Rassegna Siciliana di Storia e Cultura -N. 20

RECENSIONI

GIAN BIAGIO FURIOZZI Alceste De Ambris e il sindacalismo rivoluzionario Franco Angeli Ed. Milano 2002

Il saggio di Gian Biagio Furiozzi, ordinario di Storia del Risorgimento all'Università di Perugia, ci offre la possibilità di conoscere meglio una delle figure più emblematiche del socialismo sindacalista italiano: Alceste De Ambris. Definito da De Felice come uomo d'azione, piuttosto che teorico, egli fu, in effetti, anche ideologo e pensatore anche se le sue tesi, facilmente comprensibili dai ceti più umili ed incolti della società italiana, rispondevano perfettamente alle necessità della propaganda più che dell'elaborazione dottrinaria. Nel periodico L'Internazionale, di cui nel 1907 era direttore, egli scrisse: " Tutto quanto nella vita politica, letteraria o artistica avviene d'importante troverà posto nel giornale, compilando il quale, però, non dimentichiamo mai ch'esso è fatto per dei lavoratori che certo non desiderano di vederlo diventare una palestra di bizantinismi politici, né un'accademia d'estetismo letterario e artistico" ( p. 13)
E' proprio del 1907 il suo scritto teorico più significativo, L'azione diretta. Pagine di propaganda elementare sindacalista, saggio in cui elaborò tesi originali ed interessanti, fra cui un'analisi molto acuta delle cosiddette classi intermedie, a metà tra il proletariato e la piccola borghesia, interessate soprattutto agli interessi economici della propria categoria e disposti, per questo scopo a sabotare le lotte per il conseguimento delle conquiste proletarie. Tale tesi avvicina De Ambris al Mussolini di Utopia, rivista che avrebbe costituito un ponte tra il socialismo e le sue eresie, soprattutto il sorelismo e il sindacalismo rivoluzionario. Già da allora, anche prima del fallimento dello sciopero agrario di Parma, nel 1908, De Ambris aveva compreso che solo l'unione delle forze proletarie e la lotta per l'affermazione di principi che edificassero una nuova società fondata sulla giustizia, e non la battaglia per fini contingenti, lo sciopero fine a se stesso, avrebbe assicurato la conquista del potere da parte della classe operaia e contadina.
Come la maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari, anche De Ambris fu un meridionalista, pur essendo nato al confine tra la Toscana e l'Emilia, e come tale, fu evidentemente anche un antiprotezionista, polemizzando perciò, con i socialisti riformisti difensori assoluti degli interessi della classe operaia del triangolo industriale del nord.
Per combattere il capitalismo egli suggeriva di ridurre progressivamente il profitto capitalistico, sino ad arrivare al totale possesso da parte del proletariato, dei mezzi di produzione e di scambio. Scriveva: "[…] in conclusione la lotta di classe si esplica, secondo noi, in una serie ininterrotta di attacchi al profitto capitalistico, la cui limitazione va intesa come un'espropriazione parziale anticapitalistica fatta soprattutto allo scopo di prepararne l'espropriazione totale"(p. 21) tutto ciò presupponeva anche l'accettazione della violenza, verso la quale De Ambris non nutriva alcun pregiudizio se essa venisse intesa come strumento per la riuscita della rivoluzione sociale, ma che rifiutava in blocco, almeno fino al 1914, se intesa semplicemente come militarismo, cioè come strumento di mera conquista o sopraffazione.
In un secondo tempo egli elaborerà una teoria corporativista, a cui rimarrà fedele fino alla fine, anche durante l'esilio in Francia, dove morirà nel 1934, a sessant'anni, pur distinguendo il suo corporativismo liberale da quello di Mussolini. Il corporativismo era il nuovo strumento da usare, al posto dell'esproprio parziale o totale, per superare e distruggere la logica e il sistema capitalistici.
A differenza della maggior parte dei sindacalisti rivoluzionari che condannavano la cooperazione vedendo in essa il pericoloso strumento di trasformazione del proletariato in ceto borghese, egli vi fu sempre favorevole, considerandola come una vera e propria palestra di democrazia, come la migliore scuola per sviluppare le capacità tecniche e politiche del proletariato: "Nelle cooperative di consumo e di credito il proletariato impara difatti ad organizzare lo scambio senza bisogno di intermediari parassiti, come nelle cooperative di lavoro e di produzione apprende a condurre la fabbrica od il campo facendo a meno dell'industriale o del proprietario"(p. 27).
Molto meno coinvolto dei suoi compagni si dimostrò rispetto al mito dello sciopero generale soreliano che intese essenzialmente come momento conclusivo del movimento di emancipazione operaio, che andava invece tecnicamente appreso ed elaborato in seno alle cooperative.
Come tutti gli eretici marxisti del suo tempo fu un antiparlamentarista, ritenendo il Parlamento uno strumento della dominazione capitalista. Coerentemente a tale posizione, accettò la candidatura alle elezioni politiche del 1913 per il collegio di Parma, come una candidatura di protesta, cioè come una candidatura valida per permettergli di regolare i suoi problemi giudiziari, nati dopo lo sciopero del 1908, che lo avevano costretto all'esilio, e di tornare in patria per riprendere la lotta sindacale fra gli agrari padani.
Pur essendo in esilio, nel 1912 partecipò da lontano alla fondazione dell'USI, Unione Sindacale Italiana, in contrapposizione alla CGL, diventata ormai uno strumento nelle mani di un partito ogni giorno più riformista e filo-giolittiano. L'Usi avrebbe avuto il compito di risvegliare il proletariato dal torpore in cui lo costringevano le riforme illusorie della borghesia progressista.
La guerra libica del 1911 che aveva fatto scoprire a molti sindacalisti, come per esempio Olivetti, l'importanza della nazione come crogiuolo d'interessi diversi e quindi come momento d'unione nella lotta della collettività, lo vide fra i più accesi avversari, essendo da lui considerata semplicemente come un'impresa piratesca a danno di un popolo più povero e più debole.
Viceversa, la I guerra mondiale lo vedrà accanto a chi, come Arturo Labriola, fin dal 1911, aveva sostenuto la necessità di addestrare il popolo italiano alla guerra, per renderlo capace di fare la rivoluzione. "La guerra come palestra rivoluzionaria, sembrava la carta da giocare di fronte alla crisi del movimento operaio e contadino" (p. 57).
Tale cambiamento fu determinato, come avvenne anche in Mussolini, da molteplici fattori, fra cui l'avvicinamento alle teorie mazziniane e all'idea di nazione, ma soprattutto la lezione appresa dal fallimento della settimana Rossa e dell'Internazionale socialista: " Siamo e saremo sempre - scriveva nell'Internazionale del 22 agosto 1914 - contro ogni calcolo di egoismo nazionale, dovremo perciò insorgere e negare il nostro sangue per qualsiasi mira di conquista territoriale o di allargamento del prestigio statale, perché tutto ciò è perlomeno estraneo al nostro interesse. Ma non è ugualmente estraneo al nostro interesse il permettere che trionfi o sia soffocato un principio di libertà necessario alla preparazione del nostro avvenire"(p. 73) La guerra che sosteneva e a cui coerentemente partecipò da volontario, era la guerra contro le potenze reazionarie del centro. Europa, la guerra per il trionfo della democrazia, la guerra come preparazione alla rivoluzione interna, "banco di prova del patriottismo rivoluzionario".
La guerra lo avvicinò ai fasci di combattimento e al primo fascismo, da cui si allontanò quando ne comprese il carattere reazionario.
Approvò la rivoluzione del febbraio 1917, ma non quella leninista dell'ottobre successivo, in cui ravvide i segni di una tirannide violenta e antipopolare.
Scendendo in campo con Gabriele D'Annunzio, durante l'occupazione di Fiume, cercò di armonizzare la dottrina sindacalista rivoluzionaria con gli ideali nazionali e lo fece redigendo il suo progetto di Costituzione, la Carta del Carnaro, che il Comandante accettò nella sua integrità.

Gabriella Portalone

 

Sandro CIURLIA, Antonio Corsano e la filosofia analitica: il pensiero giovanile di Leibniz, presentazione di Giovanni Papuli, Galatina (Le), Congedo, 2002, pp. 202.

La questione dell'origine del concetto di analisi rappresenta uno dei grandi problemi della storia della filosofia. Questa monografia di Sandro Ciurlia intende analizzare l'interpretazione dello storico della filosofia Antonio Corsano riguardante il pensiero giovanile di Leibniz, collocato all'interno degli sviluppi della filosofia analitica moderna, fondata sull'individualismo della tradizione dell'occamismo. Il lavoro, condotto attraverso l'utilizzo di un variegato ventaglio di fonti, è completato da un'ampia riflessione critica intorno alla poliedricità del pensiero del giovane filosofo di Lipsia ed evidenzia la precarietà di qualsiasi riduzione teorica tesa a 'chiudere' questa filosofia all'interno unicamente della problematica logica, come avevano fatto, ai primi del Novecento, Russell e Couturat.
Il volume si apre con una densa presentazione di Giovanni Papuli che ripercorre brevemente le maggiori tematiche del testo, evidenziando, in particolar modo, come la filosofia analitica non debba necessariamente coincidere con il metodo dell'analisi, in quanto "essa costituisce, piuttosto, un generale atteggiamento di pensiero teso a ridefinire i rapporti tra logica e metafisica e a focalizzare l'attenzione sui fenomeni del mondo naturale" (p. V). Di Papuli è anche l'iniziativa di una ristampa delle Opere scelte di Corsano in sei volumi presso la casa editrice Congedo, con il patrocinio dell'Università di Lecce e del Comune di Taurisano di Lecce.
Il primo capitolo (La ripresa del paradigma analitico nella filosofia contemporanea) intende offrire una ricognizione della plurivocità di significati che il termine "analitico" ha assunto nella riflessione filosofica odierna. L'analisi, oltre che essere sinonimo classico di scomposizione, è da intendersi come traduzione. La linguisticità del problema dell'analisi è, come ben noto, una tematica essenziale nei lavori di Frege, Russell, Wittgenstein, Grice e Quine. A seguito, appunto, della riflessione di Quine su analitico e sintetico, si è giunti ad un abbandono della filosofia linguistica, riprendendo il paradigma dell'analiticità all'interno del successivo quadro interpretativo della cosiddetta svolta cognitiva. A causa di queste difficoltà, per analitico possiamo intendere, nell'attuale discorso filosofico, uno "stile" fatto di argomentazioni stringenti, esempi mentali e tentativi di dimostrazioni serrate. Su questo sfondo è utile considerare gli studi di Corsano sulla filosofia analitica, il quale indaga l'evolversi della filosofia analitica da Suárez a Frege. L'indagine di Corsano è volta a chiarificare il concetto di "origine" in relazione alla filosofia analitica moderna. Le origini del paradigma moderno dell'analisi vengono poste da Corsano nel tardo Rinascimento, in cui riemergono le posizioni del nominalismo tardo medievale. Un nominalismo caratterizzato da una sintesi tra razionalismo e lo studio degli eventi naturali, che hanno come conseguenza l'origine di una logica inventionis. Un'altra fonte della filosofia analitica sarebbe rappresentata dalla nascita della scienza moderna.
Lungo tale percorso, Suárez è una tappa obbligata. Egli "correla logica e metafisica, sottolineando il ruolo di mediazione svolto dal linguaggio" (p. 20). Il gesuita spagnolo, secondo Corsano, è un convinto individualista. La "metafisica noetica" di Suárez è basata sugli individui, intesi come uniche realtà ed in cui la compositio è determinata da un modernissimo principio di relazione. Ogni individuo, inoltre, si ricava per negazione aggiunta, che evita che ci possa essere una separazione dell'individuo da se stesso. Questa "identità nella distinzione", rileva Ciurlia, rende possibile la molteplicità. Suárez non costituisce solo un importante capitolo della storia della filosofia analitica moderna, ma è l'autore che rende nominalista il giovane Leibniz. Nella Dissertazione metafisica sul principio d'individuazione del 1663 esprime un nominalismo moderato, poiché il nominalismo è scelto perché rappresenta "una sorta di provvisorio punto d'arrivo non in quanto l'unico o il solo, ma perché il più duttile o, meglio, il più euristicamente plastico tra i possibili" (p. 66). Di fondamentale importanza è, inoltre, il Corollario III della Disputatio: "Le essenze delle cose sono come numeri". In questo saggio sono presenti, in tutta la loro problematicità, le posizioni dei suoi due maestri: Thomasius e Weigel.
Nella Dissertazione sull'Arte combinatoria, è evidente un confronto di Leibniz con la posizione di Hobbes, in cui l'uguaglianza corpo-movimento è particolarmente influenzata dal pensiero del filosofo inglese. Nella Dissertazione preliminare all'Anti-Barbarus del Nizzoli, Leibniz, secondo Corsano, oltre che considerare l'umanista italiano Nizzoli come un pensatore collocabile nella tradizione del nominalismo, evidenzia le suggestioni hobbesiane sulla convenzionalità del linguaggio. Ciurlia nota acutamente, invece, quanto complesso sia il riferimento leibniziano a Hobbes, data l'esigenza di Leibniz di fondare un concetto logicamente rigoroso di verità. Di fondamentale importanza è, inoltre, la distinzione leibniziana tra linguaggi ordinari, di cui quello filosofico ne è un affinamento, e linguaggi di struttura, che hanno come paradigma quello matematico. In quest'opera, Leibniz ricorda che l'errore principale del Nizzoli sarebbe quello di aver considerato l'universale come "collettivo", per cui l'universalità sarebbe determinata da un insieme di individui presi in modo simultaneo; viceversa, occorre fondare una forma di universale di tipo "distributivo", frutto dell'applicazione sistematica della categoria di relazione. Su questa stessa linea si colloca il Dialogo del 1677 relativo alla connessione delle parole con le cose, che vede come protagonisti un Realista ed un Nominalista. La questione ivi posta, cioè se "i pensieri possano prodursi senza vocaboli", viene risolta dal Nominalista nel senso che "non può darsi pensiero al di fuori di un linguaggio morfo-sintattico possibile, verbale, figurale, numerico o di qualunque altra natura esso sia" (p. 97). La Dissertazione sull'Arte combinatoria e il Dialogo sono le opere che meglio chiarificano la posizione di Leibniz sulla lingua. Nel pensare alla Caratteristica universale, invece, Leibniz immagina una lingua di calcolo universale che riesca a collegare i vari campi del sapere, usando i caratteri segnici al posto delle idee per economia di pensiero. Ciurlia nota che, in realtà, proprio in questo progetto che sembrerebbe tout court di tipo logico, è evidente una "metafisica del segno", in cui si può ravvisare una forte componente etica.
La posizione di Leibniz sui concetti di "analisi" e "individuo" si definisce attraverso il confronto con Cartesio. Quest'ultimo, ricorrendo all'immediatezza della intuizione, è da inserirsi entro un "intellettualismo sintetico - induttivo", che, attraverso la "mistica certezza" dell'evidenza, è ben distante dal concetto di analisi leibniziano. La svolta realista di Leibniz, successiva agli anni Settanta, è il frutto dell'intrecciarsi dei fili del ragionamento logico e metafisico, a seguito delle considerazioni sulla categoria del possibile. Scrive Ciurlia: "La restaurazione di una massiccia componente realista nel suo pensiero non costituisce tanto, per Leibniz, un radicale mutamento di rotta ad inaugurazione di una nuova stagione speculativa" (p. 135). Il possibile, infatti, è inteso come assenza di contraddizioni, per cui "è reale ciò che è possibile per il pensiero". Tra individuo e possibilità non c'è contraddizione. L'individuo, a sua volta, costituisce il limite ultimo della ragione. Da qui l'idea corsaniana del pessimismo leibniziano. Un pensiero, quindi, come acutamente osserva Ciurlia, che "si appropria del limite ed edifica le sue maestose architetture sull'orlo di un abisso, al confine di sterminati spazi ignoti ed inesplorati" (p. 149). Dall'intreccio tra la problematica dell'individuo all'interno della logica leibniziana discende la concezione della monade, connubio di logica e metafisica.
Nell'ultima parte della monografia, l'autore intende comprendere il ruolo svolto dalle ricerche di Corsano nell'evoluzione degli studi sul pensiero del filosofo lipsiense. A seguito delle classiche monografie su Leibniz di Russell, Couturat e Cassirer, l'opera del 1952 di Corsano è caratterizzata da una precisa piattaforma interpretativa. Come già ricordato, Corsano sottolinea l'influenza nominalistica esercitata su Leibniz da Suárez ed Hobbes, ravvisando, inoltre, una sostanziale unità di pensiero nel percorso speculativo di Leibniz ed intendendo la fase matura della sua opera non come una rottura, ma come una naturale emersione di interessi e problematiche diversi. Ciurlia osserva, quindi, che l'interpretazione di Corsano propone un Leibniz "filosofo dell'Umanesimo, portatore di una filosofia del limite nel limite". Tra coloro che hanno maggiormente discusso la posizione di Corsano c'è stato Francesco Barone, il quale nota come, accanto al richiamo a Suárez, Leibniz dedichi molte pagine a criticare la filosofia di Hobbes. Barone, inoltre, ricorda come di grande rilievo siano in questa fase giovanile le influenze platonico-pitagoriche correlate ad una metafisica del numero. Corsano, in risposta alle posizioni di Barone, recensendo Logica formale e logica trascendentale, nota come Barone confonda la dimensione storica con la ricostruzione sistematica e legga il pensiero leibniziano alla luce di Kant. Se poi consideriamo che Giacon ricorda che il nominalismo di Suárez ha una natura del tutto particolare il tutto si complica.
In conclusione, l'autore ricorda come "il contributo di Corsano alla Leibniz-Forschung, tra le sue luci e qualche ombra, consiste, soprattutto, nell'aver guidato verso una più circospetta attenzione da rivolgersi sia alla tradizione logica che innerva l'impresa critica giovanile leibniziana, sia alla funzione storico-critica svolta al suo pensiero in seno alla filosofia analitica moderna, ed in tal senso può dirsi ancor oggi significativo" (p. 181). L'analisi di Corsano è condotta attraverso un rigoroso rispetto filologico delle fonti. Oggi emergono altri aspetti importanti: il neoplatonismo (Bisterfeld) o l'importanza del Leibniz organizzatore culturale.
Il presente lavoro di Ciurlia, scritto con un chiaro periodare e caratterizzato dalla consueta eleganza espositiva, riesce ad intrecciare i difficili nodi dell'evoluzione speculativa leibniziana con l'interpretazione di Corsano e dimostra una finezza che proviene da un'ottima conoscenza delle fonti. La questione della filosofia analitica nel pensiero logico giovanile di Leibniz, inoltre, può rappresentare una via preferenziale alla comprensione della filosofia analitica contemporanea, che secondo Dummett, troverebbe il suo primo corifeo in Frege. La fruttuosità del "seme" leibniziano, nei filosofi e logici successivi, risulta incomprensibile senza un accurato studio, come il presente, della genealogia dei percorsi giovanili leibniziani all'interno di una problematizzazione storica delle varie componenti della questione. Le molteplici questioni in cui si imbatte l'autore vengono analizzate tenendo in considerazione lo sgorgare dei problemi lungo il flumen della storia e cercando di porre delle possibili risoluzioni attraverso lo studio dei contesti e dello sfuggente panorama delle fonti dirette e indirette.

Daniele Chiffi

 

GIAMPAOLO PANSA, Il sangue dei vinti, Edizione Sperling - Kupfer, Milano 2003

Il fascismo ha sicuramente commesso gravi errori. Ha fatto la guerra, ha promulgato le infelici leggi razziali, durante la RSI ha nutrito nel suo seno anche dei criminali, ma nei suoi più di vent'anni di governo ha realizzato anche molte cose buone; cose che non stiamo qui a ricordare perché ancora sotto gli occhi di chi non si rifiuta di guardare e di ricordare. Dopo la fine della guerra con la conseguenziale sconfitta militare, però, sono stati molti - troppi per la verità - che al di fuori di qualsiasi codice umano e civile hanno colto l'occasione per dar di piglio alle loro personali vendette; vendette concretatesi con l'uccisione indiscriminata di tanti innocenti rei soltanto di non aver fatto nulla di male o di aver avuto un occhio benevolo nei riguardi del regime vigente. Insomma, com'è scritto nel risvolto del libro di Giampaolo Pansa - micidiale fu "la brutalità del castigo inflitto a chi era schierato con la Repubblica sociale italiana"; castigo che s'incrociò "con l'eliminazione preventiva di quanti avrebbero potuto opporsi alla vittoria del comunismo in Italia: i borghesi ricchi, gli agrari, i preti, i democristiani".
Diverso, al riguardo, il discorso relativo ai criminali fascisti che pure avrebbero dovuto essere giudicati da regolari tribunali e non da singoli o gruppi che fecero solo giustizia sommaria al di là di un pur minimo rispetto del garantismo. Qualcuno - moltissimi, anzi - potrebbe obbiettare: "Ma c'era la guerra". D'accordo, ma le efferatezze e le rappresentaglie furono troppo violente ove si consideri che esse si estrinsecarono in atti di rancori personali che sfociarono in episodi di vera e propria barbarie dalla quale non furono, beninteso, esenti alcuni criminali del partito avverso. In altre parole, in un clima di totale anarchia, i partigiani italiani diedero sfogo a tutti i loro risentimenti ammazzando tanti innocenti unitamente ai gerarchi, agli uomini normali e, infine, a numerose donne.
Tutto ciò è documentato, con dovizia di particolari, spessissimo raccapriccianti, da un giornalista e scrittore che di tutto può essere accusato fuorché di simpatia per i fascisti, visto e considerato che l'Autore è un fior di progressista e, in quanto tale, un uomo di sinistra che ha voluto, com'egli scrive nell' "Avvertenza" al lettore, narrare "quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale italiana, che cosa patirono, le violenze e gli assassinii di cui furono vittime". Ne è venuto fuori un ponderoso volume che ricostruisce - con tanto di nomi e cognomi dei martiri - minuziosamente fatti ed episodi delle regioni e delle province del Norditalia, tragico scenario di una ferocia che ha pochi precedenti nella storia d'Italia.
Ragion per cui ci sembra giusto condividere l'affermazione del citato risvolto secondo cui l'Autore "ci offre una nuova testimonianza della sua onestà di narratore, capace di osservare con sguardo limpido anche le vicende e le figure di un campo che non è mai stato il suo".
Le regioni, con le rispettive province, prese in esame da Pansa sono solo alcune del Nord - Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna - avendo egli "rinunciato di proposito", è scritto nell'Avvertenza al lettore, ad occuparsi "delle stragi compiute in Venezia Giulia dai partigiani jugoslavi di Tito e dei trucidati nelle foibe".
Ora, visto che dai nostri conti, il numero dei trucidati delle menzionate regioni ascende, morto più morto meno, a ben 18.159, si può affermare, con buone ragioni, che la somma totale di 50.000 vittime delle faide operate dai partigiani italiani potrebbe rispondere al vero, sebbene altre fonti parlino di numeri più alti anche in considerazioni del fatto che, in quel clima di esecuzioni sommarie, di tanti infelici scomparsi non si è mai saputo nulla. Come, tra l'altro, risulta dai dati dell'Autore il quale confessa di aver potuto commettere degli errori. Mancano, comunque, dalla disamina pansiana: Toscana, Marche, Umbria, Lazio e la citata Venezia Giulia.
Sta di fatto, comunque, che le stragi ci furono e di grande afferatezza, tenuto, altresì, conto del disegno del Partito comunista italiano dell'epoca volto ad impossessarsi del potere come scrive lo storico Giovanni Fantozzi, citato da Pansa. Secondo lo studioso, i responsabili dei delitti del Modenese - ma il discorso vale anche per le altre regioni - "erano "nella stragrande maggioranza" ex partigiani iscritti o simpatizzanti del Pci. Nella loro idea stravolta di lotta politica, le vittime erano "nemici di classe" o, comunque, avversari potenziali della marcia comunista verso la conquista del potere anche in Italia". Tale tesi viene suffragata da due storici - Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavski - i quali nel loro libro, "Togliatti e Stalin", sostengono - e la citazione si trova nel libro di Pansa - che "le vendette e poi l'epurazione non avevano per scopo soltanto di mettere fuori gioco chi aveva compiuto crimini di guerra o anche chi era stato soltanto fascista. Per i dirigenti comunisti italiani, l'obiettivo era un altro e ben più importante: idebolire un'intera classe, la borghesia, e sostituire il vecchio ceto dirigente con una nuova leadership in cui il Pci fosse pienamente rappresentato".
Giampaolo Pansa non manca, naturalmente, di dedicare un capitolo al famigerato episodio del cosiddetto "triangolo della morte" che tante vittime innocenti mieté in quel lugubre scenario dell'Emilia rossa. Ad ogni modo, i dati relativi alle vittime del tringolo - aggiungiamo - restano ancora approssimativi considerato che anche molte ausiliarie caddero sotto i colpi della furia iconoclastica dei partigiani i quali, a guerra finita, perseverarono nell'ammazzare in maniera indiscriminata coloro i quali avevano avuto solamente il torto di essere, leggiamo sempre nel risvolto del libro di Pansa, "donne e uomini qualunque, vite anonime anch'esse straziate" e spesso ancora "in attesa di una dignitosa sepoltura". In definitiva, non è lontano dal vero - come si riteneva nell'immediato dopoguerra - il totale di 300.000 eccidi compiuti dai partigiani soprattuto a guerra finita e addirittura fino agli inizi degli anni Cinquanta.

Lino Di Stefano

 

Tommaso Romano, Torre dell'Ammiraglio - Proposte Tradizionalpopolari nell'epica della mondializzazione, Palermo, ISSPE, 2002, pp. 196.

Terzo volume della "Biblioteca del Mosaicosmo" questo Torre dell'Ammiraglio raccoglie la ampia e variegata lettura metapolitica e culturale di Tommaso Romano che si dipana dagli inizi degli anni settanta.
In questo volume di particolare interesse i saggi, gli articoli e i documenti di Tradizionalismo Popolare, movimento cattolico di destra molto attivo fra la seconda metà degli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta. Romano ne fu attivo Presidente Nazionale e i testi disegnano l'iter ideativo e le battaglie concrete per l'identità, la tradizione cattolica, la spiritualità, l'economia organica e senza unità, la forte battaglia antimafia.
Il libro, che va letto con i precedenti sempre editi dall'ISSPE, contiene anche i frammenti siciliani saggi e interventi del milazzismo interpretato da Dino Grammatico, l'avventura della Biblioteca Filosofica di Palermo diretta da Gentile e Giuseppe Amato Pojero, la magia dell'Atelier di Antonio Presti a Marina di Tusa.
Lo stile di Romano (poeta assai noto recentemente e ampiamente studiato in una bella monografia di Salvatore Magno "L'ora illegale") è terso ed inconfondibile. Proprio su "Il Domenicale" Gerardo Picardo ha affermato che Tommaso Romano è l'ultimo filosofo della Magna Grecia, affermazione che dà la misura di un impegno multiforme e inesausto nei campi della riflessione culturale e della creatività artistico-poetica, nonché dell'attività editoriale di Thule, che organizza e dirige dal 1971.
Nel conferirgli la Cittadinanza Onoraria nel 2000 il Comune di Baucina (Palermo) pubblicò una mia monografia dal titolo "L'incandescente chiarore", dove traccio un ritratto a tutto tondo di Romano, questo protagonista della Sicilia.

