggetto della mia indagine, poche parlano di Jung e peraltro in maniera marginale e poco esauriente.
Il motivo per cui non esiste una ricostruzione generale ed esaustiva dell’attività del nostro soggetto, a mio avviso, risiede nel fatto, per un verso, che alcuni documenti sono conservati in diversi Archivi distribuiti tra Roma, Parma e Milano, e ciò non consente un’agevole e immediata consultazione; per altri versi da non sottovalutare è l’impossibilità di penetrare nell’archivio privato di Palermo degli eredi Jung, che, probabilmente, sarebbe fonte inesauribile di notizie e documenti; per altri ancora il carattere del personaggio che, apparentemente schivo da ogni eccentricità, lo porta ad operare con diligenza e con grande impegno, ma lontano dai riflettori della popolarità.
La sua personalità potrebbe essere accostata, per certi versi, a quella di Alberto Beneduce e di Enrico Cuccia, entrambi riservati e schivi alla sua stessa stregua e non è un caso, infatti, che ad entrambi egli fosse molto legato sia per rapporti d’amicizia profonda che di lavoro.
L’importanza di mettere in luce la sua personalità e le sue capacità commerciali, economiche e finanziarie riconosciutegli, più tardi, anche a livello nazionale e internazionale è determinato dal fatto che con la sua attività commerciale locale Jung, assieme alla sua famiglia, riuscì a dare un grande contributo all’economia palermitana, assieme ad altri colossi dell’economia locale come ad esempio: i Florio, i Whitaker, i Tagliavia, i Lauria, ecc.
D’altronde Palermo in quegli anni si avviava verso l’apertura ad un’economia a sistema capitalistico grazie all’intraprendenza di piccoli imprenditori e di artigiani in espansione e grazie anche all’introduzione, più tardi, di capitali stranieri a sostentamento dell’economia siciliana.
Ed è in questo panorama economico così fiorente che Guido Jung trova posto nell’alta società palermitana.
Raramente, infatti, agli appuntamenti mondani della haute palermitana partecipavano esponenti di altri ceti sociali, ma in quel clima di belle époque il cavaliere Guido Jung, futuro ministro fascista, era ben accolto nei salotti nobiliari palermitani.
Definito da Liliana Sammarco, nel suo saggio Economia ed estetica nella Palermo liberty, una figura di carattere mitteleuropeo e simbolo di quell’atmosfera dominante negli anni Venti, Jung fu un personaggio di spicco nella vita della città(1).
Ancora la Sammarco nel suo saggio riporta il profilo singolare che Giovanni Malagodi tracciò del suo grande amico Jung:
risiedeva, scapolo già avanti negli anni, a Palermo con la vecchissima arzilla madre. Presiedeva a Roma quell’Istituto per il Commercio Estero [...](2). Jung, [a livello descrittivo], era roseo, coi capelli bianchi e gli occhi blu porcellana. Vestiva di solito calzoni scuri a righe, giacca nera, gilet nero orlato di piche bianco (deve essere stato l’ultimo europeo a portarlo così). Di origine ebreo-tedesca, era un appassionato patriota, anzi nazionalista italiano. Si era guadagnato una medaglia d’argento negli anni ’15-’18. Un’altra se ne doveva guadagnare in Etiopia dove andò volontario e non giovane, dopo avere preso il brevetto d’aviatore e dopo che Mussolini l’ebbe tolto dalle Finanze […] per rendere più agevole quella gestione meno ortodossa che la guerra richiedeva. Le sue amicizie erano soprattutto nell’ambiente economico triestino e confortavano la sua sincera e magari un po’ ingenua fede nella logica dell’economia di mercato.(3)
Attraverso Jung, il giovane figlioccio Enrico Cuccia, suo pupillo, sarà in grado di iniziare, con spirito innovativo, una splendida carriera diplomatica che lo vedrà fondatore dell’unica vera banca d’affari in Italia, Mediobanca, in grado di condizionare le vicende dell’economia e della finanza italiana, con la capacità di garantire la stabilità del sistema. E’ proprio Guido Jung a suggerire a papà Beniamino Cuccia e alla consorte Aurea Ragusa [...], di trasferirsi in Roma-Capitale, agevolandolo nell’assunzione al Ministero delle finanze. Per questa coincidenza che si rivelerà propizia, Enrico viene alla luce a Roma anziché a Palermo. Con un padrino illustre come Jung. Fu infatti la diplomazia internazionale di Jung a favorire a Cuccia la possibilità di introdursi, anzitempo, ai vertici della borghesia di Stato romana,[...](4).
La sua famiglia, israelita ed emigrata da due generazioni dal Baden, proveniente da Milano, si insediò a Palermo sul finire del secolo XIX, dove riuscì ad inserirsi senza troppe difficoltà nelle maglie della società locale.
Il padre, Mario, fondò l’azienda di famiglia sita al civico n° 5 nell’antica via Alloro(5), negli anni postunitari, la cui attività principale era quella della produzione ed esportazione di frutta secca (mandorle e nocciole soprattutto), essenze agrumi e sommacco e fungeva anche da banco privato(6).
Nello stesso torno di tempo, altre famiglie straniere provenienti dall’Europa centrale si trasferirono a Palermo; citiamo i nomi più noti: Whitaker, Ingham, Sternheim, Ahrens, Ducrot, Caflish, Helg, per lo più inglesi e tedesche, che ormai sono parte integrante della storia di Palermo e anch’esse, con le loro industrie, contribuirono notevolmente ad accrescere l’economia locale.
E’ in questo contesto che Guido Jung venne alla luce. Egli nacque a Palermo il 2 febbraio 1876, probabilmente il primo di quattro fratelli, Ugo, Mario, Aldo, dal padre Mario e dalla madre Natalia Randagger di origine triestina(7). I fratelli di Guido, oltre che collaborare, come vedremo, nell’impresa familiare, si distinsero per il loro coraggio durante la prima guerra mondiale, tanto da essere insigniti con medaglie al valore militare.
Appartenente a famiglia benestante, della categoria degli industriali, Guido si fece presto notare per le sue attitudini al commercio e all’economia e per il suo carattere risoluto e intraprendente.
Infatti, poco prima dello scoppio del primo conflitto Guido si occupò dell’azienda di famiglia, divenendo capo della ditta Fratelli Jung, attività che esercitò congiuntamente ai fratelli, ma in particolar modo ad Ugo, col quale condivise, già nel 1899, associandosi ad altre ditte cittadine di esportatori, l’esperienza di una società simile alla società dei Florio "Anglo Sicilian Sulphour Company", avente anch’essa come scopo la commercializzazione degli zolfi.
Anche più tardi, nel 1913, nel periodo del declino dei Florio(8), quando già avevano lasciato da alcuni anni la Ngi(9), Guido e Ugo, con un gruppo di commercianti ed esportatori (Pecoraino, Salvatore Tagliavia, Michele Lauria, etc.), costituirono in società con il Banco di Roma e la Piaggio, una nuova compagnia armatoriale chiamata "La Sicilia", allo scopo di inserirsi nel circuito degli scambi internazionali(10).
Nel contesto economico cittadino, l’industria, degli Jung, come già detto, era una delle più affermate, specie per quanto riguarda la macinazione e l’esportazione del sommacco e degli agrumi, i due prodotti palermitani la cui esportazione aveva avuto il maggiore incremento e contribuiva non poco alla crescita complessiva della società locale.
Poche ditte detenevano il monopolio della commercializzazione di questi due prodotti e tra queste spiccava quella dei fratelli Jung e poi ancora, i Tagliavia, i Guttadauro, Michele Pojero Jr., Giovanni Sansone, O. Sternheim, ecc(11).
Il fermento sociale dopo la caduta di Crispi - Guido Jung, nonostante si occupasse di commercio e di esportazioni non poteva rimanere indifferente alle vicende politiche nazionali del suo tempo, anche perché, queste ultime, avevano inesorabilmente un’influenza sui rapporti commerciali della città.
Il declino politico di Crispi e Rudinì privava Palermo di due importanti punti di riferimento e la collocava ancora una volta all’opposizione antigovernativa.
Tutto ciò non poteva lasciare indifferente neanche Ignazio Florio, che già avvertiva i segni di un mutato atteggiamento del governo nei suoi confronti.
Fu in questo clima che prende corpo il "progetto Sicilia" ad opera dei Florio, avente come scopo quello di tutelare gli interessi agrari e industriali dell’isola e del Meridione, aggregando imprenditori e proprietari terrieri intorno a un programma meridionalistico, capace di promuovere sia lo sviluppo di una agricoltura moderna e di un’efficiente flotta peschereccia, premesse indispensabili per la creazione di industrie di trasformazione, sia per il rilancio dell’industria mineraria dello zolfo.
Nel contesto del "progetto Sicilia", nel 1899, si inserì la creazione di quella società fondata da Guido e Ugo Jung (1913) e da altri esportatori palermitani, per l’esportazione dello zolfo, la nascita del quotidiano "L’Ora", fondato dai Florio, con il "proposito della difesa continua e organica degli interessi del Mezzogiorno e della Sicilia", e in seguito la collaborazione di Florio con Sidney Sonnino contro il giolittismo(12) che scatenarono importanti dinamiche politico-sociali.
Negli anni dell’età giolittiana, Palermo era attraversata da un profondo fermento politico, culturale ed economico.
In questo clima di cambiamenti politici, Jung, come già detto, non poteva rimanere, certo, indifferente, ancor di più perché appartenente alla categoria degli industriali e commercianti, nei quali cresceva un sentimento di sdegno nei confronti del Governo nazionale, colpevole di avere tradito le aspettative del popolo, e la sua vicinanza a Giovanni Gentile, a Giovani Borgese e ai Florio, danno una prova della sua scelta politica in conformità al pensiero, comune a tanti giovani di quel tempo, e contrario alla politica aristocratica e latifondista usurpatrice dei diritti della nuova classe media del lavoro, delle professioni, della cultura, che cercava un suo ruolo autonomo e aspirava a divenire classe dirigente ed elemento di modernizzazione della società isolana(13).
Da ciò derivarono grandi scontri sociali e un clima politico arroventato, dal quale scaturì una stagione di scioperi e di proteste.
Sull’onda dello sciopero generale indetto dai lavoratori di Genova, nel 1901 gli operai del Cantiere navale di Palermo organizzarono uno sciopero che durò 10 giorni, il cui intento era quello di attirare l’attenzione del Governo sui problemi delle industrie cittadine(14), ma il sistema giolittiano era così intriso di corruzione che non riusciva a muoversi al di là dei suoi limiti tanto stretti da deteriorare anche quegli aspetti più nuovi e progressisti dell’esperienza giolittiana.
Nel frattempo, Guido Jung, nel marzo 1906, che aveva dato prova della sua competenza nel settore economico, già Censore della Cassa Centrale di Risparmio Vittorio Emanuele per le Provincie Siciliane e contemporaneamente Commissario di Sconto della Banca d’Italia, venne nominato dal Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio, "Cavaliere della Corona d’Italia".
Il Prefetto di Palermo di quel tempo nella lettera "Riservata" al ministero proponente scrisse: "Il Sig. Guido Jung […] è persona di buona condotta politica e morale, appartiene ad agiata famiglia di commercianti; è colto e di buona educazione. Da Censore della Cassa di Risparmio V.E. disimpegna con zelo, con rettitudine e con competenza il suo compito. E lodevolmente compie anche l’ufficio di Commissario di Sconto della Banca d’Italia"(15).
Tale riconoscimento, che gli venne conferito in considerazione del suo impegno nel campo economico e politico gli consentì un rafforzamento della simpatia cittadina e conseguentemente la possibilità di farsi notare nel più ampio panorama nazionale.
L’annuncio della guerra libica e il nazionalismo - In quegli anni, gli animi dei giovani palermitani si erano accesi a causa dell’annuncio della conquista della Libia e, conseguentemente, dalla diffusione del nazionalismo che penetrò in Sicilia grazie all’azione divulgatrice del neonato giornale "L’Ora" fondato dai Florio nel 1901.
L’entusiasmo di questi giovani nazionalisti era dettato da un profondo desiderio di rinnovamento della politica nazionale e dal disprezzo per l’Italietta di Giolitti che rappresentava per quei giovani vogliosi di rinnovamento, un retaggio del vecchiume ottocentesco(16) e da un desiderio, inoltre, di portare a termine un progetto irrisolto: quello delle terre irredente.
Respirava quel clima Guido Jung, che sognava una Patria completamente unita, più forte e con una elevata credibilità estera, tanto da anelare una nazione promossa al rango di potenza alla pari di altre nazioni europee.
Possiamo, quindi, affermare che le sue idee trovano, palesemente, un elemento di continuità nelle ideologie di Crispi fondate, appunto, "sul concetto unitario, sul sentimento eroico della patria: vere forze motrici di grandezza e di civiltà"(17).
E’ da questo germe che nasce il nazionalismo: dal concetto di nazione, intesa come potenza capace di conquistare in guerra allo scopo di riunire l’intero corpo della nazione sotto un unico sforzo dimenticando le divisioni interne.
Con la nascita di questo nuovo irredentismo si rifondano a Palermo le sezioni di Trento e Trieste, della Corda Fratres, della Dante Alighieri(18), e proprio di quest’ultima, Jung fece parte del Consiglio Direttivo assieme a Carlo Cervello(19) negli anni che precedettero il primo conflitto mondiale, col quale, successivamente, dal 1920 al 1924 condivise l’esperienza di consigliere comunale al comune di Palermo(20).
Tale associazione aveva, insieme alla "Corda Fratres" e alla "Trento e Trieste", come scopo precipuo, quello di generare sotto la spinta delle idee dannunziane e del nazionalismo, un nuovo irredentismo di destra con il quale l’Italia doveva rivendicare e completare il processo risorgimentale rimasto irrisolto ormai da troppo tempo e per converso quello di arginare la spaventosa avanzata del pangermanesimo(21).
Fino a questo momento la figura di Jung, sebbene, egli, seguisse tutte le vicende politiche in maniera partecipe, appare appartata, ma non distaccata, infatti, non solo era pervaso dal fervore che animava ogni giovane nazionalista, ma condivideva in pieno sia le idee di Giovanni Borgese, suo fedele amico e sia l’entusiasmo generale all’impresa tripolina.
Jung, infatti, in linea con il sentimento imperante in quel momento storico, considerava la guerra libica come una guerra necessaria, necessaria per la continuazione del Risorgimento rimasto irrisolto e si faceva strada, in lui, anche la visione di una guerra vittoriosa che potesse elevare la nazione a potenza vincitrice e soprattutto colonialista.
Allo stesso modo, Borgese, collocava la vicenda della guerra di Libia nel più ampio scenario del rilancio della coscienza nazionale, la quale avrebbe dovuto avere come naturale sbocco la redenzione delle terre italiane ancora sotto il dominio asburgico e, l’importanza di questa guerra consisteva nel ridare onore e vitalità alla nazione, a dimostrazione che "siamo una razza forte, e che i nemici d’Italia debbono chinar la fronte dinanzi a noi(22)".
In questo contesto si inserisce anche l’azione fondamentale che ebbe a Palermo la Biblioteca Filosofica: un’attività culturale piuttosto fervida della famosa Biblioteca permise la diffusione del pensiero di Giovanni Gentile fondatore dell’hegelismo attualistico, che a quel tempo si fondeva col sorelismo e lo spencerismo, e della quale faceva parte anche Jung, che con le sue idee molto aderenti a quelle del Gentile e con la sua esperienza in campo economico, contribuì a divulgare il verbo nazionalista e contemporaneamente ad animare il dibattito politico e filosofico insieme a parecchi pensatori italiani (i pedagogisti Giuseppe Lombardo Radice e Gino Ferretti, i filosofi Cosmo Guastella e Francesco Orestano, i matematici Gaetano Scorza e Corradino Mineo, lo storico Gaetano Mario Colomba, il letterato G.A. Cesareo, il romanista S. Riccobono) e parecchi stranieri chiamati al cenacolo della Biblioteca a presentare i risultati delle loro ricerche, pubblicate successivamente sull’"Annuario".(23)
L’annuncio dell’avvenuta dichiarazione di guerra alla Turchia il 29 settembre, levò in tutta l’isola un ondata di entusiasmo. La conquista di Tripoli, per i siciliani di tutti gli orientamenti culturali e politici, anche per i socialisti, non solo sanava la beffa di Tunisi, ma offriva l’opportunità, in prospettiva, di trovare sbocchi occupazionali ai braccianti destinati ad alimentare i notevoli flussi emigratori transoceanici e nuovi mercati per le imprese siciliane che avevano conosciuto un rapido declino, sia per carenze proprie, sia per la politica economica giolittiana che aveva duramente colpito l’imprenditoria meridionale a vantaggio di quella settentrionale.
Dalla settimana rossa alla prima guerra mondiale - Gli anni che vanno dalla guerra libica allo scoppio del primo conflitto mondiale, evidenziano una sostanziale radicalizzazione dei contrasti politico-sociali e anche la situazione economica a partire dal 1913 si era nuovamente deteriorata, provocando un inasprimento delle tensioni sociali.
Il dibattito tendeva a polarizzarsi nello scontro fra nazionalisti e rivoluzionari socialisti. Un sintomo evidente del nuovo clima fu la cosiddetta Settimana rossa del giugno 1914 che interessò particolarmente l’Emilia Romagna e le Marche, quando a seguito di scontri tra polizia e manifestanti, morirono tre dimostranti determinando la proclamazione dello sciopero generale indetto dalla C.G.L., le cui intenzioni erano quelle di estendere l’ondata rivoluzionaria a tutto il paese(24).
La proclamazione dello sciopero generale provocò non poche preoccupazioni anche in Sicilia, perché si riteneva che gli ambienti socialisti rivoluzionari e repubblicani locali potessero avere la forza di provocare disordini anche nell’isola.
Palermo, per altro, nelle settimane precedenti allo scoppio della Settimana rossa, era stata teatro di ripetuti scioperi e manifestazioni, promossi dalla socialista rivoluzionaria Borsa dei Lavoratori presieduta da Raffaele Raimondi, e dal circolo repubblicano Rosolino Pilo guidato da Giuseppe Chiostergi(25).
L’unico risultato fu quello di rafforzare le tendenze conservatrici in seno alla classe dirigente, spaventata di un ritorno di fiamma del sovversivismo vecchia maniera, e di accentuare le fratture all’interno del movimento operaio.
Gli echi della Settimana rossa non si erano ancora spenti, quando lo scoppio del conflitto mondiale intervenne a distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni e a determinare nuovi schieramenti fra le forze politiche italiane. I nuovi schieramenti, all’interno presentavano ancora un terreno poco coeso, e alquanto frammentato, nel quale già si intravedevano a livello embrionale le nuove idee da cui presero corpo i movimenti più importanti che animarono il dibattito politico pre-bellico: interventisti e neutralisti.
Per quanto riguarda Palermo, scrive Cancila, "ancora nei primi mesi del 1915, la città era in grande maggioranza neutralista. Come i due maggiori quotidiani cittadini e la stampa cattolica, su posizioni neutraliste erano la classe politica, dal senatore Tasca Lanza all’onorevole Di Stefano; la borghesia degli affari, da Florio, amico personale del Kaiser, a Pecoraino; l’aristocrazia latifondista capeggiata da Camporeale, che a Roma si teneva in stretto collegamento con Giolitti e con il cognato Von Bulow. Se la borghesia commerciale temeva la rottura dei rapporti con la Germania per le conseguenze sull’esportazione di alcuni prodotti siciliani, l’aristocrazia si sentiva maggiormente garantita dall’alleanza con paesi conservatori che non con l’Inghilterra e Francia più democratiche"(26).
Ma nonostante il desiderio dei siciliani di rimanere neutrali, Palermo gradatamente chinò il capo all’interventismo per amor di Patria, una volta che il Paese entrò in guerra.
Gran parte del mondo nazionalista palermitano era pronto all’intervento e, in attesa delle decisioni del governo, Borgese, capofila dei nazionalisti della città, dal consiglio comunale, nell’agosto del 1914, disse: "il nostro cuore palpita per la patria e che per essa siamo pronti a dare il nostro sangue"(27).
I nazionalisti palermitani avevano costituito, insieme agli altri partiti interventisti, un Comitato per le rivendicazioni nazionali.
Palermo, voleva mantenere viva nell’opinione pubblica la chiara visione della necessità per l’Italia di procedere alle rivendicazioni nazionali di Trento e Trieste e la Dalmazia. Al comitato aderivano, oltre ai nazionalisti, l’Unione radicale, i repubblicani, associazioni irredentiste come la Corda Fratres, la Dante Alighieri, ecc.
Un’ulteriore testimonianza di questo mutamento è dato dal discorso sulla guerra pronunciato da Giovanni Gentile presso la Biblioteca Filosofica, nel novembre 1914, che, come dice Renda, fu l’apporto certamente più cospicuo che la cultura nazionale potè dare alla causa dell’intervento italiano nel gran conflitto mondiale, e con il quale egli definisce la guerra "il nostro atto assoluto, il nostro dovere, il nostro supremo e in questo senso, il nostro unico interesse"(28).
L’attività di propaganda fu intensa e senza sosta nonostante l’ostilità proveniente dalla maggioranza neutralista.
In questo quadro politico Jung, a differenza dell’atteggiamento tenuto durante la guerra in Libia la cui partecipazione all’attività di propaganda appare defilata, qui, invece, partecipa attivamente.
La situazione in quegli anni era rovente: il quotidiano "L’Ora" si era schierato in posizione neutralista secondo la posizione di Salandra, e i toni della polemica fra neutralisti e interventisti divenivano sempre più infuocati.
Le manifestazioni e i comizi degli interventisti si susseguivano a ritmi incalzanti assumendo maggiore ampiezza il giorno successivo alle dimissioni del governo Salandra, causate dal convincimento che la scelta interventista del ministero non avrebbe avuto l’approvazione della Camera filogiolittiana.
A Palermo, da sempre antigiolittiana, le "radiose giornate di maggio" assunsero anche un carattere di sostegno nei confronti del ministero Salandra.
Nel frattempo il 26 aprile fu firmato, in segreto, il patto di Londra fra l’Italia e i paesi dell’Intesa ed il 4 maggio fu denunciato il trattato della Triplice.
In quel clima di riscossa nazionale il discorso di D’Annunzio, il giorno dopo la denuncia del Trattato della Triplice, suonò come un invito alle armi, suscitando il fermento dei nazionalisti che organizzarono cortei e manifestazioni di giubilo in tutta Italia(29).
Poco dopo, il 24 maggio, l’Italia entrava in guerra, i dissensi si sopirono e tutta la società isolana fu penetrata dalla consapevolezza dell’importanza dell’impegno bellico nazionale.
Un volontario d’élite - Con lo scoppio della Grande Guerra, Guido Jung non esitò a partire come ufficiale volontario per il fronte, conformemente al trend generatosi in quel momento storico.
Fra i volontari partiti per il fronte, studenti in primo luogo, ma anche professionisti e componenti della stessa classe media e alta borghesia, oltre a Guido Jung, come abbiamo appena detto, e ai suoi fratelli (Mario e Aldo, il quale riportò il grado di Seniore nella 171° Legione della M.V.S.N. di Palermo), tranne Ugo che rimase a curare gli interessi dell’azienda di famiglia, ci fu anche Vincenzo Florio.
Il volontarismo siciliano, tuttavia, fu un fenomeno assai elitario. La guerra, dai più fu accettata come una necessità di forza maggiore; da alcuni vissuta come un dovere(30), come Adolfo Omodeo, discepolo del Gentile, il quale aveva scritto: "Creare la patria anche con la fiaccola della guerra civile"(31).
Parecchi di essi vi perdettero la vita, come il consigliere Borgese, che aveva insistentemente sollecitato il proprio richiamo alle armi; o come Manfredi Trabia, figlio del principe Pietro, decorato di medaglia d’argento, che guarito da una grave ferita al polmone chiese di ritornare al fronte, per morire presso Treviso durante un bombardamento(32).
Jung, ricorderà più tardi, con tanta passione e commozione, in un suo di-scorso tenuto nella città di Trapani nel 1926 in occasione dei festeggiamenti del VII anno della fondazione dei Fasci di combattimento, un episodio accaduto al fronte nell’Ottobre del 1917(33):
A sera, per una delle strade del Natisone verso Cividale si affollavano le truppe in ritirata, in parte inermi e fuggiasche. Sugli uomini e sulle cose gravava l’angoscia del disastro. Ma ad un tratto, da una delle porte della città, fronte al nemico, cantando gli inni della Patria, vennero in colonne serrate ed in ordine perfetto dei reparti di arditi. Essi movevano ad arginare l’impeto del nemico su per la valle. La massa dei fuggiaschi scendeva come trascinata da una corrente infernale, e gli Arditi la corrente la risalivano cantando, la risalivano spinti dalla forza invincibile che dà il disprezzo della morte e la prontezza al sacrificio, e nel risalire la corrente cantavano, perché lieto è ogni cuore virile che sta dinanzi un solo dovere e a cui è concessa, nel compierlo, la maschia, altissima gioia di giocare con la vita o con la morte.
Tutto ciò ci dà l’idea di quanto fosse sprezzante del pericolo e di quanta passionalità e valore mettesse nel compiere il sacrificio in nome della Patria, una Patria da difendere con la propria morte, e difatti, fu proprio lui ad accorrere nel Trentino, per ricomporre la salma del suo grande amico G. Borgese, colpito al capo da una scheggia di granata mentre era in trincea in primissima linea(34) e col quale aveva condiviso l’elevato ideale di una nazione unita e forte, in cui tutto il popolo italiano avesse la consapevolezza del significato di nazione unita, di libertà interna e di indipendenza.
Mentre al fronte i giovani palermitani, dagli aristocratici ai più umili si battevano eroicamente contro il nemico, in città un Comitato di difesa civile si occupava della raccolta di fondi da distribuire in sussidi ai bisognosi; l’Alleanza femminile distribuiva pane e pasta alle famiglie dei richiamati; l’Associazione delle cucine economiche istituiva il servizio anche nelle borgate; Annetta Chiaramonte Bordonaro, moglie del senatore Tasca Lanza, che aveva i figli al fronte, tra cui Ottavio, apriva un ospedale di 250 posti letto per i soldati feriti, accudendo personalmente all’organizzazione(35).
Anche la famiglia Jung si distinse per il suo interessamento e maggiormente per il contributo di mezzi finanziari resi per la causa della difesa civile, durante la guerra.
Più tardi, nel 1916, il Prefetto di Palermo in una nota inviata al ministro dell’Interno, in relazione al conferimento di una onorificenza da conferire a Ugo Jung, scrisse: "Tra le famiglie di questa città, la famiglia Jung va annoverata tra le prime. Essa ha dato all’Esercito tre figli ed il quarto, qui rimasto a dirigere la Casa Commerciale Fratelli Jung, il signor Ugo fu di Mario, non ha lasciato passare occasione per dimostrare il proprio entusiasmo per la causa del nostro Paese, contribuendo molte migliaia di lire per il locale Comitato di Difesa Civile, facendosi iniziatore di conferenze, di spettacoli di beneficenza, prendendo parte alla organizzazione dell’Alleanza Femminile dei Ricreatori ed Asili per i figli dei richiamati, con tale interessamento da attirare su di sé e sulla famiglia che rappresenta un seguito di giustificate simpatie, tanto maggiore in quanto la prima opera dei Fratelli Jung fu qui spesa nel decorso anno in una propaganda per la guerra che li pose subito in prima linea fra quanti mostrarono di sentire fortemente per la Patria". Il Prefetto concluse dicendo che sarebbe stato doveroso concedere a Ugo Jung la Croce di Cavaliere nell’Ordine della Corona d’Italia, come segno di gratitudine per la sua opera infaticabile profusa per la città(36).
Così, nel maggio 1917, Ugo veniva insignito Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia. Più volte venne proposta la nomina a Commendatore della Corona d’Italia e benché il Prefetto esprimesse parere favorevole non si ha traccia di ulteriore conferimento.
2. La fine della guerra e la partecipazione alle Conferenze Internazionali
Il trattato di pace di Versailles - I lavori della Conferenza di pace si aprirono il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles e durarono oltre un anno e mezzo. Venne ridisegnata la carta politica europea sconvolta dal crollo dei quattro imperi, tedesco, austro-ungarico, russo e turco. Era importante ricostruire un equilibrio europeo, ma anche tener conto di quei principi di democrazia e di giustizia internazionale a cui l’Intesa si era richiamata nell’ultimo periodo della guerra.
Al tavolo delle trattative della conferenza di Versailles, come sappiamo, partecipò, oltre alla delegazione americana, a quella francese e inglese, anche la delegazione italiana i cui rappresentanti erano V.E. Orlando e Sidney Sonnino.
A prendere parte a tale conferenza, accanto ad altri autorevoli personaggi, vi fu Guido Jung in qualità di tecnico esperto di materie economiche, col compito di proporre delle soluzioni relative alle operazioni di ricostruzione economica.
All’interno della Conferenza di Pace si tenne anche una Conferenza Interalleata per l’Agricoltura inaugurata dal ministro francese M.Vittorio Boret, l’11 febbraio 1919, e alla quale partecipò anche il Capitano Guido Jung come delegato italiano insieme al Ministro per gli Approvvigionamenti Crespi, e al Presidente della federazione degli istituti agrari del Veneto, il maggiore Mazzotti.
La conferenza si occupava della determinazione dei bisogni dei paesi alleati, per ciò che concerneva la manodopera agricola, gli attrezzi agricoli, il bestiame, le sementi, ecc. Ma ciò che emerse di veramente importante da tale conferenza fu la limitazione della durata del lavoro nelle industrie ad un massimo di otto ore giornaliere(37).
A questo punto sorge spontaneo chiedersi come mai proprio Guido Jung possa essere stato invitato a Versailles, a sedersi al tavolo delle trattative, per conto del governo italiano.
In quanto a questo, le documentazioni ritrovate sono avare di spiegazioni, ma si può presumere, a mio avviso, che la sua partecipazione sia stata dovuta all’incontro fortunato che egli ebbe con Sonnino, anch’esso ebreo, alla fine del secolo precedente, in occasione della collaborazione coi Florio contro il giolittismo e a favore della difesa dell’economia siciliana e del Mezzogiorno in genere, nell’ambito del "Progetto Sicilia".
In seguito, Jung ebbe l’opportunità di conoscere anche V.E. Orlando, anch’esso siciliano che, in occasione di una sua visita a Palermo (novembre 1915), in pieno clima di ostilità belliche, ne trasse occasione per pronunciare un discorso sull’utilità della "guerra giusta e necessaria", che avrebbe definitivamente concluso il processo formativo dell’unità nazionale(38).
Da non sottovalutare è inoltre l’attività di nazionalista attivista svolta da Jung, all’interno dell’Associazione "Corda Fratres"; la sua adesione al volontarismo nella prima guerra mondiale; e ancora la sua collaborazione prestata alla Cassa Centrale di Risparmio V.E. per le province siciliane in qualità di Censore; e inoltre quella di Commissario di Sconto della Banca d’Italia, attività, queste ultime, che posero maggiormente in luce la sua abilità di economista.
Probabilmente, dunque, furono tutte queste situazioni favorevoli a consentire a Guido Jung di avere il privilegio di essere invitato ad una conferenza di tale considerevole importanza, all’interno della quale si dovevano decidere le sorti economiche degli Stati europei all’indomani del primo conflitto mondiale.
La sua raffinata conoscenza di principi economici divenne presto nota al mondo della finanza italiana che gli consentì di guadagnare il 30 agosto del 1919 l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia, conferita motu proprio dal Sovrano, su segnalazione fatta da S.E. Crespi, mentre ancora Guido si trovava a Parigi. Un’altra onorificenza, in qualità di Cavaliere nell’Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro, la riceverà più tardi, nel novembre 1922, in occasione della visita del Re a Palermo.
La Conferenza Internazionale di Genova - Nel 1922, in vista della Conferenza Internazionale di Genova, si riunirono a Londra dal 20 al 28 marzo gli esperti in economia dei Paesi partecipanti alla Conferenza Internazionale, allo scopo di effettuare uno scambio di vedute, realizzare un lavoro di confronto e di eliminazione delle opinioni comuni che facilitasse e sollecitasse i dibattiti di Genova.
I Paesi che vi parteciparono, in rappresentanza degli altri Stati Europei, furono l’Inghilterra, la Francia, il Belgio, l’Italia, e per l’Asia, il Giappone.
I grandi assenti ancora una volta furono gli Stati Uniti che, come non parteciparono alla Conferenza di Bruxelles, allo stesso modo disertarono la Conferenza di Genova.
