NOTE E DISCUSSIONI LA DESTRA GIOVANILE ITALIANA NEGLI ULTIMI SESSANT’ANNI: DAL GHETTO ALL’INTEGRAZIONE POLITICA di Gabriella Portalone

Leggendo il libro scritto a quattro mani dai giornalisti Luciano Lanna e Filippo Rossi, Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra (Firenze, Ed. Vallecchi, 2003), si ha immediatamente la percezione di trovarsi davanti a qualcosa di diverso che ci suscita autentica curiosità, grazie alla quale si leggono tutte d’un fiato le sue oltre 500 pagine che sembrano dettate, più dalla necessità di razionalizzare sentimenti e sensazioni, che dalla voglia di esplicare e catalogare una serie di concetti e di categorie politico-ideologiche.

 

Gli stessi autori premettono che non si tratta di un lavoro mirante a ricostruire la storia del movimento post-fascista italiano o degli ambienti nostalgici del ventennio o dell’impalcatura ideologica che darà vita alla nuova destra degli anni novanta, la cosiddetta destra di governo. L’obiettivo di Lanna e Rossi, cresciuti negli ambienti culturali della giovane destra, è molto più ambizioso ed intrigante, poiché consiste nel "ricostruire un quadro d’insieme – giornalistico, esistenziale, antropologico, psicologico e di storia della mentalità – del mondo che può essere definito, in assenza di una categoria unificante e accettata da tutti, del ‘fascismo immaginario’. Un universo mentale […] che assume la forma di una dimensione immaginaria che, a sua volta, deriva da un intreccio complesso di impatti emotivi, percezioni esistenziali, percorsi iconologici, suggestioni letterarie e vissuto generazionale" (p. 14).

 

Definire tout court fascista la destra facente capo al vecchio MSI o al vecchio FUAN, può anche apparire limitativo, visto che il termine fascista, dal dopoguerra ai nostri giorni, ha assunto vari e spesso contrapposti significati a secondo del soggetto che ne ha fatto uso e dell’oggetto di riferimento. Così per i comunisti e comunque per la sinistra, tutti coloro che si ponevano a destra della DC e tutte le frange più conservatrici del partito cattolico, venivano genericamente accomunate in tale termine dispregiativo, appunto, fascista. Ma, d’altra parte, erano invece definiti fascisti dalla destra liberale italiana, proprio i comunisti e tutti coloro che si riconoscevano nel sistema sovietico stalinista. Erano squadristi fascisti i giovani contestatori per i poliziotti chiamati a sedarne gli ardori, ma erano fascisti i poliziotti e i militari in genere, per gli studenti protagonisti della rivoluzione culturale sessantottina. Era definito fascista l’autoritarismo di certi genitori all’antica, in verità una vera e propria specie in estinzione, o la scuola selettiva e nozionistica, il giovanilismo, l’intolleranza, il razzismo, cadendo, così, troppo spesso in luoghi comuni assolutamente privi di ogni razionale fondamento. Ma è stato anche definito fascista tutto ciò che non rientrava nei gusti, nelle abitudini e negli atteggiamenti della cosiddetta sinistra radical chic, anche se non si poteva certamente collocare in determinate categorie ideologiche e politiche. Per cui fascisti sono stati considerati i western all’italiana di Sergio Leone, le canzoni di Lucio Battisti, i fumetti di Corto Maltese e di Asterix, l’esoterismo, i monologhi, a volte farneticanti, di Carmelo Bene, i pariolini, i tifosi della Lazio, i libri dell’Adelphi, fino ad arrivare alla stessa figura di papa Giovanni Paolo II per il suo tradizionalismo e per le sue invettive contro il comunismo, visto come male assoluto.

 

Se per alcune di queste categorie potrebbe anche esistere una giustificazione pseudo- ideologica, che tratteremo in seguito, per altri la catalogazione nel concetto di fascismo è certamente pretestuosa e voluta dai detrattori di certi movimenti o di certe tendenze culturali come, per esempio, Comunione e Liberazione o Indro Montanelli o lo stesso papa Woityla, tutti elementi di disturbo per la cultura e la propaganda di sinistra e quindi automaticamente fascisti.