Giovanni Taibi

Francesco Lo Jacono battaglia, Santa Flavia. Una villa, una chiesa, un comune, ed. ISSPE, Palermo 2003.

Francesco Lo Jacono Battaglia con Santa Flavia. Una villa, una chiesa, un comune, il primo di una trilogia che si impone per rigore storico ed accurata ricerca, compie una significativa operazione: non solo dona alla Comunità flavese ed alla cultura siciliana un valido, completo ed organico testo, ma anche riuscendo a coniugare tradizioni popolari e riscoperta documentaria, dà vigore alla "memoria storica" e ripropone la valenza e l'importanza della tradizione orale, del variopinto e variegato "mondo degli anziani", vero e proprio "archivio vivente" seppure "in via di estinzione".
Argomentazioni precise e puntuali, ricolme anche di molte e colorite espressioni dialettali locali, che le giovani generazioni non sempre conoscono. E questo sin dall'iniziale descrizione del territorio, della fauna e della flora flavese di oggi.
Un'esauriente analisi delle origini della Comunità, da Solunto città sicana-elima a Solunto baronia, su cui, comunque, l'Autore si è già soffermato con dovizia di particolari nel libro Solunto, pubblicato nel 2002 a cura dell'Amministrazione Comunale di Bagheria.
Il ritorno della nobiltà nella campagna di Solanto e la costruzione della Villa, "fabbrica povera del barocco siciliano", ma maestosa e "laureata", per dirla con Giacomo Giardina, da parte del Principe Pietro Filangeri, sono temi che caratterizzano la parte centrale del libro, riccamente corredato da riproduzioni di documenti, fotografie, ma anche disegni ed acquerelli di Venera Carini.
Francesco Lo Jacono non è nuovo nel dedicato e complesso compito... "agiografico", per così dire, flavese, poiché si è ben cimentato, negli anni scorsi, anche con la pubblicazione di Ciuriu Solantu e Solanto, riuscendo per questo a conseguire il Premio Solanto e ad ottenere consensi dal Prof. Gaetano Cipolla, docente della Prestigiosa Saint John University di New York.
Ma Lo Jacono Battaglia fa di più: con quest'ultimo tassello il suggestivo e mirabile mosaico flavese finalmente si compone e completa.
Nel descriverci la storia della "chiesa soluntina", l'Autore ne coglie la precisa funzione: assieme alla Villa Filangeri, la Chiesa ha, infatti, il compito di "esaltare il prestigio e l'autorità del Principe Patrono" e con essa costituice un indubbio polo di aggregazione sociale.
I villaggi nel feudo di Solanto, le chiese filiali e curate della Parrocchia di S. Anna evidenziano e l'Autore lo sottolinea - la lenta trasformazine socio-economica, il graduale distacco dalla Chiesa del Principe "quasi una rivalsa contro la feudalità".
Tale "spirito d'indipendenza" contribuisce certamente al ritardo nella fondazione del nuovo comune autonomo di Solanto, che avviene poi, grazie al decreto del 21 settembre 1826, emesso da Francesco I, Re delle Due Sicilie.
Un lungo scorcio temporale caratterizza, dunque, le descrizioni del volume di Lo Jacono Battaglia, che indulge ad un attento esame delle fonti bibliografiche e documentarie, esame che consente di affidare all'attenzione e alla riflessione dei lettori documenti poco conosciuti come la "collettazione del comune di Solanto" del 1824-1826 e quelli conservati presso gli archivi della Parrocchia di S. Anna e dell'Orfanotrofio Pezzullo di Santa Flavia.

Umberto Balistreri

 

Salvatore Vacca, I Cappuccini di Sicilia: Percorsi di ricerca per una lettura storica. Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2003, pagg. 580.

Quando nel 1525 Frate Matteo da Bascio iniziò, nell'ambito della ormai sviluppatasi famiglia francescana, uno dei movimenti di riforma, di cui essa fu oggetto con varie motivazioni ed in varie direzioni, quando cioè ebbe inizio la riforma che avrebbe portato alla nascita dell'ordine dei Cappuccini, anche nel Regno di Sicilia era sentita comunemente l'esigenza di rinnovamento della Chiesa e della vita religiosa verso un ruolo dei ministri di Dio più rigorosamente evangelico, più caritativo e più vicino ai bisogni effettivi della stragrande maggioranza dei fedeli.
La Sicilia del sedicesimo secolo, nelle campagne e nei piccoli paesi dell'interno, mostrava un modello sociale inerte, estremamente arretrato e soprattutto povero, essendo il popolo comune legato esclusivamente alla terra, d'onde la maggior parte degli abitanti traeva i minimi mezzi per una sussistenza ogni giorno problematica. Ciò, senza alcuna prospettiva d'elevazione culturale o sociale; sicchè nelle cronache e nei documenti del tempo lo sfondo umano su cui si poneva ogni fatto è qualificato assai spesso dai termini povertà, miseria, bisogno, malattie, ecc.
Era solo la Chiesa, col suo messaggio spirituale di speranza cristiana, a propendere verso tutta questa gente. E fu in tale contesto che un più deciso costume di vita dei predicatori della parola di Cristo, basato su comunità condividenti una vita essenziale fatta di lavoro, preghiera e contemplazione, sostenuta dalla carità e tendente essenzialmente alla predicazione della parola di Dio, attrasse il favore delle popolazioni rurali della Sicilia. E fu anche in ragione di una tale situazione che potè avvenire una rapida espansione dei Cappuccini dalla vicina Calabria dove aveva avuto una felice fioritura, verso la Sicilia, dove già poco dopo la metà del cinquecento il loro numero si avvicinò ai quattromila frati distribuiti in una cinquantina di conventi.
I conventi dei cappuccini sarebbero stati poi per secoli, per le popolazioni del contado circostante, non solo le fonti d'onde si irradiava la parola di Dio mediante assidue predicazioni e somministrazione dei sacramenti, ma anche centri di istruzione, conservatori ed elaboratori di cultura nelle loro sempre più fornite biblioteche e, per contadini e pastori, il rifugio nei pericoli, l'officina più attrezzata, il pronto soccorso e la farmacia; mentre per molti feudatari e borghesi fu un punto d'onore l'essere loro "benefattori". Fu tradizionale infatti per secoli, fino al tramonto del mondo e dell'economia rurali, che al momento del raccolto, si fosse moralmente obbligati a versare al frate cercatore olio, frumento, castagne, cotone, ecc. per la vita del convento e per i suoi poveri; perchè si realizzasse quel circolo di solidarietà e carità della suggestiva metafora detta da frà Galdino nei Promessi Sposi: "perchè noi siamo come il mare che riceve l'acqua da tutte le parti e torna a distribuirla a tutti i fiumi".
Ma, a parte i richiami emozionali, traibili ancor oggi dalla visita d'un convento francescano cappuccino e la ricostruzione etnologica della società rurale che, nell'arco di quattro secoli, vi gravitò intorno, importante è una investigazione sul tipo di fede e di spiritualità che, storicamente, è possibile individuare quale prodotta nei contesti cappuccini siciliani.
Padre Salvatore Vacca(1) attuale superiore di uno dei Conventi cappuccini più noti e più belli, quello di Gibilmanna, con il suo recentissimo libro "I Cappuccini in Sicilia: percorsi di ricerca per una lettura storica", attraverso la considerazione d'una enorme quantità di documenti (editi od inediti) interni od esterni alla memorialistica di questi Frati minori, induce alla scoperta delle autentiche relazioni tra i frati, con i loro conventi, ed il popolo che loro gravitava intorno. Certo, la ricerca non prescinde dalla ragione più profonda per cui questo ordine ha voluto essere presente nel mondo; quindi vi si insiste sul rapporto tra religiosità popolare ed assetto sociale del mondo contadino cui l'Ordine è stato particolarmente dedicato; e vi si indaga sulle relazioni tra tutto ciò ed il livello di solidarietà caritativa che si è potuta sviluppare in un siffatto contesto.
Molto profonda ed interessante è nel libro del P. Salvatore Vacca l'indagine, fondamentale ai fini di una giusta qualificazione della ricerca, sulle relazioni fra tradizioni popolari religiose e consuetudini superstiziose o addirittura paganeggianti.
Ciò, l'Autore fa inducendo a riflettere tra una enorme quantità di fonti e distinguendo storia da leggende ed agiografia. Suggestiva è tra l'altro -perchè conduce la memoria alla soave immagine di Dante (Scalzasi Egidio, Scalzasi Silvestro dietro allo Sposo sì la Sposa piace), la riproduzione di alcuni brani di manoscritti contenenti notizie circa la prima diffusione della nuova regola in Sicilia:
"Ma perchè è proprio del bene e della carità il diffondersi, e non stare rinchiuso in pochi termini, si cominciò a dilatarsi non solo nel Regno di Napoli, ma anco in quello di Sicilia, pigliando il luogo vecchio di Messina ch'era circa due miglia lontano più sopra di questo presente, dove vi costituì per guardiano il padre Francesco Palamone da Reggio, e poi in Palermo di passo in passo per tutte le altre città di Sicilia" (...) "In breve spazio venne questa novella vigna del Signore a germogliare così gloriosamente nell'isola di Sicilia poichè egli (Bernardino Molizzi da Reggio, il Giorgio) è stato quello il quale più d'ogni altro s'affaticò in queste parti di ricevere novi frati, pigliare, e vestir i convertiti novitii e fondare nuovi luoghi come è stato quello di Palermo, di Termine, di Cefalù et altri"(2). Nonchè, di altro autore: "Indipendentemente dal Fossombrono in pochissimo tempo, il beato padre colla sua sapienza, zelo, e santità portò come appresso vedremo la Riforma, ma che in tutte e due le Calabrie, ma nelle provincie di Basilicata, di Napoli, di Puglia, di Messina, di Palermo, che vale a dire in tutta la Sicilia, per mezzo di suoi sapienti, santi, e zelantissimi seguaci, e figlioli"(3).
Lungi dall'essere una completa ed organica storia dei cappuccini in Sicilia, come del resto lo stesso Autore avverte, il libro, ricchissimo di riferimenti a pubblicistica precedente e documenti di archivio, appare nelle sue 580 pagine come una guida per lo studioso a considerare in una sistematica utilizzazione delle fonti quanto di profondo e significante si sia prodotto nel mondo francescano siciliano in oltre quattro secoli.
Del resto, quanto fossero profondamente radicate le comunità francescane nel tessuto sociale ed affettivo dei siciliani lo si vide dopo il 1866 quando, a causa delle connotazioni laicistiche e delle venature massoniche ed ateistiche di cui fu caratterizzato nei primi decenni il nuovo Regno d'Italia, con legge dello Stato (Regio decreto 7 luglio 1866, n 3036) furono soppresse le corporazioni religiose.
Di questa tragedia subìta dalla Chiesa cattolica e dalle coscienze italiane cristiane forse, a livello di conoscenza comune della storia del nostro Paese, non teniamo conto sufficientemente; come del resto un certo spirito risorgimentale acritico ha sottovalutato per molto tempo le umiliazioni ed i dolori subiti dalle popolazioni meridionali dopo la conquista garibaldina.
Nel libro che con questa breve nota si consiglia di leggere, l'Autore, utilizzando lettere pastorali, circolari ed istruzioni delle chiese locali e documenti delle pubbliche autorità del Regno, traccia, di quella pagina oscura, senza peraltro esprimere giudizi, un'analisi anche filologica molto profonda in un quadro storicamente ineccepibile ed umanamente assai toccante. In essa emerge il dolore ed il disorientamento di migliaia di frati che, avendo sentito forte la vocazione francescana della vita monastica, cui avevano consacrato per molto tempo sè stessi, si trovarono improvvisamente svestiti del loro saio, sbandati, senza sostegno nè sostentamento, talvolta a mendicare, in altri casi a lavorare in contesti ormai a loro estranei; mentre i superiori dei conventi dovettero adottare tra mille difficoltà le giuste scelte tra i propri doveri di pastori ed il rispetto delle leggi: "per vivere hanno bisogno di lavorare chi nelle campagne, chi a farla da servo, chi in altro officio basso, e volerli astringere sarebbe un difetto di giustizia e di carità"(4).
Ma, nota anche l'Autore che in quel periodo "i cappuccini ebbero trattamenti diversi e particolari dalle autorità comunali e governative"(5) sicchè in certi comuni, secondo la fede di ciascun amministratore pubblico, fu tollerato qualche caso di vecchi frati rimasti ad abitare in convento. Ciò accadde, per esempio, a Gibilmanna, perché "le autorità comunali, pur vivendo in un momento di incredulità religiosa ed in un pesante clima anticlericale, si mostrano (talvolta) molto devote, rispettose ed affezionate verso i cappuccini"(5). Ed accadde anche che comunità di fedeli si organizzassero per ricomprare con il loro denaro, perché restassero patrimonio di tutti, beni mobili (candelabri, corone, statue, ornamenti preziosi ecc.) o riscattassero gli stessi conventi, come accadde a Gibilmanna.
Questa pare essere nel libro una delle prove del radicamento morale dei francescani in Sicilia. In quanto ad una azione intesa all'elevazione sociale delle classi più povere, il libro conclude dicendo che questo non fece parte dell'azione dei cappuccini di Sicilia; i quali "convinti che la religione era il fondamento della vita sociale, pensavano di aiutare i poveri per mezzo dell'opera evangelizzatrice della Chiesa. Di conseguenza, sostenevano che la questione sociale potesse essere risolta solo attraverso l'intervento degli uomini di fede. Quali visitatori dei poveri, immezzo ai quali operano con spirito evangelico e francescano, non pensavano di eliminare la povertà economica e di risolvere il problema sociale, ma di riformare spiritualmente le anime, di convertire i poveri derelitti dal peccato. Soccorrono il povero per convertirlo. Il fine della loro predicazione e dell'azione caritativo-assistenziale resta quello di condurre le anime a Dio"(6).

Giuseppe Palmeri

 

NOTE
(1) Salvatore Vacca è nato ad Isnello nel 1959 ed è attualmente il superiore del Convento di Gibilmanna. È docente di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica di Sicilia di Palermo; dirige il Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia che la stessa Facoltà ha istituito a Roma nel 1997 in collaborazione con l'Arciconfraternita Santa Maria Odigitria dei Siciliani. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: "Prima sedes a nomine iudicatur: Genesi e sviluppo storico dell'assioma fino al Decreto di Graziano", Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993; "Angelico Lipani e la tradizione cappuccina in Sicilia", Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2001.
(2) P. Bonaventura Campagna da Reggio Calabria, Cronaca cappuccina in cui si tratta dei principi ed origene dei frati minori cappuccini in questa Provincia di Regio ecc. (1620 circa).
(3) P. Enrico Nava da Reggio Calabria, Trattato del principio e progresso della regola cappuccina nella provincia di Reggio Calabria ecc. (Trascritto da P. Gesualdo da Reggio nel 1770).
(4) Giambattista da Bronte, Reverendissimo Padre, Catania, 5 aprile 1875, meglio individuato nel volume a pag. 212.
(5) Cfr. pag. 216.
(6) Cfr. pag. 568.

 


Salvatore Mugno, Opere terminali, Jaca Book-Il Granvetro, Milano-Pisa, 2001

Salvatore Mugno è certamente un operatore culturale, per il contributo costante che offre e per l'attivismo che sviluppa nella realizzazione di iniziative di diffusione della cultura, ma è anche - e direi, soprattutto - un validissimo scrittore, saggista, critico letterario. Ha pubblicato numerose opere (saggi, inchieste, traduzioni, libri di racconti, romanzi). Alcune di queste opere sono già importanti punti di riferimento. Penso al Novecento letterario trapanese, un repertorio biobibligrafico degli scrittori della provincia di Trapani, a Trapani futurista, alla traduzione dal francese de Les poèmes d'un maudit di Mario Scalesi corredata da una introduzione acuta e pregnante, al Teatro di Tito Marrone anch'esso arricchito di interessanti note critiche, per citare solo qualche titolo.
Opere terminali (Jaca Book-Il Granvetro editori, Milano-Pisa 2001) è però, senza dubbio, la sua opera narrativa migliore, quella in cui la sua personalità di scrittore moderno si esprime in tutta pienezza.
Si tratta di un romanzo che affronta con assoluta padronanza alcuni temi esistenziali dell'odierna società. Un romanzo che non si capisce come mai non venga adeguatamente attenzionato dalla critica ufficiale. (E qui bisognerebbe riprendere il discorso degli handicap che gravano sugli autori, diciamo, di periferia, un discorso che non giunge mai a compimento, ragion per cui la narrativa italiana continua a restare bloccata sui vecchi stereotipi, senza riuscire a rinnovarsi, un po' come una squadra di calcio che, pur avendo giocatori che ormai accusano gli anni, si rifiuta di ricorrere ai giovani dei vivai).
Il romanzo di Salvatore Mugno peraltro presenta non pochi aspetti innovativi. Basta considerare che il modulo narrativo è costituito da una forma diaristica e nel contempo da un racconto in movimento. Sembra, a prima vista, che dovrebbero scaturire dalla fusione forti contraddizioni. E invece non è così. La narrazione si sviluppa senza incertezze e, soprattutto, senza sobbalzi.
Un elemento, poi, che va preso in considerazione è il linguaggio. L'Autore non disdegna la parola ricercata, ma ad essa contrappone nella trattazione una marcata espressione del dire quotidiano, fino a scendere alla parola sboccata: anche se oggi un tale uso, nel mondo della scrittura, è diventato normalità.
Dalla lettura del romanzo altro dato che emerge è l'ironia. Un'ironia a tutto campo. Un'ironia che non è soltanto un aspetto della narrazione, ma - direi - il denominatore principale. Il protagonista infatti si presenta sempre come osservatore disincantato del vivere quotidiano.
Già questi elementi testimoniano che Opere terminali non è il romanzetto di un novizio, ma un'opera corposa, di grande interesse letterario, di scrittore maturo.
Un'opea destinata comunque a farsi valere.

Dino D'Erice

 

LE MATRICI MONADOLOGICHE DELL'IDEALISMO FICHTIANO* di Sandro Ciurlia

Ai tempi delle prime meditazioni fichtiane, l'immagine piú diffusa del pensiero di Leibniz era quella offerta da Kant e mediata da Wolff. Nella Critica della ragion pura, il filosofo di Lipsia compare a varie riprese: viene considerato, in prima istanza, come l'alfiere della tradizione metafisica sanzionata dal razionalismo moderno, spesso caratterizzata da "punti di vista affatto erronei"; in secondo luogo, è giudicato come "un filosofo intellettualista"(1), "ingannato […] dall'anfibolia dei concetti di riflessione", pertanto incapace di giungere ad un'autentica conoscenza dell'"interna natura delle cose"(2). In sintesi, si tratta di un pensatore dalle idee illuminanti, di indubbio rilievo, ma assai distante dall'approdo trascendentale della filosofia. La stessa monade, in quanto sostanza semplice, getta luce sul principio dell'identità degli indiscernibili; tuttavia, a giudizio di Kant, rende alquanto problematica la comprensione del mondo come sistema di relazioni tra enti individuali(3).
Com'è noto, Fichte prende le mosse dalle posizioni kantiane, per cui gli giunge un'immagine di Leibniz condizionata dalle valutazioni criticiste. Ben presto, però, la riflessione fichtiana assume una fisionomia originale ed autonoma, la cui prima sistematica espressione è la Wissenschaftslehre del 1794. Pur essendo legata al punto di vista kantiano, la Dottrina della scienza si costituisce come un percorso di pensiero teso ad offrire alla Filosofia quel solido fondamento che lo stesso Kant aveva solo baluginosamente adocchiato. In quest'itinerario speculativo, molti autori svolgono un ruolo critico. Tra questi c'è proprio Leibniz. Il percorso è, in qualche misura, ricorsivo: la meditazione fichtiana sulle condizioni trascendentali dell'esperienza consente di rimontare a ciò di cui si compone l'esperienza stessa per coglierne l'autentico fondamento trascendentale. Se è cosí, allora vale anche il percorso a ritroso. Ad ogni modo, i punti cardine della traiettoria si richiamano in circolo. Ha scritto Kurt Huber (uno dei martiri della "Rosa Bianca") nel 1943: "Era riservato a Fichte iniziare il ritorno dal soggetto trascendentale di Kant all'infinita molteplicità dell'individuale di Leibniz e conseguentemente all'unità originaria metafisica di un assoluto"(4). Dunque, lo studio delle relazioni tra questi due pensatori è molto piú che il frutto di una semplice curiosità storiografica, è quasi dettato da un'intrinseca necessità.
Con tale valutazione dice di concordare Marco Ivaldo, autore di questa preziosa monografia sulla ricezione fichtiana del pensiero di Leibniz(5). Come sottolinea Ivaldo, il termine huberiano "ritorno" va inteso, alla maniera di Fichte, come un procedere "'a passo di gambero'" nel processo di "avanzamento creativo nella riflessione" filosofica, cosí da ritrovare "all'indietro, o meglio in profondità, il pensiero decisivo a partire da un movimento in avanti" (p. 14). Una Dottrina della scienza in tanto dà una soluzione ai problemi del pensare in quanto trova nei sistemi del passato solidi riferimenti ed autorevoli anticipazioni di strumenti idonei a consentire la messa a punto di costrutti critici nuovi. Vige, qui, l'impianto della logica dei precorrimenti tipico dei grandi esponenti dell'idealismo classico tedesco: "conta" il raggiunto punto di vista speculativo; il resto "vale" se prefigura l'approdo, altrimenti contrassegna solo un "attardamento" o una traiettoria diversiva del Pensiero. Ciò spiega appieno, sin dalle prime battute, il senso del sottotitolo del libro di Ivaldo: la comprensione trascendentale della monadologia.
Nelle prime due parti di questo saggio cercherò di esporre i contenuti dello studio di Ivaldo, sottolineandone i punti di maggiore originalità interpretativa. Nella terza parte, invece, elaborerò una serie di osservazioni e di rilievi intorno ad alcuni dei passaggi critici proposti nel libro, allo scopo di valutare se, e fino a che punto, il Leibniz di Fichte, oltre ad essere un importante capitolo della storia della fortuna di Leibniz nel tardo Settecento tedesco, possa contribuire ad alimentare gli attuali sentieri della Leibniz-Forschung, come suggerisce l'Autore.