Per l’Italia, i periti designati furono Giannini e il Commendatore Guido Jung.
I preliminari della conferenza si aprirono analizzando i progetti inglesi relativi alla questione monetaria e di convenzione monetaria che, se accettata, avrebbe dovuto essere firmata a Genova da tutte le Nazioni come corollario delle deliberazioni proposte.
I loro progetti, che si uniformavano in tutto alle decisioni già prese alla Conferenza di Bruxelles e dai quali ne nascevano altri ben più di importanti, prevedevano la ricostruzione economica europea attraverso la stabilizzazione delle singole monete nazionali, da realizzare con la cura del bilancio statale al fine di evitare una situazione deficitaria da non sanarsi con l’emissione di nuova carta moneta oppure ricorrendo a crediti di banca.
Il Comm. Jung e Giannini si espressero positivamente riguardo alle misure da prendere da ciascuna nazione per facilitare la stabilizzazione della propria moneta, principi del resto già accettati a Bruxelles, e dichiararono che tali principi corrispondevano perfettamente alle idee che si avevano in Italia al riguardo.
Jung, inoltre, ritenne anche che, il giorno in cui si fosse definitivamente effettuata la stabilizzazione del potere d’acquisto di una moneta sarebbe stato economicamente consigliabile procedere senza esitazione e col necessario coraggio alla grave operazione della rivalutazione della moneta in base ad una nuova parità aurea. Tuttavia egli ritenne che ogni misura artificiale intesa ad assicurare o affrettare la stabilizzazione del potere d’acquisto della moneta sarebbe stata considerata in Italia come assolutamente dannosa ed inefficace. Ogni tentativo per procedere a una rivalutazione della moneta prima che non fosse esaurito per forza propria e senza il concorso di elementi artificiali il processo di stabilizzazione, equivaleva ad aggiungere delle gravi ed inutili crisi di assestamento alla crisi generale per la quale ciascun Paese doveva, purtroppo, passare nel dopo-guerra.
La delegazione Italiana, quindi, concordava pienamente con i principi esposti nelle deliberazioni proposte, ma Jung riteneva però che la convenzione monetaria nella forma presentata fosse prematura e non opportuna date le condizioni attuali della finanza degli Stati che avrebbero partecipato alla Conferenza di Genova, in quanto che, essa tendeva a regolare delle condizioni di cose che ancora non esistevano.
A conclusione degli incontri preliminari dei periti tecnici, esperti in economia finanziaria, delle delegazioni delle nazioni partecipanti ai preliminari della Conferenza, Jung e Giannini si premurarono di comunicare le suddette notizie al Ministero degli Affari Esteri, il cui Capo di gabinetto le trasmise, con una lettera(39) "personale" datata 29 marzo 1922, al direttore Generale della Banca d’Italia del tempo, Bonaldo Stringher.
Finite le prove generali, pochi giorni dopo, in aprile, si tenne a Genova la Conferenza Internazionale, alla quale prese parte anche il Comm. Jung, avente come oggetto la ricostruzione economica dell’Europa attraverso la creazione di un Consorzio Internazionale e di Consorzi Nazionali.
Secondo la deliberazione 19 del Rapporto della Commissione Finanziaria, "tali organismi avrebbero dovuto avere, il compito principale di esaminare le occasioni che eventualmente si fossero presentate di collaborare alla restaurazione dell’Europa, e di aiutare a sostenere finanziariamente le iniziative intese a tale scopo e di cooperare con le altre istituzioni e imprese del genere, senza tentare in alcun modo di creare monopoli".(40)
Le discussioni degli esperti italiani si svolsero in due giornate, il 12 e il 13 aprile, distribuite in tre riunioni, presiedute dal ministro del Tesoro del tempo(41).
Nella prima delle tre riunioni, Jung espose in maniera particolareggiata gli schemi delle deliberazioni concretate a Londra dagli esperti economici delle Potenze che avevano partecipato all’iniziativa della Conferenza.
Tali schemi riguardavano in particolar modo la circolazione, i crediti per la ricostruzione dell’Europa Orientale e i cambi.
Maggiore importanza, dal punto di vista dell’analisi del dettaglio, presentarono le altre due riunioni, nelle quali Jung si dilungò sulla stabilizzazione del valore della moneta.
Jung espose, inoltre, i motivi per cui non poteva essere accettata la proposta inglese circa la rivalutazione della moneta dei paesi a cambio notevolmente deteriorato, mediante la fissazione di una nuova parità aurea, in quanto era riconosciuto opportuno lasciare ad ogni Nazione di decidere, secondo le proprie condizioni, se conservare la parità di ante-guerra ovvero stabilirne un’altra basata sul valore del cambio in un momento determinato.
Secondo Jung, concordemente al parere degli altri esperti presenti alla riunione, ai fini della restaurazione economica di ogni Nazione ed al risanamento della propria circolazione, era essenziale riconoscere la necessità di ristabilire il pareggio del bilancio, equilibrando le uscite con mezzi ordinari e stabili di entrata, senza dover ricorrere a nuove emissioni di carta moneta o a prestiti.
Finiti i lavori, a giugno, a più di un mese dalla fine della Conferenza, Guido Jung inviò una lettera ad un certo Signor B.H. Binder residente a Londra, il quale desiderava avere notizie sull’adesione dell’Italia al Consorzio Finanziario Internazionale e alle Società Nazionali.
Dalla lettura della lettera si evince che Jung non ha alcuna notizia al riguardo e promette di scrivere a Roma al fine di sollecitare lo svolgimento di tale pratica.
Della creazione di tali organismi probabilmente non ne esiste alcuna traccia.
Il Governo italiano, seguendo le suggestioni della Conferenza di Genova ed i consigli dati dalla Banca d’Inghilterra, procederà più tardi, nel 1927 alla stabilizzazione della sua valuta sulla base del gold exchange standard, sistema che come è noto, comporta che le riserve dell’Istituto di emissione possano essere costituite in oro o in divisa su mercati che mantengono il libero cambio della loro moneta in oro.
Tale estrema fiducia della Banca d’Italia e del Governo italiano nella funzione del mercato inglese, quale centro internazionale di compensazione, gli costò nel 1931 in occasione della svalutazione della sterlina, gravi scompensi economici, per i quali fallirono le proposte amichevoli da parte dell’Italia di trovare una soluzione al superamento delle difficoltà nelle quali si trovò coinvolto l’Istituto d’emissione italiano a causa del provvedimento inglese che aveva determinato la sospensione del gold standard(42).
L’impegno politico nell’ambito cittadino - Nel periodo successivo alla guerra, negli anni tra il 1920 e il 1924 Guido Jung fu nominato Assessore dei Servizi Municipalizzati(43) all’interno della Giunta Lanza di Scalea del Comune di Palermo, continuando a mantenere la carica di Consigliere Comunale eletto, precedentemente, all’interno della lista dell’Unione Palermitana. Quella fu l’ultima amministrazione liberale, prima del fascismo.
In quegli anni Jung, si dedicò poco all’attività comunale dal momento che aveva assunto, come abbiamo visto, incarichi internazionali che lo portarono lontano dalle mura del Palazzo delle Aquile. Furono infatti più le assenze registrate nei verbali delle assemblee consiliari e di giunta, che le presenze.
Ma nonostante le sue assenze e nonostante la sua attenzione fosse monopolizzata da interessi di più ampia portata, egli riuscì, con la maestria di abile amministratore ad apportare un profondo contributo al risanamento della sua città.
Di particolare importanza, infatti, ai fini della nostra ricerca, fu il contributo dato da Jung in qualità di assessore delle Municipalizzate, per il risanamento del bilancio della azienda municipale del gas, che con l’amministrazione precedente, nel 1920, aveva chiuso il bilancio con un deficit di 4 milioni e mezzo.
Dal Nazionalismo al fascismo - L’avvento del fascismo nell’isola si colloca nel contesto di una situazione nella quale la vecchia classe dirigente si era esaurita, senza che la nuova fosse matura o pronta ad assumerne le funzioni e una volta che ciò avvenne la partecipazione siciliana al consolidamento del regime mussoliniano fu particolarmente rilevante.
Lo fu al livello propriamente politico-istituzionale; ma lo fu soprattutto in termini elettorali. Dello stesso governo Mussolini (ottobre 1922 – aprile 1924) fecero parte (circostanza che non si era mai verificata nella storia d’Italia) ben quattro ministri siciliani.
I ministri furono Giovanni Gentile, al ministero della pubblica istruzione; Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, al ministero delle poste e comunicazioni; Gabriele Carnazza al ministero dei lavori pubblici; Mario Orso Corbino, al ministero dell’economia nazionale (istituito nel 1923). Nelle consultazioni politiche del 1924, che furono la legittimazione costituzionale del fascismo, la Sicilia diede al regime un consenso fra i più alti d’Italia. Il fascismo si presentò in una cosiddetta lista nazionale, della quale, nell’isola come nel Sud, fecero parte uomini politici di gran nome, quali Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra ed Enrico De Nicola; ed è legittimo perciò concluderne che una cospicua parte dei voti dal medesimo ottenuti erano voti liberali e non voti fascisti propriamente detti. Ma, nella ricostruzione della ascesa fascista in Sicilia, la confluenza di voti fascisti e di voti liberali nella medesima lista fu un evento di notevole importanza(44).
Dunque, il governo formato dal Duce all’indomani della marcia su Roma, composto prima da tre e subito dopo da quattro ministri siciliani, dei quali due della democrazia sociale, e due autorevoli esponenti della cultura e del mondo degli affari, ebbe il quasi unanime voto di fiducia della deputazione siciliana.
I più, senza attendere oltre, per convincimento o per opportunismo, ne trassero le conseguenze: il futuro non era più liberale ma fascista.
Il processo di riaggregazione attorno ai fasci locali apparve come qualcosa in grande misura legato al governativismo prevalente nella tradizione isolana; un fenomeno di trasformismo, insomma, seppure trasformismo di massa. In realtà, era quello, ma non era solo quello.
Nella situazione di profonda crisi, in cui versava la classe dirigente liberale isolana, la forte attrazione esercitata dal polo fascista era il segno della disgregazione molecolare del vecchio sistema politico e la indicazione che un nuovo blocco di potere si stava costituendo in sua vece.
L’aumento numerico dei fasci di combattimento e la crescita dei rispettivi iscritti furono tanto più incisivi in quanto si accompagnarono a processi di accorpamento e di fusione nel Partito Nazionale Fascista che coinvolsero intere formazioni politiche. La prima e più importante operazione che fece crescere il fascismo siciliano in termini di qualità, oltre che di quantità, fu la confluenza nelle file degli appartenenti al movimento nazionalista. La decisione fu presa sul piano nazionale e nell’isola fu attuata non senza difficoltà.
Ci furono anche resistenze aperte. Il nazionalismo siciliano era tanto aristocratico ed elitario quanto plebeo e grossolano lo squadrismo antemarcia. La fusione delle due realtà fu però realizzata lo stesso e il fascismo si arricchì delle prime personalità politiche e culturali di rilievo che gli diedero dignità e prestigio di forza di governo, pure nella dimensione regionale.
Divennero fascisti il principe Pietro Lanza di Scalea, il medico Alfredo Cucco, il professore Francesco Ercole, il generale Antonio Di Giorgio, lo storico Alfonso Sansone(45), e aggiungiamo noi, l’economista Guido Jung.
L’adesione di un ebreo come Jung al fascismo non risulta essere un caso isolato. Gli ebrei, secondo De Felice, sono portati quasi naturalmente verso i partiti socialmente e politicamente più impegnati ed avanzati o che, almeno, apparivano tali, come ad esempio il partito nazionalista, la cui naturale confluenza fu nel nuovo partito fascista.
Non è un caso che il fascismo trovò, sin dalle sue origini, tra gli ebrei molti aderenti. Gli ebrei, infatti, si comportavano politicamente non in quanto comunità, ma in quanto singoli cittadini e, in quanto singoli cittadini, come tutti gli altri italiani.(46)
Mussolini d’altronde, personalmente non aveva vere prevenzioni antisemite; gli ebrei in genere non gli erano né particolarmente simpatici né particolarmente antipatici; riconosceva loro una serie di doti e di capacità, specie nel campo economico-finanziario, e quando nel 1932, nominò ministro delle Finanze Guido Jung, pare che dicesse ai suoi intimi che un ebreo era quello che ci voleva alle Finanze(47).
Inoltre nella fase d’espansione del fascismo, inteso non più come movimento rivoluzionario d’élite, ma come partito nazionale, gli ebrei – numerosi nel fascismo e abbastanza importanti nella vita nazionale, specie economica – non potevano più essere considerati al margine della vita nazionale: era necessario immetterveli.
Mussolini, già sin dal 1919 aveva vari ebrei nel suo entourage immediato: l’adesione e l’appoggio al fascismo andò però ben oltre questi casi(48). Alcuni ebrei ebbero parte notevole nel finanziamento dei primi gruppi fascisti. Tra i partecipanti alla fondazione dei fasci di combattimento a Milano, il 23 marzo 1919, i famosi sansepolcristi, furono certamente almeno cinque ebrei (uno dei quali, anzi, Cesare Goldmann, fu quello che procurò la sala); così pure tre ebrei (Duilio Sinigallia, Gino Bolaffi, Bruno Mondolfo) figurano nel martirologio ufficiale della "rivoluzione fascista"(49).
Il motivo per cui il fascismo trovasse tra gli ebrei un vasto seguito, si può spiegare, secondo De Felice, se si tiene presente da un lato il carattere classista del fascismo delle "Origini" e dall’altro il carattere spiccatamente borghese dell’ebraismo italiano. Del resto, questo spiccato carattere borghese dell’ebraismo italiano spiega come se esso affluì numeroso nel fascismo, altrettanto numerosamente affluì nei partiti e movimenti decisamente antifascisti, sfuggendo le soluzioni intermedie, più o meno agnostiche ed attendistiche.(50)
Nel primo ministero, Mussolini si circondò di una massiccia presenza di ebrei: Aldo Finzi, sottosegretario agli Interni, ex aviatore della "Serenissima" di D’Annunzio, squadrista, deputato e membro del Gran Consiglio fascista, mentre il Prefetto Dante Almansi ricoprì addirittura la carica di vice capo della Polizia, e fu anche Capo di Gabinetto durante il ministero Jung.
3. Il deputato fascista
Il periodo degli scandali - La campagna elettorale per le elezioni del 1924, fu caratterizzata da episodi incresciosi, che crearono uno stato di pericolosa tensione, e il giorno delle elezioni non mancarono i soliti brogli, con assenti e defunti dati per votanti.
I risultati furono largamente favorevoli alla Lista Nazionale, i cui candidati, grazie al premio di maggioranza, furono tutti eletti, alcuni addirittura con un numero di preferenze irrisorio(51).
Tra i candidati palermitani il commendatore Jung fu eletto assieme ad altri nomi di spicco, come il professore Di Marzo, l’avvocato La Bella, il principe di Scalea, il principe di Scordia, l’avvocato Musotto, Orlando, Cucco, l’archeologo professore Pace e il generale Di Giorgio.
In quel clima politico particolarmente arroventato, in cui i sospetti nei confronti degli ebrei serpeggiavano in maniera sotterranea, non era facile per Jung respingere le accuse addebitategli da coloro che poco tolleravano la sua presenza in posti di alta responsabilità e di prestigio. Ricordiamo che Jung, già nel 1922 ricopriva la carica di consigliere finanziario dell’ambasciata italiana a Washington, nell’agosto del 1923 fu incaricato di provvedere alla sistemazione dei rapporti fra la Banca italiana di Sconto in liquidazione, il Banco di Roma e la Banca Nazionale di Credito; successivamente divenne Commissario del Governo per i beni dei sudditi ex nemici e poi, ancora dall’agosto del 1927 al luglio 1932, fu presidente dell’istituto nazionale per l’esportazione e contemporaneamente, nel 1931, presidente della società finanziaria industriale italiana.
Le accuse mosse nei suoi confronti furono abbastanza pesanti, tanto che in alcune occasioni, dopo essere stato anche indagato, chiese di essere sollevato dall’incarico. La sua fedeltà al Fascismo è comprovata da ogni sua manifestazione di rispetto per la persona del Duce, ed è chiaro evincere tale sentimento da una lettera che l’On. Jung inviò al Presidente del Consiglio(52), Benito Mussolini, nella quale manifestava il suo formale disappunto per essere stato accusato ingiustamente di condurre un modo di vita non conforme ai dettami fascisti e per di più accusato di avere ispirato i provvedimenti sulle borse, relativi al R.D.L. 26 febbraio 1925. Di tale accusa egli si scagionava asserendo di non essere stato a conoscenza del decreto se non addirittura dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, la sera del 28 febbraio quando a seguito di un incontro con il Ministro De Stefani, egli aveva manifestato il suo dissenso su vari punti del R.D.L. in oggetto; Jung, continuava nella sua difesa asserendo di non essere mai appartenuto alla massoneria e non essere mai appartenuto ad alcun partito politico: "io non ho mai appartenuto ad alcun partito politico né mai mi sono occupato di politica fino all’Agosto Settembre 1914 quando, nell’iniziare la mia attiva e pugnace azione per l’intervento, mi sono iscritto al Nazionalismo".
A questo proposito va subito detto che, nonostante Jung fosse un fascista e prima ancora un nazionalista, per gli altri fascisti appartenenti ad altra religione, restava pur sempre un ebreo, infatti, come dice De Felice, "da parte di molti fascisti ed in particolare di quelli di origine nazionalista, si continuò a guardare dopo la "marcia su Roma" agli ebrei come ad un gruppo sostanzialmente d’opposizione, legato all’interno a filo doppio alla massoneria e ai partiti antifascisti (socialismo e bolscevismo) e all’estero, se non proprio all’internazionale ebraica, all’alta finanza internazionale e alle organizzazioni e agli ambienti più dichiaratamente antifascisti e antitaliani(53).
Qualche settimana più tardi, esattamente l’otto luglio, con una lettera(54) il Ministro De Stefani comunicava a Mussolini che L’On. Guido Jung metteva a disposizione del Presidente del Consiglio, il mandato conferitogli.
In poche parole Jung si dimise perché non sopportò l’affronto di essere stato sospettato (integerrimo com’era) di condurre un modo di vita "ambiguo".
Nel frattempo, nell’agosto del 1927, Jung fu nominato presidente dell’INE, l’Istituto Nazionale per l’Esportazione, e mantenne tale carica sino al luglio del 1932 quando fu nominato ministro delle Finanze.
Durante il periodo in cui diresse l’INE potè acquisire una eccellente conoscenza nel commercio estero e degli annessi problemi del finanziamento e dei trasporti.
Ma nell’ottobre dello stesso anno, l’On. Jung fu nuovamente al centro di un altro scandalo, sempre per il suo modo di gestire le situazioni economiche e politiche.
La denuncia partì da "molti commercianti di Palermo", (così si firmano in calce alla lettera anonima(55), spedita a Sua Eccellenza Galeazzo Ciano), i quali si sentirono traditi nelle aspettative del loro designato al Parlamento.
Essi lo accusarono, infatti, di approfittare di tale carica per privilegiare le sue attività commerciali in modo prepotente e sfacciato, di monopolizzare le Ferrovie e di mobilitare gli uffici e gli impiegati, di abusare della sua posizione affinché i suoi carri avessero precedenza assoluta sugli altri, cosicché, da questa situazione di preminenza sarebbe derivato che gli altri esportatori ne venivano fortemente danneggiati e per questo motivo, tale gruppo di commercianti chiedeva chiarezza e giustizia invitando gli organi competenti a svolgere le dovute indagini.
Tutto ciò valse a Jung l’appellativo di "deputato della nocciuola", e quel che salta agli occhi è che viene esplicitamente espressa la sua appartenenza alla religione ebraica:
L’On. Jung, ebreo, e monopolizzatore di ogni onestà ha sempre pubblicamente e privatamente predicato che egli, bontà sua, serve in ogni suo atto la Patria.
Viceversa si può dimostrare che egli serve solamente la "mandorla e la nocciuola" di cui egli ne fa larga esportazione. E non è ignoto ad alcuno che egli, qui, è designato, dopo il suo discorso ironicamente accolto alla Camera con approvazioni, "il deputato della nocciuola(56).
A seguito di questa lettera, furono svolte tutte le indagini(57) del caso per far luce su simili accuse di abuso di potere da parte di Jung, cosicché il Capo di Gabinetto del Primo Ministro si rivolse al Capo di Gabinetto del Ministro delle Comunicazioni, il quale con una lettera rispose che dopo avere esperito tutte le indagini in merito all’eventualità di abusi nell’inoltro dei trasporti dei prodotti della Ditta Fratelli Jung, in partenza dalle stazioni delle Puglie e della Sicilia, risultava che nessuna eccezione veniva fatta per i trasporti oggetto del malcontento dei commercianti palermitani.
Nel 1928 l’On. Jung, scrisse al Cav. Benito Mussolini, Capo del Governo, una lettera in cui rassegnava le sue dimissioni da Presidente dell’Istituto Nazionale per L’Esportazione(58), esponendo le difficoltà cui andava incontro nella conduzione della propria impresa, sopravvenute a causa di un’imminente impresa coloniale in Cirenaica (Libia), e che coinvolgeva personalmente uno dei suoi fratelli anch’esso a capo dell’azienda di famiglia.
Egli scrisse al Duce esprimendogli la sua più totale devozione, ma di essere costretto a scegliere tra due doveri entrambi vivamente sentiti, scelta da Jung stesso definita "quanto mai penosa".
Tali dimissioni però gli vennero respinte, infatti, come sappiamo rimase in carica fino alla vigilia della sua nomina a ministro delle finanze nel Governo Mussolini.
Nonostante Jung riscuotesse ampi consensi sia in ambito nazionale sia internazionale, nella "sua" Palermo, come abbiamo appena visto, non godeva di larghe simpatie e perciò nel 1929 il prefetto, pur riconoscendogli capacità e conoscenza approfondita dei problemi della sua città, preferiva che la carica di podestà venisse affidata – come poi avvenne – al principe di Spadafora(59). Fu così che Jung perse la grande occasione di governare personalmente la sua città, di prodigarsi per la sua terra, ma in compenso riuscì a lasciare una traccia di sé ancora più profonda di quanto egli stesso non potesse desiderare.
Fascismo e Religione - In occasione del VII Annuale della Fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento il 28 Marzo 1926, nelle maggiori città italiane si tennero adunate di piazza alle quali il popolo partecipò in massa. Per la città di Trapani fu designato l’Onorevole Guido Jung, il quale parlò ad un pubblico plaudente, al quale riuscì a toccare le corde dell’anima, a risvegliare il sentimento Nazionale e l’orgoglio siciliano(60).
Dal suo discorso, emerge nettamente la sua assoluta fedeltà all’ideologia fascista, la sua più sincera devozione a tale dottrina, infatti per Jung, la vera rivoluzione "consiste nel capovolgimento dei termini sui quali era basata la concezione politica degli ultimi secoli", e tale capovolgimento consiste nel subordinare l’individuo e i suoi bisogni ai bisogni supremi della collettività nazionale, "cui si riconosce una propria vita, una propria individualità, che non è il risultato della somma delle vite individuali dei cittadini, ma che trascende la contingenza delle generazioni, per affermarsi, nel tempo, una attraverso i secoli ed alle vicende del mondo." Il fascismo viene concepito come religione, come un credo, che pur non promettendo il paradiso in terra, stabilisce però le virtù prime dell’uomo quali il sacrificio e il dovere e pone la vita secolare della Nazione come unico obiettivo da raggiungere con ogni sforzo a costo della vita stessa di ogni individuo perché solo in questo modo ogni cittadino può sentire il conforto dei propri sforzi, dei propri dolori e delle proprie speranze, poiché tutto ciò contribuisce a non rendere vana "quella che è la sola vita che conti, non chiusa nel breve cerchio di una generazione, ma la vita della Patria sacra ed imperitura".
E sempre nel discorso svoltosi a Trapani egli disse:
Il Fascismo è e deve rimanere una milizia ed una religione, della milizia esso ha la disciplina serrata e la subordinazione assoluta, della religione esso ha la fede e la nozione intuitiva della santità di quanto trascende il nostro raziocinio; della milizia e della religione esso pratica la virtù essenziale: il culto del dovere e del sacrificio.
A questa milizia ed a questa religione non deve essere permesso di accedere se non in purezza di cuore ed in fervore di opere, perché attraverso di esse deve realizzarsi quello che fin dal 1921 Benito Mussolini indicava quale programma del fascismo e cioè: il programma necessario ad assicurare la grandezza morale e materiale del popolo italiano.
Contro la mafia - Nel suo discorso Jung non mancò di fare riferimento alla situazione economica dell’Isola con particolare riguardo alla provincia di Trapani, per la quale egli non nascose la sua simpatia proprio perché considerava i trapanesi un popolo laborioso, non curante della fatica e pronto alla difesa della Patria, ma non dimenticò di parlare anche del male che affliggeva la Sicilia (che continua ancora oggi ad affligerla), la mafia, invitando la popolazione a collaborare con il Governo Nazionale per estirpare questo fenomeno radicatosi nel tessuto sociale già da tempo immemore (proprio in quegli anni infatti, fu inviato dal Governo il Prefetto Mori). Fu in questa occasione che Jung riprese le parole del Duce in un telegramma al Prefetto Mori, per rafforzare le proprie: "…Cinque milioni di laboriosi patrioti siciliani (dice B Mussolini) non devono essere più oltre vessati, taglieggiati, derubati e disonorati da poche centinaia di malviventi…..".
Con un tale discorso, di rinnovamento e di epurazione, Jung non poteva che ricevere il consenso degli intervenuti all’adunata, specie quando, da buon Siciliano, pose in evidenza l’onestà, la purezza e la sanità del popolo siculo, e ancor di più quando l’invito alla collaborazione si fece ancora più penetrante egli aggiunse(61):
Noi dobbiamo mettere le nostre dita e le nostre unghia nella piaga che la mano coraggiosa di Benito Mussolini ha denudata per la salvazione della nostra terra e per la grandezza dell’Italia, e con le dita e le unghia noi dobbiamo strapparne il marciume, perché vivida e rossa appaia finalmente la carne sana, perché tutto il corpo risanato rifiorisca di vita più rigogliosa.
Egli considerava l’operazione di epurazione dalla mafia come l’attività principale prima di qualsiasi altra attività di rinnovamento, perché secondo Jung, è inutile parlare di costruzioni di strade e di altre strutture se non si procede a sradicare tale male ignominioso che egli considerava, a giusta ragione, un problema morale. Solo procedendo in questa direzione si potrà finalmente auspicare ad una resurrezione dell’Isola, sia dal punto di vista economico, attraverso la trasformazione ed intensificazione della produzione agricola, il potenziamento dell’irrigazione, attraverso la ricerca e lo sfruttamento delle risorse naturali, sia dal punto di vista morale e sociale, attraverso la consapevolezza di svolgere la propria attività libera da pericoli nascosti, da preoccupazioni e da insidie.
In effetti la mafia, per un certo periodo di tempo sembrò essere stata messa a tacere grazie appunto all’intervento severo del Prefetto Mori e all’intensa collaborazione delle forze di polizia e quando, nel 1928, Jung venne a conoscenza di un progetto che intendeva porre a riposo il Prefetto Mori, egli non tardò di fare giungere al Duce una lettera(62) nella quale esternava il proprio disappunto:
Se così fosse ne risulterebbe, a giudizio mio e della maggior parte dei Siciliani, un danno gravissimo all’opera perseguita da V.E. in Sicilia. Qualunque siano le argomentazioni che potrebbero venir fatte al riguardo, il popolo interpreterebbe l’atto come un passo indietro e resterebbe perplesso e dubbioso delle vere intenzioni del Governo Nazionale.
L’economia fascista e il prestito Morgan - Il primo risultato tangibile dell’avvento del regime e della fiducia che Mussolini era riuscito a ottenere presso industriali e agrari, consistette nella ripresa economica che caratterizzò il triennio 1923-1925.
In una fase di ripresa economica internazionale dopo il 1924, crebbero a dismisura le esportazioni di manufatti. Si trattò di un piccolo boom economico che resse fino al 1926 quando, a livello internazionale, cominciarono a mostrarsi i segni di un nuovo ristagno.
Per far fronte a questa situazione e diminuire le importazioni, stimolando al massimo la produzione interna, il regime lanciò due grandi iniziative che vennero abilmente propagandate attraverso l’uso della radio, del cinema, dei giornali: "la battaglia del grano" e la "bonifica integrale".
Al di là di questi interventi, la politica economica del fascismo, fino al 1926, seguì le vie percorse tradizionalmente dai governi prefascisti: interlocutore principale di Mussolini sulle questioni di politica economica fu un economista di scuola liberale, poco propenso a favorire un intervento dirigistico, cioè, istituzionale ed organico dello Stato nell’economia, il ministro delle Finanze A. De’Stefani a cui Guido Jung non solo era molto unito e di cui era fedele collaboratore ma, principalmente, rivestiva il ruolo di capo di Gabinetto del primo ministro fascista delle finanze.
L’intento principale delle autorità monetarie, in quegli anni finora analizzati, era quello di evitare ulteriori svalutazioni della moneta.
Così, il ministro delle finanze De’ Stefani, nel discorso alla Scala del marzo 1924(63), si compiaceva della tranquillità della lira e, notando che la stabilità del cambio aveva bisogno dell’economia, aggiungeva: "sono da evitarsi le eccessive impazienze poiché … la rivalutazione monetaria è da considerarsi un evento ad un tempo sperabile e temibile e che comunque è da augurarsi che si compia per gradi ad evitare che i benefici siano superati da inconvenienti(64)".
Ma nel 1924 i cambi non preoccupavano molto, salvo qualche tensione per una effimera spinta al rialzo del franco francese.
Eppure Gustavo Del Vecchio aveva intuito che ci si trovava "all’inizio di una fase ascendente di un’onda economica" e che "si ravvisavano tutte le manifestazioni di un potente dinamismo economico"(65) in cui le banche d’emissione dovevano agire da freno inibitore.
Jung, riferendo le conclusioni a cui era pervenuto in un incontro con Stringher(66), suggeriva a De’Stefani di aumentare il saggio di sconto allo scopo di deprimere la speculazione e, inoltre, in maniera ufficiosa, consigliava di diffidare le banche a non concedere nuovi crediti a stranieri sotto qualsiasi forma e a non concedere ad italiani crediti intesi a speculazione su franchi per evitare il fenomeno dell’esportazione di capitali all’estero(67).
De’ Stefani rifiutò, chiedendo, invece, una più incisiva azione di contenimento del credito e di moral suasion da parte della Banca d’Italia.
Inizia a questo punto un contenzioso tra Stringher e De’ Stefani sulla responsabilità dell’aumento della circolazione come causa del rialzo speculativo.
L’aumento del saggio di sconto come manovra per indurre la circolazione della moneta, pare a De’ Stefani una manovra non adeguata e, mentre prima Stringher sembra che concordi con l’opinione del ministro, qualche mese dopo, in una lettera a De’ Stefani, chiede l’aumento del saggio di sconto, cambiando idea rispetto a un mese prima e con il contrario, pur se successivo, avviso del direttore della sede di Milano.
Ma ciò che premeva maggiormente a Stringher era che le operazioni di Banca non influissero sull’inflazione, onde contribuire alla disoccupazione e ad altri guai di carattere sociale.
L’esplicito proposito di assecondare con la politica monetaria una fase ciclica espansiva conferma che i livelli di attività e di occupazione figuravano al primo posto nella funzione di preferenza del banchiere centrale.
Egli inoltre rifiuta l’ipotesi di "fastidiosi controlli" sugli istituti d’emissione, anche perché ne sarebbe derivato "ancora maggior forza ai grandi istituti liberi, e segnatamente a uno fra essi(68)".
Stringher allude probabilmente alla Banca Commerciale, ma al di là della concorrenza fra Comit e Banca d’Italia, si presume che ci fosse un conflitto personale tra Stringher e Guido Jung.
In una conferenza, svoltasi il 7 marzo 1928 al Circolo di studi economici nell’ambito della Biblioteca filosofica di Palermo, avente per oggetto la "Stabilizzazione della moneta", Jung si espresse assai criticamente sull’espansione del credito e dei mezzi di pagamento consentita fra il 1924 e il 1925.
E’ inoltre probabile che De’ Stefani coltivasse il proposito di sostituire Stringher proprio con Jung: proposito che fallì anche grazie a potenti appoggi politici che il direttore generale trovò all’interno del partito fascista.