 

Dal punto di vista eminentemente politico, di fatto, il post-fascismo ha impedito che in Italia si costituisse e si affermasse una vera destra. Questo essenzialmente per due motivi: innanzitutto la paura di essere classificati come fascisti, in una società divisa in maniera ridicolamente e rigorosamente manicheista tra fascisti e antifascisti, ha sconsigliato a molti, imprenditori, intellettuali conservatori, rappresentanti dei poteri forti, di qualificarsi di destra; in secondo luogo la destra post-fascista aveva connotati che poco avevano a che fare con la destra vera e propria ideologicamente intesa, se non il patriottismo e l’anticomunismo. In verità erano più numerosi i principi vicini alla categoria politica della sinistra, come la difesa dei deboli, la compartecipazione operaia, lo stato sociale, la solidarietà, la diffidenza verso il capitalismo ecc. Ciò spiega perché un protagonista della svolta politica egiziana in senso nazional- socialista come Nasser, inviava in Italia i suoi esperti per studiare il corporativismo fascista, come spiega, del resto, il fascino esercitato dal carattere sociale del fascismo in un populista come l’argentino Peron o nel premier pakistano Buttho che confessò di avere avuto due maestri, ambedue italiani, Machiavelli e Mussolini, l’uno per l’arte politica e l’altro per il welfare, mentre lo Scia di Persia Reza Palhevi, nel suo sforzo per modernizzare l’Iran, si rifaceva a concetti del primo e dell’ultimo fascismo, come la compartecipazione operaia, e proprio per questo dava incarico al filosofo di destra, discepolo di Giovanni Gentile, Ugo Spirito di scrivere un testo che avrebbe dovuto essere alla base della sua politica sociale: La rivoluzione dell’Iran. Del resto, la famosa ambasciatrice americana a Roma, negli anni dell’immediato dopoguerra, Clara Boothe Luce, riconosceva che il new deal di Roosevelt si rifaceva in gran parte alla politica sociale del fascismo. Per non parlare, poi, dei cosiddetti fascisti di sinistra, aderenti ai gruppi che avevano come punti di riferimento L’orologio, rivista fondata nel 1963 a Roma da Luciano Lucci Chiarissi, il trimestrale Azimut della Federazione nazionale combattenti della RSI e il foglio giovanile Controcorrente, fondato da Romolo Giuliana e Principio Federico Altomonte. Questi contestavano, addirittura, la politica filo-atlantica e l’occidentalismo del governo italiano, parteggiando per gli arabi contro gli israeliani, per i vietcong contro gli americani, elevando a propria icona De Gaulle, capace di essersi posto contro l’imperialismo della Nato, condannavano i colonnelli greci e il falangismo capitalista e clericale del Generalissimo Franco e il colonialismo e il razzismo del regime portoghese.

 

Ma era proprio l’essere identificati nell’MSI, nei sostenitori dei vecchi "repubblichini fascisti", come Tremaglia, Almirante, Romualdi, a determinare l’isolamento della gioventù di destra. La prova fu data dai fatti di Valle Giulia, il 1 marzo del 1968; in quell’occasione erano stati proprio i giovani del FUAN a cavalcare la protesta studentesca sessantottina, scagliandosi in una vera e propria battaglia contro la polizia, mentre i giovani di sinistra assistevano increduli al pestaggio. Ma bastò che il 16 marzo un gruppo di missini, guidati da Almirante, facesse irruzione alla Sapienza, con il pretesto di liberare l’Università dai rossi, per accontentare quella parte dell’opinione pubblica conservatrice che temeva il degenerare della protesta studentesca, per far sì che il movimento universitario sessantottino, che nella destra era nato e si era sviluppato come movimento di rinnovamento e di ribellione contro un mondo politico e culturale ritenuto bacato e corrotto, divenisse per sempre patrimonio e monopolio della sinistra.

 

Per tutti questi motivi la cosiddetta destra economica si definì di centro, e la destra italiana fu identificata con i post-fascisti e fu emarginata dal resto dell’intellighenzia nazionale, in un ghetto le cui chiavi erano nelle mani degli effettivi detentori del potere che di essa si servivano solo nei momenti di effettivo bisogno (vedi governo Tambroni, elezione di Segni e di Leone alla presidenza della Repubblica, operazione Milazzo in Sicilia).