I. La filosofia di Leibniz come introduzione all'idealismo speculativo

Lo schema dell'anticipazione guida Fichte alla rielaborazione critica di alcuni dei passaggi propri dell'opera di Leibniz, nel segno di "un'assunzione selettiva della monadologia" (p. 11) in chiave di rielaborazione, sul superiore piano della filosofia trascendentale, di molti dei suoi nuclei problematici. Nel respingere il "dogmatismo" monadologico, Fichte legge il sistema leibniziano e le lucide intuizioni - già "idealistiche" - collocate al suo fondo come pendant razionalistico rispetto allo spinozismo. Dunque, la presenza di Leibniz alle spalle del pensiero di Fichte può essere letta all'insegna delle categorie del "precorrimento" e dell'interpretazione, sul piano speculativo, dei fondamenti della teoria delle monadi. Non è tutto. Fichte rinnova l'immagine di Leibniz consegnataci da Kant e, nel contempo, si orienta a riflettere, proprio sulla spinta di riconoscibili suggestioni leibniziane, sui cardini della critica kantiana della ragione. In altri termini, Leibniz induce Fichte ad integrare Kant. Infatti, se la monadologia assume chiari caratteri pre-trascendentali, allora può rifluire in quel serrato dialogo con Kant da cui discende la Dottrina della scienza. Con una significativa aggiunta: pensare in termini di precorrimenti ed anticipazioni offre a Fichte l'occasione di stabilire un ordine di successione storico-critica di passaggi lungo un articolato processo che finisce con lo sfociare proprio nell'idealismo.
Ivaldo articola la sua monografia seguendo un triplice asse problematico. In primo luogo, si occupa dello studio delle fonti attraverso cui Fichte giunge a Leibniz; in seconda battuta, ricostruisce la complessiva lettura fichtiana di Leibniz, valutando passaggi tratti da opere diverse in cui compare o il nome di Leibniz o vengono trattati temi caratteristici del sistema leibniziano; infine, tenta "una lettura del sistema di Leibniz dal profilo della filosofia trascendentale fichtiana" (p. 13). Come l'Autore si appresta a chiarire, ciò non significa fare di Leibniz un filosofo pre-speculativo e valutarne la statura in funzione di quanto riesca a presagire gli assunti fichtiani. Si tratta, piuttosto, di osservare il modo in cui 'reagisce' la lettera del pensiero leibniziano a seguito delle sollecitazioni provenienti dall'analisi delle pagine fichtiane. In tal modo, si può comprendere sia l'itinerario che conduce Fichte a determinare una "vera e propria teoria dell'universo monadico" (Ib.) negli scritti composti tra il 1801 ed il 1802, sia le condizioni di persistenza, nel sistema leibniziano, di un'adeguata teoria delle relazioni tra le monadi. Dall'intento di chiarire i percorsi critici della filosofia fichtiana a partire da Kant discende, cosí, un'operazione indiretta di chiarificazione del pensiero di Leibniz.
Riguardo al primo punto, Ivaldo espone la tesi secondo cui "Leibniz […] è un autore fondamentale per l'autore della Dottrina della scienza" (p. 17), anche se non molto citato nelle opere di Fichte. Com'è noto, viene a determinarsi, sin dall'edizione del 1794 della Wissenschaftslehre, l'idea della contrapposizione tra dogmatismo ed idealismo. Del primo atteggiamento di pensiero è eloquente espressione lo spinozismo. Anche Leibniz è, a suo modo, dogmatico, tuttavia al sistema leibniziano viene riconosciuta una maggiore complessità. Sorge una prima domanda: cosa conosceva Fichte del pensiero di Leibniz ed attraverso quali vie? Non compaiono mai citazioni dirette. Fa bene, al riguardo, Ivaldo a ricordare come la circostanza non debba oltremodo impensierire, visto che era costume delle grandi filosofie sistematiche dell'epoca riferire in sintesi - con tutte le forzature interpretative che ne discendevano - le tesi dei grandi classici della tradizione filosofica. Ma il quesito rimane inalterato, poiché, a questo punto, è legittimo chiedersi come a Fichte sia giunto il pensiero di Leibniz, se attraverso una o una serie di fonti indirette. Centra qualcosa la tradizione tardo settecentesca? In caso di risposta affermativa, quale sua area dev'essere individuata, visto che, in fondo, se per Fichte Leibniz è un interlocutore privilegiato ed una fonte critica utilissima, non si può dire altrettanto in relazione a Kant, spesso assai duro nei riguardi delle meditazioni del filosofo di Lipsia?
Fichte aveva una buona conoscenza del dibattito tra i leibniziani e delle dispute sulla Critica della ragion pura innescate da premesse leibniziane, ma è assai dubbio che possedesse una conoscenza diretta dei testi. Seguendo una traccia di Reinhard Lauth, si può avanzare l'ipotesi che due riferimenti possibili potessero essere l'edizione antologica dei classici del pensiero moderno curata da Pierre Des Maizenaux(6) e l'edizione Dutens degli scritti leibniziani(7), a cui anche Jacobi rinviava nella sua esposizione delle idee di Leibniz. È un fatto, inoltre, che Fichte citi riflessioni leibniziane contenute nei Nuovi Saggi: doveva, pertanto, possedere l'edizione Raspe(8), che ebbe il merito di risvegliare l'interesse della cultura tedesca per Leibniz. Dunque, oltre alla Monadologia, Fichte deve aver avuto presenti un certo numero di opere leibniziane. Ciò è significativo non solo per intendere con quale Leibniz Fichte ritiene di aver intrecciato un'Auseinandersetzung critica, ma anche per cogliere da quale area della variegata cultura illuministica tedesca pre-kantiana e da quale direzione della successiva Aetas kantiana egli abbia potuto trarre la propria immagine del sistema metafisico leibniziano.
Svolgono l'importante funzione di "mediatori" del pensiero di Leibniz Maimon(9), Jacobi(10) e Schelling(11). Per il primo, le tre teorie principali della filosofia leibniziana sono la "dottrina delle idee innate", il "sistema delle monadi" e la "harmonia praestabilita". Secondo la ricostruzione di Maimon, invece, le monadi sarebbero "Vorstellungskräfte", organizzate secondo un ordine gerarchico in uno spazio armonico, governato da Dio, che lascia emergere la naturale tendenza delle monadi ad aggregarsi. A giudizio di Maimon, alla filosofia di Leibniz non poteva non esser riconosciuto un importante ruolo in quel processo di sistematizzazione degli "atti" del pensiero a quel tempo ancora in corso. Secondo questa prospettiva, il passo decisivo in direzione di un adeguato "sistema filosofico" è effettuato dall'opera kantiana: ciò convince ulteriormente Fichte che si possono utilizzare appieno le intuizioni di Leibniz solo attraverso le categorie del criticismo.
Altro passaggio importante è quello che contempla la mediazione fichtiana di Jacobi. Com'è noto, Leibniz viene citato da quest'ultimo per un confronto con Spinoza ed allo scopo di sostenere la stretta identità di "vita e coscienza". Leibniz ne avrebbe "presentito" la necessità, ma rimane ancora ancorato all'idea di una "sostanza immateriale" fondamento e causa delle sue stesse rappresentazioni. Nonostante le proprie prese di posizione, Jacobi manifesta chiaramente l'intenzione di disporsi a rintracciare l'unità della monade nella medesima monade. Con Schelling la questione è assai piú complessa. L'unità del fondamento monadico viene qui ricercata senza trascurare il concetto di Natura. Inoltre, egli legge, negli anni delle Philosophische Briefe (1795), Leibniz e Spinoza all'insegna della polemica contrapposizione tra dogmatici e critici. Tutto ciò all'insegna di una convinzione: pur affidando le speranze di riscatto della filosofia alla tradizione del criticismo, è possibile rintracciare nella consuetudine dogmatica considerevoli elementi speculativi, degni d'essere segnalati come autorevoli "anticipazioni" del punto di vista ultimo, quello critico, con tanta fatica conseguito.
Leibniz, cosí, diviene, a suo modo, un "idealista", per cui è inconcepibile il carattere di "cosa in sé" della monade, ma va valorizzata la sua caratteristica d'essere un "centro di rappresentazioni". Inoltre, se Spinoza aveva posto un netto iato tra finito ed infinito, Leibniz partecipa di tale distinzione, per quanto si dimostri incline ad intrinsecare - in modo indiretto - l'infinito nella monade. Provvede, viceversa, un'errata interpretazione dell'"armonia prestabilita" - a giudizio di Schelling - a ricondurne il pensiero nell'alveo del dogmatismo. "Questa brillante rappresentazione di Leibniz - scrive Ivaldo - è insieme un'autorappresentazione di Schelling stesso, o meglio del suo proprio programma sistematico" (p. 47): come al solito, Leibniz "precorre", ma va "superato".
Dalla ricezione delle prese di posizione filosofiche del suo tempo su Leibniz, Fichte impara ad intendere la natura dei nuclei problematici del pensiero leibniziano. Egli è impensierito dalle analogie e dai contrasti con Spinoza ravvisati da Jacobi, è sedotto dall'impianto della lettura leibniziana di Schelling, ma non concorda con gli scopi dimostrativi del primo, né con il disegno speculativo del secondo ormai alle soglie del Sistema dell'idealismo trascendentale del 1800. Il vero carattere dell'approccio di Fichte a Leibniz è "il radicamento dell'eredità trascendentale kantiana" (p. 48). Il resto è, per cosí dire, una questione di contorno.
Nella Seconda introduzione alla Dottrina della Scienza, Fichte osserva che Leibniz, "se inteso bene […], ha ragione"(12). Kant aveva definito la "convinzione" un "tener per vero", un atteggiamento di pensiero, "valido per chiunque possieda ragione", teso a rintracciare un solido fondamento a giustificazione della realtà delle cose(13). A Fichte, Leibniz appare "convinto". Lo stesso potrebbe dirsi di Spinoza e di Kant, se non fosse che al primo manca la capacità di "riflettere nel pensiero sul suo proprio pensiero" ed al secondo un'adeguata deduzione trascendentale in grado di abbattere il 'muro' del noumeno. Secondo Fichte, Leibniz supera l'"illusione" kantiana della presenza di una "cosa in sé" o, meglio, non ne rimane vittima. In questo senso "ha ragione": tutto può essere spiegato risalendo al Principio unico dell'essere. Tutto sta nel saperlo trovare. Ciononostante, Leibniz dev'essere bene inteso, poiché le sue intenzioni convivono con una spessa crosta dogmatica.
La monade è un principio attivo, che, tuttavia, non riesce a riflettersi su di sé. Lo schema della monadologia, dunque, è valido, è combinabile con il punto di vista trascendentale e da quest'ultimo bisogna partire per restituire Leibniz alla pienezza del suo pensiero. Ciò è possibile - secondo il metodo teorizzato da Fichte - distinguendo la lettera dei testi dallo spirito che vi circola, cosí, in nome di una sorta di comune afflato trascendentale, si può trascegliere l'essenza speculativa dagli epifenomeni, una volta considerato il punto di vista idealistico-trascendentale come il punto d'approdo della Filosofia(14). Nella fattispecie, nella monade circola lo spirito dell'"appercezione trascendentale" kantiana e nell'"armonia prestabilita" la categoria della relazione. Ci sono tutte le premesse, dunque, per passare dall''idealismo ontologico' di Leibniz a quello trascendentale da lui stesso elaborato.
Il testo nel quale compare l'esposizione fichtiana del sistema di Leibniz ha per titolo Lezioni di logica e metafisica (1797). Qui Fichte commenta gli Aforismi filosofici (1793) di Ernst Platner. Quest'ultimo aveva ricostruito il percorso leibniziano che conduce alla costituzione del mondo come aggregato di sostanze semplici, dedicando particolare attenzione all'analisi dei problemi dello spazio e della materia. Il tratto significativo è l'accostamento di Leibniz a Kant. Fichte, commentando Platner, considera del tutto analoga la loro concezione dello spazio fisico, sottolineando come in Kant tale questione rintracci una propria giustificazione trascendentale e come in Leibniz si radichi nella "nostra facoltà rappresentativa"(15). Inoltre, nelle relazioni tra le monadi non vi sono vincoli tali da escludere l'importanza della categoria della libertà. Questi due aspetti colpiscono Fichte in modo decisivo. L'intero idealismo trascendentale vuole essere, a sua volta, un sistema della libertà, pertanto non può venir trascurata la vocazione relazionale che è parte dello statuto ontologico della sostanza individuale leibniziana. In piú, poiché dall'analisi delle funzioni gnoseologiche della monade emerge una notevole prossimità rispetto al nuovo sistema della Ragione, allora l'impostazione leibniziana merita di essere conservata come una lucida preconfigurazione dello stesso punto di vista trascendentale.
Nelle citate Lezioni, Fichte indugia a lungo su questi punti. Ma è soprattutto il confronto con Kant ad impensierirlo. A giudizio di Fichte, tra l'a priori ed il disincantato innatismo critico di Leibniz non può porsi una netta distinzione. Quando Kant critica l'innatismo leibniziano ne fraintende il senso. Fichte ha ben chiaro il rifiuto kantiano dei concetti innati esposto nell'opera contro Eberhard e le sottili critiche rivolte all'esito anfibolico del razionalismo di Leibniz contenute nella prima Critica. Come le "forme pure" di Kant, cosí i "concetti innati" di Leibniz fanno parte di quel corredo di forme attraverso cui si organizza l'esperienza e si giudica il mondo. L'analogia tra le due posizioni speculative non è sinonimo, però, della stretta uguaglianza tra le stesse. Manca, a Leibniz, l'idea dell'"unità dell'appercezione" ed un adeguato procedimento deduzionale. A tutto ciò ha provveduto in parte notevole Kant ed in funzione di ciò Leibniz può essere considerato un filosofo pre-trascendentale. Quel che rimane da compiere in filosofia lo realizzerà la Dottrina della scienza. Ciò conferma ulteriormente l'intenzione fichtiana di presentare il proprio sistema come il completamento della filosofia critica.
Sottolinea, nello specifico, Ivaldo che l'idea leibniziana dell'autoinnatismo delle monadi costituisce, per Fichte, un utile ausilio per la ricerca del fondamento primo della conoscenza umana in generale. Tra le cose, inoltre, che la monade può intuire di sé v'è la libertà di relazionarsi con l'altra. Per Fichte, tutto questo è di enorme rilievo, a patto, però, di non ipostatizzare alcuna idea astratta, dotandola di una dimensione di assolutezza tale da condurla a cadere in un'ulteriore forma di dogmatismo. Nelle Lezioni, quello di Leibniz viene considerato un "sistema metafisico sublime", persino superiore a quello di Spinoza, perché "non nega la libertà"(16). Su questo tema, il piano della trattazione rispetto al Platner è affatto diverso. Non piú Leibniz messo a confronto con Spinoza e con Berkeley sul problema della rappresentazione dei fenomeni, ma un Leibniz saggiato nella sua caratura filosofica dalla comparazione con il sistema critico kantiano e con l'idealismo dello stesso Fichte. Alla negazione della materia, verso cui indulge l'idealista dogmatico, Fichte replica pensando al processo conoscitivo in termini di "sintesi", senza piú "ipostasi" di cose in sé.
L'idealismo speculativo consente di raggiungere l'unico fondamento della coscienza, per cui la "filosofia trascendentale è in definitiva spiegazione genetica del fatto-di-coscienza della materialità" (p. 94). In tale ottica, il pensiero di Leibniz rimane ancora legato alla dimensione "fattuale", nonostante, per esempio, la teoria delle "percezioni confuse" manifesti l'esigenza di stabilire un fondamento certo ed unico delle nostre rappresentazioni. In questo, del resto, si era dimostrato insufficiente persino Kant. La conoscenza è "sintesi", secondo Fichte, a patto di offrire il giusto spazio ad una nuova concezione dell'"immaginazione" tale da rendere ragione della dialettica Io-Non-Io(17). Ma l'Io caratterizza la propria attività per una continua tensione verso l'infinito(18), pertanto ritorna alla mente l'attributo dell'"appetizione" predicabile della monade.
Il confronto, anche qui, è strumentale alla costituzione della fisionomia teoretica dell'idealismo speculativo. Precisa, infatti, Ivaldo come la teoria della relazione contenuta nella monadologia presupponga la presenza (in senso realistico) delle determinazioni poste assieme nel sistema: è fuori dall'orizzonte mentale di Leibniz, infatti, l'idea d'intersecare l'Io e la categoria di relazione. Ciononostante, la monade che "viene all'essere" lascia intendere una significativa differenza rispetto al rigido determinismo di Spinoza. Ci si muove in entrambi i casi, giudica Fichte, nel solco di un sostanziale "intellettualismo" ancora lontano dall'intravedere soluzioni autenticamente speculative. Se l'Io è sforzo e se si descrive mediante un costitutivo contrasto dialettico con il Non-Io, allora ne viene a conoscenza nel processo d'intuizione intellettuale di sé, il quale, a sua volta, viene proiettato a ricercare, nella descrizione dei fenomeni, la loro dimensione genetica. Alla luce di una simile impostazione, il pensiero di Leibniz offre non pochi ausili: le "relazioni intermonadiche", l'"appetizione", l'"armonia prestabilita", le "piccole percezioni".
È la teoria dell'"armonia prestabilita", però, a colpire Fichte in modo piú intenso. In particolare, un aspetto: Leibniz aveva definito la monade un "centro" di rappresentazioni, lo "specchio vivente dell'universo"(19). Come si dà - si domanda Fichte - un simile circuito di rappresentazioni? L'"armonia prestabilita" risolve il problema, essendo un universo nel quale si corrispondono singole determinazioni individuali. In questo senso essa costituisce una "buona ipotesi", per quanto l'ordine delle relazioni intermonadiche non preveda come proprio elemento costitutivo il fondamento speculativo della libertà. Solo un'idea di ragione come quella proposta da Kant nella Critica della ragion pura avrebbe trasformato questa "buona ipotesi" in un autentico sistema speculativo, l'armonia prestabilita in un'"armonia trascendentale" (p. 132). Leibniz continua, invece, ad ipostatizzare la monade, ricadendo "in un'ontologia dogmatica" (p. 136), quella che riconosce un essere originario rispetto a cui subordinare ogni manifestazione di pensiero.

II. La monade e l'Io

Estremamente significativa è la Parte terza del libro di Ivaldo. Qui lo studioso propone una "'lettura prospettica'" (p. 164) del pensiero di Leibniz; una lettura, in altri termini, di Leibniz dal punto di vista di Fichte, volta a chiarire il senso della ricezione fichtiana del sistema monadologico. Con un ulteriore obiettivo: cercare di far chiarezza su alcuni punti oscuri di quest'ultimo proprio a muovere dalle interpretazioni fichtiane. Detto altrimenti, l'intento è di instaurare un circuito ermeneutico di reciproco rinvio, allo scopo di consentire a ciascuno dei due autori di chiarirsi attraverso il contributo dell'altro. Tale interazione interpretativa non si realizza certo trascurando le differenze, i contesti, gli obiettivi critici di questi due colossi del pensiero moderno e contemporaneo, ma, nel delineare i contenuti delle prospettive filosofiche, intende evidenziare quanto un pensiero "ha saputo dischiudere di conoscenza vera e perciò autenticamente ricevibile e sviluppabile" (Ib.). Il tutto ispirato dalla "convinzione che la veduta fenomenologica offra un accesso produttivo per una comprensione filosofica rilevante delle posizioni filosofiche" (p. 165), nella fattispecie del sistema filosofico di Leibniz.
Assumiamo, per ora, quest'assunto in forma problematica. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che, in una simile impostazione, emerge la convinzione secondo cui è l'assetto speculativo della filosofia trascendentale a costituire il metro di valutazione dei singoli percorsi di pensiero precedenti e storicamente determinati. Può essere, certo, legittimo pensare di chiarire certi percorsi partendo dal modo in cui un dato autore li ha intesi. Ma questo può significare allontanarsi dalla lettera dei testi. Studiare, infatti, il 'Leibniz' di Fichte non equivale sempre a studiare Leibniz. Raggiungeremo questa convinzione, confermando la problematicità delle "letture prospettiche"(20) (non a caso proposte da autorevoli studiosi dell'idealismo), quando avremo modo di riflettere, piú avanti, sull'assetto della monadologia, letta secondo la posizione che essa assume nell'evolversi del pensiero di Leibniz e secondo il senso che le attribuiscono i maggiori protagonisti della Leibniz-Forschung contemporanea.
Secondo quanto abbiamo sinora stabilito, l'ontologia di Leibniz, a giudizio di Fichte, dev'essere letta nella prospettiva aperta dalla Critica della ragion pura. Il suo carattere dogmatico discende dalla partecipazione alla tradizione del cartesianesimo, a cui pure va attribuito il merito di aver focalizzato l'attenzione sul tema del cogito. L'impianto interpretativo di Fichte è sottile: Leibniz, come già Cartesio e Spinoza, possono essere letti come filosofi pre-idealisti in funzione della loro capacità di anticipare il punto di vista trascendentale. Non solo: se quest'ultimo è l'unico orizzonte vero della filosofia, allora le loro intuizioni speculative possono essere considerate come germi realizzati - magari in forma ancora fosca o embrionale - della verità dell'idealismo. Dunque, nel mentre essi anticipano il sistema dell'Io già ne propongono le prime innervazioni, confermando che non si può non pensare in modo filosoficamente significativo se non alla maniera della filosofia trascendentale. Cosí, secondo Fichte, sia Cartesio, sia Leibniz colgono il momento della "riflessione": in tal modo anticipano e realizzano un pensiero già trascendentale, ne costituiscono una traccia, costituendo, nel contempo, una spinta euristica tesa a realizzarlo nella sua pienezza.
La monadologia è, a sua volta, una metafisica della sostanza retta dal principio di azione(21). Azione è energia, dunque movimento. In questo senso, la sostanza per Leibniz è enteléchia, è identità dell'atto con sé in quanto determinante la cosa. Il termine fichtiano che esprime in modo piú ravvicinato questa concezione della sostanza è Tathandlung, concetto posto a designare l'attività incessante dell'Io che si è già colto, mediante intuizione intellettuale, come libertà. Anche la sostanza di Leibniz agisce, tende, ma è priva del momento dell'autocoscienza. Ciò non significa - sottolinea Ivaldo - che Leibniz non abbia bene a mente la distinzione tra coscienza ed autocoscienza. Ciononostante, i due momenti in Leibniz appaiono come distaccati ed al cosiddetto momento dell'autocoscienza egli continua a guardare con un certo distacco a causa del complesso processo di revisione del cartesianesimo in cui si era impegnato, meditando Locke.
Non si può dimenticare, però, la larga attenzione dallo stesso Leibniz rivolta alla "conoscenza dell'anima" ed alla distinzione tra cogito e cogitata. Del resto, si trae conferma di ciò dal celebre adagio dei Nuovi Saggi in cui Leibniz prende posizione intorno al problema dell'innatismo, tradendo la convinzione dell'indeducibilità della ragione(22). Queste idee di una sostanza-azione a fondamento di un sistema dinamico dell'essere (l'"armonia prestabilita") e della superiore dignità della facoltà razionale costituiscono gli elementi che piú seducono Fichte in quanto ritenuti autenticamente trascendentali. Naturalmente, a giudizio di Fichte, la monade di Leibniz, pur essendo sostanza liberatasi dal giogo del meccanicismo ontologico classico, non raggiunge l'autocoscienza, non si coglie per intuizione intellettuale(23). In definitiva, "per Fichte la monade (l'io finito) è attività capace di riflessione su di sé perché è costituita da un agire ritornante in se stesso" (p. 188). In questo modo, la determinazione individuale coglie se stessa e fonda la Tathandlung dell'Ich. I principî dell'Io, poi, ne sanciranno l'impianto speculativo in quel gioco di identità e relazione (III Principio) che Fichte vedrà desunto proprio dal principio leibniziano di ragion sufficiente(24).
Secondo Fichte, dunque, Leibniz ha il merito d'aver intuito che la monade va descritta come sostanza attiva. C'è dell'altro. Essa è, s'è detto, "specchio vivente dell'universo", perché centro di rappresentazioni; è, inoltre, autonoma, pur rimanendo determinabile(25). Ciascuna, poi, tende a combinarsi con l'altra nel quadro dell'"armonia prestabilita". È, qui, evidente l'analogia con le posizioni della Dottrina della scienza: anche l'Io si autopone (I Principio), si crea un mondo e con esso si con-fronta per determinare la propria identità.
Tra le facoltà della monade, Leibniz annovera la "percezione" e l'"appetizione". La prima si riferisce all'attività rappresentativa della stessa monade, la seconda al tendere da una percezione all'altra(26). Di questo processo la monade piú elevata, l'anima umana, ha consapevolezza, nel senso che appercepisce se stessa(27). Il flusso di percezioni è continuo, anche quando esse sono "piccole" o pressoché "insensibili"(28), a differenza della piena identificazione di pensiero e coscienza in Cartesio e Locke. Ora, il momento dell'appercezione costituisce, per Fichte, l'aspetto "empirico-dogmatico" di questa fondamentale funzione trascendentale che Leibniz avrebbe previsto. Invece, "secondo la filosofia trascendentale ci si può accorgere […] del proprio percepire, perché si è costituiti in atto dalla capacità originaria dell'appercezione" (p. 226). La filosofia trascendentale, in definitiva, rende autocosciente la capacità rappresentativa della monade e porta a coglierne la genesi. La riflessione leibniziana sull'anima è un utile punto di partenza(29).
Il tema della percezione in Fichte è legato a quello del "ricordo" in relazione al quale l'Io si costituisce come determinazione continua(30), proprio come per la monade legata alla determinazione della sua identità. Ciò senza dimenticare il principio dell'azione che, per Fichte, è sempre pervaso dalla libertà. L'Io, inoltre, è Ragione, Spirito, condizione di possibilità degli oggetti. Anche se manca a Leibniz il momento della ri-flessione dell'Io, al pensatore di Lipsia spetta un posto privilegiato nella genealogia della filosofia trascendentale.
L'Io è azione, s'è detto. Per tale ragione, la vis speculativa di Fichte è ancora attratta dalla tematica dell'appetizione tra le monadi, legate da vincoli di condizionamento reciproco in funzione del loro grado di percezione. La monade, essendo materia e spirito, vive di questa sua ambivalenza, accrescendo o decrescendo il proprio grado di spiritualità. Anche l'Io fichtiano è in perenne contrasto con il Non-Io, pertanto la dialettica della monade ricorda assai da vicino la dialettica dell'Io. Ancora: la convivenza tra le monadi costituisce quella che Leibniz definisce agostinianamente la "città di Dio"(31); per Fichte, dare una giustificazione trascendentale al sistema dell'essere nell'intreccio tra le sue componenti rappresenta lo scopo ultimo e piú alto della Filosofia.
L'ultima parte dello studio di Ivaldo è dedicata all'illustrazione dell'idea di Lauth secondo cui, nella Dottrina della scienza del 1801/1802, "ci troviamo davanti a una trattazione che assume come punti di partenza le posizioni decisive della monadologia"(32). In quest'opera, il nome di Leibniz non viene mai citato, eppure termini quali "monade", "armonia", "mondo migliore" compaiono con grande frequenza. La filosofia di Leibniz viene ancora contrapposta a quella di Spinoza. In piú: "Fichte prende posizione contro il sistema di Spinoza […] per salvare […] una posizione e una verità specifica di Leibniz" (p. 272). Militare a favore di Leibniz significa salvare le ragioni dell'individuo dinanzi al panteismo dell'Uno-tutto. Riferirsi a Leibniz equivale a fare proprie le posizioni della vigorosa critica leibniziana all'autore dell'Ethica. Parlare dell'individuo non corrispone a liberarsi dell'Assoluto, ma a valutare in termini di irraggiamento dall'Uno le singole determinazioni individuali. Da qui Fichte muove il passo verso la considerazione dell'Assoluto come Uno-tutto che si autocomprende nell'individuo. A questo proposito, la Dottrina della scienza realizza il sapere assoluto, che è sapere dell'assoluto.
"Il sapere assoluto - commenta Ivaldo - […] è il sapere inteso come l'apertura dello sguardo e, insieme, come l'atto concreto che fanno sí che l'intenzionalità (il sapere-di) si ponga e si compia" (p. 280). Questa forma di saper è ed è completamente libera. Si giunge a comprendere l'essenza del sapere assoluto attraverso la funzione dell'intuizione intellettuale. Esiste, dunque, una tensione originaria dell'individuo verso il sapere, il quale "si attua" come libertà(33). Tutto ciò può essere interpretato come "una rifusione (e una trasformazione) trascendentale della dottrina della monade" (p. 292): la teoria delle "piccole percezioni", il sistema dei rapporti tra le monadi, la discussione su libertà e determinismo costituiscono gli elementi del sistema leibniziano che rifluiscono nel sistema fichtiano dell'Assoluto. Per traslazione: "Il sostrato dell'universo monadico è la libertà come quantificare; l'universo delle monadi è l'insieme dei punti di concentrazione del sapere assoluto nel suo effettualizzarsi come libertà quantificante, determinata dall'essere assoluto" (p. 296).
Un altro significativo parallelo ravvisato da Ivaldo è quello relativo al problema dello spazio e del mondo. Secondo Fichte, se la libertà governa l'essere, bisogna pur darsi ragione del mondo. È necessario, pertanto, inserire un parametro quantitativo per spiegare l'ordine dell'essere, fatto di aspetti e di eventi distinguibili e misurabili. In questo senso, il mondo costituisce il regno della libertà che si individua, proprio come per Leibniz, intento a meditare sullo spazio continuo su cui si fondano le articolazioni del mondo stesso. L'universo, a sua volta, viene considerato come l'universo degli individui, "sintesi di tempo e di materia" (pp. 307-8), tutti inseriti nel sistema dell'essere. Anche qui, l'eco della nota pagina leibniziana della Monadologia è evidente: la monade è sempre espressione della totalità delle altre monadi(34). Da qui prende le mosse Fichte per riflettere sulle categorie dell'identità e della differenza: l'io si trova immerso nel sistema delle relazioni interindividuali, ma deve saper dare dell''io' a se stesso e del 'lui' agli altri(35), dev'essere in grado di intuire se stesso e di sapere l'altro da sé.
L'individuo, inoltre, a giudizio di Fichte, si colloca come punto d'intersezione tra il mondo sensibile dei fenomeni ed il mondo intelligibile(36). A cogliere quest'ultimo giunge il sapere assoluto. Nel sistema del mondo, l'individuo è alimentato da una "forza primitiva"(37), che ancora una volta ricorda molto da vicino l'idea leibniziana di "forza" in quanto componente costitutiva della monade. L'individuo percepisce il mondo, lo spazializza e lo lega alla propria materialità; ma è con il tempo che egli instaura un rapporto fondativo: cosí può "dire che ogni essere individuale è via via il suo 'tempo riempito'" (p. 329) dalle proprie percezioni, indice della costruzione simbolico-interpretativa del mondo stesso da parte dell'Io.
Ivaldo nota un'altra significativa prossimità tra il concetto fichtiano di "Trieb" e quello leibniziano di "appetizione". L'"impulso" crea un sistema di relazioni, articola i rapporti tra gli individui ed avvia verso l'autocoscienza del sapere assoluto proprio a partire dalla condizione di finitezza di chi si spinge a superare i propri limiti(38). Risalire ai fondamenti del sapere significa tracciare il senso della destinazione etica dell'uomo, perché si vive guidati da una legge morale e da un continuo stimolo a trascendersi.
In sintesi, la riflessione fichtiana degli anni 1801/1802 "contiene e realizza a suo modo una costruzione dell'universo monadico, che riprende la prospettiva fondamentale e anche specifiche posizioni concettuali della monadologia leibniziana" (p. 355). Naturalmente, l'approccio alla monadologia è, per cosí dire, trasversale e Leibniz serve a risalire agli atti originari della Ragione. In tal modo, l'idealismo dommatico di Leibniz viene superato; tutte le sue principali intuizioni vengono irrobustite di senso attraverso l'utilizzo dei costrutti speculativi della filosofia trascendentale. Cosí, il mondo come sistema di rapporti interindividuali viene letto all'insegna della categoria della libertà che le governa; la "vera" teodicea diviene il luogo della "trasfigurazione in noi della verità sotto la legge morale" (Ib.); il mondo delle monadi si trasforma nel sistema di individui, portatori della loro libertà, che convivono.
Nello studio del sistema speculativo fichtiano, dunque, accanto ai Kant, Schelling, Hegel, bisogna valutare appieno la fonte leibniziana "per leggere e comprendere Fichte nel suo stesso progetto sistematico" (p. 356). In tal modo, nel mentre si penetra nei meandri piú riposti della filosofia di Fichte si scrive un importante capitolo sulla fortuna leibniziana tra Sette-Ottocento.