L’episodio è documentato da due lettere, una del 21.03.1925 e una senza data, dell’avv. Lusignani a Stringher e da un successivo comunicato di agenzia. Nella prima lettera Lusignani, richiamando un loro precedente colloquio, informa Stringher che Farinacci e Rocco, da lui in questo senso sollecitati, avevano preannunciato a Mussolini le loro dimissioni "qualora fosse stato preso qualsiasi provvedimento per la Direzione della Banca d’Italia sia attraverso il Jung sia attraverso altra candidatura".
Nella seconda lettera si esprime il gradimento di Rocco per un "bigliettino" di Stringher e si riafferma la posizione di Rocco e Farinacci, i quali non accettarono l’opinione di De’ Stefani secondo cui ogni provvedimento dipendeva non dal Consiglio dei Ministri, ma da lui stesso e dal Consiglio della Banca: "il pericolo immediato è scongiurato, ma bisogna vegliare data la cocciutaggine di D.S.".
La conclusione è così riferita da una notizia d’agenzia: "L’On. Jung avrebbe dovuto sostituire il Comm. Stringher (…). Il Ministro delle Finanze On. De’ Stefani era favorevolissimo alla sostituzione, ma l’On. Farinacci ha fatto conoscere il pensiero del partito contrario recisamente ad una simile nomina, la quale può ormai ritenersi definitivamente tramontata, anche per l’intervento del ministro On. Rocco presso il Presidente del Consiglio"(69).
Ma la situazione nel 1925 era profondamente cambiata. Stringher nel gennaio avviò i contatti con la Casa Morgan (che già nel 1923 aveva manifestato l’intenzione di procedere ad una grandiosa operazione di risanamento finanziario dell’Europa), per un credito di 5 milioni di dollari, "da utilizzarsi al fine di stabilizzare, possibilmente, il corso della lira italiana".
Ma il problema della stabilizzazione continuava a preoccupare Mussolini.
I negoziati per una seconda apertura di credito (1° giugno 1925) della Morgan per 50 milioni di dollari agli istituti di emissione giunsero a rapida conclusione per opera di Stringher, mentre fallirono i tentavi di Jung, per conto di De’ Stefani, di ottenere un’apertura di credito da parte di banche inglesi: nonostante Jung, come telegrafò a De’ Stefani il 2 giugno, si fosse rivolto ad "altro fratello"(70) ben disposto, l’opposizione del governatore Norman(71) fu insuperabile(72).
4. L’impegno nel Dicastero delle Finanze
La costituzione dell’IRI - Il 20 luglio 1932 Guido Jung, con R.D. fu nominato Ministro delle Finanze(73), in sostituzione dell’uscente ministro Mosconi.
Tale avvicendamento avvenne un po’ perchè ormai Mosconi era da quattro anni in carica e aveva già compiuto abbondantemente il suo "ciclo" (ricordiamo che Mussolini, per evitare che una determinata carica potesse creare una forma di "rassato", che avrebbe messo in ombra il suo potere e la sua personalità, volle che ognuno dovesse avere delle cariche da ricoprire per un "ciclo" breve, con frequenti rotazioni), e un po’ per i continui contrasti con Mussolini sul problema della conversione della rendita, e un po’ per la necessità del duce di avere alle Finanze un uomo, per un verso, più introdotto nel mondo economico-finanziario italiano ed internazionale e, per un altro più adatto a fronteggiare la crisi economica e in particolare a difendere ad ogni costo la lira.
Da qui la scelta di Guido Jung, che come ha scritto il Guarneri, "segnò l’inizio di una politica di più deciso intervento dello Stato nella vita economica del paese" e, ha aggiunto il De Felice," fornì a Mussolini l’uomo adatto per realizzare quella politica di "pervicace mantenimento della lira a quota novanta", anche se l’Inghilterra aveva già svalutato la sterlina nel ’31 e gli Stati Uniti si accingevano a fare altrettanto col dollaro, di cui egli era deciso a fare una sorta di propria "bandiera""(74). Secondo Cancila, come sappiamo, Jung fu un tecnico, e non un politico, ritenuto da Mussolini, il più adatto a fronteggiare la crisi economica del paese, ed ebbe il merito di essere riuscito a mantenere il disavanzo del bilancio dello Stato entro limiti ragionevoli, ricorrendo, è vero, a inasprimenti fiscali, ma più ancora a una serie di economie persino sulle spese militari, che passarono dal 32 al 25 per cento della spesa complessiva, mentre la spesa per opere pubbliche aumentò dal 14 al 24,5 per cento e contribuì a frenare la disoccupazione negli anni della "grande crisi"(75).
Dopo la nomina di Guido Jung, cominciò a farsi strada nel regime e nelle autorità monetarie la necessità di un intervento pubblico risolutore che ponesse fine ad una situazione che rischiava di travolgere la stabilità finanziaria dello Stato(76).
Dobbiamo ricordare, che il ’32 fu l’anno in cui la congiuntura toccò livelli elevatissimi e, a ragione, fu definito l’anno più nero della crisi.
La grande crisi e il venir meno di un ordinato sistema monetario internazionale spinsero molti Paesi a ricorrere a misure protezionistiche, che aggravarono la caduta degli scambi internazionali.
L’attività produttiva dei principali Paesi continuava a scendere nella prima metà del 1932, toccando punte minime nella seconda metà dell’anno. In seguito venne registrato un minimo miglioramento, oltre che in campo internazionale anche in Italia, ma tale miglioramento fu solo temporaneo.
Ma ciò che più preoccupava Jung e le autorità monetarie, era l’effetto domino causato dalla svalutazione della sterlina, la quale aveva provocato ritiri di capitali esteri investiti in Italia, fenomeni di tesoreggiamento all’estero delle valute ricavate da esportazioni, l’esodo di biglietti e, in misura crescente, gli investimenti in titoli esteri o in titoli italiani emessi all’estero(77).
A partire dal 1930 in Italia si manifestarono con chiarezza le ripercussioni della crisi economica planetaria. La produzione industriale ebbe una sensibile flessione al ribasso e il tenore di vita delle classi meno abbienti peggiorò notevolmente, creando disagi e conflitti che costrinsero il sindacalismo fascista e le strutture statali a una difficile opera di controllo e di contenimento affinchè non sfociassero in manifestazioni di massa.
Per superare la congiuntura sfavorevole fu potenziata la politica dei lavori pubblici, con il proseguimento delle bonifiche idrauliche, soprattutto nel centro nord della penisola.
Fu comunque nel settore dell’industria e del credito che l’intervento dello Stato assunse le forme più originali e incisive, sotto la spinta di una crisi che minacciava, se non affrontata in tempo, di provocare un collasso senza precedenti dell’intero sistema bancario.
Colpite dalla crisi erano in particolare le grandi "banche miste" (Banca Commerciale, Credito Italiano e Banca di Roma) che, create alla fine dell’800 allo scopo di sostenere gli investimenti nell’industria, si erano trovate a controllare quote azionarie sempre più consistenti di importanti gruppi industriali(78).
Il Governo comprese che tali banche non avrebbero potuto superare le difficoltà del momento con le sole proprie forze e provvide in gran segreto ad apprestare, tramite la Banca d’Italia e l’Istituto di Liquidazioni, la liquidità necessaria alla sopravvivenza delle maggiori banche italiane.
Ci si accinse, dunque, nell’anno delle grandi crisi bancarie dell’Europa, a un’ennesima operazione di "salvataggio" giustificata ancora una volta – come ebbe a scrivere Beneduce ricostruendo la vicenda nel 1937 – dalla consapevolezza che la "bufera poteva travolgere l’intero sistema(79)".
L’intervento a favore del Credito Italiano si svolse con rapidità e segretezza, si trattò certamente di misure tampone dettate dall’emergenza, ma esse evitarono all’Italia una crisi simile a quella austriaca quasi coeva (maggio 1931) innescata dall’illiquidità del Credit-Anstalt e a quella, ancora più grave, che in luglio sconvolse il sistema bancario e industriale tedesco.
Durante l’estate, nemmeno la Commerciale, principale banca del paese, potè più nascondere le proprie difficoltà derivanti dal ritiro dei fondi a breve da parte dell’estero e dalla crisi sui mercati valutari e finanziari internazionali(80).
Il Governo credette di trovare la soluzione alle difficoltà delle imprese e delle banche promuovendo, verso la fine del 1931, la costituzione dell’Istituto mobiliare italiano (IMI), il cui capitale iniziale era fornito per quasi la metà dalla Cassa depositi e prestiti e per la parte restante in larga misura dagli istituti di previdenza e di assicurazione pubblici, dagli istituti di credito di diritto pubblico e dalle casse di risparmio, organismi non toccati dalla crisi bancaria.
Nella seconda metà del 1932 vi fu una fitta corrispondenza tra il ministro delle Finanze Jung e l’amministratore delegato del Banco di Roma Giuseppe Pietro Veroi, e poi ancora tra il ministro Jung e l’amministratore delegato della Comit Giuseppe Toeplitz, affinché provvedesse al più presto allo smobilizzo di entrambe le banche ormai arrivate al collasso(81).
Ma la vastità della crisi bancaria era tale che questa non potè essere affrontata con i "salvataggi" attuati tramite la Banca d’Italia né con la pura intermediazione nel medio termine operata dall’IMI.
All’inizio del 1933, durante il ministero Jung, si attuò la svolta nel modo di affrontare le crisi bancarie, svolta coerente con la scelta di un più efficace intervento dello Stato nell’economia, con il progetto di "indipendenza economica" dell’Italia, e con l’obiettivo di mantenere il controllo della circolazione pur ridando elasticità all’azione della Banca(82).
Con la costituzione dell’Iri venne a cessare la pressione sull’Istituto di emissione da parte delle banche in crisi.
L’idea della costituzione dell’Iri, che si ebbe attraverso innumerevoli incontri tra il Capo del Governo e il Ministro delle Finanze Jung, ancora presidente della Sofindit, rappresentava per Mussolini una "svolta", nella situazione economico-industriale.
Egli, desiderava il nuovo istituto anche con competenze più ampie di quelle che poi ebbe e non lo considerava affatto uno strumento provvisorio. "E’ mia profonda convinzione che l’Ifi segnerà una svolta nella nostra situazione economica-industriale, tonificherà potentemente il mercato, libererà da ogni residuo ingombro l’Istituto di emissione e riattivando lavoro, traffici, scambi, gioverà in definitiva anche alla Bilancia dello Stato"(83).
Il 9 gennaio 1933 (l’Iri fu costituita il 23 gennaio successivo) egli scrisse al ministro delle Finanze Jung per riassumere le loro precedenti conversazioni in materia e per dargli le direttive definitive.
Da tale documento emerge la distinzione tra credito ordinario e credito mobiliare che, fino a quel momento rimasta a livello embrionale, adesso veniva ufficializzata.
Mussolini propose a Jung di raggruppare tutte le banche che erogavano un finanziamento alle industrie in un nuovo istituto, l’Ifi (successivamente venne sostituito il nome con Iri): "L’Italia avrebbe quindi gli istituti ordinari per finanziamenti normali a corto termine; l’Imi per i finanziamenti a medio termine (dieci mesi); l’Ifi per i finanziamenti a lungo termine (dieci-quindici)"(84).
Quale presidente del nuovo istituto Mussolini indicò due nomi, uno dei quali era Beneduce, che vennero entrambi sottoposti al vaglio del ministro Jung.
Il ministro delle Finanze, scelse Beneduce (suo intimo amico), che non si esclude abbia contribuito a formare almeno in parte i convincimenti di Mussolini(85).
Per Jung, ormai, l’operazione di totale liberazione delle banche si poteva fare attraverso l’Iri, e ciò avvenne con le convenzioni del 6 marzo, del 7 marzo e del 13 marzo 1934 stipulate rispettivamente con il Banco di Roma, con il Credito Italiano, con la Banca Commerciale.
Intervennero come controparti il ministro delle Finanze Guido Jung, il governatore della Banca d’Italia, il presidente e il direttore generale dell’Iri, Beneduce e Menichella.
L’Iri acquisiva l’intera partecipazione nelle società che controllavano le banche, l’intera partecipazione nelle società che controllavano le imprese originariamente partecipate delle banche, e si assumeva sia il debito verso la Banca d’Italia, sia il credito delle banche verso le imprese.
IL 19 dicembre 1933, il ministro Jung, in una riunione svoltasi al ministero delle Finanze, espose le direttive del Governo in materia bancaria e un piano relativo allo smobilizzo del Banco di Roma.
Presenti alla riunione, su invito del ministro Jung, erano l’On. Benni e l’On. Veroi, rispettivamente presidente e amministratore delegato del Banco di Roma, il Governatore della B.d’I. Azzolini, Beneduce Presidente dell’Iri, Menichella Direttore dell’Iri.
Lo scopo della riunione fu quello di prendere in esame la situazione economica del Banco di Roma sulla base della decisione presa dal governo di risolvere il problema attraverso una operazione di smobilizzo totalitario.
"La decisione, disse Jung, è naturalmente intonata ad una precisa direttiva di Governo in ordine alla politica bancaria del domani da parte dei grandi istituti di credito privati considerandosi a tale effetto la posizione dei tre primi istituti: Comit – Credito – Banco Roma".
Il Ministro stabilì, innanzitutto, che la maggioranza della Società Mobiliare Italiana (che deteneva la maggioranza azionaria del Banco di Roma) doveva essere sottoposta al controllo diretto del Governo e inoltre stabilì che il Banco doveva osservare una "politica di lavoro limitata alle operazioni di pura banca", e inoltre, annunciò la possibilità della fusione del Credito Marittimo con il Banco.
Gli intervenuti alla riunione concordavano con le proposte del ministro, eccetto per ciò che riguardava la fusione del credito Marittimo in quanto la eventuale fusione avrebbe neutralizzato i vantaggi prospettati con gravi danni e ripercussioni deleterie per il B.R., ma Jung, fermo nella sua decisione, chiarì che tutto sarebbe avvenuto nel rispetto delle regole e con graduale cautela(86).
L’operazione di smobilizzo del Banco di Roma potè, così, prendere il via, grazie all’intervento risolutore del ministro Jung, che seppe dirigere i lavori con determinazione.
La missione negli Stati Uniti - Nei due mesi che precedettero l’inizio della Conferenza Mondiale Economica di Londra, Jung fu inviato, dal Governo italiano, a Washington e a New York per trattare in via preliminare su ciò che si sarebbe discusso nell’ambito della Conferenza Economica Mondiale, e in particolare sui debiti di guerra, sulle questioni monetarie, finanziarie ed economiche e inoltre, anche su questioni politiche, trattate dal Ministro con eccellente diplomazia e consapevole difesa dell’economia italiana.
Quando, nell’aprile del 1933, Jung si recò negli Stati Uniti per conto del governo italiano, portò in dono al Presidente Roosevelt, due pregiate edizioni dei codici di Virgilio e di Orazio, accompagnati da una lettera scritta da Mussolini con la quale il capo del governo italiano gli presentava il ministro G. Jung e manifestava un grande interesse per la politica economica del governo statunitense(87).
Durante il periodo in cui il Ministro delle Finanze On. Guido Jung rimase assente dal Regno, venne conferita al Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato Cavaliere Benito Mussolini, la facoltà di firmare gli atti di competenza del Ministro delle Finanze, di sostituirlo nelle sedute del Consiglio dei Ministri, nonché in quelle del Senato del Regno e della Camera dei Deputati(88).
Nel corso della traversata, il Ministro Jung, spedì un telegramma al Duce dal Piroscafo Conte di Savoia, sul quale si trovava imbarcato. Riportiamo integralmente il documento per meglio sottolineare il suo spiccato senso di responsabilità nei confronti dell’economia italiana, la sua assoluta fedeltà al regime, ma prima ancora alla persona di Benito Mussolini:
Nel traversare sul mare la linea del confine della Patria il mio pensiero si rivolge a Lei, Duce, che ne ha rinnovato il volto e l’anima e ne ha affermato il prestigio in faccia al mondo e mi ritorna nella memoria il giorno in cui per la prima volta traversai l’oceano su una nave straniera carica di emigranti italiani. Con la dovuta riconoscenza che suscita in me questo ricordo vorrei assicurarla ancora che farò quanto est in me per assolvere il compito che V.E. mi ha affidato89).
La visita, articolata in diverse riunioni, diede l’opportunità a Jung di incontrare oltre il Presidente stesso, anche altri esponenti del governo ed esperti nel campo finanziario americano.
La Conferenza di Londra e la stabilizzazione delle monete - Nell’agosto del 1932, con una lettera "riservata" inviata al Governatore della B.d’I. Azzolini, il neo ministro delle Finanze Jung espose un programma relativo alla partecipazione dell’Italia alla Conferenza Economica Finanziaria Mondiale(90).
Lo scopo fondamentale, che l’Italia avrebbe dovuto perseguire alla Conferenza di Londra, secondo Jung, era quello di ristabilire gli scambi internazionali in maniera più attiva e più intensa.
Il programma così esposto presentava due aspetti fondamentali: "1) il risanamento della moneta e il ripristino del "gold standard" per quei paesi che lo avevano abbandonato legalmente o di fatto; 2) rapporti economici tra le singole Nazioni che consentivano a ciascuna di esse un proprio equilibrio economico, condizione perché potesse reggersi una moneta sana e potessero rifiorire i traffici internazionali".
Inoltre, secondo Jung, il nodo principale della Conferenza Mondiale era quello dei debiti privati della Germania e della sua ricostruzione industriale, sensazione comprovata, più tardi, da un articolo del signor Barrett Managing Editor del Financial Times, pubblicato nel giornale stesso il 30 agosto, e del quale Beneduce si premurò a dargliene notizia attraverso una lettera "personale" inviatagli il 2 settembre 1932(91): "Il problema dei debiti privati tedeschi è presentato come la bussola della prossima Conferenza Economica".
Più tardi, però, come già sappiamo, la Germania rinunciò alla partecipazione della Conferenza, decidendo la sospensione dei pagamenti dei debiti di guerra, in periodo in cui il potere di Hitler tendeva ad un sostanziale consolidamento.
Nel gennaio 1933 venne pubblicato il programma ufficiale della Conferenza mondiale monetaria ed economica da tenersi in giugno a Londra, conferenza che avrebbe dovuto risolvere il problema della stabilizzazione delle monete, gettando le basi per ricostruire un ordinato sistema monetario internazionale.
Dopo un fallito tentativo di negoziare segretamente un accordo di stabilizzazione tra Stati Uniti, Inghilterra e Francia, il problema internazionale si complicò ulteriormente con l’abbandono temporaneo della parità aurea da parte degli Stati Uniti e la svalutazione del dollaro nell’aprile del 1933.
La decisione degli Stati Uniti venne presa sulla base di motivi di politica economica interna e recepì l’interpretazione della crisi e le proposte di reflazione di I. Fisher e di Keynes: l’obiettivo della stabilizzazione venne spostato dal mantenimento di una parità costante con l’oro alla stabilità del potere d’acquisto della moneta in termini di beni e servizi.
La svalutazione del dollaro e una politica monetaria più espansiva avrebbero consentito di arrestare la caduta dei prezzi all’ingrosso e quindi la fine del processo di liquidazione delle scorte.
Mentre in Italia, come nel resto dell’Europa continentale, l’interpretazione della crisi era completamente diversa e le teorie di Keynes e Fisher non vennero accettate. Al contrario vennero accettate le analisi di Einaudi secondo il quale con la reflazione non venivano eliminate le scorie del ciclo precedente.
Con la Conferenza di Londra, alla quale partecipò anche il ministro Guido Jung, si conseguirono risultati concreti molto limitati, ma vennero approvate alcune deliberazioni sul funzionamento del sistema monetario.
In particolare si riconobbe l’esigenza di una "maggiore elasticità nelle disposizioni che impongono la copertura legale per le banche centrali, considerando sufficiente un rapporto minimo dell’oro agli impegni a vista del 25 per cento"(92).
Venne anche deliberato che "le banche centrali debbono avere l’indipendenza necessaria e i poteri occorrenti ad una opportuna politica monetaria e del credito" e che "è desiderabile la più intima collaborazione tra le banche centrali"(93).
Ma il 27 giugno prima della chiusura della Conferenza di Londra, i rappresentanti dei Governi decisi a mantenere la parità aurea in vigore e le regole monetarie esistenti sottoscrissero una dichiarazione nella quale riaffermarono i loro intendimenti "chiedono alle proprie Banche Centrali di mantenersi entro il massimo di efficacia".
All’inizio di luglio i banchieri centrali dei sei Paesi (Francia, Belgio, Italia, Svizzera, Olanda e Polonia) si incontrarono presso la Banca di Francia e firmarono un "Accordo di cooperazione" noto come il "blocco dell’oro".
Il ministro delle Finanze Guido Jung, alla chiusura della Conferenza di Londra, enunciò i principi in materia economico-monetaria del Governo italiano nel modo seguente:
L’Italia ha stabilizzato la sua moneta in confronto all’oro, fin dal dicembre 1927, ed è fermamente decisa a mantenere la parità fissata a tale data. Il Governo italiano considera come sacri i frutti del lavoro e del risparmio, e che, a giudizio suo e di tutto il popolo italiano, costituiscono i soli mezzi veramente sani per assicurare lo sviluppo economico necessario alla popolazione italiana, che è in continuo aumento. L’Italia non ha fede in un metro di gomma elastica, e tanto meno in una moneta manovrata(94).
Venne quindi perduta anche l’occasione della svalutazione del dollaro per mutare l’indirizzo della politica economica; si insistette invece nella strategia della deflazione e della riduzione dei costi.
La reintroduzione di norme legislative di controllo sui cambi - Nel corso del ‘33 il tasso di sconto si ridusse in tre riprese scendendo dal 5 al 3 per cento, ma i prezzi all’ingrosso in Italia si ridussero notevolmente, mentre nel Regno Unito e negli Stati Uniti cominciarono a risalire.
La riduzione dei tassi d’interesse attuata alla fine dell’anno fu volta anche a favorire la grande operazione di conversione del consolidato che poi venne attuata all’inizio del 1934, ma concorse a rinvigorire le uscite di capitale.
Le riserve che si erano rafforzate dall’inizio del ’32, dall’inizio del 1934 ripresero a ridursi rapidamente.
L’esportazione clandestina di banconote divenne sempre più preoccupante.
In una fitta corrispondenza con il ministro Jung, Azzolini richiese delle misure per frenare l’esodo di banconote.
Azzolini, fin dalla svalutazione dalla sterlina, aveva più volte espresso l’avviso di frenare le esportazioni di capitali con un provvedimento legislativo e che era stato richiesto, senza successo, alle banche di astenersi dall’effettuare o facilitare queste operazioni.
Inoltre, il Governatore, affermava di non avere potuto contrastare l’emorragia di riserve con un rialzo del tasso di sconto per non ostacolare la grande operazione di conversione, che anzi ha richiesto di ridurre il tasso sulle anticipazioni, creando un clima favorevole all’esportazione di capitali: egli ritenne fosse "giunto il momento di adottare dei provvedimenti per il controllo del commercio dei cambi", decisione che doveva, però passare al vaglio del Governo(95).
La preoccupazione per l’esportazione clandestina di banconote aveva coinvolto in prima persona il ministro Jung che, con un telegramma inviato dall’imbarcazione "Conte di Savoia" mentre si stava recando negli Stati Uniti, impartì delle direttive al Governatore della Banca d’Italia allo scopo di "evitare assolutamente l’esportazione della lira", attraverso il riscatto del prestito obbligazionario della Fiat, ancora in circolazione sul mercato americano per oltre 8 milioni di dollari.
La notizia del riscatto di tale prestito avrebbe dato la sensazione, secondo Jung, che l’Italia, in quel momento così delicato, fosse in possesso di larghe disponibilità di oro o di valute, cosa che però non corrispondeva a verità.
Ma questo Jung lo sapeva bene. Inoltre esortava il Governatore a "sorvegliare gli acquisti in lire provenienti dall’estero e la provenienza della lira posta sul mercato da parte delle Banche principali essendo sempre più importante evitare formazione di flottante di lire all’estero che potrebbero servire da massa di manovra per movimenti speculativi contro di noi".(96)
La stessa preoccupazione, per il medesimo problema, risiedeva anche in Azzolini, e ciò è testimoniata da un telegramma di risposta inviatogli da parte di G. Jung, che in quel periodo si trovava in missione a Washington presso il Presidente Roosevelt per discutere sulla questione dei debiti di guerra, con il quale ribadì che bisognava scoraggiare il trasferimento di capitali all’estero onde evitare la "rarefazione della lira"(97).
In un telegramma successivo che riportava la stessa data il ministro Jung incoraggiava il Governatore a riacquistare in Svezia parte delle azioni del gruppo Kreuger e Tell, sempre allo scopo di evitare l’esportazione di capitali. Egli sosteneva che tale situazione era stata creata da persone interessate(98) le quali, non avevano richiesto l’autorizzazione all’Amministrazione dei Monopoli quando le azioni Kreuger e Tell potevano rappresentare un pericolo reale per l’economia nazionale(99).
In quel momento così delicato, denso di tensioni e di continue pressioni, urgeva al più presto regolamentare la situazione dei cambi nel miglior modo possibile e con le dovute cautele.
L’introduzione del controllo sui cambi fu attuata attraverso una serie di provvedimenti graduali, emanati in gran parte in base ai poteri conferiti al ministro delle Finanze G. Jung dal decreto del 29 settembre 1931.
Con il D.M. del 26 maggio 1934, il cui fine era quello di arginare la continua perdita di riserve, Jung introdusse una serie di norme per regolare le operazioni in Cambi e divise. In base ad esso, infatti, nessuna operazione in cambi e divise poteva essere eseguita se non rispondeva alle reali necessità dell’industria e del commercio o ai bisogni di chi viaggiava all’estero.
Vennero vietati, inoltre, l’acquisto sui mercati esteri di titoli e valori, sia esteri sia italiani emessi all’estero, nonché l’esportazione dei biglietti di banca, di assegni pagabili in Italia e di ogni tipo di titoli in lire.
Divenne obbligatoria l’autorizzazione ministeriale per la concessione di crediti in lire a favore di operatori esteri, sia pure a copertura di rapporti commerciali e per lo sconto di qualsiasi cambiale che potesse apparire comunque come il mezzo escogitato dagli operatori esteri per ottenere disponibilità in lire. Di tutta questa attività doveva essere data notizia giornaliera alla Banca d’Italia.
La Banca d’Italia, secondo l’accordo, forniva il proprio parere al ministro Jung sulle eventuali deroghe del decreto stesso, esercitando la vigilanza sul rispetto delle norme sui cambi (con facoltà di richiedere la documentazione necessarie alle banche e a ogni altro operatore in cambi).
Contemporaneamente, il ministro Jung, emanò il R.D.L. 26 maggio 1934, n. 804, con cui fu reintrodotta la tassa di bollo per tutti i titoli esteri o italiani emessi all’estero che si trovassero in Italia, con l’obbligo di denuncia di tali titoli, contrariamente a ciò che era avvenuto nel 1923, in cui erano state emanate norme particolari per incentivare le attività sull’estero attraverso l’esenzione dei titoli esteri dalle tasse di bollo e altre facilitazioni fiscali alle filiali all’estero di società italiane.(100)
Ma le misure poste in essere dal ministro delle Finanze non furono sufficienti ad arrestare l’emorragia delle riserve.
Mussolini capì che l’adeguamento dell’economia nazionale al livello della parità con l’oro fissata nel 1927 stava divenendo sempre più difficile e costoso e che quindi anche la deflazione aveva i suoi limiti oltre i quali, i vantaggi attesi si tramutavano in inconvenienti.
Jung, in quel preciso momento, aveva le mani legate, infatti, Mussolini riconobbe la difficoltà tradotta nell’impossibilità di comprimere ulteriormente il margine del settore dei servizi, politica perseguita dal ministro delle finanze al fine di conseguire "prezzi alti all’ingrosso, prezzi bassi al minuto"(101).
Mussolini, in una lettera a Jung(102), palesò le sue preoccupazioni in merito alle riserve che rischiavano di scendere al di sotto del limite di sei miliardi e ordinò un rastrellamento delle divise degli esportatori, del turismo, dei noli, delle rimesse degli emigranti, perché temeva che un giorno ci si potesse trovare davanti al dilemma di perdere l’oro o disancorare per conservarlo.
Dal giugno al dicembre 1934 restò in vigore un regime di controllo elastico, che non vincolava le operazioni di tipo commerciale e turistico.
Alla fine dell’anno, accertata l’inefficacia delle prime misure per arginare i deflussi di capitali e l’erosione delle riserve, Jung, in collaborazione con il Governatore Azzolini, diede vita a nuove misure legislative per la mobilitazione delle disponibilità in divise costituite dai privati negli anni precedenti, e instaurò il monopolio assoluto del commercio dei cambi.
Di fronte al ricorso alla svalutazione monetaria ormai diffuso in tutto il mondo dopo le vicende del dollaro, l’Italia, anziché ricercare la soluzione ai problemi in quella direzione, rimase nel Blocco dell’oro. Nella scelta, che ebbe ricadute sul controllo dei cambi, non furono trascurabili le esigenze connesse alla preparazione della guerra d’Etiopia.
Negli ultimi mesi del 1934, ancora più intensa fu la collaborazione tra il ministro G. Jung e il Governatore della Banca d’Italia: Azzolini ripropose una più rigorosa disciplina e limitazione di importazioni; Jung, dal canto suo, con l’emanazione di ben quattro provvedimenti, attuò un maggiore inasprimento delle misure fiscali.
Il primo di questi quattro provvedimenti fu il R.D.L. 8 dicembre 1934, n. 1942, integrato con decreto ministeriale della stessa data, che prevedeva la cessione delle divise e la dichiarazione del possesso dei titoli all’estero; i due decreti ministeriali attuativi dell’8 dicembre; e il 4°, il R.D.L. 8 dicembre 1934, n. 1943, che stabiliva le sanzioni per le banche e i cambiavalute nei casi di irregolarità delle operazioni in divise. Con questi provvedimenti fu prescritta la cessione di tutti i crediti esteri da parte di banche e società all’Ince, tramite la Banca d’Italia.
Solo per le imprese di assicurazione e di trasporto marittimo fu ammessa la possibilità di detenere conti in valuta estera, nella quantità necessaria alle operazioni correnti e con l’autorizzazione del ministro delle Finanze.
Con tale normativa, Jung, introdusse la dichiarazione obbligatoria alla Banca d’Italia da parte delle società e dei cittadini italiani dei crediti esteri, dei titoli esteri e dei titoli italiani emessi all’estero posseduti, nonché le eventuali successive variazioni nelle posizioni di credito o nella proprietà dei titoli stessi; ma con il successivo R.D.L. 17 gennaio 1935, n. 1 (l’ultimo decreto emanato dal ministro G. Jung), Jung chiarì che la dichiarazione obbligatoria già prevista dal R.D.L. n. 1942 riguardava anche le banche e le altre imprese di qualsiasi natura.
Fu, inoltre, precisato l’obbligo per l’esportatore di cedere all’Ince ogni mezzo che potesse servire a pagamenti all’estero. Con questa norma attuativa del R.D. n. 1942, Jung reintrodusse inequivocabilmente il monopolio assoluto del commercio dei cambi in capo all’INCE(103).
La situazione critica di quel momento è testimoniata da una lunga lettera che Jung inviò, da Palermo, ad Azzolini la vigilia di Natale del 1934(104), in cui si evidenzia un disorientamento, sia da parte della Banca d’Italia, sia da parte dei possessori di divise che volevano consegnare le monete estere in loro possesso, ma la banca non era in grado di dare loro il denaro corrispondente, col risultato di paralizzare il mercato e di bloccare le esportazioni, cosa alla quale Jung si oppose con frenetica determinazione.
Con l’instaurazione del monopolio il ministro delle Finanze sospese, di fatto, la convertibilità, non potendo più i residenti detenere attività in valuta estera(105); a questo punto, però, l’appartenenza del paese al Blocco dell’oro perse da allora significato effettivo.(106)
Per quanto riguarda, invece, il problema dell’eccesso di liquidità e quello del finanziamento del fabbisogno statale con mezzi non finanziari, verificatasi sin dall’inizio degli anni Trenta, a causa dei salvataggi bancari, il ministro delle Finanze lo risolse accrescendo la raccolta postale e la disponibilità della Cassa depositi e prestiti, e tornando ad emettere titoli pubblici. Ma gli elevati tassi d’interesse sui buoni fruttiferi postali, certamente non agevolano il superamento della crisi bancarie.