 

In questo ambiente si formava la gioventù di destra che, solo in parte, si riconosceva nel FUAN o in altre organizzazioni di partito, ma che era motivata da spinte ideologiche e psicologiche eterogenee, a seconda dagli ambienti sociali e familiari di provenienza e poi, a seconda degli eventi politici. Perciò la prima gioventù di destra, quella sorta dalle ceneri della guerra civile, era mossa da diverse motivazioni, tutte però riconducibili al più recente passato. C’era chi, come Tremaglia, Pisanò, Albertazzi si sentiva legato alla scelta già fatta quando aveva aderito, contro ogni motivazione razionale, mosso solo dal sentimento, alla Repubblica di Salò di un Mussolini già consegnato alla fine, ma per questo più determinato che mai a lasciare ai suoi giovani seguaci un testamento politico tutto fondato sugli ideali sociali del primo fascismo, del sansepolcrismo. Ma c’era anche chi, nauseato dagli innumerevoli e vergognosi voltafaccia, sceglieva di stare con chi aveva il coraggio di sbandierare le proprie idee, anche se erano le idee dei vinti. Ci fu, poi, chi si collocò a destra per tradizione di famiglia, i figli dei fascisti più intransigenti, per esempio, dei combattenti di Salò, dei perseguitati dai partigiani, delle vittime della barbarie comunista del dopoguerra, degli esuli istriani e delle vittime delle foibe; ma ci fu anche chi vide nella scelta del ghetto una scelta anticonformista, una forma di ribellione portata all’esasperazione, o, al contrario, un atteggiamento tradizionalista, una fuga dalla realtà e una ricerca di un mondo perduto o irrealizzabile, capace, tuttavia, di placare tempeste interiori e smarrimenti ideologici.

 

Un cantante come Enrico Ruggeri, per esempio, si sentì portato naturalmente verso la destra per protesta contro una cultura marxista che veniva imposta, dalla scuola innanzitutto: "Aberranti lezioni di filosofia: sei mesi su Marx e nemmeno una lezione su Nietzsche e Schopenauer. In Italiano niente D’Annunzio e poco Leopardi e Foscolo, ma ore e ore su Gramsci" (p. 83). Mentre il leader attuale della destra italiana, il vice premier Gianfranco Fini, pur provenendo da una famiglia rimasta fedele a Mussolini durante gli anni della Repubblica di Salò, fece la sua scelta politica in seguito al boicottaggio violento esercitato dalla sinistra universitaria bolognese contro il film filo-americano Berretti verdi, in un momento in cui appariva politicamente scorretto schierarsi contro i vietcong e a favore dell’intervento statunitense nel sud est asiatico.

 

I primi a comprendere la necessità di contrapporre all’imperante cultura gramsciana una cultura di destra, furono i fondatori della casa editrice Adelphi, nata nel 1962 in un’ Italia che era editorialmente divisa tra l’Einaudi e la Laterza che, in maniera più o meno estrema, si erano adattate al nuovo andazzo culturale. Il disegno di lanciare una cultura di destra, tuttavia, si scontrava contro una serie di ostacoli posti dalla intellighenzia dominante e dal regime politico; sarebbe stato assurdo, infatti, riproporre libri scritti nel ventennio, seppur da grandi pensatori o storici come Gentile, Volpe o lo stesso Mussolini, poiché inevitabilmente si sarebbe stati tacciati di fascismo. Si scelse, quindi, di diffondere alcuni autori, certamente non catalogabili fra i miti della sinistra, come Nietzsche, Tolkien, Heidegger, Celine, Milan Kundera, ecc. che rappresentavano per la gioventù di destra la fuga dal materialismo marxista, il rifugio in un mondo fantastico, come valenza rivoluzionaria della fantasia, o nel mito del superuomo di Nietzsche, come rivolta contro la quotidianità, capaci di dare a chi non si riconosceva nel presente, la possibilità di rifugiarsi nell’irrazionale e trovare in esso la spinta per una lotta interiore che sarebbe culminata nella ricerca di un mondo nuovo. Il fascino esercitato dall’irrazionale e dalla fuga dalla realtà, portò in alcune frange della destra giovanile l’accondiscendenza verso le droghe, come rifugio nello spiritualismo ed evasione dal mondo del materialismo e come trasgressione, alla maniera di Drieu La Rochelle, altro mito di questi giovani sognatori, che scriveva: "i drogati sono i mistici di un’epoca materialista"(p. 105)

 