III. Il Leibniz di Fichte e la Leibniz-Forschung

L'approccio di Ivaldo si dimostra assai fecondo sotto molti punti di vista. Innanzitutto, mette in luce l'acutezza con cui Fichte pensa la filosofia di Leibniz e ne illustra le traiettorie di flusso, i percorsi, le modalità attraverso cui tale ripensamento si realizza. Si ha, in questo modo, la possibilità di cogliere i primi momenti della nascita della filosofia trascendentale e di studiare la maniera in cui essa si articola, facendo leva su una solida logica dei precorrimenti. L'idealismo trascendentale viene considerato l'inequivocabile punto d'arrivo della vicenda filosofica occidentale. In quest'ottica, si possono utilizzare le tante intuizioni del passato in funzione del momento massimo di realizzazione del Pensare: quando si analizza il Leibniz di Fichte questo meccanismo trova una delle sue piú perspicue manifestazioni.
Ma a quale Leibniz pensa Fichte? Se l'intento di Ivaldo è quello di studiare il significato della presenza della monadologia nel pensiero fichtiano, la questione assume una piena legittimità e porta a significativi risultati. Se, accanto a ciò, come viene ribadito nella Premessa, scopo del lavoro è anche quello di far chiarezza su alcuni punti dell'opera di Leibniz attraverso la luce di riflesso che proviene dalla meditazione fichtiana, allora siamo autorizzati a chiederci: quale immagine di Leibniz discende da questa trascendentalizzazione del suo pensiero? Quella del semplice metafisico delle monadi o anche quella del logico acutissimo del calcolo preposizionale? Il quesito non è di poco conto se si considera con quanta decisione la critica ha insistito sul presunto bifrontismo del filosofo di Lipsia. Ci troviamo, infatti, dinanzi ad uno speculativo di primissima grandezza che costruisce il suo sistema ontologico sui prodigiosi risultati della meditazione logica giovanile. A lungo s'è insistito, però, sullo iato esistente tra i due momenti(39). Oggi, invece, si tende a rintracciarne le ragioni della continuità. Esiste, inoltre, il problema della diffusione dei testi. Com'è noto, gran parte degli scritti leibniziani di logica sono venuti alla luce per lo piú nel Novecento e, forse, le tematiche del calcolo logico non erano fatte per interessare l'idealismo classico tedesco, prodotto, come potevano essere ritenute, delle astrazioni finite dell'intelletto.
Sta di fatto, però, che l'immagine di Leibniz a cui accede Fichte è solo parziale. È quella del metafisico delle monadi, del paradossale pensatore dell'"armonia prestabilita nel migliore dei mondi possibili", dell'individualista responsabile di aver elaborato una teoria della relazione tale da rendere possibile quel sistema di monadi detto universo ed in grado di porsi come l'alternativa rispetto alla filosofia di Spinoza. Come si è osservato, la meditazione fichtiana su Leibniz avviene attraverso una lettura indiretta dei suoi scritti, uno studio trasversale dei suoi piú tipici filosofemi. Tra i due autori ci sono Kant e, da non trascurare, Wolff, alla cui influenza si deve l'articolazione stessa di una tradizione del leibnizianesimo nel secondo Settecento tedesco. Questo è indubbio, anche se nel testo il riferimento alla mediazione wolffiana è appena accennato. Tuttavia, se si ammette che non è al Leibniz storico che Fichte attinge per le illustrate ragioni, allora è assai difficoltoso concludere che, studiando la vicenda relativa alla comprensione trascendentale della monadologia, si possa gettare nuova luce sull'opera di Leibniz.
Si tratta, infatti, di un'opera privata del suo fondamento logico e, dunque, nel complesso, di tutt'altra identità rispetto a quella che oggi noi conosciamo. Lo studioso odierno di Leibniz, in altri termini, attraverso questo studio ha motivo di riflettere sulla tradizione del leibnizianesimo, ma è difficile che possa aprirsi nuovi orizzonti interpretativi intorno a quell'intricato articolato teorico qual è la filosofia di Leibniz. Di diversa natura il giovamento che ne può trarre lo studioso di Fichte: Ivaldo affronta con rigore l'arduo problema delle fonti del pensiero fichtiano e chiarisce su quale ramo della tradizione del leibnizianesimo esso s'innesti, avanzando sensate congetture sui tempi e le modalità della lettura fichtiana degli autori che mediarono il suo approccio a Leibniz.
Il problema è affrontato con cura da Ivaldo ed il lungo Excursus su Leibniz è servito proprio ad esprimere la differenza tra il piano storico di svolgimento delle questioni e quello incentrato sull'interpretazione trascendentale della monadologia: in questo modo si colgono le coordinate del Leibniz di Fichte. Molta parte dell'articolazione del pensiero di Leibniz rimane, invece, tutta ancora da indagare. D'altra parte, si tratta di una ricerca dichiaratamente non ancora esaurita, data l'attenzione da Ivaldo concentrata sugli scritti fichtiani fino al 1802 ed in considerazione dello stato degli inediti che costringono gli studiosi di Fichte a continui ripensamenti interpretativi a causa della tellurica tumultuosità del suo pensiero. Lo stesso discorso vale per Leibniz, la cui immagine filosofica può essere in parte destinata a modificarsi con la nuova edizione degli scritti, la pubblicazione dei quali finalmente procede, oggi, dopo molte traversìe, assai piú spedita(40).
I tanti inediti leibniziani riserveranno, di certo, non poche sorprese nella chiarificazione dei termini di quel crocicchio teorico qual è il problema dei rapporti tra logica e metafisica al fondo del suo pensiero, tra il suo nominalismo giovanile ed il teosofismo maturo. Tutto ciò assieme alla piú diretta conseguenza di definire un nuovo ruolo per la monadologia. Non è un caso, infatti, che la Leibniz-Forschung dell'ultimo trentennio abbia, a piú voci, insistito sulla necessità di modificare i criteri interpretativi da utilizzare nella lettura della teoria dei "punti di forza metafisici". C'è chi, come Massimo Mugnai, per esempio, non ha esitato ad intendere la dottrina delle monadi come la risposta, articolata in un altro linguaggio, data da Leibniz alle grandi questioni del continuo e della forza, che erano scaturite dalla rivoluzione scientifica. Le stesse questioni, in altri termini, con cui si era confrontato negli anni della produzione logica giovanile. Leibniz, infatti, rimane un logico per tutta la vita e non dimentica mai l'urgenza delle ricerche matematiche per poter cogliere le vocalità attraverso cui si esprime la natura anche quando ne studia il significato ontologico. Pertanto, continuare a pensare a Leibniz come ad un Giano bifronte costituisce un profondo limite interpretativo, che può arrivare a pregiudicare la comprensione della sua meditazione.
Per tornare al confronto fichtiano con il filosofo di Lipsia, è la monadologia, tutta intrisa del suo teosofico teleologismo, ad essere protagonista. In realtà, come dimostra Ivaldo, si tratta di autori dalle molte analogie. Entrambi risultano logorati dall'Assoluto e sedotti dall'individuo. Ma piú di qualche interrogativo impensierisce. La monadologia di Fichte è un conto, la monadologia nel suo sviluppo storico-genetico è, come s'è accennato, tutt'altra cosa. A Fichte giunge un certo Leibniz, per giunta indirettamente. Lo colpiscono alcune tematiche. Non c'è alcun interesse, però, per l'itinerario speculativo da cui sono scaturite, anche perché sono questioni che occorrono solo in funzione dell'elaborazione del sistema dell'idealismo. Questo è quanto si può arguire dal testo di Fichte e dai percorsi della sua lettura di Leibniz cosí attentamente ricostruiti da Ivaldo. Torna lo stesso problema, però: l'intenzione dichiarata di Ivaldo è quella di contribuire a gettare luce sul pensiero di Leibniz attraverso l'analisi della riflessione fichtiana. Ora, trova davvero una nuova luce il pensiero di Leibniz se letto attraverso le categorie fichtiane? Com'è possibile illuminare Leibniz mediante Fichte? Visto che non è il Leibniz storico, come può sollecitare nuove letture della sua filosofia? Come tornare a leggere Leibniz movendo da Fichte senza una robusta emendatio intellectus?
A Fichte manca il senso dello sviluppo del pensiero di Leibniz, senza la cui matrice logica la filosofia matura appare davvero monca. Del filosofo di Lipsia, dunque, si coglie solo un tratto e nemmeno il piú originale, dimenticando che la monadologia è il frutto della creatività dell'inventore del calcolo infinitesimale e del coniatore del termine "logica matematica". Tutto questo raccolto in un'unica mente speculativa, visto che non è dato supporre, alla luce delle testimonianze, un clamoroso caso di sdoppiamento della personalità! Se, dunque, è con un Leibniz dimezzato che Fichte ci conduce, indirettamente, a confrontarci, allora la sola luce sul pensiero di Leibniz che può sopraggiungere da questo studio è quella relativa alla Wirkungsgeschichte della sua filosofia o quella discendente da una piú piena presa di coscienza degli aspetti della sua meditazione che piú ebbero a colpire ed a condizionare la riflessione filosofica successiva. In verità, non rimane molto altro. Detto altrimenti, se uno studioso di Fichte trova utilissimo lo scandaglio delle fonti dirette ed indirette del suo pensiero, il cultore del pensiero leibniziano trova il proprio autore lacerato, a tratti selvaggiamente segmentato. Anche qui, tutto ciò ha precise ragioni storiche su cui ci siamo soffermati, ma può davvero fluidificare i percorsi dell'ermeneutica leibniziana?
Alla luce di tali considerazioni, è possibile ritornare a riflettere sul senso e sui livelli possibili della "lettura prospettica" (p. 164) di Leibniz auspicata da Ivaldo. Certo, cosí facendo, si aprono solidi spiragli intorno alla descrizione della latitudine storica del pensiero di Leibniz, per quanto sempre rispetto ad un "angolo visuale", nella fattispecie la filosofia trascendentale di Fichte. Ivaldo cita, al riguardo, Reinhardt Lauth, il quale, nel descrivere il senso e le caratteristiche della "veduta prospettica", ribadisce come essa "lascia trasparire la perennità della filosofia"(41). Se tale philosophia perennis, dunque, è quella fichtiana, allora è assai difficile "poter comprendere Leibniz nei suoi nuclei decisivi" (p. 164), com'è nelle intenzioni di Ivaldo. La lettura prospettica in tanto ha un senso in quanto si lega ad un punto di vista stabilito a priori. La storia serve a confermarlo. Altra cosa, questa, rispetto al rigore dell'esercizio storiografico e forse anche rispetto agli itinerari della comprensione ermeneutica. In altri termini, va tutto bene finché si parla di Fichte. Sorge piú di qualche problema allorché si focalizza l'attenzione su quel che di Leibniz possiamo studiare, analizzandone i testi.
Tutto questo proprio perché la teoria delle monadi costituisce un'affascinante - in parte simbolica - risposta ai problemi della scienza del suo tempo. Senza dimenticare, poi, che il filosofo del Discorso di metafisica, come va ribadito, è lo stesso che riflette sulle ragioni di una Mathesis universalis, primo e decisivo momento anteriore alla realizzazione di un'enciclopedia del sapere affidata nelle mani di dotti in grado di porsi al servizio del genere umano. In questo percorso confluiscono temi lulliani, suggestioni neoplatoniche (Bisterfeld), ideali pansofici (Comenio), ma anche la messa a punto di tecniche di riduzione alle definizioni e di calcolo integrato di concetti semplici verso la realizzazione di una logica inveniendi finalmente messa nelle condizioni di celebrare l'unità del genere umano, specchio vivente dell'unità dell'essere e dell'armonia dell'universo. Logica, matematica e metafisica, dunque, costituiscono un tutt'uno difficilmente districabile. Ed un interprete del suo pensiero non può non tenerne conto.
Chiariti questi passaggi, si deve, comunque, convenire con Ivaldo nell'intendere Leibniz una "polarità feconda" (p. 356) nell'architettonica del sistema fichtiano; cosí come si lascia appieno apprezzare l'acribica attenzione rivolta dall'Autore ai percorsi della ricezione leibniziana da parte di Fichte. Si è, in tal modo, ottenuto un nuovo capitolo della presenza del pensiero di Leibniz nel Settecento ed uno spaccato della cultura tedesca da cui presero spunto i principali protagonisti dell'idealismo ottocentesco. Come ha provveduto a fare Ivaldo rispetto a Fichte, infatti, si potrebbe operare nel segno del medesimo schema in relazione a Schelling ed a Hegel, in ordine al pensiero dei quali la filosofia di Leibniz svolge un ruolo di primissimo rilievo. I tre "eroi" dell'idealismo, infatti, meditando sulle posizioni kantiane e rintracciandone i fondamenti, trassero spunti fecondi dal simbolico contrasto Leibniz-Spinoza e, soprattutto, dall'impianto del sistema leibniziano degli elementi semplici. Leibniz costituì, perciò, un modello, per quanto aggiogato al punto di vista idealistico. Rimangono, comunque, vive le potenzialità di un pensiero, quello di Leibniz, capace di stimolare dal profondo i cultori romantici dell'assoluto, ed un altro, quello di Fichte, in grado di offrire una chiave di volta ai problemi dell'essere e del vero attraverso la messa a punto - con Kant ed oltre Kant - dei principî trascendentali dell'Io.

NOTE

(*) A proposito di M. Ivaldo, Fichte e Leibniz. La comprensione trascendentale della monadologia, Milano 2000, pp. 361. Le citazioni tratte da questo libro sono indicate, nel corpo del testo, in parentesi tonde.
(1) I. Kant, Critica della ragione pura, a c. di G. Colli, Milano 1995, p. 339.
(2) Ivi, p. 341.
(3) Cfr. ivi, pp. 342-3.
(4) K. Huber, Leibniz. Der philosoph der universalen Harmonie, hrsg. von I. Köck mit C. Huber, München-Zürich 1989, p. 333. La prima edizione di quest'opera, pubblicata a Monaco, è del 1951.
(5) Su questi stessi temi, M. Ivaldo è ritornato, di recente, nel saggio dal titolo Leibniz nella dottrina della scienza. Armonia prestabilita e intersoggettività, in "Rivista di storia della filosofia", LVII (2002), pp. 399-411.
(6) Cfr. Recueil de diverses pièces, sur la philosophie, la religion naturelle, l'histoire, les mathematiques, etc. par Mrs. Leibniz, Clarke, Newton, et autres auteurs célèbres, par P. de Maizenau, voll. 2, Amsterdam 17402.
(7) Cfr. G.G. Leibnizii Opera omnia, nunc primum collecta, in classes distribuita, praefationibus et indicibus exhornata, studio Ludovici Dutens, voll. 6, Genevae 1768.
(8) Cfr. Œuvres philosophiques latines et françaises du feu Mr. de Leibniz tirées de ses manucrits qui se conservent dans la Biblioteque Royale à Hanovre, et publiées par Rud. Eric Raspe. Avec une Préface de [Abraham Gotthelf] Kaestner, Amsterdam-Leipzig 1765.
(9) Cfr. S. Maimon, Über die Progresse der Philosophie veranlabt durch die Preisfrage der königl. Akademie zu Berlin für das Jahr 1792. Was hat die Metaphysik seit Leibniz und Wolf für Progressen gemacht?, in Streitferein im Gebiete der Philosophie, Berlin 1793.
(10) Cfr. F.H. Jacobi, Über die Lehre des Spinoza in Briefen an Herrn Moses Mendelssohn, Breslau 1785.
(11) Cfr. F.W.J. Schelling, Einleitung zu: Ideen zu einer Philosophie der Natur, Jena und Leipzig 1799.
(12) J.G. Fichte, Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, hrsg. von R. Lauth, H. Jacob, H. Gliwitzky, E. Fuchs, Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 ss., Bd. I 4, p. 265.
(13) Cfr. I. Kant, Critica della ragione pura, cit., p. 797.
(14) Com'è noto, tale metodo è teorizzato da J.G. Fichte in Über Geist und Buchstab in der Philosophie. In einer Reihe von Briefen, in Gesamtausgabe...., cit., Bd., I 6, pp. 313-61.
(15) J.G. Fichte, Vorlesungen über Logik und Metaphysik als populäre Einleitung in die gesammte Philosophie. Nach Plattners philosoph.[ischen] Aforismen 1 ter Theil 1793. Im Sommerh[alb]j[ahre] 1797, in Gesamtausgabe..., cit., Bd. II 4, p. 212.
(16) J.G. Fichte, Vorlesung über Logik und Metaphysik, in Gesamtausgabe..., cit., Bd. IV 1, p. 372.
(17) Cfr. J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe..., cit., Bd. I 2, pp. 129-33.
(18) Cfr. ivi, pp. 133-7.
(19) G.W. Leibniz, Principî di filosofia o Monadologia, in Scritti filosofici, voll. 3, a c. di M. Mugnai e E. Pasini, Torino 2000, v. III, p. 461.
(20) Cfr. R. Lauth, Vernünftige Durchdringung der Wirklichkeit. Fichte und sein Umkreis, München-Neuried 1994, p. 17.
(21) Cfr. G.W. Leibniz, Principî della natura e della grazia, fondati nella ragione, in Scritti filosofici, cit., v. III, p. 444.
(22) Ci si riferisce al celebre passaggio dei Nuovi Saggi sull'intelletto umano (in Scritti filosofici, cit., v. II, p. 86) in cui G.W. Leibniz scrive: "Nulla è nell'anima che non venga dai sensi. Ma bisogna fare eccezione per l'anima stessa e le sue affezioni (Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu, excipe: nisi intellectus ipse)".
(23) Cfr. J.G. Fichte, Zweite Einleitung in die Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe..., cit., Bd. I 4, p. 276.
(24) Cfr. J.G. Fichte, Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre, in Gesamtausgabe..., cit., Bd. I 2, p. 272.
(25) Cfr. ivi, pp. 369-70.
(26) Cfr. G.W. Leibniz, Principî della natura e della grazia, cit., pp. 344-5.
(27) Cfr. ivi, pp. 345-6.
(28) Cfr. G.W. Leibniz, Nuovi Saggi…, cit., pp. 21-43.
(29) Cfr. G.W. Leibniz, Principî della natura e della grazia, cit., pp. 345-6; Principî di filosofia o Monadologia, cit, pp. 355-6.
(30) Cfr. J.G. Fichte, Vorlesung über Logik und Metaphysik, cit., p. 237.
(31) G.W. Leibniz, Principî di filosofia o Monadologia, cit., p. 463.
(32) R. Lauth, Leibniz…, cit., p. 422.
(33) Cfr. J.G. Fichte, Darstellung der Wissenschaftslehre (1801/02), in Gesamtausgabe..., cit., Bd., II, 6, pp. 195-6.
(34) Cfr. G.W. Leibniz, Principî di filosofia o Monadologia, cit., p. 462.
(35) Cfr. J.G. Fichte, Darstellung der Wissenschaftslehre (1801/02), cit., pp. 267 ss.
(36) Cfr. ivi, pp. 273 ss.
(37) Cfr. ivi, p. 279.
(38) Cfr. ivi, pp. 291 ss.
(39) Si pensi, soprattutto, ai due corifei della Leibniz-Renaissance novecentesca: B. Russell (A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, Cambridge 1900) e L. Couturat (La logique de Leibniz d'après des documents inédits, Paris 1901).
(40) Cfr. G.W. Leibniz, Sämtliche Schriften und Briefe, Berlin 1923 ss. Tale edizione ancora in corso di tutti gli scritti di Leibniz, patrocinata dapprima dalla Deutsche Akademie der Wissenschaften e poi sostenuta da vari centri di ricerca tedeschi, annovera finora una trentina volumi nel suo catalogo.
(41) R. Lauth, Leibniz…, cit., p. 17.

 

DE GASPERI E TOGLIATTI E LA NASCITA DELLA REPUBBLICA ITALIANA: DUE DIVERSE IDEOLOGIE, UN IDENTICO METODO DI ADATTAMENTO AL TRASFORMISMO. (G. C Marino E' davvero esistita la Prima Repubblica? Le Monnier, Firenze 2002). di Gabriella Portalone