In seguito alle proteste degli istituti di credito e dello stesso ministro per l’Agricoltura Acerbo per le ripercussioni sul costo del credito agli agricoltori, si decise un parziale cambiamento di rotta: nel settembre del 1932 il ministro delle Finanze Jung in collaborazione col Governatore Azzolini, e sotto gli auspici dell’Associazione Bancaria, promossero un’intesa tra gli istituti di credito per una nuova edizione del "cartello bancario" e per la riduzione dei tassi sulla raccolta; i tassi bancari vennero ridotti in ottobre e tre mesi dopo venne ridotto di un punto il tasso sui buoni fruttiferi postali.
Infatti, dal dicembre 1932, con Jung, vennero apportate ai tassi d’interesse sui buoni postali variazioni nello stesso senso e in misura pressochè uguale a quelle decise per i tassi sui depositi fiduciari delle casse di risparmio ordinarie e delle altre banche. Venne tuttavia mantenuto un differenziale di rendimento a favore dei buoni fruttiferi postali, differenziale che aumentava col crescere della durata dell’impiego del risparmio(107).
Ma anche tali provvedimenti sembrarono essere inadeguati per conseguire effetti significativi in tempi brevi.
In sintesi, nel corso della prima metà degli anni Trenta con Jung al ministero delle Finanze venne mutato radicalmente il modello di riferimento per la politica monetaria e valutaria italiana, con una svolta cruciale alla metà del 1934. "Dal 1931 alla metà del 1934, l’economia italiana venne completamente esposta alle influenze dell’estero (ribasso dei prezzi, svalutazioni monetarie, limitazioni al commercio internazionale); le esportazioni valutarie […] erano, in senso generale, libere". In Italia, come facilmente si evince da quanto sopra detto, prevalsero le idee liberiste, sia nel rinviare il controllo dei cambi, sia nell’evitare di intervenire per contrastare la depressione e la caduta dei prezzi interni. Nel contempo però in altri campi si era esteso l’intervento statale nell’economia.
Nella seconda metà del ’32 le grandi operazioni di conversione del debito pubblico compiute all’estero e la disintermediazione bancaria ad opera del risparmio postale sollecitarono una politica più attiva per ridurre i tassi d’interesse; si cominciò come già detto, con la diminuzione di quelli bancari e postali.
La speculazione venne frenata e il tasso di sconto scese grazie agli interventi di acquisto sul mercato attuati tramite la Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali per conto della Cassa autonoma di ammortamento del debito pubblico interno. Appare evidente, che i primi provvedimenti legislativi, di controllo sui cambi, si devono a Guido Jung, pur se in notevole ritardo rispetto a quelli posti dagli altri paesi dopo la svalutazione della sterlina.
Il ventiquattro gennaio 1935, Jung fu costretto a dimettersi a conclusione del suo ciclo ministeriale.
In quell’occasione, Mussolini scrisse a Jung quanto segue:
Caro Jung, ritengo concluso il suo ciclo come Ministro delle Finanze. Ciclo che rimarrà memorabile nella storia della finanza italiana, per le grandi operazioni di conversione ottimamente realizzate e per deciso avviamento al pareggio del bilancio. Io desidero ringraziarla per quanto fatto, per la collaborazione diligente e fedele prestatami: è giusto – specie in questi anni difficili - che la somma delle gravi responsabilità e dei compiti duri non resti troppo a lungo sulle stesse spalle(108).
Come sappiamo, Mussolini non amava fare rimanere i suoi collaboratori in carica più di un certo periodo, per il timore che a lungo andare avrebbero potuto creare una forma di rassato, ma nemmeno, a mio avviso, si può escludere che il Duce, ordinò le dimissioni di Jung, influenzato dalla propaganda antisemita, svoltasi tra il gennaio e l’aprile del ’34 nella Germania nazista di Hitler, dove di lì a poco vennero emanate le cosiddette leggi di Norimberga (settembre 1935).
Immediata fu la risposta di Jung, densa di sottomissione e di fiero orgoglio nazionalista:
Duce, Le sono grato dal profondo del cuore di aver voluto che io servissi il Paese ai Suoi ordini diretti in questo periodo così movimentato e non so dirle quanto mi sia cara la bontà che S.E. mi dimostra nel giudicare l’opera mia. Con devozione e fedeltà infinite La ringrazio della simpatia che V.E. ho sempre trovato nell’E.V. e che ha reso il mio compito più agevole. Mi permetto di dirle, ancora una volta che chi, come me, ha vissuto a lungo nell’anteguerra in Italia e all’estero non troverà mai parole adeguate per esprimere la sua riconoscenza per l’E.V. e per ciò che V.E. ha fatto e fa per l’Italia nostra(109).
Si concludeva così, il ciclo Jung nell’economia dell’Italia fascista.
5. Ministro del Governo Badoglio
Dalla guerra in Etiopia alla caduta del fascismo - Gli anni che vanno dal 1929 al 1936 furono gli anni migliori del regime.
Furono gli anni in cui Mussolini conseguì il massimo consenso sulla sua politica. Avvenimento importante, che segnò una tappa nella storia economica italiana, come abbiamo detto, fu la creazione dell’iri nel gennaio 1933, con il decisivo contributo del Ministro Guido Jung, e la costituzione di numerosi altri enti previdenziali che videro profondamente cambiare la struttura ed il carattere dello Stato classico dell’economia liberale: lo Stato diventava anche imprenditore, condizionando sempre più con i suoi interventi lo sviluppo dell’economia.
Indispensabile corollario e nel contempo conseguenza inevitabile di questo scenario di politica economica fu la ripresa su larga scala delle ideologie imperialistiche, che spinsero il governo fascista in una guerra coloniale contro l’Etiopia per dare all’Italia il tanto agognato "Impero".
Tra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936 fu portata a termine la conquista dell’Etiopia, che era stata avviata prendendo a pretesto alcuni incidenti alla frontiera dei possedimenti italiani, in Somalia e in Eritrea.
Unita alla Somalia e all’Eritrea, l’Etiopia formò l’Impero dell’Africa Orientale.
La guerra d’Africa, oltre che a ragioni di politica economica, volte ad allargare i confini del mercato nazionale in epoca di rigido protezionismo internazionale, e di prestigio del regime nello scacchiere internazionale, rispose anche all’obiettivo di riannodare i fili del consenso popolare, che il peggioramento delle condizioni economiche dei ceti meno abbienti aveva notevolmente indebolito.
Il governo infatti nel 1930 e nel 1934 aveva abbassato d’autorità i salari degli operai e degli impiegati, mentre la disoccupazione veniva arginata con difficoltà soprattutto nelle grandi città.
Il successo della guerra d’Africa galvanizzò gli animi degli italiani. Le manifestazioni di quegli anni furono indubbiamente sincere; la "giornata della fede" fu veramente un atto di fede e di consenso popolare, così come lo furono gli otto miliardi sottoscritti in occasione del prestito nazionale del settembre 1935: le sanzioni furono sentite veramente inique dalla stragrande maggioranza degli italiani e la vittoria e l’Impero salutati con entusiasmo pari solo alle speranze che su di essi si basarono(110).
Protagonista di quell’impresa etiopica, insieme ad altri autorevoli nomi, fu Guido Jung, non più ministro, che partì volontario e non più giovane (nel 1935 Jung aveva già compiuto ben 59 anni!), animato da un sentimento patriottico che lo spingeva ancora una volta a servire la Patria, dopo aver conseguito il brevetto d’aviatore.
Molti furono gli ebrei italiani che parteciparono volontari alla guerra d’Africa spinti dal sacrificio per la patria, perché si consideravano italiani tra gli italiani.
La vittoria e la proclamazione dell’impero furono salutate dalla stampa ebraica con vero entusiasmo, come il trionfo del diritto e della verità sopra l’arbitrio e la menzogna e furono celebrate anche nei templi.
La conquista dell’Etiopia fu sentita da molti ebrei non solo come un fatto nazionale, ma anche come un fatto ebraico, dal momento che nella zona presso Gondar e il lago Tana viveva una popolazione di razza cuscitica e di religione giudaica, i falascià, per i quali l’ebraismo italiano aveva mostrato interesse e aveva stabilito alcuni rapporti con essi(111).
Ma i rapporti sempre più intensi, che si svilupparono tra il ’35 e il ’37, resero le condizioni degli ebrei sempre più instabili e preoccupanti.
Da una situazione di simpatia da parte degli italiani nei confronti degli ebrei, ci si spostò gradatamente verso una situazione in cui non mancarono esplicite prese di posizione contro il sionismo, tanto da far scaturire, poco più tardi, nel 1938 le leggi razziali che introducevano una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano, sia pur in forma attenuata, quelle naziste del ’35, escludendo gli israeliti da qualsiasi ufficio pubblico, limitandone l’attività professionale e vietando i matrimoni misti.
Per ciò che concerne il nostro studio, dal periodo che va dalla fine della guerra in Etiopia, per scarsezza di documentazione, si perdono le tracce del nostro personaggio, per poi ritrovarle (se pur in quantità esigua), dopo la seconda guerra mondiale, con la costituzione del Governo Badoglio all’interno del quale rivestì l’incarico di sottosegretario delle Finanze nel primo Gabinetto, dal novembre del 1943 e a dicembre dello stesso anno gli furono conferiti i poteri di ministro degli Scambi e delle Valute, per divenire dopo, da febbraio ad aprile del 1944, nuovamente, ministro delle Finanze nel secondo Governo del maresciallo Badoglio, ed ad interim, mantenne il mandato di ministro degli Scambi e delle Valute.
Con la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, Jung decise senza alcun dubbio di sorta da che parte schierarsi.
Decise di non seguire il duce il quale, in tempi ancor non sospetti lo aveva "gentilmente" allontanato dal suo Gabinetto, molto probabilmente perché ebreo, e per converso decise di offrire la sua fattiva collaborazione al nuovo Governo del Sud con la esplicita intenzione di contribuire alla liberazione dell’Italia, che a distanza di qualche decennio ricadeva nelle mani dello straniero invasore, con la stessa determinazione che lo aveva animato quando era partito volontario per il fronte nel 1915.
I motivi riconducibili a fattori di ordine religioso non spiegano che in parte, il perché della scelta di Guido Jung, ministro fascista nel Gabinetto Mussolini, di far parte del Governo Badoglio spogliandosi dell’ideologia fascista alla quale si era accostato esclusivamente al fine di servire lo Stato Italiano.
In realtà, come sappiamo, Jung nasce come fervente assertore del nazionalismo, quindi, un appassionato amante della sua nobile Patria, pronto a combattere, come abbiamo appena detto, per la sua nazione mettendo a repentaglio la sua vita nell’elevato sentimento del sacrificio.
Collaborando con Mussolini, Jung si adoperò per risollevare le sorti economiche dell’Italia uscita dal primo conflitto, sebbene vincitrice, con una pesante eredità da smaltire.
Egli aderì con sincerità e spontaneità al fascismo, ma rimase pur sempre un nazionalista, un ebreo italiano fedele, prima di ogni cosa, all’Italia e alla corona sabauda.
Benché la sua scelta fosse ascrivibile ad un vero e proprio atto d’amore, rimane certo il fatto che l’adesione al Governo del Sud nel contempo gli permetteva di porsi al riparo da implicazioni di carattere religioso.
Con la costituzione del Governo Badoglio (composto per lo più da uomini meridionali, tra cui anche il nostro Jung, motivo, a mio avviso, che lo facilitò nel prestare la sua collaborazione), egli dimostrò più che mai, in maniera forte e decisa il suo stretto legame di sangue, il coinvolgimento emotivo per la sua Italia.
Jung, infatti, aveva già cominciato a collaborare con gli anglo-americani fin dall’occupazione della Sicilia(112).
Bisogna sottolineare, che il Governo Badoglio era un governo fantoccio, debole, che viveva all’ombra degli eseciti occupanti i quali gli aveva impedito di avere alcuna capacità decisionale e di avere la propria autonomia nell’amministrazione del proprio territorio.
Di questa dipendenza il governo del Maresciallo soffrì per tutto il corso della sua controversa vita, tanto da mettere in difficoltà i ministri che ne facevano parte.
In particolare Jung, più volte si ritrovò in serie difficoltà nell’espletare il mandato essendo impossibilitato a prendere decisioni autonome e immediate, ma al contrario sempre sottoposte al vaglio della commissione americana addetta al controllo del territorio liberato.
Ciò nonostante, nel periodo del suo sottogretariato, prima e durante il suo ministero, dopo, vennero approvati diversi regi decreti legge proposti proprio dal ministro palermitano Jung.
Tra i più importanti citiamo ad esempio: il R.D.L del 2 dicembre 1943, n. 12/B "Norme per la liquidazione provvisoria delle pensioni a carico dello Stato", con il quale egli propose
l’attuazione di un organo collegiale periferico, composto da elementi esperti nella materia, a cui veniva affidato il servizio della liquidazione provvisoria di tutte le pensioni, che operasse con solerzia e probità, capace di sostituirsi a tutti gli organi centrali allo intento di fare giungere alle classi lavoratrici, [...], l’assegno vitalizio col quale si corrisponde agli impiegati dello Stato la parte differita del loro stipendio o s’integra alle altre categorie la diminuzione della capacità di lavoro(113).
Jung, in considerazione dell’aumento del numero delle domande di pensioni civili e militari, manifestò la necessità di provvedere sulle medesime con prontezza e senza attendere la ripresa delle comunicazioni con la Capitale per venire incontro ai vari casi di estremo bisogno onde evitare doglianze e malcontento da parte di quella categoria disagiata.
Nel frattempo nella seduta del 8 dicembre 1943 veniva emanato il R.D.L. relativo alla reintegrazione degli ebrei nei diritti civili, politici e patrimoniali, ad opera del Sottosegretario di Stato per la Grazia e Giustizia G. De Santis ed esaminato anche da Jung, e la conseguente abrogazione delle leggi razziali emanate dal governo fascista.
Già da Sottosegretario, spiccava il suo interesse per il risanamento dell’economia prostrata dalle ingenti spese affrontate nell’appena terminato secondo conflitto mondiale.
Il Consiglio dei ministri approvò, nella stessa seduta del 8 dicembre, uno schema di R.D.L. proposto proprio da Jung e concernente l’autorizzazione al Ministro delle Finanze a concedere la garanzia dello Stato su anticipazioni bancarie a favore di imprese industriali interessanti il riassetto della vita civile e la ripresa economica della Nazione. La disposizione, prevedeva la concessione fino ad un massimo di un miliardo di lire, e da un siffatto provvedimento si evince l’intenzione concreta del sottosegretario, finalizzata alla ricostruzione e alla rinascita del Paese.
L’attuazione di esso, avrebbe creato delle ripercussioni nel campo avversario e nel territorio occupato dai tedeschi, in misura notevole tanto da uscirne rafforzata l’autorità ed il prestigio del Governo(114).
L’intento di Jung era, soprattutto, quello di "restituire l’Industria ed il Commercio alla iniziativa privata, ma un tale programma per essere attuato deve trovare fondamento nella disponibilità delle materie prime necessarie"(115).
In questo caso specifico, egli si riferiva alla "disciplina delle materie grasse e della produzione dei saponi", regolata con R.D.L. del 31 gennaio 1944.
Regolamentazione dell’emissione di moneta - La situazione monetaria era per Jung, un aspetto molto importante del suo mandato, infatti, in quel momento storico, con il duplice regime di occupazione, cessò la sovranità monetaria nazionale.
Nel Regno del Sud iniziò la massiccia emissione di moneta da parte delle autorità anglo-americane (le cosiddette Am-lire) per provvedere al pagamento degli stipendi delle truppe e delle spese di occupazione(116).
A questo punto, a distanza di circa quattro mesi dall’armistizio, bisognava rimettere un po’ di ordine nell’ambito dell’emissione della moneta e a tale scopo Jung procedette con uno schema di r.decreto-legge che autorizzasse la fabbricazione di biglietti di Stato in deroga alle norme di cui al regolamento allegato al R.D.L. 20 maggio 1935, n. 874.
Il decreto proposto dal sottosegretario alle Finanze e in seguito approvato dal Consiglio dei Ministri prevedeva, appunto, la fabbricazione di carta moneta in deroga al decreto sopra citato.
Nella sua relazione, Jung manifestò preoccupazione per la situazione creatasi dal fatto che la Officina Carte valori della Banca d’Italia con sede all’Aquila e quella dello Stato presso l’Istituto Poligrafico a Roma fossero rimaste in mano nemica.
Egli cercò di organizzare una spedizione, della quale egli stesso faceva parte,allo scopo di rimpossessarsi almeno delle piastre per la stampa dei biglietti, però il piano fallì a causa dell’ingerenza Tedesca sull’aeroporto della città dell’Aquila; a causa della distanza dell’Aquila dal mare di più di 100 Km; a causa dei sentimenti filofascisti di parte del personale della Officina Carte Valori della Banca d’Italia.
Fin dal mese di ottobre, Jung si mise in contatto con Lord Rennel Rodd per cercare di fare approntare all’estero delle nuove piastre per biglietti di banca e provvedere eventualmente alla stampa di essi.
Lord Rennel Rodd gli rispose negativamente, ma gli suggerì di rivolgersi al governo americano, anche se non escludeva che, anche quest’ultimo, avrebbe potuto esprimere parere negativo.
Il sottosegretario palermitano riferì in questo modo sulle questioni:
In occasione della prima visita fatta a Brindisi dal Colonnello Americano Foley ai primi di novembre, parlai anche con lui della cosa, ed egli allora si mostrò contrario alla fabbricazione di speciali banconote italiane, e ciò anche in considerazione della spesa. Egli suggerì, invece di utilizzare anche per le occorrenze presenti e future del Governo Italiano le banconote in Lire stampate dal Governo Militare Alleato, dicendosi pronto a fornirne nella misura che sarebbe stata necessaria. Verso la fine di novembre, tuttavia, il Col. Foley dimostrò di avere cambiato opinione e venne a parlarmi di sua iniziativa della richiesta da me precedentemente fattagli, suggerendo che io la concretassi(117).
Nel frattempo, però, la Commissione Alleata cominciò a chiedere dei prospetti dettagliati sulle presumibili Entrate ed Uscite mensili dello Stato, nonché il fabbisogno di banconote dovuto al movimento economico e finanziario della regione.
Frattanto, cresceva l’esigenza della fornitura di carta moneta che venne rinviata a quando la Commissione Alleata non si sarebbe resa conto delle cifre sottopostele e considerare soddisfacenti le informazioni avute.
Sia io che i più elevati in grado dei miei funzionari, aggiunse Jung, fummo per settimane assorbiti interamente da queste torturanti investigazioni. L’attitudine dilatoria fu tale da dare la sensazione che le investigazioni non fossero fine a sè stesse, nascondessero chi sa quale oscuro disegno, e l’angoscia che ne derivava era anche accresciuta dalla insufficienza del fondo di cassa e dalla conseguente urgente necessità di banconote(118).
Qualche settimana più tardi, il 9 dicembre, di fronte a nuove richieste di informazioni e di dati e ad una situazione di cassa preoccupante, Jung dichiarò che se le richieste stesse tendevano a ritardare la fornitura di banconote indispensabili perché il governo Italiano facesse fronte ai propri impegni, e specialmente pagasse le Forze Armate, dichiarò che non intendeva ricoprire il suo posto ancora oltre, poiché egli riteneva che gli Alleati dovessero assumere essi la diretta responsabilità delle conseguenze dei loro atti, sia sotto l’aspetto politico, che nei riflessi che la bancarotta dello Stato avrebbe avuto sulle Forze Armate Italiane.
In seguito a quanto già esposto furono consegnati alla Banca d’Italia a Bari L. 200.000.000 di banconote il giorno 11 dicembre 1943 e L. 249.000.000 il giorno 23 dicembre 1943.
A questo punto Jung, nel suo discorso pronunciato dinanzi ai suoi colleghi ministri, tenne a precisare, a giusta ragione,
che non si trattava di un credito fatto o da fare al Governo Italiano, ma di una provvista di carta stampata, in forma di banconote, quale avrebbe potuto farla qualsiasi officina di carte valore. Questa è stata accetta come la sola e verace definizione della fornitura stessa.
Naturalmente, le difficoltà da me incontrate e le forme inquisitorie che accompagnavano tali difficoltà, mi avevano frattanto reso riluttante a considerare come soluzione auspicabile per porre riparo alla mancanza di banconote una ordinazione di carta moneta agli Stati Uniti(119).
Nelle successive conversazioni avute, tra il Sottosegretario Jung e il Col. Foley, quest’ultimo non mancò di far notare il bisogno di economizzare al massimo l’impiego delle banconote del Governo Militare Alleato a causa della scarsa disponibilità delle banconote stesse. Foley insistette perché venisse ripresa in esame la fabbricazione in America dei biglietti di banca italiani, anche perché contemporaneamente a causa dell’imminente invasione ad Algeri, le Officine di Carte Valori del Tesoro Americano erano impegnate fino al limite massimo della loro potenzialità per la produzione di banconote espresse in valute differenti dalla Lira, destinate ai paesi da invadere, e che quindi era intenzione del Governo Americano di non fabbricare ulteriormente banconote per conto del Governo Italiano.
Nella seconda settimana di gennaio 1944 le premure del Col. Foley, riguardo alla fabbricazione in America di banconote italiane per conto della Banca d’Italia e dello Stato Italiano, divennero estremamente pressanti, e ad esse si aggiunse la dichiarazione esplicita che gli Alleati entro breve termine non sarebbero più stati in grado di fornire al Governo Italiano, per i bisogni della circolazione nell’Italia liberata, banconote del Governo Militare Alleato, ma che avrebbero anzi richiesto, a termine dell’armistizio, che il Governo Italiano fornisse loro le banconote in Lire occorrenti al pagamento delle loro truppe, riscattando con banconote italiane le banconote A.M.G. in Lire già in circolazione.
Ne sorse l’esigenza di nominare un Commissario della Banca d’Italia che avesse il compito di accentrare a sé le attribuzioni ed i poteri degli Organi Centrali della Banca stessa, in base al R.D.L. 15 novembre 1943 n. 8/B, poiché gli Organi Centrali della Banca d’Italia si trovavano in territorio occupato dai Tedeschi.
Detto Commissario aveva il compito di deliberare ciò che era di competenza della Banca d’Italia per ciò che riguardava la fabbricazione ed emissione di biglietti della Banca stessa, alle quali seguivano i provvedimenti legislativi di competenza del Ministero delle Finanze.
La funzione di sorveglianza, di controllo e di sindacato sulla fabbricazione dei biglietti di Stato, venne assunta dal Ministero del Tesoro degli Stati Uniti il quale si impegnava ad esercitare "gli opportuni controlli e salvaguardie contro falsificazioni e duplicazioni, e le ragionevoli precauzioni, quali sono generalmente esercitate dal Ministero del Tesoro degli Stati Uniti riguardo alla incisione e stampa di biglietti di Stato e di banconote degli Stati Uniti"(120).
Tale incarico, affidato al Ministero del Tesoro degli S.U., non solo rassicurava il Governo Italiano, ma per di più si superava il problema dell’impossibilità di dover mandare dei funzionari italiani negli S.U. per sorvegliare sul posto la fabbricazione dei biglietti, impossibilità determinata dalla nostra situazione di vinti che non dava altra scelta in materia di salvaguardia.
Il contributo alla Conferenza di Napoli - In un contesto storico assai controverso, nei primi mesi del 1944, ebbe luogo a Napoli una conferenza relativa alla restituzione all’Amministrazione italiana, da parte degli Alleati, delle province a sud del limite nord delle province di Salerno, Potenza, Bari, salvo le isole di Lampedusa, Pantelleria e Linosa.
Alla conferenza di Napoli, oltre al Maresciallo Badoglio, al prof. Ugo Forti e altri membri della commissione, partecipò anche il Sottosegretario di Stato Guido Jung, che ebbe un ruolo di mediatore nelle trattative con gli Alleati per la cessione delle province, il cui fine principe era quello di tutelare gli interessi del Paese.
Qualche giorno dopo la firma del documento, da parte del Generale Alexander, avvenuta il 9 febbraio 1944 (entrato in vigore alle 00.01 del giorno 11 febbraio 1944), durante la seduta del Consiglio dei Ministri, tenutasi il giorno successivo alla firma stessa (10 febbraio 1944), Badoglio elogiò Jung e i membri della commissione per avere saputo condurre con sapiente diplomazia le trattative nel pieno e vivo interesse del Paese.
Nel corso della seduta Badoglio, inoltre, dopo avere ringraziato tutti coloro che avessero preso parte alla conferenza diede la parola a Guido Jung che illustrò lo svolgimento delle trattative con gli Alleati durante la conferenza stessa.
Egli, nel suo intervento, riferì che la maggior parte e le più importanti delle proposte italiane vennero accolte dal rappresentante delle Nazioni Alleate, il Generale Mac Farlane e dai suoi collaboratori.
Il giorno dopo la firma del trattato (11 febbraio 1944), Jung verrà rinominato Ministro delle Finanze nel secondo Governo Badoglio.
In quei giorni il Giornale di Sicilia, pubblicava l’8 febbraio 1944 un articolo inquietante, nel quale dichiarava che il Governo Badoglio veniva defenestrato per via dell’introduzione della suddetta commissione di controllo: "Il "New York Times" annuncia da Washington che dal 10 febbraio il controllo sull’amministrazione della Sicilia e degli altri territori occupati dell’Italia meridionale sarà affidato ad una commissione d’armistizio. Il Governo Badoglio, pertanto si trova automaticamente esautorato"(121).
Il Gen. Wilson aveva dichiarato:
Gli italiani che hanno sincere convinzioni democratiche dovranno porre le basi dell’avvenire del Paese. Essi dovranno fare i piani per l’avvenire su basi democratiche, conformemente alla volontà del popolo italiano, quando questa volontà potrà essere espressa in modo conveniente. La commissione di controllo alleata veglierà affinché questo avvenga.
Commentando questa dichiarazione il generale Mac Farlane dichiarava:
lo scopo finale è quello di consegnare al governo italiano, automaticamente, tutti i territori situati dentro i limiti del controllo militare alleato. Se l’amministrazione italiana dimostrerà di essere all’altezza del compito affidatole, come lo speriamo, il numero dei consiglieri che lasceremo dietro di noi verrà gradatamente e sostanzialmente ridotto. Il compito di fondere il Governo militare e la commissione in un solo gruppo, è della massima importanza, poiché si tratta del 1° esperimento di riorganizzazione in Europa e da questo esperimento dipenderanno i successi alleati in altri paesi al momento opportuno(122).
In seguito, con i R. decreti-legge del 2 marzo 1944 n. 70, Jung provvide al pagamento, non riscosso a causa degli eventi bellici, degli interessi delle rendite del consolidato e dei certificati di usufrutto di rendita consolidata al 3,50%; e con il decreto successivo n. 71 al pagamento degli interessi da corrispondere ai possessori dei Buoni del Tesoro ordinari e di quelli novennali al 4% già scaduti il 15 dicembre 1943.
Per quanto riguarda, invece, il pagamento dei Buoni del Tesoro novennali al tasso del 5% a premio riportanti la data di scadenza del 15 settembre 1951, il ministro delle Finanze stabilì, con R.D.L. 2 marzo 1944 n. 69, che, in base al R. decreto-legge 27 giugno 1943, n. 559, venisse data facoltà ai possessori dei buoni del Tesoro novennali 4%, scadenti il 15 settembre 1951, di cambiare tali titoli in altri buoni del Tesoro a premio, fruttanti l’interesse annuo del 5% pagabile in due semestralità posticipate al 15 marzo e al 15 settembre di ogni anno.
Poiché si avvicinava la data del 15 marzo, e poiché i nuovi Buoni del Tesoro al 5% non erano ancora stati distribuiti alle Sezioni di R. Tesoreria, il Ministro delle Finanze Jung predispose il detto decreto per poter provvedere ugualmente al pagamento delle rate semestrali di interesse che si sarebbero mutati nel momento cui diveniva possibile consegnare i titoli degli aventi diritto.
Il mandato del Ministro palermitano terminò il 22 aprile 1944, quando venne nominato il suo successore Quinto Quintieri.
A metà del ’44 alcuni importanti fatti nuovi vennero a mutare il quadro politico e militare. Mentre gli anglo-americani in Francia aprivano il secondo fronte e i sovietici si spingevano ormai nel cuore della grande Germania, confermando che la fine del conflitto non era poi talmente lontana, in Italia gli Alleati il 4 giugno 1944 liberavano Roma. Poteva insediarsi così nella capitale, trovandosi maggiore forza e credibilità, un Governo espresso dai partiti antifascisti e presieduto da Ivanoe Bonomi, al quale ora facevano capo le varie istituzioni centrali in via d’organizzazione, sia pure entro i limiti di potere consentiti dalla amministrazione militare alleata(123).
Con la creazione del nuovo Governo Bonomi, Jung lascia la scena politica e si ritira a vita privata nella sua casa di Palermo, dove poi muore stroncato da un infarto mentre scrive a macchina una lettera, nel 1949, a 73 anni.
NOTE
(*) L’argomento è stato oggetto di una tesi di laurea svolta nell’ambito della Storia del Risorgimento, relatrice la Prof. Gabriella Portalone, discussa nell’anno accademico 2002/2003 della Facoltà di Scienze Politiche di Palermo.
(1) L. Sammarco, Economia ed estetica nella Palermo liberty, http://www.federazionedeiliberali.it/sammarco.html, pp. 3-4.
(2) Da un documento prelevato dall’Asbi, si apprende che il suo domicilio romano era Via Porta Pinciana, 14. tel. 484196.
(3) L. Sammarco, op. cit., p. 4.
(4) Ivi, p. 4
(5) Si apprende da un documento prelevato che la famiglia Jung abitava in via Alloro, 5 esuccessivamente trasferitisi in via Lincoln, 83. Archivio di Stato di Palermo, Fondo Prefettura di Palermo, serie Gabinetto, busta 252 anni 1921-25, onorificenza Ugo Jung e Aldo Jung
(6) O. Cancila, Palermo, Roma-Bari, edizione Laterza, 1999, p. 287
(7) Archivio di Stato di Palermo, fondo prefettura-gabinetto, anni 1921-25, busta 252, fascicolo "Onorificenza, Guido Jung".
(8) O. Cancila, Palermo, cit. p. 234.
(9) Nel 1881 nasce la Società di Navigazione generale italiana con sede a Roma e con due compartimenti a Palermo e a Genova: una società formata da 83 piroscafi, che ne faceva la più potente compagnia del Mediterraneo dopo le Messangéries Maritimes di Marsiglia, O. Cancila, Palermo, cit. pp. 290-91.
(10) O. Cancila, op.cit., p. 297.
(11) Ivi, p. 316.
(12) Ivi, pp. 211-212.
(13) Ivi, p. 18.
(14) O. Cancila, op. cit., p. 209.
(15) Archivio di Stato di Palermo, Fondo Prefettura-Gabinetto, busta 252, anni 1921-25, Jung Comm.re Guido, onorificenze, documento manoscritto con firma autografa.
(16) M. Scaglione, op.cit., p. 25 .
(17) G. Arcoleo, Crispi, a cura del comitato pel monumento nazionale inaugurato in Palermo il XII gennaio MCMV, Palermo, stab. Tip. F. Andò, s.a (1905), cit. in F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 vol. 2, Palermo, Sellerio Editore, 1985, p. 237, a cura del comitato pel monumento nazionale inaugurato in Palermo il XII gennaio MCMV, Palermo, stab. Tip. F. Andò,s.a (1905).
(18) M. Scaglione, op. cit., p. 24.
(19) Ivi, pp. 44-45.
(20) Cfr. Verbali del Consiglio Comunale di Palermo, anni 1920-1924, in Archivio Segreteria Generale del Palazzo delle Aquile, Palermo.
(21) M. Scaglione, op. cit., p. 24.
(22) Cfr. G. Borghese, Buon sangue latino, in "Corriere di Sicilia", 27-28 ottobre 1911, p. 3.
(23) O. Cancila, op. cit., p. 324.
(24) G. Portalone, Mussolini nel 1914. Dalla Classe alla Nazione, in "Rassegna Siciliana di Storia e Cultura", n. 14 – Dicembre 2001, pp. 5 – 89.
(25) Cfr. M. Scaglione, op. cit., p. 34
(26) Cfr. O. Cancila, op.cit., p. 260
(27) Cfr. M. Scaglione, op. cit., p. 41.
(28) F. Renda, op. cit., p. 308.
(29) M. Scaglione, op.cit., pp. 44-45.
(30) F. Renda, op. cit., p. 310.
(31) Lettera del 14 novembre 1911; in Adolfo Omodeo, Lettere 1901-1946, p. 4; cfr. F. Renda, Storia della Sicilia, cit. p. 315.