La giovane destra degli anni sessanta, dopo la definitiva ghettizzazione politica segnata dal caso Tambroni, cominciò a coltivare il mito dei vinti e degli emarginati, come, per esempio, gli indiani d’America, etnia calpestata nelle lingua e nelle tradizioni e strappata dal suo territorio naturale dall’imperialismo yankee. Il mito dei pellirossa, di Alce nero, di Cavallo Pazzo, di Geronimo (ci spieghiamo così l’imposizione di tale nome, a dir poco inconsueto, da parte di Ignazio La Russa al suo primo figlio) che imperversò in quegli ambienti soprattutto negli anni settanta, - anni in cui si produssero grandi film sull’argomento, come Piccolo grande uomo con Dustin Hoffman, Un uomo chiamato cavallo con Richard Harris, anni in cui un divo come Marlon Brando per protesta contro il genocidio pellirossa, faceva ritirare l’Oscar da lui ottenuto per l’interpretazione de Il Padrino, da una donna indiana -, rappresentava per quei giovani l’esaltazione del perdente, della tradizione contro la massificazione o peggio contro la globalizzazione, di cui oggi tanto si parla, ma già da allora imposta dall’opulento sistema americano. Chiaramente i giovani di destra trovavano nel mito dei pellirossa la trasfigurazione ideale del ghetto ideologico e politico in cui erano stati emarginati.

 

Il mito del perdente coniugato a quello dell’eroe combattente per un ideale al di fuori dei canoni dell’utilitarismo e del carrierismo politico e intrecciato al mito del superuomo costantemente presente nel giovane idealista della destra romantica degli anni settanta, portatore dei principi del volontarismo politico e dell’individualismo da contrapporre all’ineluttabilità storica propria del marxismo, portò a far sì che nell’immaginario collettivo della gioventù di destra si radicasse la figura eroica di Ernesto Che Guevara. Pur avendo egli combattuto per l’instaurazione di un regime a Cuba che sarebbe stato destinato a divenire l’avamposto del sistema sovietico nel mondo occidentale, il medico argentino, morto a soli trentanove anni, durante una delle sue tante campagne militari portate avanti per la difesa dei più deboli, venne visto da quei giovani, non come il braccio militare del castrismo comunista, ma come l’eroe disposto al sacrificio supremo pur di tutelare l’autonomia politica ed economica dei popoli centro americani dall’imperialismo USA, il combattente per antonomasia, pronto a prestare il suo braccio per ogni buona causa, ancora pregno di idealismo in una società ormai quasi totalmente dominata dall’utilitarismo capitalista e dal materialismo marxista, immagine della purezza rivoluzionaria e del fascino esercitato dalla nobiltà della sconfitta, piccolo cavaliere errante del ventesimo secolo (p. 92). Così si spiega anche il culto del Che esistente in ambienti militari (chi non ricorda il suo poster, assieme alla fotografia di Falcone e Borsellino, fra i tesori più cari del capitano Ultimo, immortalato dai recenti sceneggiati televisivi?), tradizionalmente ben lontani dalla sinistra internazionalista ed antimilitarista. Paradossalmente la sinistra giovanile, che del Che aveva già fatto la sua icona come combattente per la diffusione del marxismo nel continente americano, fu costretta, suo malgrado, a far propri alcuni canoni estetici fino ad allora esclusivo appannaggio delle destre, cioè l’abbigliamento di tipo militare.

 

L’America, peraltro, che aveva avuto con il fascismo, fino allo scoppio della guerra, un innegabile feeling, determinato, colà, anche dall’ammirazione popolare per la trasvolata di Balbo (ricordiamoci che esiste a Chicago, tuttora, la General Balbo Avenue), dal fascino esercitato dalla personalità di Mussolini (nel 1934 una popolarissima canzone americana aveva il seguente refrain: "Siete in cima/ siete Musso-li-ni/ Siete in cima/ siete Musso-li-ni" e in Italia, dalla esaltazione portata avanti dalla propaganda di regime di quel popolo giovane, immagine tanto cara al fascismo che sulla rivoluzione giovanile e sulla nascita dell’Homo novus basava la sua filosofia, aveva assunto, dopo la guerra, agli occhi della giovane destra il ruolo dell’invasore imperialista, del distruttore dell’italianità tanto coltivata dal ventennio, del portabandiera dell’omologazione consumistica. Colui che più di ogni altro visse la tragedia del cambiamento dell’immagine americana, avvenuto in seguito ai tragici eventi bellici, fu Ezra Pound, fascista, ammiratore di Mussolini e dell’Europa, ma americano dalla testa ai piedi, che nei suoi Cantos celebrò, appunto, l’epopea dell’America delle origini, del giovane popolo coraggioso, puritano ed idealista che aveva inventato la democrazia. Questo poeta sognatore, incompreso dai suoi connazionali, tanto da subire la reclusione per molti anni in un manicomio americano, divenne un’icona della giovane destra italiana.