Il titolo del nuovo libro di Giuseppe Carlo Marino è senz'altro provocatorio e la provocazione stessa consente che gli spunti da essa offerti alla riflessione siano utilizzati in una chiave interpretativa ben diversa da quella in cui si colloca l'autore che è e rimane fondamentalmente gramsciano, malgrado certe sue vistose aperture al liberalsocialismo scaturente dalla lezione di Rosselli e soprattutto dalla posizione politica del Partito d'Azione. Dalla produttiva provocazione del Marino nascono le riflessioni esposte in questa nota, riflessioni che per lo più, data la sua formazione politica, l'autore, probabilmente non condividerebbe.
Mentre tanto si parla della seconda repubblica nata sulle rovine di tangentopoli e sulla base della riforma elettorale scaturita dai referendum proposti da Mario Segni, l'autore si chiede, paradossalmente, se sia veramente esistita la prima. Il significato di questa domanda è racchiuso nella considerazione che, per la classe politica italiana, erede, suo malgrado, di Machiavelli e Guicciardini, educata ad un trasformismo politico che non ha eguali in nessun altro paese del mondo, esiste un solo scopo essenziale: la conquista del potere. La forma di stato o di governo, diventa, di fronte alla meta fondamentale, un qualcosa di marginale di fronte alla quale non esistono vere preclusioni. Così, Crispi repubblicano, garibaldino e giacobino della prima ora, si adatta alla monarchia e diviene, anzi, l'uomo di fiducia di Umberto I; Mussolini, socialista rivoluzionario, antimonarchico, antiborghese, anticlericale, accetta, pur di gestire il potere, un dualismo con la Corona, un compromesso abbastanza vincolante con la Chiesa, chiudendo dopo quasi settanta anni il contenzioso tra essa e lo Stato italiano, imposta il suo programma politico all'accettazione dei principi capitalistici e alla valorizzazione, appunto, della borghesia come colonna portante della nuova Italia fascista.
D'altro canto il marxista e lo stalinista Togliatti, braccio destro del dittatore sovietico durante le grandi purghe "rivoluzionarie" contro i deviazionisti e i kulaki e contro i trockijsti della guerra civile spagnola, una volta inviato in Italia dallo stesso Stalin, dopo lo sbarco alleato, accetta con grande disinvoltura di giurare nelle mani di un Re sfiduciato, ma pur sempre sovrano, per far parte del secondo governo Badoglio. Cosa più sorprendente, accetterà più tardi, opponendosi alla posizione dei laici italiani, Croce, Einaudi, Nitti, l'inserimento del Concordato fascista nella nuova Costituzione italiana, pur di ottenere la benevolenza dei cattolici e di catturare il voto di parte delle donne, per la prima volta chiamate ai seggi elettorali. Marino, tuttavia, respinge l'accusa di trasformismo al leader comunista, sostenendo che le sue manovre politiche, miranti alla realizzazione delle "democrazia progressiva", rientravano nel programma finale, proteso al conseguimento dell'alternativa politica fondata sull'abbattimento dello stato capitalista.
Per non parlare poi di De Gasperi, convinto monarchico, nel cui cuore ancora brillava la fiamma dell'ammirazione per il glorioso Impero Austro-ungarico, di cui era stato fedele suddito e membro del Parlamento, anche durante la guerra contro la sua naturale Patria italiana, che accetta la fine della dinastia Savoia e il sorgere di una Repubblica, in cui, in cuor suo, non crederà mai, preoccupato soltanto di gestire la svolta democratica del Paese, dopo la fine della guerra e la caduta del fascismo.
Si può dedurre da tutto ciò che nelle classi dirigenti italiane, quindi negli ambienti intellettuali alla base d'ogni travaglio ideologico, non sia mai esistita la vera passione politica, l'ideale che acceca e sconvolge, fino all'eroismo, nella lotta per il suo trionfo?
A questa domanda a cui l'autore evita di rispondere esplicitamente per amor di patria, io risponderei positivamente. Pur essendoci stati in Italia uomini che hanno sacrificato anche la vita per il trionfo di un ideale, essi sono sempre rimasti al margine della vera storia del Paese, di cui i protagonisti, invece, sono sempre stati gli eredi di Machiavelli e Guicciardini, gli uomini convinti che il fine giustifica i mezzi e che se il fine è la conquista del potere, ben vengano compromessi, alleanze innaturali o principi estranei alla propria cultura.
Lo Stato Italiano sorto nel 1861, nacque su basi erette e saldate da principi trasformistici: il connubio Cavour- Rattazzi che permise di emarginare i partiti estremi e dare ai moderati la gestione della politica piemontese; l'appoggio regio al "sovversivo" Garibaldi e ai suoi "pericolosi" e indisciplinati seguaci, pur di conquistare un Regno di nove milioni di abitanti; l'accettazione del sistema unitario centralizzato al posto del federalismo, da sempre vicino alla posizione della Destra liberale, pur di non perdere ciò che si era conquistato. Ma dall'altra parte, anche Garibaldi e Mazzini non furono estranei al compromesso: il repubblicano Garibaldi accettò la vicepresidenza della monarchica Società Nazionale, pur di avere l'appoggio dei Savoia per una politica che portasse all'unificazione del Paese, così come accettò, durante la dittatura in Sicilia, che venisse proditoriamente imposto da Cavour lo Statuto piemontese, prima che il popolo siciliano si fosse espresso riguardo all'annessione al regno sabaudo, pur di poter seguitare la sua spedizione militare fino alla conquista di Roma. E Mazzini, che premetteva la repubblica a qualsiasi altra cosa, non solo si mostrò incapace di arginare, con il suo schieramento politico, il trasformismo di Cavour, ma addirittura accettò la monarchia e i maneggi della classe politica moderata, come prezzo per vedere realizzato il sogno della sua vita: l'Italia unita.
Dunque, lo stesso Risorgimento fu un capolavoro di trasformismo e tale tecnica trasformista fu allora e lo sarebbe stata in avvenire, la causa della mancata rivoluzione culturale e politica italiana che "non può che realizzarsi come una concreta negazione del trasformismo, in quanto e perché non mira a "trasformare" (cioè ad assicurare una continuità con il passato) ma a cambiare la realtà in modo profondo e permanente"( p. 12)
Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere, procede ad un'analisi del trasformismo italico su basi quasi scientifiche, distinguendo tre diversi periodi storici: dal 1860 al 1890, periodo caratterizzato da un trasformismo molecolare, o individuale, per esempio la conversione di rivoluzionari e radicali, come Crispi, Cairoli, Carducci, al moderatismo; dal 1890 al 1900 ci fu, attraverso la traduzione del Capitale e la diffusione della vulgata marxista su basi più idealistiche, soprattutto per opera d'Antonio Labriola, un notevole passaggio degli intellettuali progressisti nei partiti di sinistra, più che socialisti, democratici; infine, dopo il 1900, soprattutto ad opera di Giolitti, iniziò un processo trasformistico di massa. L'analisi di Gramsci finiva per evidenziare che solo la fondazione di un partito leninista e rivoluzionario, come il Partito comunista, nel 1921, aveva rotto in Italia la logica atavica del trasformismo, ma gli eventi storici del dopoguerra, anche in questo caso avrebbero dimostrato il contrario.
Raggiunto l'apice del trasformismo, prima con il colpo di stato del 25 luglio 1943, scaturito dall'alleanza tra fascisti antimussoliniani, esercito, Corte e antifascisti puri, poi con l'8 settembre, quando il vero campione dell'opportunismo italico, il maresciallo Badoglio, dopo aver cambiato alleanze da un giorno all'altro e aver lasciato l'esercito italiano allo sbando, pensò bene di mettersi al sicuro con la Corte a Brindisi, oscurando forse per sempre, negli italiani il senso dello Stato e della Nazione, anche il nuovo assetto politico nato dalla lotta resistenziale, si apprestava a sorgere su un compromesso all'italiana "che assicurò agli antifascisti il titolo formale di 'vincitori', ma a patto di riassorbire, con morbida e ufficiosa progressione, i fascisti, i 'vinti', in un nuovo assetto del Paese più caratterizzato dalla continuità che dalla rottura con il passato" (p. 32). Con la Liberazione si attuò un'alleanza, destinata a durare fino al 1947, tra le più innaturali, che vedeva, da una parte, i comunisti e i socialisti, i quali erano riusciti, grazie ad una migliore organizzazione militare e ad un più capillare indottrinamento ideologico, a conquistare l'egemonia nella conduzione della Resistenza, assieme ai laici del partito d'Azione, dall'altra parte i cattolici della neonata Democrazia cristiana, in cui confluiva di tutto: dagli eredi di Sturzo, agli integralisti dossettiani, ai clerico - fascisti di Gedda e di Gonella. Il futuro scontro politico si sarebbe articolato non tanto tra repubblicani e monarchici, o tra fascisti e antifascisti, ma tra i due partiti egemoni della coalizione ciellenista: comunisti e democristiani, rappresentanti di due diverse culture che convergevano tuttavia, in parte nell'integralismo, presente soprattutto nella sinistra democristiana dei 'professorini' dossettiani e nella destra clericale dei 'comitati civici' di Gedda e, soprattutto nell'assenza, pressoché totale, di senso della nazione, anche se a quei tempi tutti si professavano patrioti, derivante dall'internazionalismo marxista, da una parte, e dall'ecumenismo cattolico, dall'altra.
I protagonisti di tale scontro, De Gasperi e Togliatti, sarebbero stati anche i costruttori della nuova Italia, legata strettamente al passato appena concluso e che, paradossalmente, pur se edificata da uomini che nulla avevano a che vedere con la cultura liberale antifascista, a tale modello, soprattutto, finiva per riallacciarsi.
Togliatti, tra i più pragmatici politici che la storia d'Italia abbia conosciuto, adattandosi alle circostanze, non solo aveva accantonato, almeno per il momento, la questione istituzionale, ma aveva superato l'impostazione gramsciana e leninista, ponendosi come traguardo la trasformazione della società italiana in senso socialista, gradualmente e in maniera non violenta, attraverso la cosiddetta 'democrazia progressiva'.
Più complesso era il compito di De Gasperi, fondatore di un partito che aveva poco a che vedere con il Partito Popolare di Sturzo che, seppur basato sulla dottrina sociale della Chiesa, era un partito profondamente laico. La Democrazia Cristiana, invece, era nata come il partito dell'unità dei cattolici, dunque era chiaramente confessionale e strettamente legato alle direttive vaticane. Era, inoltre, un partito dalle mille anime che, per la numerosa presenza d'ex fascisti, molti dei quali non erano per nulla pentiti del loro passato, appariva quasi come il naturale candidato, per dirla alla maniera di Scoppola, alla successione cattolica al fascismo, con la visione di uno stato molto vicino ai modelli spagnoli e portoghesi, espressi dai regimi di Franco e di Salazar. E fu senz'altro questo, fra gli altri, uno dei motivi che indusse De Gasperi, dopo il trionfo della DC nelle elezioni del 18 aprile 1948, a respingere l'idea di dar vita ad un governo monocolore democristiano.
La Chiesa, peraltro, sapeva che attraverso la Democrazia Cristiana avrebbe potuto rafforzare il ruolo politico che si era già conquistato in Italia durante il fascismo. S'impose, dunque, di indirizzare politicamente il partito di De Gasperi, sapendo quanto lo stesso avesse necessità di appoggiarsi sulla forza delle parrocchie che, nella logica della contrapposizione fra due partiti integralisti, corrispondevano alle cellule politiche del PCI, sparse in tutto il territorio e nelle varie collettività.
Al culmine del pragmatismo, la Chiesa si rassegnò ad accettare, almeno provvisoriamente, i cosiddetti cattolici comunisti che, in una logica di scontro internazionale fra le due superpotenze, avrebbero potuto dare al Vaticano qualche chance in più nei rapporti con l'URSS. Le alte gerarchie ecclesiastiche, tuttavia, erano particolarmente propense ad allearsi con la destra, addirittura, dopo la fondazione del MSI, con la stessa destra neo-fascista, sia per il naturale carattere anticomunista di quel partito, sia per le simpatie corporative di gran parte del clero e degli iscritti e dei dirigenti democristiani, come, per esempio, Gonella. Di tale linea politica erano sostenitori, oltre alla prestigiosa rivista gesuita Civiltà cattolica, Mons. Tardini, il Cardinale Ottaviani, il Cardinale di Palermo Ruffini, Sturzo e, infine lo stesso Papa Pio XII. A proposito, non si può non ricordare la cosiddetta Operazione Sturzo del 1952, manovra concordata tra il Papa e il sacerdote calatino per presentare alle elezioni amministrative di Roma una specie di lista civica costituita da cattolici e neo fascisti, per salvare l'amministrazione capitolina dall'assalto dei rossi. L'operazione non ebbe successo per il veto di De Gasperi che, da quel momento in poi, sarebbe stato apertamente malvisto dagli ambienti vicini al Pontefice. Lo statista trentino, non poteva che comportarsi in tal modo se voleva fare del suo partito il partito guida della nuova Italia. La Democrazia Cristiana, infatti, avrebbe dovuto essere un partito di centro che guardava a sinistra, per conquistare le masse contadine e piccolo - borghesi, per spogliarsi, anche a livello internazionale, della diffidenza degli ambienti antifascisti, per qualificarsi, ogni giorno di più, come indipendente dal Vaticano, conquistandosi, così, la fiducia dei partiti laici, partiti, ricordiamolo, in cui confluivano quei 'poteri forti', registi indiscussi dell'economia nazionale.
Insomma se voleva impadronirsi del potere, la cui gestione ancora condivideva con le sinistre, la DC doveva per forza assumere i caratteri di un partito interclassista, pronto a sostenere gli interessi del grande capitale nazionale, ma nello stesso tempo disponibile a riforme radicali, o quasi, come la riforma agraria, per venire incontro alle esigenze dei più umili, senza mai rinunziare a difendere la sacralità del diritto di proprietà su cui si fondava la società borghese e a cui aspirava anche la stragrande maggioranza del mondo contadino .
Bisognava certo liberarsi degli innaturali alleati marxisti, ma c'era ancora tempo! Da buon politico che premette le contingenze agli ideali, De Gasperi sapeva di avere due mete importanti da raggiungere, mete per il cui conseguimento era indispensabile l'aiuto di Togliatti, sia per il suo peso internazionale, dato dalla vicinanza all'URSS di Stalin, sia per il suo seguito fra le masse operaie e contadine del Paese.
La prima importante meta era costituita dalla firma del trattato di pace, che si era rivelato per l'Italia, malgrado essa avesse invocato presso gli anglo-americani i meriti della cobelligeranza nell'ultimo periodo del conflitto, una pastiglia troppo amara da mandar giù. Esisteva il problema di Trieste, città italianissima la cui perdita era considerata dagli italiani una vera e propria profanazione del loro sentimento nazionale. Per sistemare tale questione l'appoggio di Togliatti avrebbe potuto servire, data la sua influenza su Stalin, da cui sarebbe dovuto dipendere l'irrequieto maresciallo Tito. Vero è che Togliatti aveva cercato di risolvere il problema cedendo, scandalosamente, Gorizia alla Iugoslavia, al posto di Trieste, più rilevante storicamente, ma soprattutto economicamente, data la presenza dell'importantissimo porto, ma indipendentemente dal fatto che più che gli interessi della sua patria a Togliatti stessero a cuore i successi dell'internazionalismo marxista, mediante il solito gioco dei maneggi sotterranei e delle concessioni reciproche, la sua presenza nel governo italiano in quel momento, era senza dubbio vantaggiosa, visto, soprattutto, l'astio dimostrato dagli inglesi nei nostri confronti e la diffidenza degli americani. L'appoggio di Togliatti e dei comunisti serviva a De Gasperi, inoltre, per far digerire al popolo italiano le umiliazioni che il trattato di pace ci avrebbe imposto. Grazie all'alleanza con i comunisti, il governo si sarebbe messo in salvo da pericolose manifestazioni di piazza, espressioni dello scontento generale e naturale sfogo di un popolo esasperato dalla guerra, dalla sconfitta e dalle loro conseguenze.
Altra meta non meno ambiziosa era quella relativa al varo della nuova Costituzione, vero e proprio monumento del compromesso catto-comunista, prodotto di un'alleanza tanto innaturale quanto efficace che aveva spiazzato le opposizioni provenienti dai partiti laici. Esempio illuminante è dato dall'introduzione delle norme concordatarie nel testo costituzionale, nel famoso articolo 7, contro il quale liberali come Croce o Sforza lottarono fino allo stremo delle forze. Se De Gasperi aveva bisogno della legittimazione costituzionale del Concordato fascista per attenersi ai voleri del Vaticano, Togliatti comprendeva che sostenendo l'avversario in tale questione e spiazzando i piccoli partitini laici, non solo consacrava l'egemonia del suo partito nel contesto della politica italiana, imponendo alla DC altre contropartite che essa non avrebbe potuto rifiutare, ma soprattutto evitava di passare davanti alla Chiesa e alle masse cattoliche, soprattutto davanti alle donne chiamate per la prima volta a votare, non come il mangiapreti che effettivamente era. Si trattava in fondo di un'operazione che, se favoriva la Democrazia Cristiana, si presentava, paradossalmente, come un inaspettato strumento propagandistico a favore del Partito Comunista.
Sulla Costituzione, in fondo, le concessioni fatte ai comunisti furono più di forma che di contenuto. Si accettò nel preambolo che l'Italia fosse definita 'una repubblica democratica fondata sul lavoro'e nata dalla Resistenza, accogliendo la proposta mediatrice di Fanfani, facendo dell'antifascismo di sinistra la fonte di legittimazione storica del nuovo Stato, ma fu De Gasperi a dettare le parti più sostanziali del sommo documento normativo. Ottenne tale successo delegando proprio gli uomini della sinistra dossettiana, quelli che sprezzantemente chiamava 'i professorini' a trattare con i social comunisti. Riteneva, a ragione, che gli integralisti della Democrazia Cristiana fossero più adatti a trattare con Togliatti.
Una volta raggiunte le mete propostesi, il buon De Gasperi non esitò a liberarsi senza rimorsi dell'alleato comunista, pur adducendo come pretesto per la rottura dell'unità antifascista, il volere degli americani, che non era opportuno contrariare proprio nel momento in cui si apprestavano ad erogare all'Europa e in particolare all'Italia, milioni di dollari per la sua ricostruzione. Mettere in pericolo la possibilità di usufruire del Piano Marshall, sarebbe stato anche per Togliatti un cattivo affare, alla luce dei reali e sempre più pressanti bisogni delle masse che chiedevano pane e lavoro.
Dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, nella primavera del 1947, viaggio da cui sarebbe scaturita la promessa, appunto, di sostanziali aiuti in cambio di un netto schieramento internazionale dell'Italia, nonostante da più parti politiche si auspicasse la scelta del 'non allineamento', si delineò il paradosso di uno Stato gestito da due partiti che nulla avevano di nazionale, non solo per la loro storia ideologica, ma anche perché dipendevano strettamente da due superpotenze contrapposte, Stati Uniti ed Unione sovietica. La DC, destinata a governare l'Italia ininterrottamente per quasi cinquant'anni, si sarebbe quindi rivelata come "un 'partito nazionale' degli italiani la cui paradossale 'italianità', quanto agli interessi da rappresentare e da tutelare, spesso non avrebbe avuto altro contenuto che una strana miscela di americanismo e cattolicità. In definitiva in quel partito ci sarebbe stata soprattutto la capacità di rappresentare un'accettazione collettiva dei vincoli della 'sovranità limitata'. E con l'egemonia esercitata da quel partito sull'intero Paese, che cosa di concretamente italiano sarebbe rimasto del secondo Risorgimento e della repubblica nata dalla resistenza?" (p. 148)
Anche sul problema dell'epurazione i due protagonisti della ricostruzione nazionale trovarono un accordo. D'altronde la tattica di De Gasperi era quella di assecondare le richieste del 'nemico - alleato', salvo poi modificarle fino a renderle quasi inefficaci, passato il momento più critico. Togliatti più che farsi gabbare dallo scaltro trentino, si adattava alle contingenze comprendendo che le soluzioni degasperiane d'accomodamento o d'aggiustamento di provvedimenti presi, come frutto dell'appassionato scontro politico per accontentare le masse, erano, tutto sommato, più convenienti per tutti.
Un esempio di tale compromesso fu la riforma agraria che avrebbe dovuto essere per il Sud latifondistico quella rivoluzione sociale che non si era mai verificata e quasi la panacea a tutti i mali del Mezzogiorno. Se i decreti Gullo del 1943 fecero temere alla classe dei proprietari l'inizio della fine, essi ben presto vennero opportunamente corretti dall'Alto Commissario per la Sicilia Aldisio, in senso più favorevole agli interessi dei 'padroni', con la benedizione del ministro dei Lavori Pubblici Segni e di tutto il governo nazionale che, in quell'occasione, non ebbe da contestare nulla al fatto che un organismo regionale, peraltro non legittimato dal popolo, si arrogasse il potere di modificare una normativa a carattere nazionale.
Per quanto riguarda l'epurazione, poi, si passò dalla richiesta di sospensione e quindi di processo per tutti gli impiegati dello Stato che avessero aderito al fascismo con la qualifica di squadrista, marcia su Roma, gerarca, sciarpa Littorio, in base al decreto 28 dicembre1943, nel quadro della 'defascistizzazione' dell'amministrazione statale, ad un graduale affievolimento della normativa che, integrata da decreti successivi, finì per accogliere una linea di pacificazione nazionale, sancita proprio da Togliatti come ministro Guardasigilli, con il famoso decreto del 9 novembre 1945, che limitava i provvedimenti di sospensione del lavoro solo ai casi più gravi di collaborazione con il regime fascista di Salò.
Anche se l'amnistia verso i fascisti era stata concessa dietro forti pressioni dei democristiani e dei liberali, Togliatti non poté negare che si trattava, tutto sommato, della soluzione più ragionevole se non si voleva pretendere, da un giorno all'altro., di rivoluzionare tutta la macchina burocratica del Paese, dando le leve di comando, magari, agli elementi più inesperti che avevano il solo requisito di aver combattuto fra le file dei partigiani o di essere stati perseguitati politici. Si arrivò, poi, ad affidare le leve più importanti della burocrazia a vecchi fascisti, ma ciò è spiegabile, sia con la maggiore esperienza che possedevano i funzionari anziani e che era particolarmente necessaria in quei frangenti critici della ricostruzione, sia tenendo presente che la quasi totalità degli italiani, specialmente degli impiegati statali, aveva aderito al fascismo, soprattutto nel periodo del grande consenso generale che andò dal '35 al '38. Per le stesse ragioni si riabilitarono, quasi immediatamente, i grandi protagonisti dei settori privati dell'economia, come per esempio Valletta, direttore generale della FIAT che, nel 1945, non solo aveva rischiato di essere epurato, ma addirittura di essere giustiziato sommariamente per la sua collaborazione con il governo di Salò.
Anche i prefetti, i sindaci, i presidenti delle province, i questori, e le altre pubbliche autorità nominate dai CLN, o dagli stessi occupanti anglo-americani, subito dopo la liberazione dai nazisti, furono senza grandi clamori e gradualmente sostituiti con funzionari di carriera. Tali sostituzioni possono essere paragonati anche alla liquidazione dell'esercito garibaldino voluta da Cavour e dalla classe dirigente piemontese all'indomani della battaglia del Volturno, ma bisogna pure tener conto che la maggior parte di quei funzionari erano stati nominati sull'onda dell'emozione e dell'entusiasmo del momento. Molti erano stati scelti solo per meriti antifascisti, magari acquisiti furbescamente all'ultimo minuto, e in Sicilia molti erano stati reclutati fra le file della mafia o del separatismo.
Si rimproverò a De Gasperi e, soprattutto, al suo ministro degli Interni Scelba, ignorando la richiesta comunista di immettere nella polizia ex partigiani, di aver creato una vera e propria polizia di stato, ricorrendo spesso ad elementi che avevano prestato i loro servigi nella Repubblica di Salò. Bisogna riconoscere, tuttavia, al di là delle personali convinzioni politiche, che in quel momento erano molto meno pericolosi, per la neonata democrazia italiana, i funzionari ex fascisti, rispetto agli ex partigiani, molti dei quali, soprattutto i comunisti, avevano rifiutato di consegnare le armi allo Stato e detenevano pericolosi e segreti arsenali che sarebbero stati determinanti in una eventuale sommossa. La storia avrebbe dimostrato che i timori di De Gasperi e Scelba non erano infondati, viste le stragi che si verificarono nel cosiddetto 'triangolo della morte', in Emilia, e le armi che spuntarono come per incanto alla notizia dell'attentato contro Togliatti che, solo con la sua saggezza e il suo carisma evitò il rischio di una vera e propria rivoluzione. Dunque, il fattore K, cioè il pericolo di un'insurrezione comunista, che non si sarebbe mai verificata perché né Togliatti, né Stalin l'avrebbero permessa, costretti com'erano a rimanere ligi alla spartizione dell'Europa sancita a Jalta, se non volevano scatenare una nuova guerra, era per la DC uno strumento di propaganda politica, ma certamente reali erano i timori di De Gasperi e di Scelba sul pericolo rappresentato dalle armi ancora in possesso dei partigiani comunisti. Peraltro, il Presidente del Consiglio e il suo fidato ministro degli Interni non avevano dimenticato che erano stati proprio il disordine e il caos del dopoguerra ad aprire la strada al fascismo e sarebbe stato sciocco, con una gestione dell'ordine pubblico troppo buonista, correre nuovamente lo stesso rischio.
Il trionfo di De Gasperi su Togliatti e la definitiva separazione dei loro destini politici, sarebbe stata sancita dai risultati elettorali del 18 aprile 1948 che avrebbero dato alla DC la maggioranza assoluta alla Camera ed una maggioranza, se non assoluta, certamente molto consistente, al Senato. Vero è che in quell'occasione il partito di De Gasperi fu spudoratamente aiutato dagli USA (pacchi regalo inviati agli elettori italiani dai loro parenti emigrati in America con la raccomandazione di votare DC, grandi quantità di dollari per finanziare la campagna elettorale democristiana, presenza minacciosa di navi da guerra americane nei principali porti italiani) e dalla Chiesa (scomunica ai comunisti e ai loro sostenitori, comitati civici di Gedda, manifestazioni a metà tra il politico e il religioso come le processioni della Madonna Pellegrina e i comizi infiammanti di coinvolgenti oratori cappuccini), ma si trattò anche di una scelta cosciente del popolo italiano fra la libertà e il progresso assicurati dalle democrazie occidentali, prima fra tutte l'America e il totalitarismo e la schiavitù rappresentati dall'URSS e dai suoi satelliti. D'altra parte, anche Togliatti, fedele al suo principio di 'democrazia progressiva'e realisticamente legato dal trattato di Jalta, forse sperava proprio nella sconfitta, per evitare complicazioni di carattere internazionale che non si sapeva dove avrebbero condotto.
La maggior parte della storiografia, e fra questi il nostro autore Giuseppe Carlo Marino, considera un grande merito dello statista trentino, quello di aver rinunziato ad un governo monocolore che avrebbe benissimo potuto costituire, seppure al Senato col sostegno dei liberali. Tale rinunzia consentì di rendere lo Stato più laico, meno dipendente dal Vaticano, di evitare l'avvio di un regime di tipo salazariano o franchista, o, come dicono i più, fu fatta, probabilmente, per un insopprimibile rispetto, da parte di De Gasperi, dei principi democratici che sarebbero stati pienamente riconosciuti con il coinvolgimento, nella coalizione governativa, degli alleati minori.
Personalmente ritengo che si trattò di un errore di cui lo stesso De Gasperi si sarebbe reso conto qualche anno dopo, quando, introducendo una riforma elettorale ispirata al premio di maggioranza, cercò, senza riuscirci, di creare in parlamento uno schieramento di maggioranza monolitico comprendente i due terzi degli eletti che avrebbe permesso di governare senza subire ricatti e condizionamenti, di emendare la Costituzione secondo le vere esigenze del popolo italiano e di sconfiggere per sempre la patologia trasformistica.
Perché allora De Gasperi non fece il monocolore nel 1948 avviando il sistema italiano verso un parlamentarismo bipolare fisiologicamente corretto? Per mancanza di coraggio o perché condizionato dai poteri forti che avevano la loro base politica nei partiti minori come il PRI e il PLI o perché pressato dall'America a coinvolgere nel governo quei socialisti saragattiani che, con la scissione di Palazzo Barberini, l'anno prima, avevano minato la compattezza del Fronte Popolare? Non lo sapremo mai! La conseguenza fu, tuttavia, il permanere di quell'anomalia italiana, costituita dall'esistenza di un centro cangiante, 'la palude' come lo definiva Mussolini, incapace di dare alla nazione la politica dell'alternanza, fondamento indiscusso di una vera e sana democrazia. Si diede vita, invece, a quella politica che sarebbe stata definita, dallo spregiudicato Andreotti, 'politica dei due forni', cioè politica aperta a più soluzioni, indipendentemente dalle scelte della maggioranza degli elettori. Per dirla in poche parole la politica del trionfo del trasformismo: "Basti osservare, in linea generale, che l'intero corso della storia del potere in Italia ha visto alternarsi in un cinquantennio degli assetti di governo definito ora di centro-sinistra, ora di centro-destra. E, mai, di destra o di sinistra, con consapevole e netta distinzione. Il che la dice lunga non tanto sul peso decisivo della componente moderata negli equilibri della politica[…] quanto piuttosto sulla tendenza del sistema italiano ad evitare il più possibile delle nette distinzioni tra maggioranze e opposizioni. In ogni caso è indice di costume opportunistico che suggerisce la prudenza di 'scegliere per non scegliere' o scegliendo il meno possibile, si decida di volta, in volta di stare a sinistra o a destra[…] collocazione che lascia sempre la porta aperta e offre larghi margini di manovra, all'occorrenza per cambiare posto con il minimo scandalo. Ovviamente per un costume del genere, quel che risulta più consigliabile, e in genere più gradito, è restare, finché si può, soltanto al centro. E' quella di centro la posizione migliore per le oscillazioni e per i funambolismi più spericolati. Da lì si va e si viene e, nel caso di un troppo deciso allontanamento, lì è sempre piuttosto facile ritornare" (p. 200)

 

 

Luigi Sturzo ed i democratico-cristiani catalani attraverso la sua corrispondenza con Jaume Ruiz Manent di Nicola Barreca

Il mio orrore della guerra civile,
del sangue fraterno versato in nome della Chiesa,
mi fa preferire 250 anni di persecuzioni,
quanti ne ebbero i primi cristiani.
Caritas patiens est!
(Luigi Sturzo, lettera a Jaume Ruiz Manent,
17 giugno del 1937)

Introduzione

La relazione tra Luigi Sturzo ed i partiti democratico-cristiani della Spagna e, per quanto riguarda il presente studio, della Catalogna, è uno dei temi meno studiati dalla storiografia spagnola della II Repubblica e della Guerra Civile.
È stata soprattutto la storiografia italiana che si è occupata in varie occasioni di approfondire le relazioni che Sturzo mantenne durante il suo esilio inglese, con varie personalità del mondo politico e culturale spagnolo. In questo senso, è possibile trovare qualche riferimento nei lavori biografici di F. Piva, F. Malgeri e, soprattutto, G. De Rosa.(1) La parte che più viene analizzata riguarda la prima metà degli anni '30 e le relazioni di amicizia con Severino Aznar, Alfredo Mendizábal e Ángel Ossorio y Gallardo.
Posteriormente alla publicazione di Miscellanea londinese(2) e di Scritti inediti(3), molti studiosi si dedicarono ad analizzare la seconda metà degli anni '30 e, naturalmente, la Guerra Civile. Molto interessante in questo senso lo studio di G. Campanini(4) anche se, secondo l'opinione di A. Botti "circosrive l'attenzione quasi esclusivamente alla posizione teologica di Sturzo, mentre lascia sullo sfondo altri aspetti e personaggi"(5). Sempre Botti sottolinea che la caratteristica di molti dei suddetti lavori è il punto di vista esclusivamente italiano: "Per tutti l'esclusiva finalità è quella di mettere in luce gli aspetti della personalità di Sturzo. Risultano pertanto poco attenti ai suoi interlocutori spagnoli, all'impatto e alle ripercussioni della sua opera in Spagna"(6).
È grazie a lavori più recenti che si è tentato di colmare questa lacuna. Tanto Malgeri(7), come G. Campanini(8) e, sopratutto, Botti(9), hanno posto particolare attenzione nell'analisi degli interlocutori spagnoli di Sturzo. Botti, infatti, apporta ricche e interessanti informazioni su questi ultimi, specialmente sulle figure di Maximiliano Arboleya, di Alfredo Mendizábal e di Ángel Ossorio y Gallardo.
Tutti gli studi citati si basano sulla ricchissima documentazione che si può trovare presso l'Archivio dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma, e si preoccupano di sottolineare il particolare interesse di Sturzo per le realtà catalana e basca.
D'altro canto, laddove sembra che non si sia affrontata la questione in maniera del tutto soddisfacente è nella storiografia spagnola. A parte due studi di G. J. Graells(10) e di M. Coll y Alentorn(11), si può parlare solo di scarsi riferimenti all'influenza che Sturzo può aver avuto sul cattolicesimo democratico spagnolo(12). Probabilmente, lo studio più completo in questo senso è quello della studiosa belga Anne Morelli(13) che sottolinea la collaborazione di Sturzo con vari giornali, tra cui il catalano El Matí ed i madrileni Cruz y Raya (rivista culturale e letteraria) ed El Diario de Madrid, cosí come il viaggio di Sturzo in Spagna nell'agosto-settembre del 1934, ed i mesi della Guerra Civile. Ciò nonostante, come nota argutamente il Botti, "il meritorio lavoro della Morelli non sembra esaurire tutte le piste dei rapporti di Sturzo con la Spagna"(14).
Per concludere, una delle opere piú interessanti nell'analisi delle relazioni tra Sturzo ed il movimento democratico-cristiano spagnolo (con interesse esclusivo alla Catalogna) è l'antologia, curata da Ferran Camps i Vallejo(15), dei 144 articoli che Sturzo scrisse su El Matí tra il 1929 ed il 1936. Gli articoli raccolti nell'antologia sono quelli che vennero pubblicati in lingua catalana sul giornale El Matí, mentre gli originali in italiano (che alcune volte non coincidono) sono raccolti quasi tutti in Luigi Sturzo, Miscellanea londinese, vols. I-IV, Zanichelli, Bologna, 1965-1974. Soprattutto l'introduzione dell'antologia di Ferran Camps i Vallejo ha rappresentato un punto di riferimento importante per il presente studio. Va notato che l'antologia non è stata citata in nessuno dei precedenti e per altro ottimi lavori sul tema che, dal canto loro, abbondano in riferimenti bibliografici molto completi e dettagliati (sopratutto i lavori di Botti, Campanini e Malgeri). Probabilmente ciò è dovuto al fatto che l'opera di Ferran Camps i Vallejo ha goduto di scarsa pubblicità ed è il risultato dello sforzo di ricerca di un politico e documentalista più che di uno storico nel senso stretto della parola.
Il presente lavoro, analizzando la corrispondenza che Luigi Sturzo mantenne con Jaume Ruiz Manent tra il 1929 ed il 1937, vuole contribuire, anche se solo parzialmente, ad aumentare l'interesse per una fase cosí critica, tumultuosa e delicata della storia spagnola, con particolare interesse alla Catalogna.
I documenti citati, per ciò che si riferisce alla corrispondenza tra Sturzo e Ruiz Manent, fanno parte del fondo dell'Archivio dell'Istituto Luigi Sturzo di Roma (ALS, a partire da questo momento), ed è pertanto mio dovere ringraziare il Presidente, Prof. Gabriele De Rosa, per la possibilità concessami di attingere ad esso. Allo stesso tempo, un grazie particolare e sincero va alla Sig.ra Rita Notarianni, alla Dott.ssa Concetta Argiolas ed alla Dott.ssa Michela Ghera, senza le quali sarebbe stato impossibile sia iniziare che portare a termine il presente lavoro, per la gentilezza, la professionalità e la grande pazienza dimostratami.
Le frasi o i passaggi dei testi citati vengono riprodotti per come si trovano nei documenti originali, con gli errori grammaticali e le possibili difficoltà d'interpretazione che possano derivarne (tanto nei documenti in italiano come in quelli in inglese e catalano è possibile trovare termini che non vogliono dire nulla nel contesto in cui vengono utilizzati). Anche se alcuni documenti citati nel presente lavoro sono già stati pubblicati in Scritti inediti, verranno qui riprodotti rifacendosi letteralmente al testo originale (si tratta di piccole differenze, più che altro grammaticali).