(32) O. Cancila, op. cit., p. 262.
(33) Biblioteca Regionale di Palermo, miscellanea A355.26, Guido Jung Deputato al Parlamento, Nel VII Annuale della Fondazione dei Fasci di Combattimento, pp. 6-7.
(34) M. Scaglione, op. cit., p. 50. cfr. "L’Ora", 22-23 giugno 1916, p. 3.
(35) O. Cancila, op. cit., p. 262.
(36) Archivio Storico di Palermo, Fondo Prefettura di Palermo, serie gabinetto, busta 252, anni 1921-25, onorificenze Ugo Jung.
(37) Inaugurazione della Conferenza interalleata per l’agricoltura, "L’Ora" del 25-26 febbraio 1919.
(38) F. Renda, Storia della Sicilia, cit. p. 311.
(39) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Direttorio-Azzolini, cart. n. 111, fasc. 3, s.fasc. 1, Lettera a Bonaudo Stringher dal Capo di Gabinetto del Ministro degli Affari Esteri.
(40) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Direttorio-Azzolini, cart. n. 111, fasc. 3, s.fasc. 1, Rapporto della Commissione Finanziaria alla Conferenza di Genova.
(41) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Direttorio-Azzolini, cart. n. 111, fasc. 3, s.fasc. 1, Lettera a Bonaudo Stringher il cui mittente è illeggibile.
(42) M. De Cecco (a cura di) L’Italia e sistema finanziario internazionale 1919 - 1936, Roma-Bari, Laterza, 1993, Memoriale di Beneduce, pp. 439-40.
(43) Cfr. deliberazioni di Giunta del 2 dicembre 1920, in Archivio della Segreteria Generale del Palazzo delle Aquile di Palermo.
(44) F. Renda, Storia della Sicilia, pp. 351-54.
(45) Ivi, pp. 360-362.
(46) R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi editore s.p.a., 2000, p. 23.
(47) Ivi, p. 67.
(48) G. Portalone, Saggio introduttivo a L. Vincenti, Storia degli ebrei a Palermo durante il fascismo, Palermo 1998.
(49) R. De Felice, op. cit., p. 73.
(50) Ivi, p. 74.
(51) O. Cancila, op. cit, p. 356.
(52) Archivio Centrale dello Stato, Roma, fondo segreteria Particolare del Duce,carteggio riservato, anni 1922-1943, busta 86, tale lettera porta la data del 23 giugno 1925 data in cui Jung rivestiva la carica di Commissario del Governo per i beni dei sudditi ex nemici.
(53) R. De Felice, op. cit., p. 81.
(54) Archivio Centrale dello Stato, Roma, fondo segreteria particolare del duce,carteggio riservato, anni 1922-43, busta 86, lettera dattiloscritta di Jung a De Stefani dell’8.8.1925
(55) Archivio Centrale dello Stato, Roma, fondo Segreteria Partcolare del Duce,anni 1922-45, busta 86, lettera anonima dei commercianti di Palermo senza data, ma sembra rifersi allo stesso torno di tempo.
(56) Archivio centrale dello Stato, Roma, fondo Segreteria Particolare del Duce, anni 1922-45, busta 86, lettera anonima dei commecianti di Palermo.
(57) Archivio Storico dello Stato, Roma, fondo Segreteria Particolare del Duce, carteggio riservato, anni 1922-43, busta 86, lettera di risposta del capo di gabinetto del ministro delle Comunicazioni del 14.11.1927.
(58) Archivio Storico dello Stato, Roma, fondo Segreteria Particolare del Duce, carteggio riservato, anni 1922-43 busta 86, lettera autografa di dimissioni, datata 16.05.1928.
(59) O. Cancila, Palermo, cit., p. 378.
(60) Biblioteca Regionale di Palermo, miscellanea A355.26, Guido Jung, Deputato al Parlamento, Nel VII Annuale della Fondazione dei Fasci di Combattimento, pp. 3-4.
(61) Ivi, Miscellanea A335.26, Nel VII Annuale della Fondazione dei Fasci Italiani, pag. 15, in Biblioteca Regionale di Palermo.
(62) Archivio Centrale dello Stato, Roma, fondo segreteria particolare del duce, carteggio riservato, anni 1922-43, busta 86, lettera autografa del 20.06.1928.
(63) F. Cotula – L. Spaventa (a cura di), La politica monetaria tra le due guerre, 1919-1935, Roma Bari, Laterza 1993, p. 119.
(64) Tali inconvenienti sono da ricollegarsi a un possibile eccesso di svalutazione.
(65) Ivi, p. 120
(66) Stringher era il governatore della Banca d’Italia.
(67) Ivi, doc. 46-47, pp. 391-393.
(68) Ivi, pp. 122-124.
(69) Ivi, pp. 121-125, n.296, 297.
(70) Si riferisce alla Casa Hambro di Londra con la quale Jung avviò, segretamente, i negoziati per una nuova apertura di credito a difesa della lira.
(71) Norman era al tempo il governatore della Banca d’Inghilterra.
(72) F. Cotula – L Spaventa, La politica monetaria, cit., p.127, nota. 306.
(73) Archivio Centrale di Stato di Roma , fondo presidenza del Consiglio dei Ministri, serie Gabinetto, busta 1.4.2, fascicolo 6199.
(74) R. De Felice, Mussolini il Duce Gli anni del consenso.1929-1936, Torino, Giulio Einaudi editore, 1974, pp. 288-289.
(75) O. Cancila, Palermo, cit., p. 378.
(76) Storia Economica d’Italia di Stefano Battilossi a cura di Pierluigi Ciocca, Gianni Toniolo, 2.Annali, Cariplo-La Terza, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 283.
(77) G. Reitano (a cura di), Ricerche per la storia della Banca d’Italia, vol. VI, Roma Bari, Laterza, 1993, pp. 320-321,
(78) A. Giardina – G. Sabbatucci – V. Vidotto, L’Età contemporanea, cit., p. 626.
(79) IRI, Relazione del Consiglio di Amministrazione sul bilancio al 31 dicembre 1936, cfr. G. Guarino – G. Toniolo (a cura di), La Banca d’Italia., cit. p. 71.
(80) G. Guarino – G. Toniolo (a cura di), La Banca d’Italia, cit. pp. 70-71.
(81) Ivi, Lettera di Veroi al ministro Jung del 04.08.1932 doc. 159, pp. 792; Promemoria della B.C.I. a Jung del14.11.1932, doc. 160, p. 798; Lettera di Toeplitz a Jung del 6.12.1932, doc. 161, p. 804.
(82) G. Guarino – G. Toniolo (a cura di), La politica monetaria, cit., p. 181 e ss.
(83) R. De Felice, Mussolini il Duce, Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi 1974, p. 176.
(84) Ivi, p. 176.
(85) G. Guarino – G. Toniolo, La Banca d’Italia, cit., p. 151.
(86) Ivi, Appunto di Veroi del 19.12.1933, doc.163, pp. 829-32.
(87) Cfr. R. De Felice, Mussolini il Duce, cit., p. 542.
(88) Archivio Centrale dello Stato, Roma, Presidenza Consiglio dei Ministri, Gabinetto anni 31-33, busta 1.4.4. fascicolo 9089, conferimento di delega del 22.4.1933 a firma del Re Vittorio Emanuele.
(89) Archivio Centrale dello Stato, Roma, Presidenza Consiglio dei Ministri, Gabinetto anni 31-33, busta 1.4.4., fascicolo 9089, telegramma del 25.4.33 ore 14.10. Tale data è riconducibile al giorno della sua partenza dall’Italia per raggiungere gli Stati Uniti, mentre il suo arrivo (18.05.33) è documentato da un altro telegramma inviato dal Piroscafo Vulcania il 10.05.33.
(90) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Direttorio – Azzolini, cart. n. 26, fasc. 1, lettera con firma autografa di Jung del 6.08.1932, con allegato. L’appunto si riferisce oltre che alla Conferenza di Londra anche alla Conferenza di Bonnet per l’Europa centro-orientale.
(91) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Beneduce, cart. n. 276, fasc. 6, lettera di Beneduce a G. Jung del 2.9.1932.
(92) F. Cotula – L. Spaventa, op. cit., p. 190.
(93) Ivi, p.190.
(94) Cfr. F. Cotula – L. Spaventa, La politica Monetaria, cit., pp. 190-91.
(95) Ivi, lettera del 02.05.1934 di Azzolini al Ministro Jung, "Esodo di biglietti di banca", p. 772, doc. 150.
(96) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Direttorio – Azzolini, cart. n. 26, fasc. 1, telegramma decifrato di G. Jung ad Azzolini dal Conte di Savoia del 29.04.1933.
(97) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Direttorio – Azzolini, cart. N. 26, fasc.1, telegramma decifrato di G. Jung ad Azzolini da Washington del 4.5.1933.
(98) Forse si riferisce a privati senza scrupoli.
(99) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Direttorio – Azzolini, cart. n. 26, fasc. 1, telegramma decifrato di G. Jung ad Azzolini da Washington del 04.05.1933.
(100) cfr. G. Raitano, Ricerche per la storia della Banca d’Italia, vol. VI, I provvedimenti sui cambi in Italia nel periodo 1919-36, Roma- Bari, Laterza, 1993, pp. 322-323.
(101) Cfr. F. Cotula – L. Spaventa, La politica monetaria, cit., pp. 192-93.
(102) Ivi, lettera del 26.06.1934 di Mussolini a Jung sul problema delle emorragie di riserve, doc. 151, p. 775.
(103) Cfr. G. Raitano, I provvedimenti sui cambi in Italia, cit., pp. 323- 24.
(104) Archivio Storico Banca d’Italia, Roma, Direttorio –Azzolini, cart. n. 9, fasc. 1, lettera di G. Jung ad Azzolini del 24.12.1934.
(105) In base alla legge del dicembre 1927 la Banca d’Italia aveva infatti la facoltà di convertire i biglietti in valute collegate all’oro.
(106) Cfr. G. Raitano, I provvedimenti sui cambi in Italia, cit.
(107) Cfr. F. Cotula – L. Spaventa, La politica monetaria, cit., pp. 198-200.
(108) Archivio Centrale dello Stato, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, gabinetto anni 31-33, busta 1.4.2., fasc. 6199.
(109) Ibidem
(110) R. De Felice, Storia degli ebrei, cit., p. 189
(111) Ivi, p. 194
(112) Cfr. M. Missori, Alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno, a cura del Ministero per i Beni Culturali e ambientali, Roma, 1989, p. 78.
(113) Seduta del 25.11.43, Pensioni a carico dello Stato, http://www.ipzs.it/pcm/pdf/vol1/ised07.pdf p. 74
(114) R.D.L. 13 dicembre 1943, n.26/B, seduta 8 dicembre 1943, http://www.ipzs.it/pcm/pdf/vol1/ ised07.pdf, p. 89.
(115) R.D.L. 31 gennaio 1944, n. 38 , seduta del 25 gennaio 1944, http://www.ipzs.it/pcm/pdf/vol1 /ised03.pdf, p. 165.
(116) S. Battilossi, Storia economica d’Italia. (a cura di) P. Ciocca – G. Toniolo, 2 Annali, Cariplo Gruppo Intesa, Roma-Bari, Laterza, 1999, pag. 319.
(117) Governo Badoglio, Seduta del 25 gennaio 1944, r.d.l. 31 gennaio 1944, n. 35, http://www.ipzs.it/pcm/pdf/vol1/ised04.pdf
(118) Ibidem
(119) Ibidem.
(120) Ibidem.
(121) "Giornale di Sicilia", 8 febbraio 1944, Badoglio Defenestrato. Una commissione d’armistizio controllerà i territori dell’Italia Meridionale.
(122) "Gionale di Sicilia", 13 febbraio 1944, Pantelleria, Lampedusa e Linosa rimarranno sempre in mano degli alleati.
(123) A. Caracciolo (a cura di), La Banca d’Italia tra l’autarchia e la guerra (1936 – 1945), Roma – Bari, Laterza, 1992, pp. 78-79.
Negli scritti di Luigi Sturzo (1871-1959) il nome di Napoleone Colajanni (1847-1921) non ricorre frequentemente: eppure la loro produzione politica si caratterizza per la presenza di molteplici aspetti comuni, dettati dalla medesima provenienza regionale e da una sincera predisposizione ad affrontare la questione sociale. Se Sturzo non rimase completamente immune dal fascino di Colajanni, non sembra che questi abbia corrisposto alle simpatie e all’interesse del suo conterraneo. Tra il passionale repubblicano di Castrogiovanni e "l’animoso"(1) sacerdote di Caltagirone non pare inoltre che ci siano stati rapporti diretti, ma nella loro vasta produzione si riscontrano non pochi riferimenti alla stessa problematica politica e sociale(2). L’analisi del loro pensiero e la ricerca delle rispettive scelte politiche, tuttavia, ci permettono di cogliere con maggiore precisione il significato delle vicende storiche che caratterizzarono l’Italia tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX.
I numerosi studi sulla Sicilia in età liberale(3) offrono un’ampia analisi della vicenda economica isolana, su cui Sturzo e Colajanni si misurano per avviare un processo di modernizzazione in una società percorsa da gravi contrasti economici. Entrambi dedicano particolare attenzione alla Sicilia, dove svolgono il loro tirocinio come amministratori locali. L’attività politica di Colajanni si interseca per un breve periodo con quella di Sturzo, che più giovane di 24 anni esordisce nel dibattito politico solo nell’ultimo lustro del XIX secolo. Colajanni, prima di approdare a Montecitorio nel 1890, svolge infatti un’intensa attività politica nel territorio nisseno, che rimarrà sempre il referente naturale sul quale verificare le sue opzioni politiche e operare istanze di rinnovamento, difficili ad essere attuate in una società solcata da pesanti ipoteche feudali e controllata da solide oligarchie terriere. Il debutto politico di Colajanni, avvenuto nel 1882, coincide con l’allargamento del suffragio elettorale e con le sue proposte di riforma del sistema politico. Nel volume su Le Istituzioni municipali (1883), Colajanni disapprova la soluzione monarchica del Risorgimento, contesta lo Stato accentratore e rilancia il significato politico e civile del libero comune medievale, nel tentativo di correggerne o, quanto meno, di attenuarne il modulo moderato(4). La sua battaglia per il decentramento, iniziata nel 1891 sull’"Isola" e continuata quattro anni dopo sulla "Rivista Popolare"(5), è diretta ad una riforma dell’ordinamento comunale sul modello anglosassone di self-government, da raggiungere mediante un’assidua opera di educazione politica e una promozione della coscienza civica, unici elementi in grado di sconfiggere gli abusi amministrativi e le interferenze mafiose negli enti locali.
Da questa convinzione Colajanni deriva l’avversione al centralismo statale, al quale imputa le storture del sistema politico e il divario economico tra Mezzogiorno e Settentrione d’Italia(6). Quest’avversione, che assume toni aspri e virulenti durante il movimento dei Fasci siciliani (1893) e nelle vicende dei moti milanesi contro il rincaro del pane (1898), si coglie da una vasta produzione saggistica, dove il leitmotiv dominante è l’asservimento della vita amministrativa locale all’arbitrio del governo centrale, attraverso una denuncia vigorosa della mentalità poliziesca dei prefetti e del trasformismo dei deputati corrotti(7).
In questa direzione orienta le proprie scelte anche Sturzo, che - dopo l’esperienza romana e l’ordinazione sacerdotale (maggio 1894) - sceglie l’impegno sociale e la militanza democratica cristiana. Come giustamente sostiene il De Rosa, l’episodio dei Fasci, ovvero l’impetuoso moto dei contadini siciliani, imprime al giovane Sturzo uno stimolo all’azione politica e alla "letteratura sociale". Essa non solo segna "la presa di coscienza" della tremenda realtà isolana, ma ribadisce la necessità di un impegno nuovo nell’attività sociale(8). Il famoso discorso contro lo scandalo della Banca Romana - pronunciato da Colajanni nella seduta del 20 dicembre 1893 - scuote profondamente la coscienza di Sturzo e incide sulle sue scelte politiche. In uno scritto postumo, considerato da E. Guccione "una delle più belle pagine autobiografiche di Sturzo e una delle poche che ci aprono qualche spiraglio per conoscere meglio gli anni antecedenti la sua decisione di dedicarsi a tempo pieno alla vita politica"(9), Sturzo rimane colpito dal "verdetto della commissione d’inchiesta sulle malefatte della Banca Romana", che al giovane prete calatino appaiono "come il segno del crollo delle istituzioni parlamentari"(10). In questa testimonianza storica, fatta da Sturzo due mesi prima della morte, egli sostiene:
Nel 1892-’93, periodo delle polemiche sulla Banca Romana, io […] mi sentivo estraneo alla politica locale, divisa fra crispini e rudiniani e del tutto ostile ai governi di Roma per i metodi usati in Sicilia; mi sentivo fin da allora regionalista e autonomista avanti lettera. Per la moralizzazione del Paese seguivo con passione i Colajanni e i Cavallotti, pur senza condividerne gli orientamenti politici(11).
Nonostante che le considerazioni retrospettive di Sturzo non siano precise, bisogna sottolineare come il regionalismo cominci ad essere trattato solo agli inizi del XX secolo. Su "La Croce di Costantino", apparsa il 7 marzo 1897, Sturzo esplica un pensiero politico, basato non sull’istanza regionalista, ma sul "municipalismo sociale", cioè su quel tentativo progettuale diretto a travolgere l’influsso malefico dei liberal-massoni sulle istituzioni municipali(12). Fedele all’astensionismo politico, il giovane prete promuove la partecipazione dei cattolici alla vita amministrativa(13), invitandoli ad interrompere la loro solidarietà di potere con i liberali e i "radical-socialisti"(14). Il riferimento è chiaramente rivolto a Colajanni: questi, nella sua campagna di moralizzazione, rappresenta infatti un simbolo per non pochi settori del mondo ecclesiale siciliano, che lo considera "l’interprete, la voce di protesta di una Sicilia illusa e delusa e per niente disposta - dopo avere perso ogni speranza di ottenere l’autonomia - a sopportare l’incuria amministrativa e il malcostume del governo di Roma"(15). L’effettivo appoggio elettorale da parte di non pochi cattolici praticanti sarà biasimato alcuni anni dopo da Sturzo, che in un esposto alla Santa Sede denuncia la subordinazione del clero siciliano ai centri di potere locali(16).
Questa denuncia, di cui Sturzo è per molti aspetti un interprete inascoltato, nasce dalla situazione complessiva del clero siciliano, le cui analisi non differiscono affatto da quelle di Colajanni, se non nell’uso di espressioni più moderate, come si confà ad un uomo che indossa l’abito talare. Colajanni - sia per gli influssi positivistici d’Oltralpe, sia per la visione immanentistica cattaneana a cui si ricollega - denuncia più volte il clero siciliano, responsabile di nascondere i suoi interessi materiali dietro l’inconsistenza di proposte provvidenzialistiche e l’ipocrisia di interventi consolatori. Egli mette in evidenza l’ambiguità dell’episcopato siciliano e dei vari prelati, che nascondono la loro precisa intenzione di conservare l’ordinamento politico-sociale dietro la comprensione cristiana per i mali che affliggono il contadino, sfruttato invece dagli agrari e dai gabellotti.
Anche Sturzo, seppur con finalità diverse, non manca di rivolgere dure critiche al clero siciliano, ammettendo esplicitamente che non è infrequente incontrare in Sicilia "il prete trafficante del denaro, gabellotto di feudi, intricato per commerci"(17). Nonostante ciò egli è consapevole che nessuna opera di rinnovamento cattolico sia possibile senza il consenso "della parte sana" del clero, di cui auspica "una profonda riforma di costume e di mentalità". Da qui le sue critiche alla debolezza delle strutture associative dell’Opera dei congressi, alla stregua delle lamentele di Colajanni che rileva più volte la grave carenza di organismi permanenti del Pri nell’isola. Tuttavia entrambi, pur militando in campo politici avversi, contribuiscono a tener desta la coscienza democratica in Sicilia, dove Colajanni "assicura la continuità di un mazzinianesimo siciliano tra Otto e Novecento, mediante le sue polemiche con socialisti e cattolici"(18), mentre Sturzo contribuisce a promuovere una fitta rete di casse rurali, estesesi ben presto in tutte le province della Sicilia(19).
Tra il 1895 e il 1901 Sturzo dirige la sua attività non solo verso l’organizzazione di comitati parrocchiali, ma anche verso la costituzione di cooperative di lavoro e di casse rurali, definendo via via un programma politico basato sulla valorizzazione delle autonomie locali(20) e assumendo un impegno politico, che lo porterà nel 1899 ad entrare nel consiglio comunale di Caltagirone. La crisi del ’98 e la conseguente risposta reazionaria di Pelloux impongono a Sturzo un’opzione politica, le cui finalità sono quelle di operare nella vita sociale e amministrativa, ma soprattutto mirano a recidere da una parte il legame tradizionale tra cattolici e moderati, dall’altra ad opporre una forza "democratica cristiana" alla minaccia del socialismo avanzante. La proposta antisocialista, certamente ripresa da Giuseppe Toniolo, spinge Sturzo a guardare con simpatia alle "società intermedie" tra l’individuo e lo Stato, che devono essere ricostituite come organismi naturali in una "composizione organica della società" attraverso un processo ascendente (famiglia, classe, professione, comune, regione, Stato). Il contributo agli approfondimenti teorici si unisce agli aspetti operativi concreti del mondo contadino siciliano, di cui Sturzo ne interpreta i bisogni, indicando la via d’uscita ai suoi problemi nella riforma dei patti agrari, nel rilancio della cooperazione agricola e nella concessione del piccolo credito. Tuttavia il programma sociale di Sturzo ha solo una parziale attuazione a causa delle resistenze opposte dai cattolici conservatori, che fedeli alla concezione tonioliana dell’armonia sociale salvaguardano i ceti economici più agiati, orientando la loro azione in funzione antisocialista. Su questo aspetto la storiografia contemporanea non ha trovato una concordanza di vedute(21), ma sembra che Sturzo non sia riuscito pienamente a provocare la frattura tra cattolici e classi agiate, come dimostrano sia le continue interferenze e commistioni sulle organizzazioni contadine da parte padronale, sia le pressioni esercitate presso le istituzioni ecclesiastiche, passive di fronte all’"influenza nefasta" del socialismo sulle classi lavoratrici.
Sul piano sociale il disegno politico di Sturzo, che si tramuterà ben presto in un vero e proprio programma meridionalista, si sviluppa lungo due coordinate fondamentali. Esso si snoda infatti da un lato nella lotta ch’egli conduce contro l’impoverimento della massa contadina, cercando di sganciarla dalla subordinazione economica al latifondo, all’usura e alla rappresentanza politica; dall’altro culmina nel tentativo di rendere autonomo il ceto medio, cercando di elevarne la coscienza politica attraverso l’esercizio delle autonomie comunali. Il suo impegno sociale è diretto ad una trasformazione dello Stato liberale, che con la sua legislazione amministrativa contrasta l’organizzazione delle forze politiche democratiche e impedisce un’armonico sviluppo economico del Sud. E’ con questo strumento operativo che Sturzo - alla stregua delle proposte già avanzate da Colajanni - persegue l’obiettivo di risvegliare il ceto medio dal tradizionale letargo politico, affinché possa maturare la consapevolezza di una propria dignità civile e di un proprio ruolo autonomo nella vita pubblica(22).
Nei primi lustri del XX secolo Sturzo si pone come uno dei maggiori fautori del rinnovamento dell’ambiente politico meridionale e uno dei maggiori fustigatori del "malcostume e la corruzione della classe dirigente del sud", in "una vivace polemica contro Giolitti e ogni forma di giolittismo"(23). Il suo meridionalismo, non molto distante da quello di Colajanni, acquisisce nuova consapevolezza nella critica ch’egli conduce contro il trasformismo e la soggezione del mondo contadino al sistema clientelare giolittiano. La polemica contro l’accentramento dello Stato liberale assume connotazioni più definite e diviene negli anni successivi critica severa alla struttura dello Stato nazionale: un aspetto che lo accomuna a Colajanni, anch’egli favorevole a superare l’impasse dello Stato accentratore attraverso il superamento della forma istituzionale monarchica, il libero svolgimento della democrazia italiana e lo sviluppo di una salda coscienza politica dei cittadini. Nella difesa della pregiudiziale repubblicana, l’intransigente deputato siciliano si muove su un duplice binario: da una parte contro quel cospicuo gruppo di socialisti che combattono il pensiero di Mazzini giudicandolo "clericale" e "teologico"(24), dall’altra contro i cattolici, che difendono con accanimento la monarchia sabauda. Certamente - come giustamente ha rilevato G. Spadolini(25) - Colajanni ha il merito di avere introdotto "fermenti antimonarchici" e "inquietudini repubblicane" nell’ambito del movimento cattolico, come conferma lo stesso Sturzo in un discorso pronunciato al Circolo di lettura di Caltagirone (24 dicembre 1905)(26). Entrambi ribadiscono infatti la necessità di un’integrazione dell’Italia, che passi non solo attraverso lo sviluppo economico del Sud con quello del Nord, ma anche attraverso la formazione di un più smorzati, ma in realtà identica è la critica che egli muove - in virtù della sua azione culturale - alla politica crispina e a quella giolittiana: la prima improntata alla più cieca repressione dei moti popolari e poi diretta ad ottenere il sostegno dei clericali nella reazione, la seconda inficiata da tratti illiberali e incapace "per ingenito principio ad avviare a bene, moralizzare, elevare alle lotte civili il movimento sociale dell’oggi"(27). Il giudizio di Sturzo, più articolato rispetto a quello di Colajanni, è dettato dal divenire storico della realtà, ovvero dall’evoluzione delle contingenze politiche, che viene espressa senza tentennamenti e tale rimase nei tre lustri successivi(28). Con accenti che anticipano i temi sviluppati da Salvemini nel suo vigoroso pamphlet Il ministro della mala vita(29), Sturzo non opera alcuna distinzione fra nuovo costume politico e la trasformazione della struttura amministrativa monarchica. Allo Stato burocratico e accentratore, sorto dall’unità nazionale, entrambi oppongono una nuova forma di Stato, basata su ampie autonomie regionali e sulla costruzione di adeguati ed efficaci strumenti istituzionali(30).
Nella diuturna polemica contro lo Stato liberale sull’impresa libica: mentre il primo rimane fedele alla sua vocazione anticolonialista, Sturzo assume una posizione favorevole. Ma il filocolonialismo di Sturzo non è dettato da una volontà nazionalista, ma dal suo profondo desiderio di risolvere l’annosa questione del Mezzogiorno: alla stregua di altri meridionalisti come Giuseppe De Felice Giuffrida o Arturo Labriola(31) - egli credette che la conquista di Libia potesse risolvere il problema migratorio dei contadini meridionali in un’area commerciale mediterranea controllata dall’Italia. L’idea della colonia di popolamento, integrata nelle prospettive di uno sviluppo concorrenziale ed aperto del Paese, fu così radicata in Sturzo, che egli caldeggiò più volte una serie di interventi finanziari per rendere meno opprimente la vita dei contadini(32).
Fu invece durante la prima guerra mondiale che Colajanni e Sturzo si dichiararono apertamente favorevoli all’intervento italiano. Fedele alle posizioni assunte dal Pri, Colajanni aderì all’interventismo "nel solco della tradizione garibaldina in lui fortissima, e nel disegno di una guerra che avrebbe completato l’unità italiana con Trento e Trieste, e deciso delle sorti dell’umanità e dell’avvenire e dello sviluppo della democrazia"(33). Anche Sturzo difese le ragioni dell’intervento con uno spirito patriottico diretto a considerare la guerra come un evento rinnovatore della vita culturale del Paese; e con motivazioni, che in larga misura coincisero con quelle di Colajanni per il pericolo che essi intravidero nell’imperialismo tedesco come foriero di nuove sciagure per la libertà dell’Europa(34).
NOTE
(1) L’aggettivo è tratto da G. Spadolini, Giolitti e i cattolici (1901-1914), Milano, Mondadori, 1974, p. 94.
(2) Per la vasta bibliografia sui personaggi si vedano: Bibliografia degli scritti di e su Luigi Sturzo, a cura di G. Cassiani, V. De Marco, G. Malgeri, Roma, Gangemi, 2001; A. M. cittadini cipri’, Nota bibliografica, in N. colajanni, La condizione meridionale. Scritti e discorsi, Napoli, Bibliopolis, 1994, pp. 39-44. Quest’ultima bibliografia deve essere integrata con le indicazioni proposte da G. Spadolini, I repubblicani dopo l’unità, Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 83-84.
(3) G. Raffiotta, La Sicilia nel primo ventennio del secolo XX, in idem, Storia della Sicilia post-unificazione, Industria Grafica Nazionale, Palermo 1959, pp. 1-227; F. De Stefano e L. F. Oddo, Storia della Sicilia dal 1860 al 1910, Bari, Laterza, 1963; F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Palermo 1977; AA. VV., La Sicilia, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo, Torino, Einaudi, 1987.
(4) In questo volume Colajanni denunciò la stasi politica dei comuni, considerati "le paludi che intossicano la vita pubblica in Italia e ne dissolvono i caratteri"; cfr. N. Colajanni, Le Istituzioni municipali. (Cenni e osservazioni), Catania, Tropea, 1883, pp. 36-37.
(5) Su questo periodico si vedano A. Colombo, Colajanni e la "Rivista popolare", in "Nuova Antologia", dicembre 1971, a. 106, n. 2052, pp. 499-508; L. Severino, La "Rivista popolare" di Napoleone Colajanni, in "Archivio trimestrale", aprile-giugno 1981, a. VII, n. 2, pp. 357-374.
(6) Per una valutazione di questo problema cfr. le acute considerazioni di S. M. Ganci, Profilo di Napoleone Colajanni dagli esordi al movimento dei Fasci dei lavoratori, in "Rivista Storica del Socialismo", gennaio-marzo 1959, a. II, fasc. 5, pp. 45-49; e i testi di N. Colajanni su La questione meridionale proposti nella raccolta antologica La condizione meridionale. Scritti e discorsi, cit., pp. 132-206.
(7) N. Colajanni, In Sicilia. Gli avvenimenti e le cause, Roma, Perino, 1894; idem, L’Italia nel 1898. Tumulti e reazione, Milano, Società Editrice Lombarda, 1898.
(8) G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari, Laterza, 1966, p. 235.
(9) E. Guccione, Napoleone Colajanni e i cristiani-sociali, in aa.vv., Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento, Palermo, Epos, 1983, p. 173.
(10) L. Sturzo, Ricordando la Banca Romana, in "Il Giornale d’Italia", 23 maggio 1959, poi in idem, Tre male bestie, Edizioni Politica popolare, Napoli 1959, p. 22.
(11) Ivi, p. 22.
(12) "Lo Zuavo" [L. Sturzo], Soldati, in "La Croce di Costantino", 18 aprile 1897. Rist. in idem, "La Croce di Costantino". Primi scritti politici e pagine inedite sull’azione cattolica e sulle autonomie comunali, a cura di G. De Rosa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958, pp. 27-29.
(13) Su "La Croce di Costantino", Sturzo pubblica la lettera (14 maggio 1895) di Leone XIII al Cardinal Vicario, in cui ribadisce il non expedit: "quanto il concorso dei cattolici alle elezioni amministrative è lodevole e più che mai da promuovere, altrettanto è da evitare nelle politiche"; cfr. "Il Crociato" [L. Sturzo], Le elezioni politiche e il divieto del Papa, in "La Croce di Costantino", 27 maggio 1900. Rist. in idem, "La Croce di Costantino", cit., pp. 44-45.
(14) La critica di Sturzo ai socialisti e ai massoni è ricorrente in tutta la pubblicistica coeva; cfr. gli articoli pubblicati, in L. Sturzo, "La Croce di Costantino", cit. pp. 25-64.
(15) E. Guccione, Napoleone Colajanni e i cristiani-sociali, AA.VV., Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento, cit., p. 166.
(16) Per le vibrate denunce di questa realtà, caratterizzata dalla subordinazione del clero alle famiglie baronali, si veda G. De Rosa, L’utopia politica di Luigi Sturzo, Brescia, Morcelliana, 1972, pp. 27-30 e pp. 197-200.
(17) L. Sturzo, Riforma, in "L’Unione" (Palermo), 15 gennaio 1905, n. 174.
(18) P. M. Sipala, "Una cosa nuova che la chiamavano sciopero": ideologia e letteratura nella Sicilia del primo Novecento, in AA. VV., La Sicilia, cit., p. 819.