 

Il mito dei vinti, ma che coraggiosamente avevano combattuto per le loro tradizioni e che perciò erano stati emarginati, portava di conseguenza anche all’esaltazione della Vandea, a cui molto, anche troppo, contribuirono le opere di Julius Evola, e alla demonizzazione della Rivoluzione Francese, culla di quel razionalismo esasperato che avrebbe portato ad un egualitarismo innaturale, a quella massificazione contro cui si scagliava, appunto, l’unicum di Stirner. Quest’ultimo pensatore, con la sua teoria della fuga dal conformismo e dell’elevazione individuale ed interiore, contribuì certamente a far sì che molti artisti o pensatori catalogabili o catalogati a destra, come Carmelo Bene, De André, si definissero anarchici. L’anarchismo individuale era mosso certamente da una visione aristocratica della vita che portava conseguentemente un disprezzo per la massa e la democrazia. Era ciò che si era verificato alla fine dell’Ottocento e che aveva determinato la crisi dell’ortodossia marxista da cui erano nate le eresie come il sindacalismo soreliano e anche il fascismo e che faceva affermare ad un irregolare come Carmelo Bene: "La democrazia è ripugnante. Disprezza le masse, ma le vezzeggia perché votano e portano voti. Non c’è nulla che mi dia il panico quanto la massa. Egalité, Liberté, Fraternité, le tre somme bestialità becerate nella presa della Bastiglia" (p. 81).

 

Tuttavia, alla fine degli anni sessanta la destra volle uscire dal suo cliché di popolo nostalgico, piagnone e masochista, inventando, appunto, una sua satira destinata ad avere un imprevedibile successo, che ebbe il suo precursore nel gruppo del Bagaglino con Pingitore, Lionello, Caruso. Il far ridere rappresentava un ulteriore modo di distinguersi dalla sinistra perennemente arrabbiata, a cui Oreste Lionello proprio con le seguenti parole si riferiva: "La destra è ridente, la sinistra piagnona, la destra è ottimista, la sinistra cupa. La destra proiettata verso il futuro, la sinistra ripiegata sul passato". Ed ancora: "Per far ridere la sinistra è costretta a mettersi una maschera. Perché il suo umorismo non esiste, è solo invettiva. Non sa strappare un sorriso: sa solo offendere" (p. 54).

 

Il mito della riscossa cominciò, pian piano, a farsi strada in gran parte della destra esplicitandosi nel motto Boia chi molla! reso popolarissimo dalla rivolta di Reggio Calabria del 1970 e dal suo protagonista Ciccio Franco, ma già lanciato dal fascista ferrarese Roberto Mieville durante la sua prigionia in un campo di concentramento americano. Era un grido revanchista, un incitamento alla lotta senza fine, il grido di guerra per la fuga dal ghetto e la riconquista del campo d’azione all’interno della società italiana, il segnale di quella che Almirante chiamò la primavera dei vinti.

 

L’integrazione avvenne non solo attivando una propaganda che si fondava sulla vendita di libri, dischi, riviste cassette musicali che miravano a rompere l’immagine truce e militarizzata che aveva, fino ad allora, contraddistinto la giovane destra nelle città, ma anche facendo proprio un patrimonio musicale che fino a quel momento era stato monopolio della sinistra: Gaber, De André, Guccini e lo stesso De Gregori, la cui canzone Viva L’Italia, con grande suo disappunto, venne scelta come sigla di una tribuna politica autogestita dal MSI, in Rai, nel 1979.

 