L'idea sturziana di una democrazia cristiana, quale movimento politico laico e indipendente dalla gerarchia ecclesiastica, era conosciuta in Spagna sin dalla fondazione del Partito Popolare Italiano (1919). Quando il Fascismo prese il potere in Italia, Sturzo si vide obbligato a dimettersi da Segretario Generale del PPI e, dopo aver subito un attentato contro la sua residenza, accettò di lasciare Roma, prese la via dell'esilio (25 ottobre del 1924) e si trasferì a Londra, dove rimase fino al 1940.
Dal suo esilio in terra britannica Sturzo cominció a mantenere contatti con la maggior parte dei rappresentanti del movimento democratico-cristiano europeo, arrivando a costituire un Segretariato Internazionale di partiti democratico-cristiani europei con sede a Parigi. A questo Segretariato, che non svolse un'attività molto intensa, chiese la propria adesione, nel gennaio del 1934, l'Unió Democràtica de Catalunya (partito di ispirazione democratico-cristiana fondato il 7 novembre del 1931 in Catalogna) con una lettera indirizzata dal suo stesso Segretario, Joseph María Casasses, a H. Simoudet (Segretario a sua volta del Segretariato Internazionale). Lo stesso Casasses scrisse a Sturzo il 23 febbraio 1934 un'altra lettera (che sembra essere il primo contatto ufficiale tra l'UDC e Sturzo(16)) nella quale lo informava delle pratiche che si stavano portando a termine per entrare a far parte de Segretariato Internazionale, sottolineando "la nostra adhesió més decidida al "Secretariat des Partides Démocratiques d'inspiration chrétiènne""(17).
Quando Sturzo ricevette la lettera dell'UDC, conosceva molto bene la realtà catalana e spagnola in generale, visto che manteneva sin dal 1929 un'intensa corrispondenza con il maiorchino Jaume Ruíz Manent e con altri personaggi di notevole rilevanza del cattolicesimo spagnolo (tra tutti, Severino Aznar e Ángel Ossorio y Gallardo). Inoltre, sin dallo stesso 1929 Sturzo esprimeva sul giornale catalano El Matí le sue opinioni riguardo a qualunque tipo di avvenimento di politica internazionale, attraverso svariati articoli (alla fine saranno 144, partendo dal primo del 24 maggio 1929 fino all'ultimo del 15 luglio 1936).
Nonostante questa relazione intensa tra Sturzo e gli amici de El Matí, si può condividere ciò che dice Miquel Coll i Alentorn: "Quant a la influència del pensament de Don Sturzo damunt "l'esquema doctrinal teòric" d'Unió Democràtica de Catlaunya, l'única formació política catalana de caràcter demòcrata cristià, més aviat cal negarla"(18). Negare un'influenza diretta di Sturzo su "l'esquema doctrinal teòric" dell'UDC trova una sua ragion d'essere nella considerazione che Sturzo non scrisse mai sugli organi di stampa ufficiali della stessa UDC, il giornale La Nau ed il settimanale El Temps. Evidentemente, questo non significa che il sacerdote siciliano non fosse considerato dall'UDC quale punto di riferimento nel pensiero democratico-cristiano dell'Europa tra le due guerre. Tra l'altro, la militanza di Sturzo nel "British Commitee for Civil and Religious Peace" e i suoi molteplici tentativi per cercare di liberare Manuel Carrasco i Formiguera(19), furono considerati degni del più grande apprezzamento da parte dei membri dell'UDC.
La collaborazione con El Matí fu, per tanto, parallela alla corrispondenza che Sturzo mantenne con Jaume Ruiz Manent. Se il primo articolo del sacerdote siciliano porta la data del 24 maggio 1929 (che, in effetti, è la data del primo numero de El Matí), la prima lettera di Sturzo a Ruiz Manent della quale si ha notizia è del 23 agosto 1929 (si tratta di un manoscritto, una minuta per l'esattezza)(20). Tanto negli articoli come nelle lettere c`è una cesura, tra il genanio 1931 ed il dicembre 1932 (per quanto riuarda gli articoli) e tra il maggio del 1930 ed il novembre 1932 (per quanto riguarda le lettere), sulla quale non si è ancora potuto far luce.
Come già detto, i 144 articoli che Sturzo scrisse su El Matí sono stati raccolti magnificamente in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), edición de F. Camps i Vallejo y C. Parellada i Rosell, Partit Popular Europeu, Barcelona, 1992, mentre gli originali in italiano, come detto anteriormente, si trovano quasi tutti nella Miscellanea londinese.
Sturzo, sin dal primo numero de El Matí, risultò essere un collaboratore fisso dall'estero. Secondo la spiegazione di Ferran Camps i Vallejo, che cita un articolo di Jaume Ruiz Manent pubblicato ne El Matí il 2 giugno del 1935, l'idea di contattare Sturzo era stata del Dottor Griera, membro dell'Institut d'Estudis Catalans(21).
Il giornale era nato sotto la direzione di Joseph María Capdevila e attraversò varie difficoltà economiche fino alla sua chiusura, il 18 luglio del 1936. Il cambio di domicilio dalla prima sede nella Rambla de Canaletes 11 ad una più grande nel carrer Fontanella 12 (come si può verificare dalle lettere dirette a Sturzo su carta intestata del giornale), è un esempio di come, grazie ad un "voluntarisme exemplar"(22), si poterono superare le suddette difficoltà. Il nucleo di persone sulle quali poteva fare affidamento Capdevila all'inizio era formato da Joseph M. Junoy, Joan B. Solervicenç, Cardó, Maurici Serrahima, Pau Romeva, Manuel Pujes y Prat de la Riba Jr.
Gli articoli di Sturzo uscivano con una periodicità variabile (inizialmente ogni mese, poi ogni quindici giorni arrivando ad avere una cadenza anche settimanale) e si occupavano soprattutto di avvenimenti di politica internazionale. Ferran Camps i Vallejo nota che, comparando gli originali in italiano con gli articoli in catalano che venivano pubblicati sul giornale, c'è una certa differenza in alcuni di essi. Ciò era dovuto al fatto che su alcuni temi delicati, quale per esempio quello che si riferiva alla formazione del partito della CEDA (Confederación Española de Derechas Autónomas) per il quale, secondo il sacerdote siciliano, era meglio non votare, c'era una "censura que s'exercí usualment sobre els articles de Sturzo"(23). Va aggiunto che "...hi ha molts articles en què paràgrafs sencers són suprimits, i altres tergiversats, encara que, en aquest cas, és molt probable que els errors de traducció hi hagin influït molt"(24). Pertanto, tra probabili errori nella traduzione e deliberati tagli di censura, vari articoli di Sturzo vennero pubblicati in catalano con importanti differenze rispetto agli originali in italiano inviati da quest'ultimo a Barcellona.
Sin da una lettera che Ruiz Manent mandò a Sturzo il 22 aprile 1930 è possibile riscontrare tali alterazioni, manipolazioni e variazioni dal testo originale in italiano:
"Dear Father Sturzo: Your article about the flamish question was very good received. I thank you for it very much. I dared to modify a pair of words that would have not pleased here, where they go farther than the flamish in many aspects. You know surely that a great deal of catalans will the complete separation from Spain"(25).
L'articolo in questione è quello che fu pubblicato il 2 aprile 1930 su El Matí con il titolo "La qüestió flamenca"(26) e pubblicato nella sua versione originale italiana in Miscellanea londinese(27). È possibile che tali alterazioni, manipolazioni e variazioni creassero in Sturzo un certo fastidio(28). Forse non fu un caso che, dopo la citata lettera di Ruiz Manent, si producesse la famosa cesura(29), tanto nella corrispondenza come negli articoli, fino al 27 novembre 1932(30). Anche se non si può affermare con certezza, è possibile che i tagli dovuti alla censura preventiva abbiano favorito un simile periodo di silenzio da parte di Sturzo, pur non essendone la causa principale.
La pausa coincise, tra l'altro, con l'entrata della Spagna nella fase repubblicana. Si chiede Botti: "Prudente astensione in attesa dell'evolversi della situazione?"(31). La verità è che lo stesso Sturzo, in un articolo pubblicato su El Matí l'1 agosto 1930 con il titolo "El que resta de les monarquies europees", aveva affermato perentoriamente, dopo la dittatura di Primo de Rivera, che:
"La Spagna è al bivio: o la trasformazione della monarchia o la repubblica. Potrà la monarchia spagnola lasciare le sue tradizioni di dominio personale, tenuto anche attraverso le forme parlamentari, e divenire una monarchia del tipo anglo-sassone?"(32).
Allo stesso tempo, come nota F. Malgeri, Sturzo "non aveva mancato di accusare Alfonso XIII di aver leggittimato la dittatura di Primo de Rivera, violando il giuramento di rispettare la Costituzione"(33) (articolo intitolato "A proposito del giuramento politico" e pubblicato in Res Publica)(34).
Prima di questo silenzio, il tema più ricorrente nelle lettere che si scambiavano Sturzo e Jaume Ruiz Manent era stato quello della possibile pubblicazione di un'edizione in castigliano dell'opera di Sturzo La comunità internazionale e il diritto di guerra(35) (in Spagna era già stata pubblicata Italia e Fascismo(36) nel 1930, con traduzione di Mariano Ruiz-Funes). Ruiz Manent scriveva a Sturzo che, nel caso in cui la casa editrice Reus non avesse potuto pubblicare l'opera, c'era la possibiltà che fosse il gruppo della Democrazia Cristiana di Madrid, di cui faceva parte suo fratello Joseph, ad occuparsi dell'edizione:
"My eldest brother resides in Madrid. He is a correspondent of "El Sol" and also a lawyer. To him I remitted your letter. He is one of the first members of the group "Democracia Cristiana", and a very good friend of Angel Ossorio Gallardo, whom no doubt you know, as he spoke about you in "Un libro del abate Sturzo". My brother says me that the Casa Reus us the firm most indicated for publishing a book as yours, but there are also other firms that perhaps may be publish your work. Ossorio, my brother and other men publish a series of books about politics, and they should like very much to have a work of you"(37).
Sturzo ringraziava per l'interesse dimostrato sottolineando che ciò che realmente lo preoccupava era che "...le mie idee siano conosciute e discusse"(38) e che il problema economico era secondario: "Io non tengo molto al compenso pecunario che ne potró avere e accetto fin da ora quel che ha proposto suo fratello. Io tengo a interessare i cattolici sopratutto ad un problema e ad una teoria che sono posti sopra nuove basi che non nel passato. La teoria cristiano-cattolica della guerra dovrá essere riconsiderata e modificata: ecco il punto fondo del libro, senza dirlo perché il mio libro non è teologico ma politico e sociologico"(39). Nonostante questi sforzi l'opera di Sturzo non si pubblicò.
Dopo il silenzio che caratterizzò il periodo che va dal maggio 1930 fino al novembre 1932 ("so much time of silence")(40), la corrispondenza tra Sturzo e Ruiz Manent riprese più intensa di prima. Sturzo propose a Ruiz Manent di scrivere un articolo sul movimento autonomista scozzese(41), proposta che venne accettata a patto che "you speak in behalf the scottish movement; against it, not"(42). L'articolo uscì il 23 dicembre 1932 col titolo "L'"Home Rule" per a Escòcia i el regionalisme"(43), ed è estremamente interessante sottolineare l'assoluta modernità della posizione di Sturzo rispetto al tema dell'autonomismo in campo europeo:
"In questo gran movimento di rifioritura localistica occorre evitare due pericoli. Il primo economico, quello di barriere doganali. È l'errore dei paesi danubiani, è l'errore dell'Irlanda. Occorre invece promuovere intese doganali, come ha fatto il Belgio, l'Olanda e il Lussemburgo. Altro pericolo da evitare è lo spezzettamento politico delle unità tradizionali, che formano centri di attività economiche, culturali e morali e sono base di sicurezza politica. Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna debbono rimanere grandi unità, pur secondando i movimenti locali. E i paesi troppo divisi come i danubiani e i balcanici, debbono trovare la loro soluzione nel federalismo costruttivo. Ma il movimento localistico, che ancora ha un avvenire importante deve trovare uno sbocco naturale e superiore alla sua portata nell'unione europea, della quale il regionalismo autonomista e il nazionalismo locale sono il naturale presupposto"(44).
Nello stesso tempo, Ruiz Manent chiese a Sturzo di redigere alcuni articoli sulle idee che lo avevano portato alla fondazione del Partito Popolare italiano e sulle ragioni del suo esilio(45). Lo confortava il fatto che un partito vicino al giornale e di recente formazione, l'Unió Democràtica de Catalnuya (UDC), si ispirava abbastanza, secondo Ruiz Manent, agli ideali sturziani, giacché "Your name is well know and estimed, and some articles about that object would be a good impulse"(46). Il nome di Sturzo era, pertanto, conosciuto e stimato negli ambienti democratico-cristiani della Catalogna. Nonostante la vicinanza ideologica con l'UDC, Ruiz Manent ci teneva a ribadire l'indipendenza de El Matì da qualunque partito politico: "Not that we are identified with that party. Our paper is independent, as there are other parties also catholic, as for instance the Lliga Regionalista, which has the lead between right parties, although too much capitalist"(47).
La lettera del gennaio 1933 di Ruiz Manent a Sturzo marca i termini delle concezioni politiche del primo:
"Moreover, we are very pessimistic about our liberty! Since we are free, every thing goes wrong. Our democracy was only a plan: the overthrow of the catholic faith: believe me, they are only interessed on this matter. Those catholic democrats, as Ossorio's group in Madrid and ourselves in Catalonia, count for nothing, or very little. As the Repubblic has the only object to laicize the country, catholic are not to persuade, they are too simple on their views. The same in Catalonia. Macià and his followers are no more catalan, but demagogues. For them, Catalonia's liberties is only second matter. They say a fascist group is forming in Madrid and elsewhere. Surely they would have many adherents."(48)
Nonostante considerasse che la Repubblica aveva come unico obbiettivo "to laicize the country", Ruiz Manent scriveva a Sturzo il 28 giugno 1933, dopo un viaggio a Roma, che si era sentito infastidito dalla presenza di "quei fantasmi con le camice nere" che aveva visto in territorio italiano, rivendicando inoltre che il catalanismo non era contrario alla Chiesa:
"I was the first delegate from Spain, and such I spoke for the Spanish Cattholic Press, inclusive 53 cattholic papers, written in catalan language. In the rest of Spain, this caused some disgust, but in Catalonia was very good received. In the same manner I presented to the Pope an album with specimens of these 53 catalan papers, and he listened me with great attention. It must be finished this idea, that catalanist are against the Church. Rome I found utterly changed, since 1923. It is only a pity, those phanthoms with the black skirt. I speak only of the outerly face of Italy, of course"(49). E lo stesso discorso valga per la lettera del 4 novembre 1933 nella quale Ruiz Manent criticava duramente coloro che utilizzavano un "ladro" como Joan March(50) per attaccare la Repubblica ed il socialismo ("In the same day flew from the prison that Joan March, an infamous man that only the right parties defend, and only the link parties atack. It is a shame that inclusive some catholic papers defend a man as March. They know that he is a robber, but they need him, or his money, to atack socialism and Republic"(51)).
Dopo le elezioni del novembre 1933, con la vittoria di Gil Robles e della destra spagnola, Ruiz Manent mantenne, come sottolinea Malgeri(52), una posizione moderata nei confronti del nuovo blocco di vincitori: "Never was in Spain a fever so great as now. I hope the right parties will more than treble its positions, but it is a pity that the mixture of republicans, monarchists, centralists, auotonomists, capitalists and social-christians be so great. It is easy to augure something good for religion, but for the politics!... A working Parliament is unthinkable"(53), mentre Sturzo si limitò a considerare il risultato elettorale come il frutto di una libera competizione elettorale che, come tale, andava accettata (articolo pubblicato su El Matí il 5 dicembre 1933 con il titolo "El plebiscit alemany i les eleccions a España")(54).
Tra il 23 ed il 26 febbraio 1934, troviamo tre documenti di importanza fondamentale nello sviluppo delle relazioni tra Sturzo e Jaume Ruiz Manent.
Il primo è la già citata lettera che J. M. Casasses, segretario dell'UDC, mandò al sacerdote siciliano informandolo della richiesta ufficiale del partito catalano di entrare a far parte del Segretariato Internazionale di partiti democratico-cristiani europei con sede a Parigi(55).
Il secondo è un articolo di Sturzo, con il titolo "Austria vista des d'Anglaterra"(56) (El Matí, 24 febbraio 1934), nel quale questi commentava i recenti avvenimenti austriaci. Il sacerdote siciliano criticava apertamente Dollfus perché aveva permesso che un partito armato, il fascista Heimwheren, appoggiasse un governo autoritario obbligando gli avversari politici (concretamente i socialisti) "non solo a disarmare, ma a subirne la prepotenza"(57). Allo stesso tempo, considerava non necessaria la repressione contro gli stessi socialisti, le cui pretese erano, secondo la sua opinione, perfettamente leggittime (creare un comité parlamentare limitato che avesse una capacità critica sui decreti governativi e ricostituire il Tribunale Costituzionale). Sturzo considerava triste che:
"il partito cristiano-sociale austriaco, invece di tentare tutte le vie per salvare la libertà e la democrazia del propio paese (due anni fa il pericolo nazista non esisteva) e procedere al disarmo reale e simultaneo di tutti i partiti, si sia affidato al fascismo, abbia autorizzato le squadre armate e perfino abbia anch'esso fatto delle piccole squadre (le Ostmärkische Sturmscharen del ministro cattolico Schuschnigg), come per avere un titolo all'esistenza politica vicino a Starhemberg. La conseguenza è che il partito cristiano-sociale è costretto oggi a solidarizzare con il governo e con i fascisti nella repressione sanguinosa di una rivolta operaia. Non difendiamo i socialisti nella loro preparazione armata da lunga data e con proposito di resistenza, ma non diamo loro tutta la colpa dei dolorosi avvenimenti"(58).
Secondo Sturzo, Mussolini aveva imposto a Dollfus l'eliminazione dei socialisti democratici dalla vita pubblica, con l'automatica destituzione di tutti i propri deputati, tanto a livello federale come a livello municipale, e l'imposizione della dittatura fascista quale prezzo da pagare per aiutare l'Austria contro le pretese naziste di Berlino sulla stessa.
Riferendosi a questo articolo, Jaume Ruiz Manent scrisse a Sturzo il 26 febbraio 1934 (è il terzo dei tre documenti prima citati)(59). Dalla missiva si può dedurre che vi era una lettera di Sturzo diretta a Ruiz Manent, di cui non conosciamo gli estremi, nella quale il sacerdote siciliano probabilmente si sfogava per la situazione in Austria ("sfogo" è il termine citato letteralmente da Ruiz Manent nella sua lettera). Nella sua risposta, Ruiz Manent affermava di non esssere d'accordo con Sturzo su un punto: che la repressione non fosse necessaria. Infatti, seconso lui:
"no doubt, whitout the Heimwehren, Austria would be now the prey of marxists and nazi, what would be much worse"(60). Per di più, Ruiz Manent credeva che in Spagna si stava creando una situazione molto simile nella quale "Only the link parties and the new fascists are armed, and against them is only the Guardia Civil, utterly insufficient if a serious movement exploits, and the army, not to rely upon since Azaña disrupted it. As you saw, in the last outburst, although the situation began to be seriuos, the Government did not handle the power to the army, not knowing what would be the result, whether the monarchy or the Soviet"(61). Era convinto che la Repubblica non godesse di nessuna fiducia e che pochi credessero realmente nel sistema parlamentare.
Cominciavano a manifestarsi quelle differenze d'opinione tra Sturzo e Ruiz Manent che si sarebbero acuite sopratutto con l'inizio della Guerra Civile. La lettera si concludeva con un'informazione importante: la nascita dell'UDC e le differenze che vi erano tra quest'ultima e la Lliga Catalana:
"It is one new cristian-social party here: the Unió Democràtica de Catalunya but they failed utterly in the november elections, as every body wished to vote for the only right party which had probability to win, and certainly won: tle Lliga Catalana whose leader is Cambó. You know, now this party is avowedly catholic and republican. But it is not a cristian-social party, but most a capitalist party"(62).
La questione delle divergenze d'opinione sulla situazione austriaca ebbe una coda polemica: nella lettera del 10 giugno 1934, Ruiz Manent chiariva che si era preferito non pubblicare un articolo di Sturzo molto critico nei confronti di Dolfuss e dei suoi seguaci perché avrebbe pregiudicato il giornale: "I think an article directly against Dollfuss or his suitars would not be seen as convenient in our paper"(63). Ciò nonostane, l'amicizia tra i due si mantenne salda e prova ne sia il viaggio che Sturzo stava preparando per visitare la Spagna, anche grazie all'amabile disponibilità che gli dimostrava Ruiz Manent nelle sue lettere, facilitandogli informazioni ed eventuali appoggi logistici.
Pochi giorni prima che Sturzo, tra la fine d'agosto e l'inizio di settembre del 1934, arrivasse in Spagna accompagnato dalla sorella Nelina che veniva direttamente dalla Sicilia e che non vedeva dal 1924, si verificò un avvenimento molto importante per la storia de El Matí: alcuni contrasti con gli azionisti di destra produssero un cambio nella direzione del giornale e, nell'agosto del 1934, fu nominato come nuovo direttore propio Jaume Ruiz Manent. Quest'ultimo aveva anticipato a Sturzo, con lettera del 3 luglio 1934, che:
"These days we are very much troubled for the financial position of the journal. Our more or less democratic and social views cost us many readers and, what is worse, many protectors. You will have seen. El Matí is somewhat meager now. I hope thinks will better in the following months"(64).
Secondo F. Camps i Vallejo, durante l'anno e mezzo di direzione di Ruiz Manent, "El Matí anà virant a la dreta i descendint en rigor intel·lectual i periodístic"(65), essendo peraltro questa la fase nella quale si può apprezzare maggiormente l'influenza della censura sugli articoli dello stesso Sturzo. Nonostante ciò, quest'ultimo continuò a collaborare, e nelle lettere che mandava a Jaume Ruiz Manent non esprimeva nessuna esplicita opinione riguardo ai cambi ideologici del giornale.
Durante il viaggio in Spagna, Sturzo andò dapprima a Barcellona, dove la sua presenza passò quasi del tutto inosservata dall'opinione pubblica dell'epoca, fatto che sicuramente fu dovuto ad un esplicito desiderio dello stesso sacerdote che non volle concedere nessuna intervista, chiedendo ai suoi amici di rispettare il suo diritto alla privacy. Sturzo rimase colpito dall'arte romanica della capitale catalana ed una gita al monastero di Montserrat gli ricordò il monastero benedettino di Caltagirone, dove si venerava la Vergine di Montserrat. A Madrid fu il fratello di Jaume Ruiz Manent, l'avvocato Josep(66), ad accogliere Sturzo e Nelina nella sua casa. In Castiglia il sacerdote siciliano passò molto tempo con Ángel Ossorio y Gallardo(67) e cominciò a collaborare con El Diario de Madrid e la rivista Cruz y Raya a partire dal 1935. Ciò dimostra che Sturzo si trovava ideologicamente più vicino alle posizioni della sinistra che della destra cattolica, quest'ultima legata a Franco durante la Guerra Civile. Ruiz Manent non fu particolarmente entusiasta di tali collaborazioni e glielo fece notare con lettera del 16 febbraio 1935, la prima scritta in un italiano approssimativo:
"Non mi pare molto bene, né per ella, né pel Matí. È un giornale (El Diario de Madrid, n.d.a.) piu o meno lerrouxista, cioé laicista. Non credo che tra i catolici questo puo essere ben visto (...) E si Lei vuol essere ben visto degli cattolici, non si puo fidare in assoluto di Ossorio. Non discuto la sua buona fede, ma si è errato piu d'una volta"(68).
Ritornando al viaggio di Sturzo in Spagna, come ricorda Botti, un'importante fonte documentaria a questo proposito sono le foto che si pubblicarono come illustrazione ad un "lusinghiero profilo di Sturzo e del Partito Popolare"(69) tracciato da Ossorio y Gallardo in un articolo dal titolo "Luigi Sturzo" (Estampa, 15 settembre 1934, Madrid).
Lo stesso Sturzo scrisse due articoli ne El Matí (25 e 26 settembre 1934)(70) sul viaggio, non dimenticando di sottolineare che umanamente: "D'Espanya no he vist més que poques coses; però el seu cel és blau i encantador com el de la meva Sicília, i la població oberta, hospitalària, gentil, apasionada, individual, fantasiosa, com el més calorós tipus mediterrani. Quants d'amics i com verament amics! Des del primer dia em semblà d'estar a casa meva"(71), e politicamente: "Àdhuc l'autonomisme català m'aproximava al regionalisme sicilià"(72).
Dopo questo viaggio, l'amicizia tra Sturzo e Ruiz Manent si fece più profonda, anche se i loro punti di vista divergenti si andarono accentuando.
In una lettera del 22 ottobre 1934, Ruiz Manent elogiava Sturzo per l'articolo di quest'ultimo che sarebbe uscito quello stesso giorno su El Matí con il titolo "Llibertat i lleialtat"(73), riconosciendogli una preparazione sulla politica spagnola che non dimostravano d'avere nemmeno gli stessi spagnoli: "Li mando il suo magnifico articolo: Lei è molto coraggioso...e (scusi la frase) molto sicuro delle propie conoscenze in materia politica, quando Lei parla della Spagna; io non potevo mai parlare in Inghilterra su questioni inglese. La differenza è nella preperazione, poichè Lei parla di Ispagna meglio que uno spagnuolo. Magnifico!"(74). L'articolo di Sturzo commentava i più recenti avvenimenti che si erano verificati in Spagna quali gli scioperi e la rivolta nelle Asturie e la proclamazione della Repubblica Catalana all'interno della Federazione Spagnola da parte di Companys(75). Sturzo aveva le idee molto chiare rispetto a ciò che era accaduto. Della Catalogna parlava in termini molto decisi:
"Che si possa desiderare o volere un'autonomia catalana diversa da quella che oggi si ha, non è vietato in regime di libertà. Ma la via per sostenere tali idee non è nè una proclamazione contraria al patto di autonomia e alle leggi vigenti, nè una insurrezione armata; sì bene la discussione, la propaganda e la persuasione (...) Se modifiche si debbono fare, non certo con la violenza e con i colpi mancini. La lealtà da ambe le parti. I catalani debbono assicurare lo stato, che essi non saranno un elemento sleale nell'esercizio delle loro libertà. Lo stato da parte sua per rispettare l'autonomia catalana deve essere sicuro di non dover ritornare altra volta a mandare l'esercito contro la "Generalitat" catalana"(76).
Mentre Ruiz Manent si limitava a riaffermare che, secondo lui, i catalani non erano preparati per governarsi.(77)
Laddove Sturzo ebbe la possibilità di esprimere più chiaramente le sue idee fu nella parte riguardante la rivolta nelle Asturie. Nell'articolo citato, "Llibertat i lleialtat", affermava che la repressione era stata simile a quella austriaca del febbraio del 1934 e stava a dimostrare che l'elemento militare andava prendendo sempre più il sopravvento nell'Europa degli anni '30:
"Così oggi è a Vienna, così a Berlino, dove chi domina non è Hitler, ma la Reichswehr, cioè il militarismo prussiano. Speriamo che a Madrid gli uomini responsabili evitino di portare l'elemento militare al punto di ricominciare i "pronunciamentos", un tempo così tipici nella penisola iberica"(78).
Qualche giorno dopo, il 21 novembre 1934, si pubblicava ne El Matí un nuovo articolo di Sturzo con il titolo "Horrors i responsabilitats"(79), che si può considerare una sintesi del sacerdote siciliano, dopo aver ascoltato opinioni diverse, su quello che era successo nelle Asturie.
Botti sottolinea, in modo interessante, il fatto che a Sturzo arrivarono lettere con punti di vista abbastanza differenti riguardo agli avvenimenti asturiani. Da una parte, Alfredo Mendizábal(80) e Maximiliano Arboleya(81) dimostravano una certa comprensione nei riguardi degli operai ribelli e delle loro opinioni; dall'altra, Severino Aznar(82) considerava la rivolta quale ulteriore tentativo frustrato di dar vita ad una nuova rivoluzione russa(83). In "Horrors i responsabilitats" Sturzo espresse il suo personalissimo punto di vista: se i minatori si erano ribellati, ciò si doveva alle condizioni inumane nelle quali erano obbligati a lavorare; il fatto che la maggior parte di essi fosse caduta nelle mani dell'ideologia socialista era il risultato della scarsa eco che avevano avuto nel mondo cattolico conservatore i principi espressi nella "Rerum Novarum" di Leone XIII. Era la stessa ostilità che Sturzo aveva dovuto soffrire durante la sua gioventù quando aveva dato vita al primo movimento democratico-cristiano con il Prof. Toniolo: "l'ostilità dei cattolici conservatori fu così decisa, da aver sentito ripetere io stesso ch'essi preferivano il socialismo alla democrazia cristiana"(84). Era molto triste che, nei quarantatre anni successivi alla "Rerum Novarum", non ci si fosse adoperati con intensità nel campo operaio per evitare di lasciarlo abbandonato a se stesso, ed ancor più triste era che "gli operai debbano essere costretti a combattere con le armi"(85). Ciò che era valido per le miniere lo era anche per le campagne e per il delicato tema della questione agraria, laddove era evidente che i cattolici hanno "perduto troppo tempo a prendere sul riguardo una posizione netta e coraggiosa. Non ingiustizia a danno dei proprietari, ma giustizia ed equità a favore dei lavoratori"(86).