(19) F. Renda, in uno studio minuzioso dell’organizzazione cattolica in Sicilia, ha dato un quadro preciso delle casse rurali, che passarono dalle 7 istituite nel 1895 a 145 nel 1905; F. Renda, Socialisti e cattolici in Sicilia 1900-1914, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1971.
(20) In un articolo pubblicato nel 1901 Sturzo così ribadisce il suo orientamento politico su questo tema: "Lasciate che noi del Meridione possiamo amministrarci da noi, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere la responsabilità delle nostre opere, trovare la iniziativa dei rimedi dei nostri mali"; cfr. "Il Crociato" [L. Sturzo], La questione del Mezzogiorno, in "La Croce di Costantino", 22 dicembre 1901. Rist. in idem, La battaglia meridionalista, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 56.
(21) G. Are, I cattolici e la questione sociale in Italia 1894-1904, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 46-48; M. G. Rossi, Le origini del partito cattolico. Movimento cattolico e lotta di classe nell’Italia liberale, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 73.
(22) F. Rizzo, Mezzogiorno e democrazia nel pensiero di Luigi Sturzo, in AA. VV., Luigi Sturzo nella storia d’Italia, vol. II, cit., pp. 569-591. L’autore riprende un suo saggio già pubblicato, in idem, Luigi Sturzo e la questione meridionale nella crisi del primo dopoguerra 1919-1924, Centro democratico di cultura e di documentazione, Roma 1957, p. 30. Ma su questo argomento altri spunti interessanti si ritrovano anche in uno scritto successivo intitolato Meridionalismo e antifascismo nel pensiero di L. Sturzo e compreso, in idem, Nazionalismo e democrazia, Lacaita, Manduria-Bari-Perugia 1960, pp. 49-63.
(23) E. Guccione, Napoleone Colajanni e i cristiani-sociali, in AA.VV., Napoleone Colajanni e la società italiana fra otto e novecento, cit., p. 174.
(24) N. Colajanni, Preti e socialisti contro Mazzini, Roma, Biblioteca della Rivista Popolare, 1903. Per un quadro storico più esaustivo della questione si rinvia a G. Spadolini, I repubblicani dopo l’Unità, cit., pp. 83-84.
(25) G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Milano, Mondadori, 1976, p. 399.
(26) In quell’occasione Sturzo precisa: "Ci fu un tempo che, sottovoce e come di contrabbando, serpeggiava nelle file dei cattolici una simpatia, non più che una simpatia, per una repubblica italiana, anzi per una federazione repubblicana […]. Oggi, per tendenza o simpatia personale, ce ne sono molti, fra i giovani, cui l’ideale repubblicano piace parecchio"; cfr. l. sturzo, I Discorsi politici, Roma, Istituto Luigi Sturzo, 1951, p. 373.
(27) L. Sturzo, Lo sciopero generale, in "La Croce di Costantino", 25 settembre 1904, poi in idem, "La Croce di Costantino", cit., p. 131.
(28) Per i giudizi di Sturzo su Giolitti cfr. A. Frassati, Giolitti, con prefazione di L. Salvatorelli, Parenti, Firenze 1959, pp. 41-46 e pp. 67-74; m. salvadori, Il mito del buon governo Il mito del buon governo questione meridionale da Cavour a Gramsci, cit., pp. 399-402; G. Manacorda, Sturzo e Giolitti, in aa.vv., Luigi Sturzo nella storia d’Italia, vol. I, cit., pp. 433-461.
(29) G. Salvemini, Il ministro della mala vita, II ed., Soc. An. Ed. Trinità Monti, Roma 1919. Rist. in idem, Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di E. Apih, Feltrinelli, Milano1962, Opere IV, vol. I, pp. 73-141.
(30) Anche per Salvadori, l’aspetto più rilevante dell’azione politica di Sturzo è "la rottura del trasformismo e del clientelismo meridionale come base del rinnovamento generale della società italiana"; cfr. M. Salvadori, Il mito del buon governo Il mito del buon governo questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi, 1960, p. 384.
(31) Sulle posizioni neocolonialiste di De Felice si veda R. Spampinato, Giuseppe De Felice Giuffrida, in aa.vv., I Fasci siciliani, vol. II: La crisi italiana di fine secolo, De Donato, Bari 1976, pp.144-145; mentre su Labriola si veda il volume, per alcuni aspetti ancora utile, di D. Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario in Italia, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1970, pp. 203-207.
(32) G. De Rosa, Luigi Sturzo nella storia d’Italia, vol. I, cit., p. 64.
(33) L. Lotti, Il Partito repubblicano dal 1895 al 1921, in AA.VV., Napoleone Colajanni e la società italiana tra otto e novecento, cit., p. 65.
(34) In un discorso del 1918 Sturzo esprime una dura critica alla Triplice Alleanza, in quanto "segnò la rotta della nostra politica estera per oltre un quarto di secolo"; al "germanesimo" imperante nella cultura italiana e al clima soffocante del mondo universitario coevo. Per il di-scorso di Sturzo cfr. G. De Rosa, Luigi Sturzo nella storia d’Italia, vol. I, cit., pp. 66-73.
Studiosi come Aldo Garosci(1) Giuseppe Galasso(2), Paolo Bagnoli(3), Antonio Cardini(4), Zeffiro Ciuffoletti(5) e Nicola Tranfaglia(6) hanno sollecitato a tener conto della formazione economica di Carlo Rosselli e del contributo per molti versi originale, anche a motivo di questa formazione, da lui fornito al pensiero politico italiano ed europeo. Da parte sua Ariane Landuyt ha efficacemente dimostrato come gli aspetti economici, insieme a quelli politici e giuridici, ebbero un influsso non secondario anche nella sua concezione europeistica(7).
Per comprendere il pensiero di Carlo Rosselli, inoltre, è indispensabile considerare l’influenza che ebbero su di lui il mondo laburista d’oltre Manica e il modello politico inglese anziché quello tedesco, allora dominante nell’ambito dei movimenti operai europei. Salvo Mastellone ha, infatti, autorevolmente documentato come il modello politico inglese fosse ben chiaro nella mente di Rosselli fin dall’inizio del 1924, data di un suo articolo sul Partito del lavoro in Inghilterra, e come per parecchio tempo egli avesse continuato a sperare che questo modello potesse essere adottabile in Italia(8).
Nel 1923-24, subito dopo la laurea in Giurisprudenza a Siena, Carlo Rosselli intraprese la carriera universitaria, che lo portò ad ottenere diversi incarichi di insegnamento nell’ambito delle scienze economiche e a stabilire proficui contatti con Luigi Einaudi e Attilio Cabiati. Si occupò di Keynes e di Marshall. Ben presto, però, la necessità della lotta concreta contro il fascismo, oltre ad un gusto congenito e preminente per l’azione, lo distolsero dalla ricerca scientifica. Sulla rivista "Quarto Stato", da lui fondata insieme a Pietro Nenni, proseguì il suo originale disegno mirante a congiungere emancipazione operaia e lotta liberistica(9). La maggior parte dei suoi scritti economici furono, però, pubblicati sulla "Riforma sociale" tra il 1924 e il 1926. L’analisi di Rosselli prese in esame soprattutto il punto di vista del movimento sindacale, ed era diretta ad affermare il distacco di una certa forma di liberismo nei confronti del liberalismo, poiché molti liberisti negavano la fecondità sociale ed economica del contrasto tra capitalisti e operai, e in nome della libera concorrenza affermavano l’illegittimità di organizzazioni sindacali unitarie.
Successivamente, i temi che attrassero la sua attenzione furono i più diversi, ma l’insieme più organico della sua collaborazione alla "Riforma sociale" rimane costituito da tre grossi saggi sull’economia del sindacato. Nonostante le difficoltà che gli derivavano dal suo impegno antifascista, Rosselli affrontò dunque temi impegnativi e originali sia rispetto alla cultura economica italiana, sia rispetto alla cultura socialista e comunista del tempo; come ha osservato il Galasso, egli non puntava tanto ad una teoria economica generale o ad una teoria generale della costituzione economica della società, tipica del marxismo, ma ad una verifica empirica di politiche economiche e alla definizione di scelte economiche che potevano meglio presiedere ad un’azione di governo, oppure semplicemente rivendicativa, qualificabile come socialista(10). Anche Emilio Papa ha del resto scritto che Rosselli, auspicando in campo economico un nuovo ordinamento sociale fondato sul principio di una più ampia ed equa distribuzione della ricchezza, pur accettando alcune regole di fondo della scienza economica liberale, cercava sbocchi che gli consentissero di proporre strumenti e soluzioni socialiste(11).
L’aspetto economico è alla base anche della formulazione del nucleo centrale del pensiero politico rosselliano, ovvero il socialismo liberale. Per lui, infatti, l’assenza di dipendenza materiale, storicamente rivendicata dal movimento socialista, è la condizione preliminare per accedere all’uso generalizzato delle libertà, e in particolare per usufruire attivamente dei diritti civili e politici. "La libertà – scrive – non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione; e la vita non può avere per lui che un aspetto e una lusinga: il materiale. Libero di diritto, è servo di fatto"(12). Accogliendo l’impostazione del Sombart, pone in luce l’errore di coloro che prevedono nel futuro "l’esclusivo dominio di un unico sistema economico", in quanto è da prevedersi che in futuro coesisteranno, "accanto a economie di tipo capitalistico, economie cooperative, collettiviste, individuali, artigiane, e la piccola proprietà rurale"(13). Questa concezione così variegata della vita economica del prossimo avvenire, riconosce, era forse meno brillante di quella di Marx, ma era assai più rispondente alle linee su cui si sviluppava effettivamente la realtà dell’Europa. Rosselli pensava dunque chiaramente ad una economia a due settori.
Giuseppe Bedeschi ha scritto che Rosselli pensava, però, ad una netta prevalenza del settore pubblico (sia pure in forme autogestionarie e cooperative e non statalistiche) su quello privato; e che, anche per quest’ultimo, egli, ponendo il problema della "democratizzazione del regime di fabbrica", auspicava il "controllo operaio sulle industrie, che ne avrebbe paralizzato l’autonomia gestionale e l’efficacia operativa sul mercato". Posizione che si inscriveva pienamente, per Bedeschi, nella tradizione socialista, condividendone "l’ostilità verso il sistema capitalistico, verso le imprese che operano sul mercato con il fine precipuo di conseguire profitto, senza il quale non c’è crescita e sviluppo economico"(14).
Tra il gennaio 1930 e il marzo 1931 Rosselli pubblicò su "Giustizia e Libertà" tre articoli dedicati alle condizioni degli operai italiani dopo circa un decennio di governo fascista, dimostrando, con dati inoppugnabili, il peggioramento della loro situazione sia salariale che di lavoro in fabbrica rispetto agli anni del primo dopoguerra e documentando i costi e gli sperperi del regime, situazione resa più grave dall’aumento delle tasse e della disoccupazione(15). All’inizio del 1932 "Giustizia e Libertà" pubblicò lo Schema di programma, redatto alla fine dell’anno precedente, la cui premessa qualificante era il concetto che l’abbattimento del fascismo avrebbe dovuto coincidere con la realizzazione immediata delle riforme politiche e sociali atte a fondare il nuovo regime democratico. Il Cole ne attribuisce l’elaborazione principale allo stesso Rosselli e lo ascrive ad un socialismo liberale "che dava importanza più all’aspetto etico che a quello economico"(16). Un rapido sguardo al suo contenuto dimostra che questo non è propriamente esatto, perché esso era incentrato proprio sul riassetto dell’economia, sulla base dei seguenti paragrafi: riforma agraria, riforma industriale e bancaria, politica sindacale e cooperativa, politica finanziaria e doganale(17).
Nel programma venivano anche denunciate le gravi responsabilità del grande capitalismo industriale e finanziario, assai lontano dal sistema economico dei più evoluti Paesi occidentali, oltre alle degenerazioni parassitarie del fascismo(18). È stato osservato, giustamente, che il programma disegnava "un regime fondato su una stretta integrazione e continuità tra le istituzioni più prettamente politiche e gli organismi di autogoverno economico e sociale. Tale principio, caratteristico della concezione giellista della democrazia, era giustificato, peraltro, anche con la necessità di estirpare prontamente le radici sociali del fascismo"(19). In esso veniva, dunque, confermato il principio dell’economia a due settori: pubblico e privato. Nell’articolo Discussioni sul programma agrario, Carlo Rosselli espresse cautela in merito alla socializzazione integrale della terra, in quanto "l’esistenza di milioni di piccoli coltivatori relativamente indipendenti, che progrediranno rapidamente in istruzione e benessere, è una garanzia fondamentale contro il dispotismo statale"(20). Tre anni dopo egli avrebbe ribadito il programma di socializzazione immediata di "alcuni rami essenziali della grande industria, del credito e della grande agricoltura", ma avrebbe confermato di ritenere per l’Italia "assolutamente impossibile, e anche se possibile assolutamente non desiderabile" una socializzazione generalizzata, in quanto, "da che una civiltà esiste, non si è mai data una società fondata su un unico principio economico con un unico tipo di azienda produttiva"(21).
Arturo Colombo ha osservato che "è arduo e addirittura impossibile separare nettamente quanto c’è di ‘economico’ e quanto di ‘politico’ in un’esperienza come quella di Giustizia e Libertà che rifiuta di istituzionalizzarsi in partito e vuole, fino all’ultimo, caratterizzarsi come un movimento"(22), mentre Paolo Bagnoli ha fatto presente che "la riduzione del processo storico alla pura dialettica economica rappresenta per Carlo Rosselli una visione falsante la realtà delle cose"(23). Da parte sua Franco Invernici ha rimproverato a Giustizia e Libertà la mancanza di un programma economico organico e coerente, rigorosamente autonomo(24). Tuttavia, un’analisi attenta degli articoli di carattere economico pubblicati da Rosselli sul periodico della Concentrazione antifascista "Libertà" tra il 1932 e il 1934 può offrire alcuni spunti interessanti circa la sua visione della politica economica fascista e dei suoi possibili esiti. In essi egli approfondì le cause della crisi economica italiana dei primi anni Trenta, invitando peraltro gli ambienti dell’antifascismo a non confidare troppo in una "catastrofe imminente", in quanto l’Italia, essendo basata su un’economia prevalentemente agrario-artigiana, dotata di notevoli capacità di adattamento e di resistenza, avrebbe potuto sopportare per molto tempo una congiuntura sfavorevole del settore industriale e commerciale, tenuta sotto controllo attraverso l’enorme accentramento di potere a disposizione del governo(25).
Mggiore ottimismo Rosselli mostrò nell’aprile di due anni dopo, allorché sottolineò alcuni indicatori come la forte riduzione di stipendi e salari, la politica deflazionistica, che stava conducendo il popolo italiano ad un tenore di vita inferiore a quello degli anni precedenti la prima guerra mondiale, e la riduzione del commercio estero. Forse questo non sarebbe bastato, scrisse, a far precipitare il fascismo, ma era certo che il regime attraversava "il suo più difficile periodo nel campo della finanza"(26). Maurizio Degl’Innocenti ha approfondito accuratamente i rapporti tra Rosselli e il neosocialismo francese, rappresentato soprattutto da Marcel Déat, di cui egli mostrò di condividere le tesi sul ruolo delle classi medie, sulla disintegrazione dell’economia internazionale e il connesso ripiegamento del capitalismo sul piano nazionale, che veniva ipotizzato ora perfino dal "più celebre teorico dell’economia liberale, il Keynes"(27). Tuttavia Rosselli era convinto che in economia non ci si trovasse di fronte ad una "fase organica di sviluppo o di trasformazione decisiva del capitalismo", quanto piuttosto ad una manovra di difesa contro la crisi e preconizzava che questa reazione vi sarebbe stata anche in Italia, forse anticipata dallo stesso fascismo, che già nel dopoguerra, con De Stefani e Rocca, aveva fatto "professione di integrale liberismo"(28). Una visione economica dinamica e progressista gli suggerì poi alcuni interventi sul problema meridionale(29).
Nel corso del 1934 Rosselli dedicò la sua attenzione anche alla tematica del corporativismo allora imperante in Italia, ma non certo perché, come gli è stato affrettatamente rimproverato, si trovasse "sul piano ideologico a simpatizzare pienamente" con esso(30). Egli, come ha precisato correttamente Giancarlo Pellegrini(31), non prese parte al dibattito sviluppatosi a partire dal 1926, che vide impegnati molti tra gli economisti, giuristi, filosofi, politici e dirigenti sindacali, con risultati di analisi il più delle volte scadenti(32). Tale dibattito, che fu essenzialmente di pertinenza di elementi filofascisti, riguardò l’assetto dello Stato corporativo, il passaggio dalla fase sindacale a quella corporativa, le funzioni e le finalità dei sindacati e delle corporazioni. Ma vi fu anche una discussione che coinvolse numerosi personaggi stranieri. Lo stesso Gaetano Salvemini ha ricordato infatti come tanti dall’estero fossero interessati al processo di realizzazione dello Stato corporativo in Italia, e che questa era diventata "la Mecca" degli scienziati politici(33). Era stato sempre Salvemini a far presente l’aspetto propagandistico e mistificatorio dello Stato corporativo mussoliniano, sottolineandone il carattere di vera e propria "truffa"(34), mentre Vittorio Foa aveva rincarato la dose demolendo complessivamente la politica economica del fascismo, affermando che le "grosse parole sul corporativismo come superamento dell’economia capitalista" non modificavano il fatto che "le radici individualiste e classiste del fascismo" in dieci anni si erano rafforzate(35).
Condividendo nella sostanza le tesi di Salvemini e di Foa, anche Carlo Rosselli espresse la sua "sfiducia totale" sull’edificio corporativo, ironizzando sull’ipotesi di corporazione integrale e sul mito corporativo che doveva pervadere tutto, su Mussolini che voleva abbattere il capitalismo e socializzare la produzione(36). La verità era che, anche con le tanto vantate corporazioni, "i padroni resteranno padroni e i servi, servi"(37). Alcuni mesi dopo prese spunto dal discorso di Alberto Pirelli agli industriali per far notare come anche questi ultimi si rendessero ben conto di come il sistema corporativo non fosse destinato a mutare, nella sostanza, i rapporti economici e sociali del paese, mantenendo pressoché intatti i postulati dell’economia capitalistica(38). Ma anche a distanza di due anni ribadì questo concetto recensendo un libro di Salvemini(39). In sostanza, come ha osservato Santi Fedele, sotto il profilo politico l’organizzazione corporativa venne letta da Rosselli come una delle forme tipiche assunte dalla moderna reazione, in quanto necessitata di offrire alle masse "un surrogato del libero movimento operaio e sindacale"(40).
A partire dal febbraio 1935 Rosselli dedicò gran parte della sua produzione giornalistica alla guerra di Etiopia che Mussolini, come egli previde con largo anticipo, avrebbe presto intrapreso. Ne sottolineò gli aspetti politici, militari, storici e diplomatici, come è stato sottolineato(41), ma anche, e direi soprattutto, quelli economici. Fin dal marzo 1935 scrisse: "Tutta l’attività economica è stata organizzata in Italia in vista della guerra. Chi avesse conservato qualche dubbio in proposito è stato illuminato dal comunicato della Commissione Suprema di Difesa, da cui dipende ormai l’economia nazionale. Il capitalismo fascista si avvia alla guerra per una necessità inesorabile"(42).
Quattro mesi dopo previde anche che la guerra d’Africa sarebbe stata la rovina economica dell’Italia, dal momento che essa sarebbe venuta a costare tra i 25 e i 30 miliardi di lire, somma che non poteva certo reperirsi attraverso un aumento delle imposte, dal momento che la pressione fiscale superava già il 30%; restavano, quindi, solo "l’indebitamento e l’inflazione" cosicché, concludeva, "anche nella ipotesi più favorevole, e cioè di vittoria rapida, la guerra d’Africa significa per l’Italia la corsa alla rovina. I miliardi che spendiamo e ancora di più spenderemo in strade, cannoni, viveri, soprassoldi ecc. non li ritroveremo certo a guerra finita in Abissinia, come non ritrovammo gli assai meno miliardi spesi per l’Eritrea e per la Libia. Se con la guerra i soldati entrano nel raggio della morte, l’economia italiana entra nel raggio dell’inflazione e del disfacimento"(43).
Nel novembre successivo Rosselli ribadì che le enormi spese affrontate per questa guerra avrebbero condotto il paese verso la rovina economica, anche se era da escludere che la situazione potesse precipitare a brevissima scadenza per sole cause economiche e finanziarie. Infatti, osservò, "la situazione economica è grave, quella finanziaria è gravissima. Ma il fascismo potrà resistere ancora molti mesi, anche se le sanzioni saranno applicate seriamente. Il paese è dunque minacciato da un’agonia lenta e terribile, anche dal punto di vista economico, s’impone perciò un movimento di opposizione interna, che risparmi al popolo le sofferenze inaudite e impedisca che si consumi la rovina totale dell’economia"(44). Quando in un discorso a Pontinia Benito Mussolini definì la guerra d’Abissinia "una guerra dei proletari e dei poveri", Rosselli commentò sarcastico: "Esatto. A far la guerra, laggiù, sono soprattutto operai senza lavoro, contadini senza terra, diplomati senza posto, tutti gli spostati e i disperati del fascismo, della crisi e perfino dell’emigrazione"(45).
Nel febbraio 1936 osservò che il fascismo conduceva non una, ma due guerre: una guerra militare in Africa e una guerra economica in Italia, e il successo della prima era condizionato dal successo della seconda. Il guaio per il fascismo era che, mentre vedeva allungarsi il tempo della guerra militare, vedeva ridursi il tempo della guerra economica. Da qui, osservò, l’accanimento estremo che esso portava nella sua azione economica, diretta ad aumentare al massimo le possibilità di autarchia e di resistenza. Le previsioni di coloro che davano il fascismo come economicamente spacciato nel corso di poche settimane erano, dunque, smentite dai fatti; tuttavia, il costo economico e quello monetario della guerra, uniti alla riduzione del commercio estero e delle riserve monetarie, potevano far presumere che la sua resistenza non potesse "prolungarsi (sul puro terreno economico) più di dodici – diciotto mesi"(46).
Si occupò subito dopo della legge bancaria varata dal governo il 3 marzo 1936, con la quale si dichiaravano enti di diritto pubblico la Banca d’Italia, la Banca Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma. Con questa misura, commentò, lo Stato fascista apparentemente perfezionava il suo sistema di controllo sul credito e sul risparmio per "pompare ai fini della guerra le ultime risorse disponibili del paese"; in realtà, esso doveva assumere direttamente, o quasi, "sotto mistici veli corporativi", la gestione del sistema bancario italiano crollato per effetto della sua disastrosa politica economica e finanziaria(47).
Alcuni giorni dopo commentò un discorso di Mussolini del 23 marzo 1936, che definì "essenziale per la storia e la comprensione del fascismo". In esso il duce, facendo riferimento alle sanzioni contro l’Italia decretate dalla Società delle Nazioni, aveva prefigurato un nuovo periodo nella storia italiana diretto a realizzare, nel più breve tempo possibile, il massimo di autonomia economica. Un livello di autonomia per il tempo di pace e soprattutto per il tempo di guerra, e questo confermava la previsione rosselliana circa la "ineluttabilità di un nuovo grande cimento bellico". Ribadì che non vi era niente di realmente socialista nei provvedimenti con i quali lo Stato assorbiva, un settore dopo l’altro, l’economia italiana, in quanto l’elemento caratteristico del socialismo, osservò, non è lo statalismo, né tanto meno la guerra, ma "l’organizzazione sociale della produzione e della distribuzione dei beni per rendere massimo il benessere della immensa maggioranza degli uomini". D’altra parte, nulla dimostrava meglio, aggiunse, il carattere reazionario delle riforme sociali del fascismo che la fissità del suo stato maggiore economico. Infatti, fece presente, "Agnelli, Pirelli, Benni, Olivetti, Motta, erano i capi dell’industria italiana prima della marcia su Roma. Agnelli, Pirelli, Benni, Olivetti, Motta sono i capi dell’industria italiana oggi. Che si sappia, non muoiono di fame. Si sa anzi il contrario: che non furono mai così potenti nella loro sfera come oggi. Quel che hanno perduto in autonomia e iniziativa, hanno guadagnato in sicurezza"(48).
Continuò a mettere in guardia gli italiani contro l’"infatuazione miracolistica" circa un’ampia e rapida colonizzazione dell’Abissinia(49). Invitò gli osservatori, compresi gli economisti, a non giudicare la politica economica di uno Stato totalitario come quello fascista alla stregua dei paesi liberal-democratici, in quanto nello Stato fascista il rapporto tra la società e lo Stato capitalista risultava invertito, talché la miseria dei singoli poteva perfino tradursi in nuova forza economica e politica per lo Stato, diventato il dispensatore del denaro e l’arbitro della vita delle imprese. Esso non doveva temere né concorrenza, né pubblicità, né opposizione; padrone assoluto, poteva "sfidare perfino le leggi economiche"(50).
Carlo Rosselli espresse infine il convincimento che, dopo la guerra in Etiopia e l’intervento in Spagna, Hitler e Mussolini preparassero, a breve scadenza, dei nuovi fatti compiuti, nonostante un certo ottimismo manifestato da "alti papaveri democratici" europei sulla base di presunte difficoltà economiche della Germania e dell’Italia(51). Lo stesso recente discorso di Mussolini sull’autarchia andava a suo avviso in quella direzione. L’autarchia, infatti, non era solo "la miseria cronica, la rinunzia al benessere per le grandi masse, il sacrificio delle industrie e delle attività naturali e sane a profitto delle attività parassitarie e artificiali", ma era "la guerra in potenza, la preparazione precisa, sistematica, ad un nuovo colossale conflitto al quale Mussolini ha già condannato l’Italia"(52). Si tratta di considerazioni che testimoniano la grande capacità di analisi e di previsione del fondatore di Giustizia e Libertà.
NOTE
(1) A. Garosci, Prefazione a C. Rosselli, Opere scelte. Socialismo liberale, a cura di J. Rosselli, Torino, 1973.
(2) G. Galasso, Politica e analisi economica nel pensiero di Carlo Rosselli, in AA. VV., "Giustizia e Libertà" nella lotta antifascista e nella storia d’Italia. Attualità dei fratelli Rosselli a quarant’anni dal loro sacrificio, Firenze, 1978, pp. 147-162, ora anche in ID., La democrazia da Cattaneo a Rosselli, Firenze, 1982, pp. 255-275.
(3) P. Bagnoli, Carlo Rosselli tra pensiero politico e azione, Prefazione di G. Spadolini, Firenze, 1985.
(4) A. Cardini, Carlo Rosselli dal sindacalismo al socialismo liberale: la tesi di Laurea a Siena, in AA.VV., Scritti per Mario Delle Piane, Napoli, 1986, pp. 347-361.
(5) Z. Ciuffoletti, Contro lo statalismo. Il "socialismo federalista liberale" di Carlo Rosselli, Manduria, 1999. Ma già in precedenza egli aveva sottolineato come Rosselli, fin dagli anni del primo dopoguerra, aveva affrontato il rapporto tra movimento operaio organizzato, economia e politica delle società industriali liberal-democratiche, essendo in possesso di una cultura "assai diversa rispetto a quella prevalentemente umanistica, filosofica e letteraria, di un Gramsci o di un Togliatti" (Z. Ciuffoletti, Introduzione a C. Rosselli, Scritti politici, a cura di Z. Ciuffoletti e P. Bagnoli, Napoli, 1988, p. 19).
(6) N. Tranfaglia, Carlo Rosselli dall’interventismo a "Giustizia e Libertà", Bari, 1968.
(7) A. Landuyt, Carlo Rosselli e l’Europa, in ID. (a cura di), Carlo e Nello Rosselli. Socialismo liberale e cultura europea (1937-1997), "Quaderni del Circolo Rosselli", 1998, n. 11, pp. 59-67.
(8) S. Mastellone, Carlo Rosselli e "la rivoluzione liberale del socialismo". Con scritti e documenti inediti, Firenze, 1999, p. 38.
(9) Il 2 ottobre 1926 scrisse: "Un liberismo virile, capace di scuotere larghe correnti di interessi materiali e ideali, non potrà sorgere che dal seno delle classi sfruttate e dovrà inquadrarsi nella più vasta critica del mondo capitalistico" (cfr. D. Zucaro, Il Quarto Stato, Milano, 1977).
(10) G. Galasso, op. cit., p. 154. Il 18 settembre 1927 Rosselli scrisse a Filippo Turati: "Seguo attentamente la situazione economica. Molto grave, senza dubbio, ma non risolutiva. Sorriderai, vero?, Quando ti dirò che a questa conclusione mi ci porta, prima che il mio modesto giudizio di economista, il mio volontarismo." (C. Rosselli, Scritti politici e autobiografici, Prefazione di G. Salvemini, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e V. Caciulli, Manduria, 1992, p. 57.
(11) E.R. Papa, op. cit., pp. 56-57. Non ci soffermiamo ulteriormente sugli articoli di teoria economica pubblicati da Rosselli sulla "Riforma Sociale" nel triennio 1924-26 in quanto sono stati ampiamente esaminati da N. Tranfaglia, op. cit., pp. 217 – 273. Per il giudizio di Einaudi su Rosselli si veda L. Einaudi, Interventi e relazioni parlamentari, a cura di S. Martinotti Dorigo, Vol. II, Torino, 1982, p. 617.
(12) C. Rosselli, Socialismo liberale, Introduzione e saggi critici di N. Bobbio, a cura di J. Rosselli, Torino, 1997, p. 91.
(13) Ivi p. 137.
(14) G. Bedeschi, La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico nell’Italia del Novecento, Bari, 2002, pp. 301-302. Sulla visione rosselliana dell’economia a due settori si veda V. Spini, Un pensiero quanto mai vivo, in L. Rossi (a cura di), Politica, valori, idealità. Carlo e Nello Rosselli maestri dell’Italia civile, Roma, 2003, pp. 28-31.
(15) C. Rosselli, Come il fascismo affama gli operai, "Giustizia e Libertà", gennaio 1930; Operai delle fabbriche, ivi, aprile 1930; Agli operai, ivi, marzo 1931.
(16) G.D.H Cole, Storia del pensiero socialista. Comunismo e socialdemocrazia 1914-1931, I, Bari, 1968, p. 437.
(17) Chiarimenti al Programma, "Quaderni di Giustizia e Libertà", n. 1, gennaio 1932.
(18) Il programma lo si veda ampiamente riassunto in F. Invernici, L’alternativa di "Giustizia e Libertà". Economia e politica nei progetti del gruppo di Carlo Rosselli, Milano, 1987, pp. 85-103.
(19) S. Neri Serneri, Democrazia e Stato. L’antifascismo liberaldemocratico e socialista dal 1923 al 1933, Milano, 1989, p. 263.
(20) C. Rosselli (Curzio), Discussioni sul programma agrario, "Quaderni di Giustizia e Libertà", n. 4, settembre 1932, pp. 76-86. Cfr. F. Invernici, op. cit., pp. 114-117.
(21) C. Rosselli, Socialismo e socializzazione, "Giustizia e Libertà", 8 febbraio 1935. Si veda anche F. Invernici, op.cit., pp. 155-156. L’impostazione rosselliana non convince Domenico Settembrini, secondo cui "se si va a vedere che cosa intendesse Rosselli per ‘parziale’, quali confini insomma egli assegnasse alla socializzazione, ecco che il muro divisorio crolla e il programma di Giustizia e Libertà si avvicina sempre più a quello comunista" (D. Settembrini, Il socialismo liberale di Rosselli e la terza via, in M. Degl’Innocenti (a cura di), Carlo Rosselli e il socialismo liberale, Milano, 1999, p. 170).
(22) A. Colombo, Introduzione a F. Invernici, op.cit., p. 13.
(23) P. Bagnoli, Carlo Rosselli tra pensiero politico e azione, Prefazione di G. Spadolini, Firenze, 1985, pp. 124-125.
(24) F. Invernici, op.cit., p. 173.
(25) C. Rosselli, La crisi economica e la battaglia antifascista, "Libertà", n. 14, gennaio 1932.
(26) ID., La deflazione in Italia, ivi, 19 aprile 1934.
(27) M. Degl’Innocenti, Socialismo liberale e socialismo europeo, in ID. (a cura di), Carlo Rosselli e il socialismo liberale cit., pp. 89-91.
(28) C. Rosselli, Il neo-socialismo francese nel quadro internazionale, "Libertà", 31 agosto 1933. Si vedano anche Il neo-socialismo francese, ivi, 17 agosto 1933 e Lo spirito e i fini del neo-socialismo francese, ivi, 24 agosto 1933.