L’evento che segnò una svolta nell’atteggiamento della società civile verso la destra e che non per nulla avvenne negli anni del craxismo, esattamente nel 1987, fu costituito da una trasmissione televisiva, trasmessa da Rai 2, di cui fu coautore il giornalista Giampiero Mughini, allora di simpatie socialiste. Per la prima volta nella storia della Repubblica si dava a tre milioni di telespettatori, la possibilità di conoscere da vicino, attraverso tutta una serie di intelligenti interviste, il mondo della destra giovanile, fino ad allora non solo emarginato dalla diffidenza generale, ma soprattutto dalla ignoranza generale. Racconterà in seguito Mughini: "[…] La reazione più interessante fu quella di un montatore della trasmissione, un ragazzone romano figlio del movimento del ’77. Quando […] gli spiegammo che avremmo parlato dei giovani di destra senza odio, facendo delle domande e ascoltando le loro risposte, si rabbuiò immensamente e per un certo tempo non ci rivolse più la parola. Ma vedevo che seguiva attentissimo il materiale che andavamo montando […] il figlio del ’77 finalmente capiva, adesso riconosceva quei ragazzi come suoi simili e non come belve da braccare. Quando montammo un pezzo di Radio Popolare dove interveniva un ascoltatore a gridare I fascisti bisogna ammazzarli tutti", il ragazzone del ’77 balzò in piedi e gridò: "Mascalzone!" Quando finimmo il lavoro ci abbracciammo, lui ringraziando me e William d’avergli insegnato nuovi criteri con cui vedere la realtà della sua generazione" (pp. 332-333). Da allora si cominciò timidamente a parlare di destra nei vari strumenti massmediatici; Massimo Cacciari procedette ad una sua personale riscoperta dei pensatori di destra, mentre coraggiosi giornalisti come Massimo Fini, Pierluigi Battista, Paolo Mieli ed Ernesto Galli della Loggia, furono i pionieri, nella loro nuova rivista mensile Pagina, del dialogo con la giovane destra. Ma fu soprattutto Craxi a favorire l’uscita della destra dal ghetto; nel 1983, durante le consultazioni per la formazione del nuovo governo da lui presieduto, intrattenne il leader del MSI Almirante per più di un’ora, al di là dei limiti di tempo e di contenuto propriamente istituzionali. Dichiarò che non aveva mai approvato la formula dell’arco istituzionale e che si aspettava una costruttiva opposizione dalla destra parlamentare, confidando forse, su quel suo carattere sociale, che il segretario socialista aveva intuito persistere nella mentalità missina. Iniziò un fiorire di incontri, di mostre, di convegni e di pubblicazioni, in cui la cultura socialista e quella missina si incontravano su terreni comuni. Già nella primavera del 1982 il sindaco socialista di Milano Tognoli aveva organizzato un imponente mostra al Palazzo Reale, dal significativo titolo Anni Trenta. Arte e cultura in Italia, curata da Giordano Bruno Guerri; l’anno seguente Giano Accame organizzava a Roma un dibattito a cui partecipavano Rutelli, il senatore socialista Antonio Landolfi, i giornalisti di destra Luciano Lucci Chiarissi e Pacifico D’Eramo, lo scrittore vicino al socialismo di Salò Enrico Landolfi, e il parlamentare missino Beppe Niccolai. Sempre nello stesso anno il giornalista Marcello Veneziani, pubblicava un libro, Socialismo e Nazione, in cui lo scrittore Enrico Landolfi si confrontava con un altro rappresentante della giovane destra, Franz Maria D’Asaro. L’anno successivo Maurizio Cabona e Stenio Solinas, vicini alla destra, curavano il libro C’eravamo tanto a®mati, tra i cui autori c’erano intellettuali di destra e di sinistra come Massimo Cacciari, Oliviero Beha, Giordano Bruno Guerri, Massimo Fini, Francesco Guccini, Enrico Nistri, ecc. Perciò, Sergio Caputo poteva affermare che, verso la metà degli anni ’80 il peggio sembrava essere passato e la destra sembrava aver conquistato quella legittimità che le era stata prepotentemente negata, legittimità che si sarebbe imposta con autorità dopo la caduta del muro di Berlino e la diffusione della storiografia revisionista di cui precursore era stato l’indimenticabile Renzo De Felice.

 