Ancora una volta, comparando il testo italiano originale con il testo in catalano che uscì su El Matí, si può evidenziare in quest'ultimo la mancanza di intere linee nelle quali Sturzo attribuiva la responsabilità della ribellione tanto "all' imprudenza dei governanti"(87) quanto a "l'istigazione dei capi sovversivi"(88), e dove parlava di Severino Aznar, Ángel Ossorio e Maximiliano Arboleya quali cattolici che "se fossero stati ascoltati, oggi i cattolici spagnoli non passerebbero, di fronte alla classe operaia, per fascisti, per reazionari, per alleati dei padroni anche nell'ingiustizia"(89). Di tutto ciò, nell'articolo che uscì su El Matí, non resta traccia, a causa di un ulteriore e sgradevole intervento di censura.
Con lettera del 16 febbraio 1935, Ruiz Manent espresse a Sturzo alcune opinioni che per certi versi si posssono considerare premonitrici di ciò che sarebbe accaduto in Spagna nell'immediato futuro, anche se con uno stile molto personale. Su Gil Robles: "ha buona fede, e una personalità che entussiasma il popolo. E un cattolico sincero, un cattolico que fa politica, soltanto perche è cattolico. Non penso che possa salvare la democrazia"(90); sull'alleanza di quest'ultimo con i radicali di Lerroux : "Credo che la compagnia con Lerroux sara molto pernicida, perché il partito radicale è un partito di ladri, è una organizazione per rubare"(91); sulla situazione politica in generale: "Il Parlamento, la Republica sono sprestigiatti, e il popolo ha perdutto il capo (...) Siamo in piena disgrazia"(92).
A volte la censura sugli articoli scritti da Sturzo portava addirittura alla non pubblicazione degli stessi. In questo senso due casi emblematici sono quelli relativi al problema ebreo. Il primo si riferisce all'articolo pubblicato su El Matí con il titolo "Alemanya vers l'apostasia"(93) del quale non vennero pubblicati "quei paragraphi che parla degli hebrei"(94), e nei quali Sturzo parlava positivamente del popolo ebraico. Ruiz Manent giustificava tale soppressione con una buona dose di antisemitismo che sorprende per la tranquillità con la quale viene professata: "Occorre una cosa quasi comica: che alcune centinaia degli hebrei cacciati da Germania sono venuti a Catalogna a fare delle sue (...) In pochi mesi si han fatto antipopolarissimi"(95). Dietro quest'ostilità verso gli ebrei vi era in realtà un interesse calcolato da parte di Ruiz Manent nel voler mantenere buone relazioni con i commercianti locali che erano stati messi in difficoltà dall'introduzione da parte di quelli ebrei di "una cosa che prima non c'era: le boteghe di prezzi unici"(96). Alla luce di quanto detto non stupisce dunque l'affermazione che, riguardo agli ebrei, "Non era conveniente per il giornale di parlare in suo favore"(97).
Il secondo caso è quello relativo all'articolo pubblicato su L'Aube il 15 agosto 1935 da Sturzo con il titolo "Obermmergau".(98) Sturzo criticava apertamente la notizia data dall'agenzia Havas di Vienna secondo la quale nella cittadina bavarese di Oberammergau, la Passione di Nostro Signore (celebre passione medievale, interpretata dagli abitanti del luogo sin dal 1634) era stata sostituita con un dramma antisemita dal titolo "Il Raccolto", avente per tema la seduzione di una giovinetta ariana-germanica da parte di un giudeo. Sturzo lamentava un simile cedimento alla "propaganda antisemita e alla cortigianeria verso il regime nazista"(99). La possibilità che lo stesso articolo venisse pubblicato su El Matí cadde quando Ruiz Manent scrisse a Sturzo che "Credo che non è prudente de pubblicare il suo articolo su Oberammergau"(100). Ruiz Manent non credeva a quanto si diceva giacché aveva avuto assicurazioni che tutto era falso; la rappresentazione teatrale "è un drama que niente ha da fare con gli hebrei... Ma questi sono quegli che hanno sparso la falsa nuova"(101). La colpa dunque, ancora una volta, era degli ebrei.
È probabile che Sturzo cominciasse a stancarsi di quest'opera di censura permanente sui suoi articoli. Non è da escludere che egli stesso rifiutasse che venisse pubblicato su El Matí l'articolo, già uscito su L'Aube con il titolo "Trenta giugno"(102), che attacccava duramente Hitler e l'assassinio di centinaia di persone avvenuto a Monaco il 30 giugno del 1934. Ruiz Manent aveva mandato a Sturzo "la prova censurata di quel suo articolo sul 30 giugno"(103) ma, visto che l'articolo non uscí mai su El Matí, c'è da credere che a Sturzo la "prova censurata" non avesse fatto particolarmente piacere e che, pertanto, non avesse dato il consenso per la sua pubblicazione.
La direzione conservatrice di Jaume Ruiz Manent non produsse i cambi sperati ne El Matí, soprattutto in campo economico; per questa ragione si decise di sollevarlo dal suo incarico nominando come nuovo direttore Fèlix Millet (presidente della "Federació de Joves Cristians de Catalunya"). Lo stesso Ruiz Manent ne dava notizia a Sturzo con lettera del 30 gennaio 1936:
"Caro Don Sturzo: Non sono più direttore. L'ulcera stomacale non va meglio e fu necessario di lasciare la preoccupazione del giornale. Scrivo come avanti sulle questione straniere, ma il direttore è adesso un altro. Vi furono anche delle discussione sulla orientazione del giornale e io profito l'occasione per uscire. Mille grazie per il suo consiglio sul mio male. Regretto che il mio ulcero non sia duodenale. E' (cosa stramissima dicono i dottori) nella parte più larga dello stomaco. Il suo articolo non è pubblicatto, perche sarebbe stato un gran colpo contro l'unione dei partiti di destra, che s'è fatto appunto contro i marxisti che qui, in Spagna sono a punto di convertire il paese in una altra Russia. Ma credo che non riusciranno, perche le destre avranno probabilmente le magioranze da per tutto. E' evidente che Gil Robles, nel fondo è monarchico, ma un monarchico che non portera la monarchia. Se egli non fosse stato anzitutto cattolico, il Re sarebbe già in Madrid. Soltanto la volontà di seguire le direttrice di Roma ha fatto di lui un republicano, anche per forza (...)"(104).
Come è facile notare, Ruiz Manent non nomina il nuovo direttore, giustificando il cambio più per la sua ulcera di stomaco che per problemi di carattere ideologico. Inoltre dava spiegazioni a Sturzo sul perché non era stato pubblicato un suo articolo (nel quale quest'ultimo considerava necessario non confondere gli interessi della Chiesa Cattolica con un'opzione politica concreta, in questo caso con quella della CEDA, alla vigilia delle elezioni generali di febbraio), dicendo che avrebbe creato problemi all'unione dei partiti delle destre contro il pericolo marxista. Le precauzioni di Ruiz Manent sarebbero servite a poco, vista la netta vittoria della coalizione delle sinistre nelle elezioni del febbraio del 1936.
Il nuovo cambio ideologico nella direzione de El Matí permise a Sturzo di esprimere le sue idee sulla CEDA con un articolo che uscì in due parti il 27 ed il 28 febbraio 1936, "La utilitat d'una derrota. Als meus amics espanyols"(105), nel quale, dopo la vittoria del Frente Popular nelle elezioni di febbraio, "Sturzo tenta di sgombrare il campo dall'idea che la sconfitta elettorale di Gil Robles e delle destre andasse interpretata come una sconfitta della Chiesa"(106). Scriveva Sturzo:
"Anzitutto un avvertimento; non cadere nella tentazione di assimilare le sorti di un partito o di una coalizione di partiti con la chiesa; non dire che la sconfitta è del cattolicesimo, nè credere che per esso tutto sia perduto. (...) La prima utilità della sconfitta è fare questa discriminazione fra i nostri partiti e la chiesa; (...) Altra utilità, che viene dalla sconfitta, è studiarne oggettivamente le cause. (...) Perché ci siano tanti avversari non di questo o quel partito, ma dell'ordinamento attuale religioso, civile ed economico, occorre che ci siano dei difetti radicali in tale ordinamento. Non è da credere che gli avversari abbiano sempre torto, e che noi abbiamo sempre ragione. La sconfitta ci deve dare un senso d'umiltà (che spesso non abbiamo) in confronto ai nostri avversari"(107).
Per tanto, umiltà di fronte alla sconfitta, riconoscimento degli errori commessi e, soprattutto, evitare di creare uno scontro tra due blocchi contrapposti, inclini alla distruzione dell'avversario: Sturzo intuiva perfettamente l'enorme rischio che si stava profilando all'orizzonte e che era dovuto a "L'errore enorme di ridurre il paese in due blocchi fermati e chiusi per l'eliminazione del competitore"(108), avvertendo, in modo quasi premonitore, che da buoni cristiani "Non bisogna mai portare le lotte elettorali sul piano di una guerra civile"(109). Per il sacerdote siciliano, il probblema fondamentale di alcuni partiti ed uomini della destra spagnola era uno molto evidente:
"Cioè ch'essi, pur partecipando alla lotta e pur eleggendo dei deputati alle Cortes, concepiscono la repubblica come una forma temporanea di regime, e il parlamentarismo come un mezzo per poterlo cambiare con il minore pericolo possibile. Questo equivoco è più grave in coloro che non si chiamano monarchici e lo sono nel cuore, in coloro che non si pronunziano per la ditattura ma la desiderano. La duplicità non è buona nè nella vita privata, nè nella vita pubblica: essa obbliga a mentire, a equivocare, a tergiversare, a fingere, a seguire vie coperte. (...) So bene che ci sono dei cattolici spagnoli che accettano per dovere di coscienza l'attuale stato republicano, ma amano ancora la monarchia; usano la scheda elettorale, ma vorrebbero un governo autoritario"(110). Questa ambiguità della maggior parte del mondo cattolico di fronte allo Stato republicano era dunque criticata con veemenza da Sturzo.
Ruiz Manent, pur riconoscendo il grande valore degli articoli di Sturzo e dandogli ragione per quanto da lui affermato, credeva che "la recente sconfitta incrementara il monarchismo delle destre, o meglio il fascismo in uno o altro modo"(111), anche se non in Catalogna "che da sempre è repubblicana". Non vè dubbio che le previsioni di Ruiz Manent erano abbastanza fondate. D'altro canto, egli non sembrava nutrire nessuna fiducia nell'appena restaurata autonomia catalana, esprimendo il suo giudizio in una lettera del 3 marzo 1936 diretta a Sturzo:
"Non ho fede nella autonomia catalana ristaurata: 1º perché questi uomini non sono capaci di fare altro che nell'ottobre del 1934. 2º perché l'autonomia in se è diffetuosissima e risulta inefficace nel campo dell'economia, che è il principale di Catalogna. 3º per la diffidenza naturale del Governo Centrale. Il sentimento catalano è sempre anarchico (credo che questo gli dicevo una volta personalmente), e fa indeffettibilmente quello che non conviene. Non è una beffa, ma forte realità. Anche moltissimi catolici hanno votato le sinistre, soltanto per quello sentimento feminile verso i poveri prigioneri. Nella letteratura catalana antica sono già parecchi i poemi sul tema dei poveri prigioneri"(112).
Anticipando le possibili dimissioni del Presidente della Repubblica, Alcalá Zamora, Ruiz Manent considerava che gli unici possibili candidati alla successione, Albornoz ed Ossorio, non erano adeguati, il primo perché era "un asino, ancora più sciocco que Alcalà, e molto anti-clericale"(113), ed il secondo perché "i cattolici come Ossorio non giovano a la religione; questo è una paradossa che Lei udirebbe a molti cattolici, insodisfatti dell'attuazione di Alcalá Zamora, un altro cattolico"(114). Concludeva infine con la considerazione che il governo era vittima del ricatto dei comunisti e che, forse, non vi era che una soluzione: "la dittatura militare? Io credo che non sia lontana"(115).
In una lettera del 5 maggio 1936 Ruiz Manent ribadiva in modo ancor più netto quanto affermato precedentemente. Considerava la situazione politica molto difficile non nutrendo alcuna fiducia nelle sinistre:
"I marxisti paiono padroni della Spagna, e le sinistre non hanno alcuna forza...ne buona intenzione. Io credo gli Azaña e compagni sono più da temere che i comunisti aperti"(116), e notando un lento disfacimento delle destre: "Le destre se ne vanno tutte meno il fascismo, e Gil Robles rimane solo. L'esercito si mantiene ancora unito e contra il marxismo, ma si fanno sforzi incredibili (anche da parte di Azaña) per corromperlo. Io credo che la situazione attuale persiste, i marxisti riusciranno a sfare l'unione dei corpi armati e allora la rivoluzione sara trionfante"(117).
Ancora una volta, Ruiz Manent vedeva nella dittatura l'unica soluzione per evitare il rischio di una nuova rivoluzione russa: "Ma anche è possibile un colpo di Stato che porterebbe apparecchiatto il fascismo. Forse sarebbe questa la unica soluzione. Lei sa che in certi regioni spagnuole il popolo è piu barbaro del russo, e i risultati della rivoluzione trionfante sarebbe horribile"(118), mentre considerava poco credibile la possibilità che Ángel Ossorio y Gallardo venisse eletto Presidente della Repubblica: "Ossorio è sprezzatto da tutti: destre e sinistre. Ne uno dei diputatti delle sinistre gli acepterebbe come Presidente, poiche egli non ha la coscenza libera (è cattolico). Naturalmente, i cattolici non accettano la teoria di Ossorio, che il laicismo non sia alcun male..."(119).
Con lettera del 2 giugno 1936 Ruiz Manent ribadisce ancora una volta che "La situazione politica è molto cattiva"(120), che il numero dei disoccupati cresce di giorno in giorno e che crede che "non è altra uscita che un governo di Forza"(121). La dittatura viene non solo prevista ma, soprattutto, auspicata: "Credo che nel resto di Spagna c'è un movimento patriotico più o meno fascista e serio, ma in Catalogna non abbiamo nè una cosa nè un l'altra"(122), altrimenti "ci viene sopra una catastrofe"(123).
Le previsioni più pessimistiche si fecero realtà il 17 e il 18 luglio del 1936 con la rivolta dei militari capeggiati da Franco, il cosidetto "Alzamiento Nacional": era l'inizio della Guerra Civile.
Ruiz Manent scappò in Svizzera per evitare la repressione che si scatenò contro i settori più reazionari della società catalana dopo l'insuccesso del "Alzamiento Nacional" in Catalogna. La redazione de El Matí venne incendiata il 19 luglio 1936 e la tipografía passò nelle mani del PSUC (Partido Socialista Unificado de Catalunya)(124). Ciò nonostante, la corrispondenza tra Sturzo e Ruiz Manent continuò abbondante nei mesi successivi, anche se le differenze d'opinione si andarono acuendo sempre più, soprattutto per ciò che si riferiva al ruolo della Chiesa ed alle persecuzioni subite dai cattolici e dal clero spagnolo.
Il 5 ottobre 1936, da Ginevra, Ruiz Manent scrisse a Sturzo:
"bisognera ralliarse con fede al critianissimo Franco afinché Spagna no divenga peggio che Russia. Molti dei miei amici, anche due preti d'El Matí sono stati uccisi. Bisogna nulla dire nel giornale né su i suoi redattori, perche molti ancora sono a Barcelona e quelli que sono usciti hanno la minaccia delle rapresalie. Ossorio è in Ginebra ma non merita que nessun cristiano parli con lui"(125).
Alla fiducia che Ruiz Manent aveva per Franco, Sturzo contrappose, nella sua risposta del 12 ottobre 1936, l'opinione che:
"la chiesa cattolica e il papato non sono conniventi con la rivolta militare e con la guerra civile" e che "bisogna convenire che la dottrina cattolica condanna la rivolta militare. Quei cattolici che l'hanno istigata, ispirata, favorita (siano anche preti, gesuiti e vescovi) hanno agito contro gl'insegnamenti della morale cattolica"(126).
La rivolta militare era, per la morale cattolica, inaccettabile perché "la difesa deve essere incolpevole, e si deve evitare il maggior danno alla comunità"(127). La maggior preoccupazione di Sturzo era che:
"Metà della Spagna, per giunta, crederà che la colpa è della Chiesa; odierà la Chiesa; e quest'odio sarà coltivato con il ricordo dei morti, con le terribili mostruosità della guerra (dai due lati senza discriminazione qualitativa ma solo di più o di meno secondo i casi). In tutta Europa, in tutto il mondo, la guerra civile spagnuola sarà rinfacciata ai cattolici come la notte di S. Bartolomeo e come la repressione del Duca d'Alba nelle Fiandre. Ne abbiamo avuto troppo dell'Inquisizione di Spagna, (quasi sempre in mano ai re e a scopo politico) per avere oggi i crociati spagnuoli contro un popolo ch'è stato in fin dei conti abbandonato, spiritualmente e socialmente e lasciato preda al socialismo e sindacalismo, ed oggi al comunismo"(128).
Secondo Sturzo bisognava fare qualunque sforzo per sganciare la Chiesa da un ruolo diretto nella Guerra Civile.
Ruiz Manent non era della stessa opinione ed, il 20 ottobre 1936, chiariva in modo netto che, dopo la vittoria del Frente Popular nelle elezioni di febbraio, era cominciata una vera e propia rivoluzione comunista. Pertanto, Franco stava salvando la Spagna dal rischio di trasformarsi in una nuova Russia e che, per tale ragione, biognava appoggiarlo. Aggiungeva:
"Non so si la rivoluzione militare è un affare dei cattolici o no, ma credo che i cattolici hanno perfetto diritto di difendere la loro patria, sia contro gli nemici di fuori sia contro gli nemici dell'interiore. Non so anche se il popolo spagnuolo è stato abbandonato spiritualmente e socialmente e lasciato preda del socialismo e sindicalismo, ed oggi al comunismo, ma in altri paesi che si vantanno di aver fatto meglio, la situazione non diviene meglio. Nel Belgio, per esempio"(129).
Probabilmente, il momento di maggior contrasto tra Sturzo e Ruiz Manent fu quando il primo scrisse due articoli su L'Aube riferendosi ai tragici avvenimenti dei Paesi Baschi ed al bombardamento di Guernica(130), dopo aver firmato il manifesto Por le peuple basque(131) del maggio del 1937.
Nella lettera del 4 giugno 1937, Ruiz Manent affermava che ciò che Sturzo aveva scritto gli aveva causato una "profonda tristizia", non comprendendo come potesse difendere quei baschi "alliati di comunisti che causanno alla Chiesa e alla Spagna un tan grande male"(132). Negava fermamente che molti baschi fossero "rossi" ed affermava che solo la sesta parte della popolazione era nazionalista e che, pertanto, era totalmente sbagliato parlare "d'una Euzkadi desiderosa de l'independenza o l'autonomia"(133). Gli sembrava sorprendente il paragone che Sturzo faceva nei suoi articoli tra la persecuzione degli Armeni e ciò che era avvenuto nei Paesi Baschi: "Dove a letto Lei che i baschi siano sterminati? Tutto il contrario avviene. Nulla parte la guerra fu più humana, per quanto quelli che combattono gli nazionalisti sono gli migliori cristiani d'Euzkadi e di Spagna: gli carlisti baschi. Prego Lei di dirme dove si è informato"(134). Accusava Aguirre(135) ed i suoi seguaci di mentire costantemente sin dall'inizio della guerra, mentre il governo di Salamanca (franchista) "non ha mentito mai"(136), ed arrivava all'affermazione paradossale che "Gli inzendiarii di Guernica furono gli medessimi di Irun, Eibar, Lequeitio, Durango, Amorebieta e tanti altri!"(137).
Ruiz Manent non aveva nessuna remora nel dichiarare apertamente che:
"Noi, gli catalani, siamo tutti entussiasti partigiani di Franco. Coi rossi sonno soltanto gli anticlericali e quattro o cinque pazzi della Uniò Democràtica de Catalunya, colligatti coi communisti malgrado l'oposizione dell'99? dei membri di prima del 18 luglio (...) tutti gli cattolici, anche quelli que prima erano separatisti, sospirano per l'arrivata di Franco in Catalonia. Degli operai, cattolici e non cattolici, la gran maggioranza aspettano anche il trionfo dei nazionalisti come la loro liberazione. I contadini sonno tutti per il movimento nazionale. Se non fosse per la mano ferrea che Moscou ha in Barcelona e l'aiuto del Front Populaire francese, la pace nazionalista sarebbe già un fatto. I catalanisti non sonno mai stati nella storia più perseguitati di oggi"(138).
Evidentemente, Sturzo considerò opportuno rispondere a simili dichiarazioni di stile fortemente demagogico ("era pura propaganda politicoideològica")(139), giacché non credeva per nulla che i carlisti baschi fossero i migliori cristiani d'Euzkadi e della Spagna, o che fossero stati gli stessi baschi a bombardare Guernica, né tantomeno che i catalani fossero tutti entusiasti partigiani di Franco e che tutti i cattolici della Catalogna stessero aspettando con ansia il suo arrivo a Barcellona.
Il 17 giugno 1937 chiariva tre punti:
"1) la rivolta dei generali non era, cristianamente, lecita; 2) la resistenza dei fedeli e dei preti attaccati nelle chiese poteva essere lecita se si limitava alla stretta difesa delle loro persone e (forse) delle chiese; 3) la guerra civile che ne è seguita, non era lecita ed è un maggior male, che si doveva evitare"(140).
Riferendosi ai baschi ed a Guernica, le sue idee erano ancor più decise:
"1) Essi difendono le loro autonomie tradizionali; trattarono con le destre, nel periodo elettorale del 1935-36 e non ebbero che rifiuti. Trattarono con il Fronte popolare ed ebbero promesse e assicurazioni. Erano alleati del governo di Madrid. Ammessa che la rivolta dei generali era illegittima e illecita, i baschi non avevano nessun dovere di allearsi a Franco, ed avevano anche il diritto di opporsi a lui. 2) E' vero che i baschi di Bilbao non sono tutti i baschi. Ma sono coloro che difendono la tradizione di Euzkadi. Essi si difendono: ne hanno il diritto. Certo essi non potranno imporre l'uso delle tradizioni alle province dissidenti; e vice-versa. La Navarra in altri tempi fece causa da se e si legò ai Re di Castiglia; così oggi; non può pretendere lo stesso dalla Biscaglia. 3) Ho paragonato i baschi agli armeni: i fatti di Durango, di Guernica, etc. e la minaccia del fu Generale Mola di distruggere Bilbao, (minaccia messa in atto con l'aviazione tedesca e italiana), l'evacuazione della popolazione (per salvarla) dimostrano chiaramente la mia asserzione. 4) Lei crede che Guernica e Durango siano state incendiate dai baschi. Io ho fede nel corrispondente del Times, nelle affermazioni testimoniali di Padre Onaindia, e degli altri preti che han fatto l'esposto al Vaticano, nella testimonianza di Mrs. Beer, una signora cattolica inglese che conosco da molti anni, e che fu presente al bombardamento di Durango, e con la quale io ho parlato personalmente. Oramai nemmeno gli oppositori negano il bombardamento di Durango e Guernica"(141).
L'analisi della questione basca permetteva a Sturzo di mantenersi fedele alle sue teorie autonomiste che, da sempre, avevano caratterizzato la sua visione politica, riproponendo con forza una sua vecchia convinzione:
"che una reale democrazia fosse possibile solo dopo il superamento delle rigidezze e delle chiusure dello Stato nazionale di stampo ottocentesco e grazie all'instaurazione ed alla valorizzazione di un vasto e ramificato sistema di autonomie"(142).
Per tale ragione, protestava energicamente affinché si mantenesse il rispetto delle tradizioni, della lingua e della cultura dei Paesi Baschi. Era una voce di protesta contro i nuovi totalitarismi che minacciavano l'Europa intera attraverso un'omolagazione ed una massificazione anti-democratica. Era anche il disperato tentativo di non farsi risucchiare da nessuna delle due parti in lotta, mantenendosi "en una tercera via molt "poc oficial", almenys respecte del món católic en general"(143), ed esprimendo opinioni che erano condivise solo da una piccola minoranza (in essa si trovavano personaggi del calibro di Jaques Maritain e del frate domenicano francese M.D. Chenu(1) e che erano molto diverse rispetto a quelle della maggioranza dei cattolici europei. Evidentemente: "uns catòlics defensant(144) amb les armes a la mà la causa republicana eren una rara avis difícil d'acceptar"(145) .
Sturzo non aveva remore nel dichiarare apertamente di aver desiderato che, sin dal primo momento, la Chiesa spagnola avesse fatto opera di mediazione senza appoggiare nessuna delle due parti in lotta, giacché:
"La Chiesa non maledice i suoi persecutori, ma prega per essi; non li uccide, ma cura le loro piaghe, non si arma e non arma gli altri; ma predica la pace per tutti; là solamente è la Chiesa"(146) .
È evidente che le divergenze tra Sturzo e Ruiz Manent risiedevano fondamentalmente nella differente interpretazione che davano alla Guerra Civile: guerra di civilizzazione, e pertanto guerra religiosa e culturale, per Ruiz Manent; guerra socio-politica per Sturzo, che non accettava l'idea di una "guerra santa" o di una "crociata" che difendesse la civiltà cristiana, spagnola ed europea dal pericolo comunista ed anarchista. Questa differenza d'impostazione non lasciava spazio a nessun tipo di dialogo. La posizione di Sturzo era inconciliabile con quella di Ruiz Manent, che "s'havia llançat a ulls clucs en braços de la literatura franquista més virulenta"(147) .
Da non dimenticare che Sturzo, proprio in quei giorni, portava a termine la sua opera , Chiesa e Stato(148) , che si pubblicò una prima volta in Francia nel 1937 e, come ben sottolinea il Malgeri, le pagine che si occupano della situazione spagnola "risentono fortemente del clima e delle passioni di quei giorni"(149).
Nel frattempo il sacerdote siciliano cominciò a convincersi del fatto che l'unico modo di far terminare il conflitto spagnolo era mettersi al lavoro per cercare una "pace di compromesso". La nascita in Francia del "Comité espagnol pour la paix civile y del Comité d'action pour la paix en Espagne", ad opera di Mendizábal ed altri rifugiati spagnoli all'estero, lo spinsero a promuovere a Londra la creazione del "British Committe for Civil and Religiuos peace in Spain", coinvolgendo in esso vari rappresentanti della politica e della cultura inglese (Seton Watson, Wickham Steed, etc.)(150) .
Fu soprattutto nei vari tentativi fatti per liberare Manuel Carrasco i Formiguera(151) laddove si sviluppò maggiormente l'attività di Sturzo durante quei mesi. A questo proposito, è necessario ricordare le opere molto complete e minuziose di Hilari Raguer sulla vita e la morte del segretario dell'UDC(152). In questo contesto, mi limito a citare una interessante analisi di Botti su parte della corrispondenza tra Sturzo ed Alfredo Mendizábal, che può "tener cierto interés por los detalles que aporta sobre los intentos que se hicieron para evitar el trágico fin del político catalán" e "nos permite averiguar lo mucho que intentaron los que poco podían en contraste con lo poco que hicieron los que mucho más habrían podido hacer"(153) Analizzando varie lettere che Sturzo scambia con Mendizábal a partire dal 23 ottobre 1937 (lettera nella quale si trova il primo riferimento al caso di Carrasco i Formiguera), Botti arriva alla conclusione che: "la Santa Sede supo y estuvo involucrada en los intentos de liberación del político catalán", che "el compromiso del Foreign Office tuvo que ser mayor de lo que se ha pensado hasta la fecha", che furono numerosi "los intentos y las iniciativas de los ambientes católicos democráticos vinculados con los Comités comprometidos en una solución negociada del conflicto español", e che ancora una volta è evidente "la obstinación de Franco en dejar que la sentencia se ejecutara"(154).
L'attività di Sturzo era stata frenetica ed allo stesso tempo ostinata, nel tentativo di coinvolgere tutte le personalità che conosceva con il fine d'ottenere la liberazione del politico catalano (Botti cita, a parte le lettere con Mendizábal, la corrispondenza che Sturzo mantenne con: W. H. Steed, giornalista di fama internazionale ed ex direttore de The Time; Pablo de Azcárate, anbasciatore spagnolo a Londra; Robert Vansittart, sottosegretario e, successivamente, segretario generale del Foreign Office fino al 31 dicembre del 1937; Joan Batista Roca i Caball, redattore e segretario di redazione de El Correo Catalán, e fondatore e dirigente della UDC; Barbara Carter Barclay, fondatrice del gruppo People and Freedom e segretaria generale della Internacional Christian Democratic Union con sede a Londra)(155). Ciò nonostante, "questo impegno continuo, assiduo, intenso, non portó i risultati sperati"(156), e l'illusione che una mediazione internazionale favorisse la pace in Spagna, si vide frustrata quando Carrasco i Formiguera venne giustiziato.
È quanto meno curioso notare come, del tema relativo alla prigionia ed alla morte del segretario dell'UDC, non v'è alcun riferimento nella corrispondenza tra Sturzo e Ruiz Manent. Probabilmente, Carrasco i Formiguera era per Ruiz Manent uno dei "quattro o cinque pazzi della Uniò Democràtica de Catalunya, colligatti coi communisti"(157) e qualunque tipo di dialogo tra lo stesso Ruiz Manent e Sturzo era ormai impossibile per le sempre più accentuate divergenze d'opinione sugli avvenimenti relativi alla Guerra Civile. Sturzo preferì non mandare più al suo amico nessuna copia degli articoli che andava pubblicando sulla stampa dell'epoca, per non causargli ulteriori dispiaceri, fatto che Ruiz Manent interpretò come un'interruzione dei commenti d'opinione sulla Guerra Civile da parte del sacerdote siciliano:
"Vedo che Lui non scrive più sulla Spagna. Gradisco molto questo silenzio, già che Lei non può scrivere in favore della nostra causa. Siamo tanti entusiasmati e speranzati! Peccato che Lei non possa accompagnarsi a questa gioia della Nuova Spagna. Io spero ancora che i fatti convencerano Lui. Il nostro sera uno Stato tanto cristiano!"(158).
In realtà, lo stesso Sturzo, il giorno di Natale del 1937, avrrebbe spiegato a Ruiz Manent che non gli aveva mandato nessuno dei suoi scritti sulla Spagna "per non recarle dispiacere; così neppure le ho mandato il mio nuovo libro L'Eglise et l'Etat, dove ci sono accenni alla Spagna. Da maggio in poi io lavoro di accordo con il "Comitato per la pace civile e religiosa in Spagna", pace di conciliazione; e non pace imposta da una vittoria"(159).
Ancora una volta, Sturzo riaffermava il concetto della illeggittimità della rivolta militare e considerava la Guerra Civile moralmente inaccettabile, concludendo inequivocabilmente:
"Uno Stato Cristiano come effetto di una guera civile costruito da coloro che hanno le mani insanguinate prima, non è concepibile"(160).
Gli avvenimenti posteriori avrebbero dimostrato che ciò che Sturzo riteneva eticamente inconcepibile, ossia uno Stato cristiano quale risultato di una guerra civile, il "cristianissimo" Franco si sarebbe preoccupato di farlo divenire realtà per i quaranta anni successivi di storia spagnola.