(29) Si veda in particolare Non dimenticare il Mezzogiorno, "Giustizia e Libertà", 14 settembre 1934.
(30) Così D. Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia. 1860-1989. Società del benessere-liberalismo-totalitarismo, Bari, 1991, p. 372.
(31) G. Pellegrini, Rosselli e il corporativismo, in V.I. Comparato-E. Pii (a cura di), Dalle "Repubbliche" elzeviriane alle ideologie del ‘900. Studi di storia delle idee in età moderna e contemporanea, Firenze, 1997, pp. 211-237.
(32) Si vedano a questo proposito: S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925, Venezia, 1979, pp. 255 segg.; N. Tranfaglia, Labirinto italiano. Il fascismo, l’antifascismo, gli storici, Firenze, 1989, pp. 130-142; L. Ornaghi, Stato e corporazione. Storia di una dottrina nella crisi del sistema politico contemporaneo, Milano, 1984, pp. 21-29; R. De Felice, Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, 1974, pp. 9 segg.; R. Chiarini, Il corporativismo paradigma del totalitarismo, in M. Degl’Innocenti (a cura di), Carlo Rosselli e il socialismo liberale cit., pp. 109-121; S. Colarizi, L’Italia antifascista dal 1922 al 1940. La lotta dei protagonisti, Roma-Bari, 1976.
(33) G. Salvemini, Scritti sul fascismo, a cura di R. Vivarelli, III, Milano, 1974, p.4.
(34) ID., Capitale e lavoro nell’Italia fascista, "Quaderni di Giustizia e Libertà", agosto 1933, pp. 99-127 e novembre 1933, pp. 116-128.
(35) Emiliano (V. Foa), La politica economica del fascismo, ivi, agosto 1933, p. 93. Si veda anche ID., Genesi e natura delle corporazioni fasciste, ivi, febbraio 1934.
(36) C. Rosselli, Corporazione e rivoluzione, "Quaderni di Giustizia e Libertà", febbraio 1934, ora in ID., Scritti dell’esilio. I. 1929-1934, a cura di C. Casucci, Torino, 1988, p. 275.
(37) Ivi, p. 276.
(38) La riforma corporativa spiegata agli industriali, "Giustizia e Libertà", 19 ottobre 1934.
(39) "Sotto la scure fascista". Un nuovo libro di Salvemini , ivi, 3 luglio 1936.
(40) S. Fedele, E verrà un’altra Italia. Politica e cultura nei "Quaderni di Giustizia e Libertà", Milano, 1992, pp. 53-54.
(41) Si veda in particolare C. Casucci, Introduzione a C. Rosselli, Scritti dell’esilio, cit. pp. XXVI-XXX.
(42) Perché siamo contro la guerra d’Africa, "Giustizia e Libertà", 8 marzo 1935. Lo si veda anche in C. Rosselli, Scritti politici e autobiografici cit., p. 99.
(43) La guerra d’Africa sarà la rovina economica d’Italia. Previsioni sul costo e finanziamento della guerra, ivi, 19 luglio 1935. Gli studi più recenti hanno confermato in pieno i calcoli economici di Rosselli (cfr. G. Rochat, Il colonialismo italiano, Torino, 1973, p. 139; ID. Guerre italiane in Libia e in Etiopia, Treviso, 1991, p. 107). Si veda anche A. Del Boca, (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma – Bari, 1991.
(44) Verso la rovina economica, ivi, 8 novembre 1935.
(45) Guerra proletaria, ivi, 20 dicembre 1935.
(46) L’economia italiana e la guerra, ivi, 7 febbraio 1936.
(47) Socialismo fascista, ivi, 6 marzo 1936.
(48) Guerra, anima del fascismo, ivi, 27 marzo 1936.
(49) E ora?, ivi, 29 maggio 1936.
(50) L’economia al Gran Consiglio, ivi, 11 marzo 1937.
(51) Che cosa prepara Mussolini, ivi, 9 aprile 1937.
(52) Il discorso di Mussolini sull’autarchia preannuncio di prossima guerra, ivi, 21 maggio 1937. Alcuni di questi articoli si vedano ora in C. Rosselli, Scritti economici sul fascismo, a cura di M. Furiozzi, Manduria, 2004.
Giuseppe Pella, noto per la sua politica economica e finanziaria, svolta secondo i criteri della lesina, di selliana memoria, svolse un ruolo di rottura nella sonnacchiosa e accondiscendente politica estera italiana, in quei brevi e tumultuosi mesi in cui fu presidente del consiglio e ministro degli esteri.
Nato in provincia di Vercelli nel 1902, si ritrovò proiettato nella politica nell’immediato dopoguerra e, per le sue doti di competenza, di compostezza e moderazione, dopo lo scioglimento della Costituente, ricoprì importanti incarichi governativi nel settore delle finanze, settore nel quale era universalmente considerato un affidabile tecnico. Fu sottosegretario alle Finanze e poi, nei governi De Gasperi, ministro delle Finanze e del Tesoro. Fu sostenitore di una politica finanziaria fondata sulla difesa della lira. Dal novembre 1954 al novembre 1956 fu presidente dell’Assemblea della CECA; nel maggio 1957 assunse l’incarico di ministro degli Esteri nei governi Zoli e Segni che detenne, quasi ininterrottamente, fino al 1960 quando, nel III gabinetto Fanfani, tornò ad essere ministro del bilancio.(1)
La sua grande occasione si presentò, come quasi sempre avviene, per caso, poichè nell’agosto del 1953, dopo gli inutili tentativi di De Gasperi prima, di Piccioni poi, Einaudi decise di affidargli l’incarico di formare un governo d’affari, tecnico diremmo oggi (niente di nuovo sotto il sole!), allo scopo di districarsi nei tortuosi meandri dell’ordinaria amministrazione, nell’attesa che si formasse una maggioranza stabile che desse luce ad un vero governo politico con ben più vasti programmi e aspirazioni. Perché proprio Pella?
La democrazia cristiana era in piena crisi politica e la leadership di De Gasperi, ormai in piena decadenza, sia per il naturale decadimento fisico del politico trentino, sia perché questi, che si era giocato tutto con l’approvazione della legge di riforma elettorale, aveva dovuto registrare alle elezioni politiche del 7 giugno, una inaspettata sconfitta. La cosiddetta legge truffa, fortemente voluta da De Gasperi e da Scelba, oggetto di una feroce lotta parlamentare per cui si era ricorsi, per la prima volta, allo strumento dell’ostruzionismo, non aveva portato i risultati sperati. La DC e i partiti apparentati avevano mancato per lo 0,6% la maggioranza richiesta, pari al 50,1%, per usufruire dei vantaggi di quella legge che prevedeva l’assegnazione a tale maggioranza, dei due terzi dei seggi della Camera dei Deputati.(2)
La DC era dunque uscita dalle elezioni sconfitta e moralmente ridimensionata, con una maggioranza che dipendeva sempre più dai capricci dei partiti minori, i veri capisaldi del sistema partitocratrico nazionale.
Occorreva, dunque, varare un governo balneare necessario per esplicare compiti di ordinaria amministrazione e buono per tenere calda la poltrona del potere e permettere, nel frattempo, ai dirigenti del partito di preparare, dietro le quinte, accordi politici che dessero luogo a maggioranze più salde. Già si scatenavano, in seno alla balena bianca, i giochi di corrente e la febbre del potere consumava quelli fra i suoi uomini che, per essere a capo delle singole correnti, dovevano misurare le loro forze per stabilire chi di loro dovesse essere l’erede di De Gasperi.(3)
Pella non rientrava in questi giochi, non era un capo corrente, non aveva la stoffa del leader, dunque gli aspiranti alla guida del partito potevano fidarsi di lui; quando fosse arrivato il momento si sarebbe ritirato in buon ordine, accontentandosi magari di una poltrona di ministro senza portafoglio o di sottosegretario o della presidenza di un ente del parastato.
Pella, inoltre, piaceva sia alla sinistra, per la scrupolosità dell’impegno, per l’accento posto sul carattere provvisorio del suo governo e per il tono di-stensivo delle sue dichiarazioni programmatiche che facevano dimenticare la tradizionale intransigenza ideologica del quadripartito, sia alle destre per la maggiore indipendenza dagli alleati in politica estera. Sia i monarchici che i post – fascisti, infatti, pur essendo genericamente favorevoli all’alleanza atlantica, contestavano l’eccessivo servilismo dei governi italiani nei confronti degli USA e in ciò stranamente si trovavano sulla stessa posizione dei socialisti di Nenni. Pella piacque anche ai laici, poiché il suo ministero cercò fino alla fine di sottrarsi al dispotismo partitocratrico, dando un chiaro segnale in tal senso con la dichiarazione fatta alla Camera nella seduta del 19 agosto 1953: "[…] nel Parlamento tutto si deve ritrovare e dal Parlamento tutto deve ripartire per quanto riguarda il giudizio sull’attività di governo"(4)
Pella ottenne, quindi, la fiducia da parte della DC, del PRI, del PLI e dei monarchici; si astennero missini e socialdemocratici, votarono contro socialisti e comunisti. Tuttavia Nenni, nel suo discorso alla Camera in cui motivava il suo voto contrario, sembrava dare una vera e propria apertura al governo Pella; sottolineando una sua posizione ben distinta da quella degli alleati comunisti, inequivocabilmente contrari ad ogni governo democristiano, prometteva di giudicare il ministero in base ai fatti, di secondare ogni suo sforzo per superare la crisi del momento e "[…] di rinsaldare la reciproca tolleranza che si è ristabilita in Parlamento, in contrasto con l’atmosfera avvelenata della passata legislatura"(5)
Fu cosi che il modesto imprenditore vercellese che avrebbe confidato a Nenni "sono stato ventidue anni dietro il tavolo da ragioniere senza prevedere cosa mi sarebbe capitato a cinquant’anni", si ritrovò fra le mani, la patata bollente della irrisolta questione triestina.(6)
Della critica situazione post-elettorale italiana si preoccuparono anche gli alleati americani, soprattutto nella persona di Clara Boothe Luce, famosa ambasciatrice degli Usa a Roma negli anni del dopoguerra. La Luce fece notare ai suoi superiori di Washington che l’esito delle elezioni era stato particolarmente negativo per gli interessi americani, sia perché avrebbe accelerato la caduta di colui che fino a quel momento era stato un docile esecutore delle direttive alleate, De Gasperi, sia perché, restringendo la maggioranza su cui poteva contare la DC, avrebbe costretto il governo a rivisitare la sua politica estera.
Lo stesso De Gasperi si rendeva conto di essere ormai troppo debole per arginare la protesta della destra parlamentare e, soprattutto, della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica italiana, alimentata dalla delusione per il penalizzante trattato di pace e, soprattutto, per il comportamento remissivo e servile che i governi avevano fino ad allora mantenuto sulla questione di Trieste.
Dopo l’accoglimento della proposta francese a favore della costituzione di un Territorio Libero di Trieste, comprendente l’entroterra triestino e l’Istria, amministrato da un governatore nominato dall’Onu, le due maggiori potenze, Stati Uniti e URSS, non avevano trovato un accordo sulla persona del governatore e sulle norme statutarie del T.L.T. Di conseguenza, per evitare nuove complicazioni, in un momento in cui, con l’enunciazione della dottrina Truman, si era ormai in pieno clima di guerra fredda, si decise di mantenere la situazione di fatto realizzatasi dopo l’ingresso della truppe alleate a Trieste, precedentemente occupata, per ben quarantatre giorni, dai titini. Infatti anche se gli anglo americani ritenevano inutile tenere Trieste separata dall’Italia, temevano anche che sgombrare la città in quel momento particolarmente critico dal punto di vista internazionale, potesse apparire all’URSS come un atto di disimpegno. Si decise di dividere il T.L.T. in due parti, lasciando la zona A - estesa per 222 Km quadrati e abitato da 239.200 italiani e da 63000 sloveni - all’amministrazione militare anglo-tedesca e la zona B, comprendente tutta l’Istria, di 515 Km. Quadrati, con 73.500 abitanti in prevalenza sloveni, all’amministrazione iugoslava, in cui fin dal ’45 era stata portata avanti da Tito un capillare processo di snazionalizzazione delle comunità italiane.(7)
De Gasperi dovette accettare tutto ciò, soprattutto l’umiliazione di aver subito un diktat, pur essendosi l’Italia di Badoglio pomposamente autodefinita cobelligerante, in cambio di quote di riparazione accettabili, di immediati aiuti economici (solo due anni dopo verrà varato il Piano Marshall) e di protezione.
Passavano gli anni e la sistemazione provvisoria non accennava a sbloccarsi. In verità, nel marzo del 1948, alla vigilia delle elezioni italiane, gli alleati avevano proposto all’Italia di scegliere tra il riconoscimento della sovranità italiana su tutto il T.L.T., in un futuro indeterminato, o la restituzione immediata della Zona A. De Gasperi si pronunziò a favore della prima proposta; propagandisticamente, infatti, sarebbe stato negativo accettare solo la zona A con implicita definitiva rinunzia della zona B. Inoltre, gli americani avevano fatto sapere all’ambasciatore italiano a Washington Tarchiani che, per il momento, non avevano nessuna voglia di sgombrare il territorio occupato, data l’incandescente situazione internazionale. Così gli italiani dovettero accontentarsi di una Dichiarazione Tripartita anglo-franco-americana con cui si prometteva la futura restituzione all’Italia dell’intero T.L.T.(8)
La situazione si complicò ulteriormente dopo l’espulsione della Iugoslavia dal Cominform; tale svolta faceva dello stato titino un territorio di penetrazione politica americana, un’occasione di proficua sfida all’URSS. Non era dunque più conveniente mutare la situazione esistente rischiando di molestare l’irritabile Tito.
Dopo quattro anni, senza che nulla fosse accaduto, era lecito pensare che la famosa di Dichiarazione a cui i nostri governanti si rifacevano in continuazione, sarebbe rimasta una semplice promessa elettorale(9). D’altra parte De Gasperi e la sua DC erano tanto forti all’interno e tanto protetti all’estero da poter facilmente tener a bada il malcontento italiano.
Appare spontaneo domandarsi per quale motivo De Gasperi avesse mantenuto un atteggiamento così passivo sulla questione, facendo pochissimo per affrettare la soluzione del problema.(10)
Sapeva, innanzi tutto, che l’Italia trattava da posizioni di estrema debolezza, accentuate dalla rancorosa ostilità britannica; riteneva, inoltre, che valesse la pena mostrarsi pazienti sulla questione di Trieste in cambio di immediati aiuti economici americani che accelerassero la ricostruzione nazionale. Il Piano Marshall e il benessere che da esso sarebbe derivato avrebbero placato ogni sentimento di frustrazione e di revanchismo negli italiani. In tale atteggiamento era fortemente condizionato dalla presenza, prima nel governo e poi solo in parlamento, di due partiti fortemente filosovietici, il comunista e il socialista, e dogmaticamente antinazionali, antirisorgimentali e antimilitaristi. Essi premevano per una politica estera che soddisfacesse le esigenze di Mosca che, nell’immediato dopoguerra si era atteggiata a grande sostenitrice delle pretese di Tito. Tant’è che Togliatti, nel novembre 1946, scavalcando il ministro degli esteri Nenni, in un incontro segreto col dittatore iugoslavo, arrivava a proporgli la cessione di Gorizia e Monfalcone in cambio della sua rinuncia a Trieste, ideando quello che dalla stampa moderata fu definita la "nefasta proposta di baratto"P.(11)
Se Papa Pacelli e i gesuiti di "Civiltà cattolica" sostenevano una politica estera antisovietica e una politica interna anticomunista - si ricordi che Pio XII nel 1952, aveva chiesto, prima a Sturzo e poi a De Gasperi, di favorire al comune di Roma un’alleanza tra DC e MSI, al fine di battere le sinistre, ma non era stato accontentato(12) - un altro settore dell’establishement cattolico, quello più vicino a Dossetti, a padre Gemelli e al giornale "Vita e Pensiero", si faceva portavoce dell’ecumenismo proprio della chiesa cattolica, auspicando una politica di pacificazione sia all’interno che all’estero. Ciò comportava un appoggio all’apertura a sinistra in politica interna(13) ed una politica estera più conciliante nei confronti della comunità cattolica slovena.(14)
A completare tale panorama politico si aggiungevano repubblicani e liberali che assieme al giovane partito socialdemocratico di Saragat, cercavano di inculcare nell’intellighenzia italiana aspirazioni europeistiche in cui le rivendicazioni per Trieste e per l’Istria avrebbero perduto ogni significato.(15)
L’opinione pubblica si trovava costretta, dall’efficiente propaganda dei suddetti partiti, ad annacquare i sentimenti patriottici in un cocktail d’europeismo, ecumenismo cristiano e internazionalismo operaio da cui era bandita la parola Nazione.
Tuttavia, dopo le elezioni del ‘53, anche De Gasperi si era reso conto di non poter più tener a bada il malcontento generale, tanto che nel discorso con cui presentò alle Camere il suo IV ministero, per cui non ottenne la fiducia, dovette affermare, seppur di malavoglia, che era "giunta l’ora di rendere giustizia al popolo italiano"(16).
Non bisogna, inoltre, trascurare che De Gasperi era sempre rimasto un "trentino prestato all’Italia", come egli stesso amava definirsi e che perciò aveva una sensibilità attenuata nei confronti del problema triestino. Da giovane non si era mai battuto per l’indipendenza trentina, ma per l’autonomia della sua regione all’interno del contesto politico asburgico, non per niente, mentre Battisti, disertato l’esercito austro-ungarico, combatteva per l’Italia e perciò aveva dovuto affrontare eroicamente il plotone d’esecuzione, De Gasperi(17) dal suo scranno di deputato cattolico al parlamento austriaco, protestava vibratamente per l’intervento militare italiano.
L’impasse su Trieste fu paradossalmente sbloccata da Tito che, in un di-scorso ufficiale, a Sambasso, espresse chiaramente le sue rivendicazioni sulla zona A, quasi considerando la B definitivamente acquisita dalla Iugoslavia, limitandosi a riconoscere soltanto il carattere internazionale della città di Trieste. Tale arrogante dichiarazione seguiva la ripresa segreta di conversazioni militari con gli occidentali ed un minaccioso movimento di truppe iugoslave in prossimità del confine con la zona A. Ciò diede l’occasione al neo primo ministro Pella di estrinsecare le sue posizioni riguardo al problema, assumendo un atteggiamento di fermo rigore che si estrinsecava nel clamorosa disposizione, a scopo precauzionale, di movimenti di truppe italiane alla frontiera orientale e dell’invio di alcune navi militari in prossimità dei porti di Venezia ed Ancona. Pella dichiarò che tali misure militari avevano anche lo scopo di saggiare, in quel momento in cui l’alleanza atlantica attraversava un momento di crisi, sulla posizione italiana, fino a che punto l’Italia potesse "[…]nel quadro Nato[ ...]avere autonomia d’azione."(18)
Il discorso del Campidoglio del 13 settembre 1953, con cui Pella esponeva alla Nazione la linea di condotta decisa dal governo sul problema triestino, si rivelò una vera e propria mina vagante nella politica internazionale che preoccupò e sbalordì le cancellerie europee ormai troppo abituate alla tacita condiscendenza italiana.
Già nel discorso programmatico Pella, pur ricordando la funzione transitoria del suo Gabinetto, aveva espresso l’intenzione di condurre una politica estera più autonoma rispetto agli alleati occidentali; guadagnandosi così, l’appoggio dei monarchici e dei liberali, nonché l’astensione dei missini e la possibilità di varare il suo governo.(19)
Il discorso del Campidoglio, sopraggiunto alla dichiarazione di Tito, fu sorprendentemente energico; Pella proponeva alle potenze occidentali di risolvere la questione triestina indicendo un plebiscito fra tutti i nati nel Territorio libero prima del 1918.(20) Subordinava implicitamente all’accettazione della sua proposta, la ratifica del trattato sulla costituzione della Commissione Europea di Difesa (CED), a cui tanto tenevano gli americani per rafforzare il sistema difensivo occidentale,"[...] la soluzione del problema di Trieste non potrà che facilitare la ratifica del Ced da parte del Parlamento italiano" - sosteneva il presidente del Consiglio - "e il proseguimento della politica estera di intesa con gli alleati". Ad essi appunto Pella si rivolgeva nell’ultima parte del suo vibrante discorso, trasmesso, come al tempo della adunanze oceaniche di mussoliniana memoria, da altoparlanti che lo diffondevano in tutte le piazze d’Italia, ricordando loro che erano: "[…] entrati e rimasti a Trieste come esecutori di un trattato che l’Italia ha subito protestandone l’ingiustizia e di cui essi stessi hanno riconosciuto l’ineseguibilità. Queste due potenze non hanno di fronte come allora un’Italia isolata e vinta. Sta oggi al loro fianco [...] un’Italia ad essi unita nell’alleanza atlantica. E’ dunque tempo che essi riconoscano l’anacronismo della loro attuale posizione. E non ci si illuda circa una nostra ipotetica disposizione [...] di lasciare insoluto il problema: sappiamo tutti, alleati e non alleati,che esso non consente ulteriori dilazioni. Tale problema ha ripercussioni su tutta la nostra politica internazionale e costituisce il banco di prova delle amicizie".(21)
Le minacce di Pella costituivano certamente un bluff; infatti, cosa avrebbe mai potuto fare la povera Italia del dopoguerra senza l’America? Un bluff che servì, tuttavia, a rafforzare la popolarità del presidente del consiglio e a mobilitare l’opinione pubblica italiana e la stampa in direzione del problema di Trieste.
Allarmò De Gasperi che vide nel discorso del suo successore e nelle misure militari da lui prese, una troppo esplicita minaccia agli alleati occidentali. Egli scrisse quindi una lettera a Pella dai toni molti critici e severi, mettendolo in guardia dalle gravi conseguenze internazionali delle sue parole e dal pericolo di svegliare pericolosi revanchismi fra la popolazione.(22) De Gasperi non si rendeva conto che l’opinione pubblica italiana era avvilita ed esasperata dalle umiliazioni fino ad allora subite dall’Italia e il discorso di Sambasso aveva rappresentato la goccia che faceva traboccare il vaso, dunque aveva bisogna di una dimostrazione di forza e di orgoglio nazionale. Il 30 agosto, il "Tempo" di Roma aveva pubblicato una significativa quanto amara vignetta raffigurante un compiaciuto Tito che diceva: "Possiamo fare la voce grossa! Abbiamo le armi che ci hanno dato gli alleati dell’Italia".
Le minacce di Pella servirono anche ad allarmare gli alleati che capirono di non poter continuare a tirare la corda all’infinito col rischio di spezzarla e di perdere l’Italia in cambio di una ipotetica penetrazione politica in Iugoslavia, realizzando, finalmente, che la "questione di Trieste" era "la più bruciante in Europa [...] dopo quella dei rapporti franco-tedeschi".(23) Così, meno di un mese dopo, l’8 ottobre, dopo un ordine del giorno altrettanto energico votato dalla maggioranza del Parlamento italiano, gli anglo-americani inviarono alle autorità italiane un Memorandum con il quale proponevano l’imminente sgombro della zona A e la sua restituzione all’amministrazione italiana.
Ci furono grandi manifestazioni di giubilo in Italia; la più autorevole posizione politica di Pella era stata premiata: "Il bilancio della sua politica estera è arrivato in meno di due mesi a segnare un indubbio margine di profitto. Preso un atteggiamento di fermezza non tanto nei confronti di Tito […] quanto nei confronti degli alleati occidentali, i frutti non sono tardati" - commentava "La Stampa" di Torino.(24)
La risposta ufficiale di Palazzo Chigi al Memorandum, era articolata in modo tale da rendere chiaro agli alleati che l’accettazione della proposta non avrebbe mai implicato rinunzia alla zona B e che la richiesta italiana di un plebiscito restava assolutamente valida
Alle manifestazioni di giubilo in Italia corrisposero altrettante manifestazioni di protesta a Belgrado organizzate dall’establishement titino dopo la vigorosa nota inviata alle ambasciate inglese e americana (che sarebbero, peraltro, state oggetto della furia dei dimostranti), con cui Tito dichiarava che avrebbe considerato l’ingresso italiano a Trieste come un vero e proprio atto di aggressione.
Se la reazione di Tito aveva creato un estremo imbarazzo fra gli alleati, aveva rafforzato la posizione di Pella all’interno e in Parlamento, dove la sua condotta era stata approvata da tutte le forze politiche, ad eccezione dei comunisti e dei socialisti, i quali per bocca di Nenni assumevano, tuttavia, un atteggiamento diverso dai primi, diversità che fu messa in rilievo dalla stampa come segnale del progressivo allontanamento tra due partiti. Nenni, infatti, pur ritenendo la proposta alleata contraria al trattato di pace del 47, auspicava fermezza "per portare avanti la rivendicazione globale del nostro diritto, non abbandonando gli istriani e arrivare al plebiscito".(25)
Anche La Malfa approvava la linea di condotta del governo, infatti il 12 settembre nel corso di un suo incontro a Washington con membri del Dipar-timento di Stato, aveva affermato che in relazione alla questione di Trieste, gli italiani erano stati "fin troppo remissivi" e che riteneva necessaria una soluzione che tenesse conto"dei diritti italiani e della dignità del popolo italiano".(26) Tuttavia "La Voce Repubblicana" si era mostrata più critica nei confronti del governo: "Del nostro ritorno alla zona A- scriveva- nessuno aveva mai dubitato. Nessuno ce l’aveva mai contestato. Le conversazioni ufficiose tra Sforza e gli Iugoslavi vertevano sulla linea etnica, cioè sulle città italiane della zona B, non su Trieste, che nessun iugoslavo responsabile, prima del 7 giugno, contestava all’Italia. Perché De Gasperi, perché Sforza mirarono sempre ad una soluzione globale anche di transizione, ma globale, e non accettarono mai una soluzione di fatto anche provvisoria che lasciasse la zona B alla Iugoslavia? In questo interrogativo è la ragione della nostra perplessità".(27)
Dunque i repubblicani, ma anche i socialisti di Nenni, consideravano un passo indietro la proposta anglo-americana dell’8 ottobre, rispetto alla Dichiarazione Tripartita del ‘48 ed un’implicita rinuncia a Trieste che il governo Pella era stato costretto ad accettare per la sua maggiore debolezza politica rispetto ai governi precedenti. Così non era, sia perché il presidente del Consiglio italiano, gettando sul tappeto la proposta di referendum aveva messo con le spalle al muro Tito che, rifiutando la consultazione popolare, riconosceva implicitamente l’italianità del territorio.(28) Sia perché l’occupazione italiana della zona A, anche se non significava la restituzione dell’intero territorio, poneva l’Italia in una posizione di assoluta parità con la Iugoslavia dalla quale sarebbe stato più facile trattare. Sia, infine, perché la situazione internazionale era enormemente mutata rispetto al periodo del governo De Gasperi. La morte di Stalin, infatti, e il successivo processo di distensione portato avanti dai suoi successori avevano rimescolato le carte in relazione alla posizione internazionale della Iugoslavia. Krusciov e i suoi compagni miravano ad un recupero dell’alleato balcanico che poteva così giocare ora su due tavoli, ricattando sia Mosca che Washington: "La debolezza della nostra posizione nei riguardi di quella di Tito - scriveva l’ambasciatore italiano a Londra Brusio - è permanente. Noi siamo già vincolati dall’Alleanza Atlantica la quale - a questo riguardo - ci lega più che non ci giovi: Tito è ancora libero e può rendersi prezioso."(29) A questo punto gli alleati, soprattutto gli inglesi, dovettero rendersi conto degli errori commessi con le smisurate promesse fatte a Tito subito dopo la fine della guerra. Soprattutto Churchill e Eden, prima ancora che la guerra si concludesse, avevano preso una netta posizione nei confronti di Tito in funzione assolutamente antitaliana.(30) Se gli alleati si erano mostrati accondiscendenti col dittatore iugoslavo prima della sua uscita dal Cominform, diventarono estremamente disponibili dopo e quasi servili, in prospettiva di un suo ritorno nella sfera sovietica dopo la morte di Stalin. Perciò nel luglio del 1953 gli alleati avevano ufficialmente ripreso le conversazioni militari con Tito, persuadendolo così (se ce ne fosse stato realmente bisogno) del valore politico della posta che egli rappresentava sulla scena internazionale e rendendolo più intransigente sulla questione triestina. Lo stesso ambasciatore italiano a Washington Tarchiani, irritato dalle manovre alleate condotte con Tito a discapito degli interessi dell’Italia, osservava che era giunto per noi il momento di scegliere: "[...] estraniarsi dal processo di collaborazione fra i cinque paesi della Nato e la Iugoslavia, ovvero inserirvisi, abbandonando la pregiudiziale relativa a Trieste".(31) La drastica deduzione di Tarchiani riguardo alla convenienza per l’Italia di attenuare la collaborazione con gli occidentali e di revisionare la sua politica estera, era, peraltro, suggerita dai risultati di un colloquio tra il consigliere d’ambasciata a Washington Ortona e il vice segretario aggiunto alla difesa Nagib Halaby, colloquio durante il quale il diplomatico italiano si era sentito dire: "We take you for granted! (vi consideriamo degli alleati scontati) voi non siete dei comunisti da attirare al nostro fianco". Al che l’esterrefatto Ortona aveva risposto che continuando in tal modo non escludeva che gli italiani avrebbero potuto diventarlo.(32) L’irritazione italiana fu pienamente percepita dalla signora Luce che si premurò di mettere in guardia Eisenhower che, peraltro, come lei nutriva viva ammirazione per Pella, il quale, con la sua consueta pacatezza aveva chiaramente messo in evidenza che Trieste costituiva il problema cardine della politica italiana.(33) D’altronde l’enorme importanza che in quel periodo rivestiva la politica estera ai fini della stessa politica interna, è comprovata dal fatto che dal 1947 in poi il presidente del consiglio italiano ricoprì sempre anche il ruolo di ministro degli esteri.
Davanti alle proteste di Tito gli alleati decisero di prendere tempo, tenendo in considerazione la proposta iugoslava di demandare ad una conferenza a quattro la soluzione del problema. Dovevano però nuovamente scontrarsi con la fermezza di Pella il quale dichiarava che avrebbe subordinato a qualsiasi conferenza e trattativa l’ingresso italiano a Trieste e il plebiscito in tutto il territorio: "In ogni caso prima si entra nella zona A e poi si tratta".(34) Il 17 ottobre dichiarò al Senato che non si sarebbe fatto irretire da Tito e che gli alleati non avrebbero avuto a che fare con "l’Italia prostrata del 1945", ma con una nuova Italia "che non dimentica di avere forze sufficienti alla propria difesa", concludendo che un comportamento degli alleati non conforme alla dichiarazione dell’8 ottobre avrebbe comportato le dimissioni di tutto il governo.(35)
Dalle parole ai fatti: il 19 ottobre Pella inviava al confine con la Iugoslavia due divisioni di cui facevano parte i reparti Folgore e Ariete e batterie antiaere sulle due rive dell’Isonzo.
Un atteggiamento veramente insolito per un premier italiano che ci ricorda quasi la spavalderia del Mussolini del ‘38, deciso a fermare l’Aunchluss con l’invio di quattro divisioni sul Brennero; comunque una sfida politica destinata ad essere un episodio unico nella storia della Repubblica italiana.
Ma quali erano le vere intenzioni degli anglo americani riguardo alle effettive conseguenze del Memorandum dell’8 ottobre? Con molta probabilità si auguravano che la loro proposta fatta all’Italia di cedere la zona A avrebbe determinato in Tito una reazione immediata a favore dell’annessione definitiva della zona B. Quell’ingarbugliata situazione avrebbe quindi potuto risolversi senza un loro compromettente intervento diretto.