Malgrado la rabbia che tale corrente storiografica procurava agli storici della "vulgata marxista", i quali impunemente accusavano De Felice e la sua scuola di negazionismo, il nuovo modo di interpretare il passato, tutto fondato sull’esame dei documenti e alieno, per quanto fosse possibile, dai preconcetti ideologici e dai luoghi comuni, finì per affascinare, tuttavia, anche parte della sinistra. Non si spiegherebbe altrimenti la canzone di De Gregori del 2000, Il cuoco di Salò, in cui il cantautore marxista cantava: "Qui si fa l’Italia e si muore/ dalla parte sbagliata/ in una grande giornata si muore/ in una bella giornata di sole/ dalla parte sbagliata si muore" Era un modo, questo, per riconoscere l’esattezza di quanto il tanto bistrattato De Felice aveva già ampiamente dimostrato, cioè che anche a destra si era combattuto per vero patriottismo, per un ideale, che pur essendo destinato alla sconfitta, infiammava i cuori di tanti giovani delusi da un’Italia che sembrava ormai votata al voltafaccia e al tradimento, ma che era pur sempre la loro patria. Nel partecipare ad un convegno ad Arezzo sulla comunicazione storica, l’anno seguente, lo stesso cantautore giustificava lo spirito della sua canzone affermando: "[…] La storia è un lavoro in corso, non si possono dare verità acquisite. E’ chiaro che la storiografia del dopoguerra […] suggeriva o imponeva una scrittura di quel periodo in un certo senso. Oggi possiamo vedere le cose con più distacco e, quindi, conoscere anche le motivazioni forti, a volte oneste, di molti che erano a Salò" (p. 397).

 

Una ancor più eclatante rivisitazione della storia di Salò fu fatta da Luciano Violante, nel 1996, in occasione del suo discorso di insediamento come Presidente della Camera dei deputati della nuova legislatura: "Bisogna sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze quando tutto era perduto si schierarono dalla parte di Salò" ( p. 398 ) Il neo presidente della Camera, peraltro, era il primo a riconoscere l’esistenza, nello scalcinato esercito della RSI, del fenomeno del volontarismo femminile; 4.500 ragazze si erano arruolate nel servizio ausiliare femminile, fondato e comandato da Piera Gatteschi, l’unica donna della storia militare italiana ad essere stata insignita del grado di generale di brigata.

 

Sulla scia di Violante i riconoscimenti ai giovani di Salò cominciarono a fioccare con grande soddisfazione degli esponenti di Alleanza Nazionale e soprattutto di chi, fra questi, poteva riconoscersi in quei giovani idealisti combattenti, come Mirko Tremaglia. Lo stesso Ciampi riconobbe la buona fede e il patriottismo di quei giovani, fino a quel momento ostracizzati dalla cultura ufficiale, se non per essere ricordati come sostenitori della barbarie nazista. In tale nuovo clima nasceranno i due libri "scandalo" di Gian Paolo Pansa, I Figli dell’Aquila, un romanzo sui giovani combattenti della RSI e, soprattutto, il recentissimo Il sangue dei vinti, storia documentata degli eccidi perpetrati dai partigiani comunisti, nel dopoguerra, su chi aveva avuto il torto di combattere o semplicemente di credere nella parte sconfitta e il cui eroico idealismo era già stato compreso da un poeta, che la cultura di sinistra aveva già catalogato tra i suoi adepti, parlo di Cesare Pavese, nel suo romanzo Tiro al piccione, che aveva magistralmente celebrato quei "soldati bambini", ricchi solo di coraggio, di incoscienza e urlanti strafottenti canzoni di guerra, ma anche canzoni dell’epopea risorgimentale, come l’Inno di Mameli, intuendo che sarebbe stato l’inno adatto alla nuova Italia repubblicana. Sarebbero occorsi, tuttavia, ancora, cinquant’anni, perché si potesse riconoscere che quei giovani arruolatisi per perdere la guerra a modo loro, come dichiarò uno di essi, Mario Gandini, avevano costituito "il più imponente fenomeno di volontarismo della storia dell’Italia moderna, quantitativamente superiore alla stessa epopea garibaldina"(p. 403)

 

Alla fine di questa intrigante lettura non possiamo non tornare alla premessa fatta dagli autori, il libro non voleva essere una storia della destra post-fascista italiana, ma in effetti lo è. E’ una storia raccontata sul filo delle esperienze giovanili degli ultimi cinquant’anni di vita politica nazionale, sulla scia di miti, impressioni, sensazioni, spesso contraddittorie, che, tuttavia, caratterizzano una parte consistente della gioventù italiana, quella che ebbe il coraggio di stare all’opposizione, di subire l’emarginazione, gli insulti di chi la riteneva legata ad un passato sanguinario, o semplicemente sbagliato perché perdente e, comunque da cancellare, una gioventù che ebbe il coraggio di schierarsi contro la moda, di apparire out in un mondo che ci impone quotidianamente di essere in, e che ebbe, infine, la forza di celebrare la grandezza della sconfitta quando essa si riallaccia a veri ideali estranei da ogni tipo di interesse contingente, da ogni forma di esteriorità, cuciti solamente nella parte più intima dell’anima.

 

 

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