Il 4 novembre la celebrazione dell’anniversario della vittoria vide in tutta Italia manifestazioni insolitamente solenni. Pella si recò a celebrarlo a Redipuglia, dove lo attendevano centomila persone e dove il gonfalone di Trieste fu fatto sfilare davanti alla folla inneggiante che accomunava nell’applauso il nome di Pella a quello della città giuliana tra le note de Le campane di San Giusto.(36)
Il pellegrinaggio a Redipuglia voleva essere un segnale, ma non una provocazione, tant’è che Pella si astenne dal parlare in pubblico, preferendo tenere il suo discorso ufficiale, più tardi, a Venezia, a Piazza San Marco, davanti a cinquantamila persone: "[…] Non è possibile in questo particolare momento, in questo giorno, pregare nel cimitero di Redipuglia dinanzi ai gonfaloni di Trieste e di molte città italiane senza che il pensiero vada a Trieste e al suo territorio [...] nessuno deve quindi minimamente dubitare della serena fermezza con la quale il governo italiano, senza lasciarsi impressionare dalle altrui minacce o distrarre da vari tentativi di diversione, mantiene le posizioni prese [...] Per Trieste buona guardia. Si amici. Stiatene certi. Per l’Italia e per la sua dignità, per i suoi vitali interessi, questa è la consegna a cui questo governo, ogni governo italiano obbedirà: buona guardia!"(37)
Emergendo da quella artificiale atmosfera di passiva accondiscendenza determinata dalla convergenza, in quel particolare periodo storico, dell’ ecumenismo cattolico, dell’europeismo laico e dell’internazionalismo marxista, Pella riesumava i sentimenti nazionali, definendo Trieste come "la sentinella dell’italianità in quelle lontanissime terre".(38)
Il nuovo corso inaugurato da Pella con il conseguente prestigio derivatone per la nazione, venne riconosciuto, nel successivo dibattito parlamentare, anche dagli esponenti della DC, la cui ala sinistra non era certamente entusiasta dalla svolta politica pelliana che riteneva troppo favorevole alla destra, con il continuo richiamo ai "valori patriottici" ed estremamente pericolosa per l’equilibrio delle alleanze: "Certamente nessuna sottovalutazione da parte mia del successo interno ed internazionale conseguito dal governo, ed in modo particolare da lei, On. Pella. Perché si deve in gran parte alla sua fatica ed al suo personale coraggio (sottolineo questa parola) il successo di questo momento, in questa prima fase dell’azione intrapresa per la restituzione alla madre patria di terre che sotto ogni aspetto le appartengono".(39)
Il riconoscimento dovuto dell’on.Bartole si scontrava, tuttavia, con i malcontenti che cominciavano a serpeggiare nel suo partito. La DC vedeva di malocchio l’appoggio dato a Pella da quasi tutte le forze parlamentari, dagli organi della stampa libera e soprattutto dall’opinione pubblica in generale. In Parlamento anche Saragat si era espresso a favore del governo, dichiarando che fra le tre strade che da sempre si prospettavano ai governanti italiani sul problema in esame - la politica del tutto o niente, quella di qualche cosa a scapito di tutto e infine quella del passo innanzi che avvicina alla meta - Pella aveva scelto la terza, la migliore "[...] che non credo ci allontani dalla realizzazione dei nostri obiettivi nella zona B, ma ci permette di poter negoziare a migliori condizioni".(40)
Anche Nenni assunse una posizione favorevole al governo chiedendo, alla fine del suo intervento parlamentare "di prendere atto della decisione degli anglo americani, ma di chiedere loro un’esplicita accettazione della proposta di plebiscito [...] di portarla davanti a tutto il mondo [...] e di continuare a condizionare la politica estera alla soluzione della questione di Trieste".(41)
Il successo del ragioniere Pella irritava i notabili DC timorosi di avere involontariamente assecondato la nascita di una stella. Lo stesso Nenni nel suo diario riconosceva che la questione di Trieste aveva dato a Pella l’occasione di "superare i limiti del presidente del Consiglio di un Gabinetto d’Affari. Saprà? Vorrà?"(42) Ma vi erano altre preoccupazioni nel partito di maggioranza; per esempio una troppo energica sterzata del governo a destra, con il pericolo che i rigurgiti nazionalisti tanto a lungo repressi, potessero mettere in pericolo la tenuta dell’alleanza atlantica e la protezione americana a cui in gran parte il partito cattolico doveva il clamoroso successo del 18 aprile ‘48. Tale preoccupazione era condivisa anche dal repubblicano Pacciardi che, tuttavia, dinanzi alle minacce di Tito finiva per accantonare ogni critica al comportamento del governo: "Il dado è tratto - dichiarava - Ed ora, qualsiasi opinione si abbia sull’utilità del compromesso, il dovere di tutti gli italiani è di schierarsi compatti contro le minacce, anche militari della Iugoslavia".(43)
Intanto si registravano a Trieste il 3, il 4 e il 5 novembre violenti scontri tra triestini e filo titini che causavano sei morti fra i dimostranti e cinquantasei feriti più o meno gravi. Tali tragici eventi erano stati provocati dall’incauto comportamento della polizia comandata dal generale inglese Winterton che aveva dato ordine di sparare sulla folla, dopo lo scoppio del tumulto causato dal divieto fatto ad un triestino di sfilare con il tricolore per festeggiare l’anniversario della vittoria.
Dopo la pacifica manifestazione di Redipuglia del 4 novembre, infatti, i triestini ritornando in città avevano deciso di festeggiare la ricorrenza improvvisando un pacifico corteo preceduto dal tricolore, ma il generale inglese ordinava ai suoi uomini di strappare il tricolore dalle mani dei manifestanti di caricarli e di disperderli, mentre l’indomani irrazionalmente ordinava di seguire e caricare altri patrioti che si erano rifugiati, per evitare il peggio, nella chiesa di S. Antonio Taumaturgo, violando anche l’intangibilità del tempio, quindi la sparatoria con morti e feriti. Il successivo arrivo di truppe americane, che avevano cercato di correggere l’eccessivo rigore degli inglesi, era sopraggiunto troppo tardi quando ormai la tragedia si era consumata, ma aveva consentito alla folla e ai giornalisti di distinguere fra l’ostilità inglese e la maggiore comprensione degli americani. Quando poi Pella, per testimoniare la solidarietà del popolo italiano ai confratelli triestini, chiese insistentemente di recarsi a Trieste per partecipare ai funerali dei dimostranti uccisi, dovette scontrarsi con un netto rifiuto delle autorità alleate, motivato con il timore che la presenza del capo del governo italiano avrebbe potuto suscitare ulteriori disordini.
L’episodio sdegnò l’opinione pubblica italiana, mentre si moltiplicavano le manifestazioni pro-Trieste e si accentuava la posizione critica del mondo politico e della stampa nei confronti del comportamento alleato.
Tale stato d’animo si rifletteva nelle varie interpellanze parlamentari svolte nella seduta del 17 novembre. Adesso agli elogi a Pella si aggiungeva il biasimo alla politica estera precedentemente condotta. Ammesso che la Dichiarazione tripartita del marzo ‘48 fosse stato un mero espediente elettorale, come sosteneva Togliatti, perché - si domandava il monarchico Delcroix - i precedenti governi non si erano preoccupati di girare a nostro favore, il più presto possibile, quell’assegno a vuoto, prima che la defezione di Tito dal Cominform rendesse gli alleati più cauti nell’eseguire la promessa? "Purtroppo in questi anni si ebbe un’eccessiva fretta di adempiere a tutte le condizioni che ci furono imposte, mentre non se ne ebbe alcuna per esigere il mantenimento delle promesse a noi fatte [...] così ci siamo uniti ai vincitori senza mai uscire dalla condizione di vinti. [ ...] La fretta che si ebbe nel sollecitare l’ingresso nell’alleanza, a cui prima o poi saremmo stati pregati di aderire, fu spiegata con il complesso dell’isolamento, a cui disgraziatamente si aggiunse quello dell’espiazione, dimenticando che la misericordia non fa parte della politica e che i popoli che si umiliano, lungi dall’essere esaltati, sono disprezzati." E concludendo si rivolgeva direttamente al Presidente del Consiglio esortandolo a continuare sulla strada della fermezza per il prestigio di tutto il Paese: "ricordi che i popoli non sono sovvenuti in proporzione ai bisogni che hanno, bensì in misura della considerazione di cui godono".(44)
In tutti gli interventi era stata impietosamente messa in rilievo l’assoluta assenza di vantaggi, se si escludevano quelli meramente economici, che l’Italia, fino a quel momento, aveva tratto dall’appartenenza alla Nato. Probabilmente il fatto che il nostro Paese sembrasse essersi venduto, per la sua sopravvivenza economica, il retaggio di dignità nazionale, sarebbe stato determinante, nel futuro per la scarsa considerazione e per lo scarso peso che esso avrebbe avuto in campo internazionale.
La stessa benevolenza americana in contrasto alla rancorosa ostilità inglese era un argomento che aveva progressivamente perso ogni mordente: "E’ ormai certo che noi subiamo le conseguenze della vendetta inglese - affermava il monarchico Viola - ma [...] che differenza c’è fra un nemico che bastona e un amico che assiste impassibile alla bastonatura? Per mio conto giustifico il nemico che mi bastona e non l’amico che se ne sta con le mani in tasca a guardare [...]se continueremo ad essere umiliati, abbiamo il dovere di prendere determinate precauzioni, specie dinnanzi ai futuri sviluppi del Patto Atlantico, tenendo soprattutto presente che prossimamente verrà in di-scussione alla Camera la ratifica del trattato che riguarda l’esercito europeo".(45)
Dunque i sommessi avvertimenti registrati nel discorso del Campidoglio di Pella e che tanto scalpore avevano destato, erano diventate aperte minacce nei confronti di alleati ritenuti ormai infidi. Ma Viola calcava la mano riferendo i sarcastici giudizi dei principali quotidiani inglesi sull’Italia e il suo popolo; il "Daily Express" scriveva: "Gli italiani hanno sempre disertato, essi tradirono i tedeschi nella 1° guerra mondiale ed hanno cambiato parte nella seconda: aggredirono i francesi dopo la sconfitta francese del 1940, attaccarono i greci e poi dovettero invocare l’intervento tedesco. Ora minacciano gli iugoslavi, i quali, se la guerra dovesse essere combattuta fra le forze armate dei due paesi, scaccerebbero gli italiani da Trieste inseguendoli fino all’estremità della penisola". E il "Daily Mail": "Tito appare più ragionevole di Pella. Quest’uomo non può essere considerato responsabile dei tumulti, ma deve prendersi la sua parte di colpa, perché, egli anziché calmare ha eccitato gli animi per Trieste. Per tutta la durata della crisi, l’atteggiamento del sig. Pella è stato bellicoso e provocatorio, Tito, invece dopo le prime minacce, è diventato conciliativo."
Impossibile tollerare un simile linguaggio da un alleato per colpa del quale, al di là delle sue proprie colpe,l’Italia aveva perso una delle perle del suo territorio- continuava Viola: "Abbiamo perduto l’italianissima Pola e tutto il resto, per colpa degli anglo-americani, ma soprattutto degli inglesi. Tito avrebbe potuto chiedere anche la luna, in un certo momento gliel’avrebbero data" e concludeva: "[…] Ammettiamo che Ella, sig. Presidente, per il suo futuro atteggiamento non riesca a consegnare la zona A all’Italia [...] Ella non perderà per questo nulla del suo prestigio [...] ma Ella avrà difeso la dignità del nostro paese, Ella sarà sempre il degno rappresentante di un’Italia che amiamo.(Applausi a destra). Altrimenti continueremo ad essere tacciati da servi, da individui che si accontentano d’una manciata di dollari o di qualche sacco di grano: individui che non sentono più l’ideale, quell’ideale che fa grande un popolo, [...] che ci impone di rispettare gli altri ma che ci fa rispettare".(46)
Indubbiamente gli inglesi con l’assurdo atteggiamento del loro comandante della polizia civile gen. Winterton, erano i principali colpevoli dei morti di Trieste e paradossalmente invece di scusarsi con l’alleato offeso, ne calpestavano ancora di più l’onore e la dignità diffamandolo sui loro principali organi di stampa. L’antipatia inglese nei confronti dell’Italia era provata dal differente atteggiamento assunto di fronte alle manifestazioni pro-Trieste,organizzate a Belgrado ad opera del regime e le manifestazioni nazionalistiche triestine del 3, 4 e 5 novembre. Nel primo caso, malgrado i manifestanti titini si fossero scagliati con violenza contro l’ambasciata britannica, provocando gravi danni all’edificio, gli inglesi avevano manifestato un atteggiamento di estrema tolleranza; a Trieste invece, Winterton aveva volutamente provocato i disordini con la sua insipienza e a tali disordini aveva reagito sparando sulla folla inerme e scatenandone ulteriormente la furia.
Il nazionalismo represso a cui avevano dato la stura il comportamento degli inglesi e le coraggiose dichiarazioni di Pella che, peraltro, accentuava sempre più la sua linea politica imperniata sulla fermezza, allarmava i partiti più interessati alla politica europea e all’alleanza atlantica come il PRI che con Pacciardi- in un primo momento favorevole alla politica estera di Pella, ma in seguito preoccupato delle conseguenze negative che avrebbe potuto avere sul mantenimento delle alleanze e sulla costruzione di un forte spirito europeistico - si opponeva vigorosamente alla linea governativa e la DC che, appunto, per bocca di un suo esponente, l’on. Manzini metteva in guardia il Parlamento sulle pericolose conseguenze di certi atteggiamenti: "Queste ribellioni noi le comprendiamo; però non vorremmo che attraverso la tragedia triestina, fosse compromessa tutta la visuale del problema politico come si va svolgendo nei suoi termini più obiettivi.. Noi non ci associamo a coloro che anche nelle manifestazioni spontanee, legittime, sacrosante dei sentimenti di italianità nelle piazze e nelle strade d’Italia, hanno fatto sentire troppo evidentemente il desiderio sotterraneo di sfruttare questa sciagurata situazione per spingerla ad estremi politici che non sono né nella logica della situazione, né nell’interesse dell’Italia, né in quello della sicurezza, né in quello della democrazia e della pace. Noi non siamo fra costoro e non accettiamo neppure la critica che è stata fatta qui su tutto lo sviluppo passato della nostra politica, perché pensiamo che fu e rimane l’unica politica [...] conveniente per il popolo italiano [...] se respingessimo da noi l’America e l’Inghilterra quale altra forza ci potrebbe dare Trieste?"(47)
Manzini continuava il suo intervento difendendo la politica estera di De Gasperi e Sforza tacciata dalle destre di immobilismo. L’azione diplomatica del ministro Sforza, anzi, era stata tanto discreta ed abile da ottenere concessioni inaspettate da Tito. Il capovolgimento di posizione espresso dal dittatore iugoslavo nel discorso di Sambasso - secondo Manzini - non era dovuto all’immobilismo e all’acquiescenza della politica italiana, ma ai risultati elettorali del 7 giugno, che, indebolendo la Democrazia Cristiana, avevano generato il sospetto nei dirigenti iugoslavi di trovarsi di fronte ad un’Italia più arrendevole o la convinzione di dovere prevenire il maggiore revanchismo delle destre con una politica più aggressiva.
Era chiaro l’intento del partito di maggioranza di richiamare all’ordine Pella, colpevole di essere uscito dai ranghi col favorire una politica estera più nazionalista e autonoma rispetto agli alleati e col cercare, in tale suo disegno, il sostegno della destra. Tali manovre sotterranee contro Pella venivano percepite perfettamente da alcuni settori del Parlamento: "Io temo le manovre interne più che le pressioni esterne - affermava Delcroix - per indurre il governo [...] ad un ripiegamento che sarebbe una capitolazione e che mentre gli alienerebbe le simpatie del Paese, lo [...] squalificherebbe dinanzi al Parlamento del quale non eseguirebbe l’unanime mandato [...] Ed io rifiutandomi di credere che vi sia qualcuno capace di augurarsi l’umiliazione dell’Italia per vedere il Governo dimettersi, sento nell’aria una certa preoccupazione che si ottenga oggi quello che non fu ottenuto ieri".(48)
La delicatezza di quel momento politico e la sorpresa che per tutti si era rivelato Pella, in contrasto con De Gasperi e Sforza "[...] che avevano inchiodato il paese alla dichiarazione del marzo ‘48",(49) sono ben messi in rilievo nelle pagine del diario di Nenni, quando il leader socialista riferisce dei suoi incontri privati in casa Dugoni con il Presidente del Consiglio che più volte gli aveva espresso la sua stima personale: "Mi dice di aver fatto sapere agli anglo-americani che un rifiuto del plebiscito lo metterebbe nella necessità di proclamare che le basi della politica italiana di adesione al Patto Atlantico sono venute meno e di dimettersi perché il Parlamento esprima una nuova politica e un nuovo governo. E’ un’impostazione che approvo".(50) Lo esortava inoltre a non aggrapparsi al potere, ma di dimettersi in assenza di un’organica maggioranza, poichè l’allontanarsi - come aveva insegnato Giolitti- era il mezzo migliore per farsene una e tornare. Inoltre lo avvertiva: "Si guardi dal gruppo dirigente della DC intento a farle tirare dal fuoco due castagne: Trieste e l’apertura a destra".(51)
A questo riguardo Nenni accenna ad un presunto intrigo dei servizi segreti, di cui aveva avuto notizia, allo scopo di avvicinarlo a Pella e di favorire l’apertura a sinistra. Da tutto ciò il PSI avrebbe tratto grossi vantaggi, primo fra tutti il rientro nel governo; in cambio avrebbe dovuto garantire una completa emancipazione dai comunisti. Sir Ivo Mallet, ambasciatore britannico a Belgrado e notoriamente simpatizzante per le ragioni iugoslave, in un di-spaccio alla sua ambasciata, già in ottobre, accennava alle voci circolanti su un governo nuovo presieduto da Nenni. In tale dispaccio, tuttavia, esprimeva i suoi timori in proposito, poichè riteneva che il governo Pella si fosse enormemente rafforzato all’interno, acquistando prestigio con la sua politica coraggiosa sulla questione triestina e che, dunque, una sua caduta avrebbe potuto portare ad elezioni in cui il tema centrale sarebbe stato Trieste. Tutto ciò, oltre che allontanare l’Italia dalla Nato, avrebbe potuto rappresentare, tramite il probabile rafforzamento delle destre, come reazione politica all’apertura ali socialisti, un pericolo per la democrazia.(52)
Quale lo scopo della manovra, a cui indirettamente accennano Sir Mallet e Nenni, ammettendo che le rivelazioni di quest’ultimo sul coinvolgimento dei servizi segreti corrispondessero a realtà? Sbarazzarsi della sempre più determinante influenza della destra sulla politica ministeriale o eseguire una richiesta americana diretta ad assorbire nell’area governativa il PSI, isolando definitivamente Togliatti? Nell’uno e nell’altro caso la manovra partiva dai democristiani e in un’altra pagina del suo diario Nenni ce lo conferma: "Ho avuto stanotte un lungo incontro privato con Pella [...] dalla conversazione risulta che il dente che gli duole è Trieste. Prima Pacciardi, poi De Gasperi, infine Scelba gli hanno letteralmente tagliato le gambe mettendo l’alleanza atlantica e la CED prima di Trieste. Malgrado ciò egli avrebbe fatto a Parigi il seguente discorso a Foster Dulles e a Eden: "Conoscete il punto di vista del mio partito, io ho però il dovere di dirvi che difficilmente il trattato della CED sarà ratificato dal Parlamento se prima non sarà risolta la questione di Trieste o per lo meno mantenuta ed eseguita la decisione dell’8 ottobre concernente la restituzione all’Italia della zona A".(53)
Si era davanti ad un Prometeo in lotta contro la partitocrazia o semplicemente all’ultimo uomo politico italiano capace di sfidare il proprio partito?
Nell’uno e nell’altro caso il ritorno alla normalità in campo nazionale e internazionale era ormai subordinato alla sua eliminazione dalla scena politica.
La sua fermezza, infatti, in parte anche incoraggiata dai nostri ambienti diplomatici - secondo il De Leonardis -, l’esigenza di tenere per una volta alto il prestigio italiano, determinarono un’impasse diplomatica; egli subordinava la partecipazione a qualsivoglia conferenza internazionale sulla risoluzione del problema triestino, cioè all’esecuzione, anche parziale, della dichiarazione anglo-americana dell’8 ottobre. Rinunziare a tale pregiudiziale significava perdere la faccia, soprattutto all’interno della nazione; per lo stesso motivo Tito non voleva saperne di cedimenti di alcun genere alle ragioni italiane e gli alleati non intendevano perdere l’apertura politica ed economica del dittatore iugoslavo per accontentare l’Italia in ciò che gli inglesi ritenevano poco più di un capriccio. Anzi proprio in quei giorni di febbrili trattative, gli anglo-americani ultimavano le loro conversazioni con Belgrado in relazione agli aiuti economici alla Iugoslavia che sarebbero proseguiti anche nel 1954.(54)
La popolarità acquisita da Pella nel Paese e lo sbandamento a destra della politica italiana, aspetti ambedue messi ben in evidenza da Sir Mallet, preoccupavano i democristiani come De Gasperi e Scelba, il quale il 12 dicembre attaccò violentemente, in Parlamento, il Presidente del Consiglio, giudicandolo non all’altezza della situazione, preparandosi così alla sua successione. De Gasperi, invece, in un articolo sul settimanale democristiano "La discussione", parlando del governo Pella, lo aveva definito governo amico, mettendo così in evidenza la presa di distanze nei suoi confronti da parte del partito e lanciando un segnale agli alleati atlantici.
Il pretesto per le dimissioni, rassegnate da Pella il 5 gennaio del 1954, fu dato da un suo tentativo di rimpasto governativo, ideato per trasformare il suo governo d’affari, in un governo con una salda maggioranza di centro-destra, eliminandone il carattere di provvisorietà. Tale rimpasto aveva come oggetto l’on. Salvatore Aldisio che avrebbe dovuto occupare il dicastero dell’agricoltura. Ma la DC che considerava la scelta di Aldisio come un segnale favorevole alle destre, pose il veto dando inizio ad una prassi assolutamente anticostituzionale, come metterà in rilievo lo stesso presidente della repubblica Einaudi, destinata a perpetuarsi nel tempo facendo dello stato italiano un regime partitocratrico. Con tale divieto la DC, inoltre, liquidava ogni possibilità d’apertura a destra, iniziando un progressivo avvicinamento alla sinistra socialista.(55)
I nemici di Pella vollero la sua fine non perché contrari alla sua politica estera, ma per paura che il nazionalismo da lui risvegliato cambiasse gli equilibri politici interni e isolasse internazionalmente il Paese.
Tarchiani parlando del passaggio dal governo Pella a quello Scelba, sostenuto da De Gasperi e da tutta la DC, avrebbe scritto che nulla era effettivamente cambiato nella politica estera italiana, ci sarebbe stato soltanto "un sensibile abbassamento di toni negli acuti".(56) Infatti mentre Pella aveva fatto della questione di Trieste "la pietra di paragone di tutte le alleanze"57), subordinando alla sua risoluzione la politica atlantica ed europeista, Scelba ne fece una questione europea, convinto, come De Gasperi, che solo rafforzando la sua posizione in seno all’alleanza atlantica e all’Europa, l’Italia avrebbe ottenuto dagli alleati il riconoscimento dei suoi diritti. Seguendo tale linea di condotta sarebbe arrivato al memorandum di Londra del 1954, di cui proprio in questi giorni si celebra il cinquantennale, che non era altro che una spartizione del T.L.T. fra i due contendenti con carattere di definitiva risoluzione della contesa. L’implicita rinunzia italiana all’Istria contenuta in tale accordo sarebbe rimasta segreta fino al 1975 quando, in un momento di assoluto assopimento degli ideali nazionali, grazie al ventennale significativo silenzio mantenuto dai partiti di governo e dai giornali ad essi compiacenti, si poté ufficializzare con il Trattato di Osimo.
Scelba ritenne forse più opportuno rinunziare ad un territorio di soli 70.000 abitanti per lo più sloveni in cambio del mantenimento degli equilibri internazionali; non si può dimenticare tuttavia che con l’aspra e bellissima penisola istriana venivano cedute agli iugoslavi italianissime città come, Capodistria, Pola e Fiume, italiane per popolazione, per lingua, per cultura, per storia e tradizioni, oggi purtroppo quasi completamente slavizzate, porti importanti, ma soprattutto capisaldi ai confini orientali della nostra lingua e della nostra cultura.
NOTE
(1) N. Kogan, Storia politica dell’Italia repubblicana, Bari 1990, pp. 89 e sgg.
(2) Sulla legge truffa cfr. G. Scarpari, La Democrazia Cristiana e le leggi eccezionali, 1950-53, Milano 1977; G. Andreotti, De Gasperi e il suo tempo, Milano 1956; P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna 1977; L.Valiani, L’Italia di De Gasperi (1945-1954), Firenze 1982.
(3) G. Mantovani, Gli eredi di De Gasperi. Iniziativa democratica e i "giovani" al potere, Firenze 1976.
(4) G. Mammarella, Il declino del centrismo e la formazione del governo Scelba in Storia del Parlamento Italiano 1861-1988, vol. XVII, Milano 1991, p. 88; "Il Mondo", 23 agosto 1953.
(5) Ibidem.
(6) P. Nenni, Tempo di guerra fredda, Milano 1981, p. 600.
(7) Sul trattato di pace e la questione di Trieste cfr. G. Vedovato, Il trattato di pace con l’Italia, Firenze1947; D. De Castro, Il problema di Trieste, Bologna 1953; N. Kogan, La politica estera italiana, Milano 1965; N. Kogan, La politica estera della repubblica italiana, Milano 1967; P. Cacace, Vent’anni di politica estera italiana (1943-1963), Roma 1986; G. Valdevit, La questione di Trieste. 1941-1954, Milano 1986; M. De Leonardis, La "diplomazia atlantica" e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954), Napoli 1992.
(8) M. de Leonardis, op. cit.
(9) "Credo che ormai non vi sia più nessuno che non sia convinto che si trattava di una posizione utopistica e assurda, valida soltanto a scopi di politica interna", cosi Togliatti in riferimento alla Dichiarazione Tripartita del 20 marzo 1948, in Atti della Camera dei Deputati- Discussioni, II legislatura, tornata del 9 ottobre 1953, p. 1760. Sull’argomento, cfr.: G. Rossi, Trieste e colonie alla vigilia delle elezioni italiane del 18 aprile 1948, in "Rivista di studi politici internazionali", N. 182, (aprile - giugno1979), pp. 205-31.
(10) Sulla politica estera di De Gasperi cfr. M. De Leonardis, op. cit.; R. Pupo, La questione di Trieste dall’entrata in vigore del Trattato di Pace alle elezioni del 1953, in G. Rossini, De Gasperi e l’età del centrismo (1947-1953), Roma 1984; C. Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi: la politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma 1952; P. Pastorelli, La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna 1987.
(11) G. Mammarella, L’Italia contemporanea, vol. V, Bologna 1985, p. 111.
(12) Pochi giorni dopo la richiesta inascoltata De Gasperi, in occasione del suo trentesimo anniversario di matrimonio, chiese al papa un’udienza che gli venne rifiutata. Cfr: P. Ginsburg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, vol. I, Torino 1989. Pare che De Gasperi così avesse commentato il rifiuto del Papa: Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla, come presidente del consiglio e ministro degli esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e della quale non mi posso spogliare anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere lo stupore per un rifiuto così eccezionale Cfr. M.R. Catti De Gasperi, Uomo solo, Milano 1964, p. 336. Sulla posizione dei Gesuiti cfr.: R. Sani, Da De Gasperi a Fanfani. La Civiltà cattolica e il mondo cattolico italiano nel secondo dopoguerra, 1945-1962, Brescia 1986.
(13) La rivista di padre Gemelli "Vita e Pensiero", ai primi di ottobre del 1953, come reazione allo slittamento del governo Pella verso destra, spingeva la DC ad un’apertura a sinistra. Cfr. "La Stampa", Torino, 8 ottobre 1953.
(14) Sulla politica del Vaticano cfr. D. Settembrin, La chiesa nella politica italiana, Pisa 1964; A. Prandi, Chiesa e politica. La gerarchia e l’impegno dei cattolici italiani, Bologna 1968; S. Magister, La politica vaticana e l’Italia (1943-1978), Roma 1979.
(15) Sulla posizione di detti partiti cfr. A. Varni, Organizzazione politica del PRI dal 1946 al 1984, Bologna 1985; P. Moretti, I due socialismi:la scissione di Palazzo Barberini e la nascita della socialdemocrazia, Milano 1975; A. Ciani, Il partito liberale italiano da Croce a Malagodi, Napoli 1968.
(16) G. Mammarella, L’Italia Contemporanea, cit. pp. 195 e sgg.
(17) Mussolini considerava De Gasperi un uomo malato di stitichezza intellettuale. Cfr. B. Mussolini, Il "vilissimo mestiere", da "Il Popolo", n. 2715, 29 maggio 1909; G. Pini, D. Susmel, Mussolini l’uomo e l’opera, Firenze 1953,vol. I; G. Tricoli Benito Mussolini L’uomo- Il rivoluzionario- Lo statista-e la sua formazione ideologica, Roma 1996, p. 124.
(18) M. Se Leonardis, op. cit., pp. 283-284.
(19) G. Mammarella, op. cit., pp. 194 e sgg.
(20) La richiesta di Pella avrebbe avuto delle ripercussioni immediate sia a Vienna che in Alto Adige. I deputati altoatesini Ebner e Guggemberg intervennero nel dibattito alla Camera sulla politica estera, il 30 settembre e il 6 ottobre, chiedendo che il principio di autodeterminazione invocato per Trieste fosse applicato anche alla popolazione altoatesina a cui era stato negato fin dal 1919. Qualche giorno dopo fu il governo austriaco a presentare la stessa richiesta ai governi americano, inglese e francese, dimostrando così che, malgrado gli accordi del 1946, Vienna non aveva ancora rinunciato ad una revisione dei suoi confini con l’Italia. Cfr. M. Toscano, Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Bari 1968, pp. 477-478.
(21) "Giornale di Sicilia" 14 e 15 settembre 1953; "La Stampa", 14 settembre 1953 e 8 ottobre 1953.
(22) M. Romana Catti De Gasperi, De Gasperi scrive, Brescia 1974, vol. I pp. 240-241.
(23) E. Ortona, op. cit., II, p. 47.
(24) "La Stampa", Torino 9 ottobre 1953.
(25) Atti -Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni,Tornata del 19 ottobre 1953, pag. 1760; P. Nenni, Tempo di guerra fredda, cit. pp. 590 e sgg.; E. Santarelli, Pietro Nenni, Torino 1988.
(26) "Giornale di Sicilia" 13 settembre 1953
(27) "La Stampa", Torino 10 ottobre 1953.
(28) Luigi Salvatorelli, Una buona base, da "La Stampa", Torino 10 ottobre 1953.
(29) M. De Leonardis, op. cit. p. 274. D’altronde l’importanza che in quei momenti rivestiva la politica estera nel contesto della politica interna italiana era comprovato.
(30) P. Buscaroli, Il regno del terrore slavo, da "Il Giornale", 14 maggio 1995.
(31) M. De Leonardis, op. cit. p. 271.
(32) E. Ortona, Anni d’America, vol. II, La diplomazia 1953-1961, Bologna 1986, p. 35.
(33) Ivi, p. 296.
(34) "La Stampa", Torino, 17 ottobre 1953.
(35) Ivi, 18 ottobre 1953.
(36) Ivi, 5 novembre 1953.
(37) Ibidem.
(38) Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Tornata del 9 ottobre 1953, p. 1754.
(39) Ivi, p. 1755.
(40 Ivi, p. 1756.
(41) Ivi, p. 1760; P. Nenni, op. cit., pp. 592 e sgg.
(42) P. Nenni, Tempo di guerra fredda, op. cit. p. 590.
(43) "La Stampa", Torino, 13 ottobre 1953.
(44) Atti Parlamentari, Discussioni della Camera dei deputati, tornata del 17 novembre 1953, pp. 3727 e sgg.
(45) Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, tornata del 17 novembre 1953, pag. 3743.
(46) Ivi, pp. 3743 - 3744.
(47) Ivi, pp. 3745, 3748 e sgg.
(48) Ivi, p. 3732.
(49) P. Nenni, Tempo di guerra fredda, cit., p. 590.
(50) Ivi, p. 591.
(51) Ivi, p. 594.
(52) M. De Leonardis, op. cit., pp. 330-331
(53) Ivi, p. 599.
(54) A. Tarchiani, Dieci anni tra Roma e Washington, Milano 1955.
(55) Facendo un bilancio del governo Pella, così scriveva su "Il Mondo" del 26 gennaio 1954, il giornalista Nicolò Carandini: "Nella breve fase del suo essere e declinare al governo, egli ha indubbiamente smosso e trascinato con sé molte cose che giacevano ed erano custodite in inerzia, ha provocato strappi rivelatori in alcune situazioni ambigue, ha affrettato i tempi là dove abili pause erano predisposte, ha disturbato progetti, ha destato e distrutto aspettazioni di ogni genere, tutti tentando e tutti mettendo alla prova".
(56) A. Tarchiani, op. cit., p. 299.
(57) M. de Leonardis, op. cit., p. 399.