NOTE
(1) F. Piva, Vita di Luigi Sturzo, Cinque Lune, Roma 1972, pp. 360-370; F. Malgeri, Profilo biografico di Luigi Sturzo, Cinque Lune, Roma 1975, pp. 114-116; G. De Rosa, Sturzo, Utet, Torino, 1977, pp. 338-365.
(2) L. Sturzo, Miscellanea londinese, vol. I-IV, Zanichelli, Bologna, 1965-1974.
(3) L. Sturzo, Scritti inediti, vol. II (1924-1940), a cura di F. Rizzi, Cinque Lune, Roma, 1975.
(4) G. Campanini, Una battaglia per la libertà della Chiesa, in Aa.Vv., I Cattolici italiani e la guerra di Spagna, Morcelliana, Brescia, 1978, pp. 167-219.
(5) A. Botti, La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, in La Spagna degli anni '30 di fronte all' Europa, Atti del Convegno di Salerno (maggio 1998), a cura di Francesco Saverio Festa e Rosa Maria Grillo, Antonio Pellicani Editore, Roma 2001, p. 130.
(6) Ibidem, pp. 130-131.
(7) F. Malgeri, Sturzo e la Spagna negli anni Trenta, in Universalitá e cultura nel pensiero di Luigi Sturzo, Atti del Convengo Internazionale di studio (Istituto Luigi Sturzo, 28-29-30 ottobre 1999), Rubbettino Editore, Roma, 2001, pp. 403-415.
(8) G. Campanini, Sturzo e la questione basca negli anni della guerra civile spagnola, in Universalitá e cultura nel pensiero di Luigi Sturzo, Atti del Convengo Internazionale di studio (Istituto Luigi Sturzo, 28-29-30 ottobre 1999), Rubbettino Editore, Roma, 2001, pp. 417-423.
(9) A. Botti, Luigi Sturzo e la Spagna: dalla proclamazione della Repubblica alla vigilia della vittoria del Fronte popolare (1931-1936), in Aa.Vv., Studi in onore di Raffaele Molinelli, Argalìa, Urbino, 1998, pp. 30-46; La liberación de Manuel Carrasco i Formiguera a través de la correspondencia entre Alfredo Mendizábal y don Luigi Sturzo (1937-1938), en Aa.Vv., Ciudad de los hombres, ciudad de Dios. Homenaje a Alfonso Álvarez Bolado, S. J., Universidad Pontificia Comillas, Madrid, 1998, pp. 497-513; La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, Op. cit., pp. 129-152.
(10) G.-J. Graells, "Don Sturzo y Catalunya", Serra d'Or, 15 dicembre 1971.
(11) Miquel Coll i Alentorn, "Un article sobre Don Sturzo", Serra d'Or, 15 febbraio 1972.
(12) O. Alzaga Villaamie, La primera democracia cristiana en España, Ariel, Barcelona, 1973 (traducción en italiano: Le origini della Democrazia Cristiana in Spagna, Cinque Lune, Roma, 1978); J. Tusell, Historia de la Democracia cristiana en España, Edicusa, Madrid, 1974 (Sarpe, Madrid, 1986); J. Tusell y G. García Queipo de Llano, El catolicismo mundial y la guerra de España, Bac, Madrid, 1993, pp. 218-235; S. Trinchese, La democrazia cristiana in Spagna e Luigi Sturzo, in La Europa del Sur en la época liberal. España, Italia y Potugal. Una perspectiva comparada, a cura de Silvana Casmirri, Manuel Suárez Cortina, Universidad de Cantabria, Santander, 1998, pp. 273-296.
(13) A. Morelli, "Don Sturzo face à la guerre d'Espagne et specialment au problème de la Catalogne et du Pays basque", Anuari de la Societat d'Etudis d'Historia Eclesiástica Moderna y Contemporánia de Catalunya, 1987, pp. 133-56.
(14) A. Botti, La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, Op. cit., p. 132.
(15) L. Sturzo, Articles a El Matí (1929-1936), a cura de Ferran Camps i Vallejo, Clotilde Parellada i Rossel, Partit Popular Europeu, Barcelona, 1992.
(16) Lettera di J. M. Casasses a Sturzo, 23 febbraio 1934, ALS, s. CS, f. 487, c. 5.
(17) Ibidem.
(18) Miquel Coll i Alentorn, "Un article sobre Don Sturzo", art. cit., pp. 33-34.
(19) Segretario della Unió Democrática de Catalunya, era caduto in mani franchiste nella notte tra il 5 ed il 6 marzo del 1937; condannato a morte dal "Consejo de Guerra" di Burgos il 28 agosto del 1937, venne giustiziato il 9 aprile del 1938.
(20) Minuta di Sturzo a Jaume Ruiz Manent, 23 agosto 1929, ALS, s. BY, f. 444, c. 2.
(21) Cfr. L. Sturzo, Articles a El Matí (1929-1936), Op. cit., p. 27.
(22) L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., p. 31.
(23) Ibidem, p. 28.
(24) Ibidem.
(25) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 22 aprile 1930, ALS, s. BP, f. 309, c. 8.
(26) L. Sturzo, "La qüestió flamenca", 2 aprile 1930, El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., p. 94-98.
(27) L. Sturzo, "La questione fiamminga", 2 aprile 1930, El Matí, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. I, pp. 251-257.
(28) In realtà, all'inizio non ci sono grandi cambi tra l'originale in italiano e l'articolo definitivo in catalano. Per esempio, nel caso del citato articolo "La qüestió flamenca", laddove Sturzo scrive "le minoranze oppresse cominciarono a rivendicare i loro diritti sul terreno della lotta política dei popoli", ne El Matí si sopprime il termine "lotta" lasciando un più prudente "terreny de la política dels pobles".
(29) Dopo la lettera del 22 aprile 1930, c'è solo una cartolina di Ruiz Manent a Sturzo del maggio 1930 (ALS, s. BU, f. 411, c. 46) ed una lettera di J. M. Capdevila allo stesso Sturzo del 13 maggio 1930 (ALS, s. BU, f. 411, c. 43) nella quale lo si informava di un viaggio di Ruiz Manent in Svizzera, Germania ed Olanda, e della possibilità di poter pubblicare il suo articolo "La questió flamenca" (2 aprile del 1930) in inglese.
(30) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 27 novembre 1932, ALS, s. BU, f. 412, c. 107.
(31) A. Botti, La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, Op. cit., p. 136; A. Botti, Luigi Sturzo e la Spagna: dalla proclamazione della Repubblica alla vigilia della vittoria del Fronte popolare (1931-1936), Op. cit., p. 33.
(32) L. Sturzo, "Quel che resta delle monarchie europee", 1 agosto 1930, El Matí, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. I, pp. 274-279; L. Sturzo, "El que resta de les monarquies europees", El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 114-115.
(33) F. Malgeri, Sturzo e la Spagna negli anni Trenta, Op. cit., p. 404.
(34) L. Sturzo, "A proposito del giuramento politico", febbraio 1932, Res Publica, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. II, p. 47.
(35) La prima edizione di quest'opera si pubblicò in inglese (L. Sturzo, The international community and the rigt of war, traslated by Barbara Barclay Carter with a foreword by G. P. Gooch, Allene and Unwin, London, 1929). In Italia si pubblicò per la prima volta nel 1954 (L. Sturzo, La comunità internazionale e il diritto di guerra, Zanichelli, Bologna, 1954).
(36) La prima edizione di quest'opera si pubblicò in inglese (L. Sturzo, Italy and fascismo, traslated by Barbara Barclay Carter, with a preface by Gilbert Murray D. Litt., Faber and Gwyer, London, 1926). In Italia si pubblicò per la prima volta nel 1965 (L. Sturzo, Italia e fascismo, Zanichelli, Bologna, 1965).
(37) Lettera di Jaume RuizManent a Sturzo, 21 settembre 1929, ALS, s. BY, f. 444, c. 3.
(38) Minuta di Sturzo a Jaume Ruiz Manent, 5 ottobre 1929, ALS, s. BY, f. 444, c. 3.
(39) Minuta di Sturzo a Jaume Ruiz Manent, 24 ottobre 1929, ALS, s. BY, f. 444, c. 4.
(40) Lettera di Jaume RuizManent a Sturzo, 27 novembre 1932, ALS, s. BU, f. 412, c. 107.
(41) Minuta di Sturzo a Jaume Ruiz Manent, 3 dicembre 1932, ALS, s. BY, f. 412, c. 108.
(42) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, dicembre 1932, ALS, s. BP, f. 313, c. 77.
(43) L. Sturzo, "L'"Home rule" per a Escòcia i el regionalisme", 23 dicembre 1932, El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 130-132.
(44) L. Sturzo, "L'"Home rule" per la Scozia ed il regionalismo", 23 dicembre 1932, El Matí, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, vol. II, pp. 146-149, Zanichelli, Bologna, 1965-1974.
(45) Sturzo scrisse due articoli a tal proposito: "El popularisme", 8 febbraio 1933, ed "El sindicalisme cristià", 21 febbraio 1933 (in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 134-138); entrambi gli articoli si trovano anche, nella loro versione italiana, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol II, pp. 153-158).
(46) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, dicembre 1932, ALS, s. BP, f. 313, c. 77.
(47) Ibidem.
(48) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, gennaio 1933, ALS, s. BU, f. 413, c. 4.
(49) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 28 giugno 1933, ALS, s. BU, f. 413, c. 17.
(50) Joan March i Ordinas (1880-1962), personaggio molto discusso, capace di crearsi un impero economico dal nulla grazie ad una serie d'operazioni speculative di grande efficacia, anche se moralmente censurabili (compravendita di terreni, monopolio nel commercio di tabacco con il Marocco, creazione della Compagnia Transmediterranea) e di scontrarsi violentemente contro il "caciquismo" politico dell'epoca, presentandosi quale capitalista moderno in lotta contro strutture economiche fossilizzate. Propietario del giornale El Día (1921), fonda una propia banca, Banca March SA (1926), e viene eletto deputato alle "Cortes" nel 1931, nel 1933 e nel 1936, con la coalizione delle destre. Aiuta finanziariamente la rivolta dei militari franchisti.
(51) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 4 novembre 1933, ALS, s. BU, f. 413, c. 66.
(52) F. Malgeri, Sturzo e la Spagna negli anni Trenta, Op. cit., p. 405.
(53) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 16 novembre 1933, ALS, s. BU, f. 413, c. 84.
(54) L. Sturzo, "El plebiscit alemany i les eleccions a España", 5 dicembre 1933, El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 180-182; pubblicato anche in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol II, pp. 283-285.
(55) Lettera di J. M. Casasses a Sturzo, 23 febbraio 1934, ALS, s. CS, f. 487, c. 5.
(56) L. Sturzo, "Austria vista des d'Anglaterra", 24 febbraio 1934, El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 197-199.
(57) L. Sturzo, "L' Austria vista dall'Inghilterra", 24 febbraio 1934, El Matí, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. II, pp. 20-24.
(58) Ibidem.
(59) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 26 febbraio 1934, ALS, s. BU, f. 414, c. 5.
(60) Ibidem.
(61) Ibidem.
(62) Ibidem.
(63) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 10 giugno 1934, ALS, s. BP, f. 322, c. 13.
(64) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 3 luglio 1934, ALS, s. BP, f. 322, c. 14.
(65) L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., p. 31.
(66) Joseph María Ruiz Manent, avvocato e giornalista, scriveva per La Vanguardia, La Voz, El Sol, La Veu de Catalunya e, naturalmente, El Matí. Sin da giovane collaborò alla creazione dei sindacati cattolici con il gesuita Gabriel Palau. Intimo amico di Ángel Ossorio y Gallardo, fu nominato dal Ministro de Gobernación della II Repubblica, Miguel Maura, ispettore generale delle assicurazioni. Contrario al franchismo, mantenne una perfetta concordanza d'idee con Sturzo. Terminata la guerra, continuò ad esercitare come avvocato, permettendo che la sua casa fosse un luogo di dibattito per i cattolici catalani e catalanisti che passavano da Madrid (Cfr. L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., p. 25).
(67) Ángel Ossorio y Gallardo (1873-1946), fondatore del primo partito democratico cristiano spagnolo (il PSP, Partido Social Popular) e "Gobernador civil" di Barcellona, fu uno degli amici più intimi di Sturzo, con il quale mantenne una fitta corrispondenza. Durante la dittatura di Primo de Rivera fu oppositore del regime, mentre molti esponenti social-popolari entravano a far parte del partito unico (Unión Patriótica). Collaborò con la Repubblica senza far parte di nessun partito in concreto. Nel 1938 fuggì in Francia e da lì andò in Argentina, dove morì nel 1946. Scrisse molte opere il cui tema centrale è la necessità dell'ordine giuridico nella società civile (Cfr. A. Botti, La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, Op. cit., p. 133 e A. Botti, Luigi Sturzo e la Spagna: dalla proclamazione della Repubblica alla vigilia della vittoria del Fronte popolare (1931-1936), Op. cit., p. 31).
(68) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 16 febbraio 1935, ALS, s. BU, f. 416, c. 22.
(69) A. Botti, La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, Op. cit., p. 143; A. Botti, Luigi Sturzo e la Spagna: dalla proclamazione della Repubblica alla vigilia della vittoria del Fronte popolare (1931-1936), Op. cit., p. 39.
(70) L. Sturzo, "Exprés Barcelona-Madrid", 25 e 26 settembre 1934, El Matí, en L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., p. 238-242. Si tratta di un articolo in due parti che non si trova in Miscellanea londinese.
(71) Ibidem, p. 239.
(72) Ibidem.
(73) L. Sturzo, "Llibertat i lleialtat", 22 ottobre 1934, El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp.247-249.
(74) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 22 ottobre 1934, ALS, s. BP, f. 322, c. 57.
(75) Lluis Companys (1883-1940), republicano di estrema sinistra, venne eletto deputato alle "Cortes" nel 1920. Nel 1931 divenne sindaco di Barcellona e sucesivamente fu "Gobernador Civil" sempre a Barcellona e deputato per le "Cortes constituyentes" rappresentando il partito di minoranza dell'Ezquerra Republicana de Catalunya. Ministro della Marina sotto un governo presieduto da Azaña, occupò la Presidenza della "Generalitat de Catalunya" dalla quale, il 6 ottobre 1934, si oppose al Governo Centrale proclamando la Republica Federale (in concomitanza col movimento rivoluzionario nelle Asturie). Fu fucilato dal regime franchista nel 1940.
(76) L. Sturzo, "Libertà e lealtà", in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. III, pp. 91-94.
(77) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 22 ottobre 1934, ALS, s. BP, f. 322, c. 57.
(78) L. Sturzo, "Libertà e lealtà", in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. III, pp. 91-94.
(79) L. Sturzo, "Horrors i responsabilitats", 21 novembre 1934, El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 251-253.
(80) Alfredo Mendizábal (1897-1981), nacque a Saragozza. Suo padre, Luis Mendizábal Martí, era professore di Diritto naturale nell'università aragonese e poi divenne cattedratico di Filosofia del diritto in quella di Madrid. Alfredo, nel 1926, fu nominato cattedratico di Diritto naturale nell'Università di Oviedo e fece parte della "Federación de Estudiantes Católicos". Durante la rivolta nelle Asturie (ottobre del 1934) gli bruciarono la casa e tutti i suoi beni. Fu promotore della "Unión Católica de Estudios Internacionales" (o "Unión de Friburgo"), e sviluppò il suo progressismo sotto l'influenza di Maritain. Fondó, con José María Ruiz Manent, José María Semprún e José Bergamín, la rivista culturale e letteraria Cruz y Raya. Allo scoppio della Guerra Civile, Mendizábal fuggì in Francia e, da Parigi, svolse un ruolo fondamentale nell'organizzazione del "Comité Espagnol pour la paix civil". Dopo l'invasione nazista, Mendizábal laciò Parigi per andare a New York dove fu professore, tra il 1942 ed il 1946, nella "New School for Social Reserch" e nella "French University". Divenne funzionario presso le Nazioni Unite tra il 1946 ed il 1953, poi andò a Ginevra dove svolse varie funzioni per diverse organizzazioni internazionali. Morì, vedovo e molto malato, il 25 aprile del 1981 nella casa di suo fratello ad Almeria. (Cfr. A. Botti, La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, Op. cit., pp. 136-139; A. Botti, Luigi Sturzo e la Spagna: dalla proclamazione della Repubblica alla vigilia della vittoria del Fronte popolare (1931-1936), Op. cit., pp. 34-36).
(81) Maximiliano Arboleya (1870-1951), anima del cattolicesimo sociale e del sindacalismo cristiano non confessionale, studiò nel seminario di Oviedo ed a Roma (1893-1895) avvicinandosi alla dottrina sociale di Leone XIII. Nel 1895 fu nominato canonico della Cattedrale d'Oviedo e, dal 1923, fu anche professore nel seminario della stessa città. Direttore del periodico El Carbayón, tra il 1901 ed il 1912, e poi della rivista Renovación social. Fondò nel 1915 la "Federación de Sindicatos Independientes" che si disciolse nel 1918 (arrivò a contare 700 membri). Promosse le cosiddette "Semanas Sociales" ed appoggiò Primo de Rivera, pentendosene posteriormente. Durante la Guerra Civile fuggì in Biscaglia e poi passò nei territori controllati dai franchisti, anche se con vari problemi per le sue idee precedenti. Morì ritirato dalla vita pubblica a Mieres (Asturie). (Cfr. A. Botti, La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, Op. cit., p. 133; A. Botti, Luigi Sturzo e la Spagna: dalla proclamazione della Repubblica alla vigilia della vittoria del Fronte popolare, Op. cit. p. 31).
(82) Severino Aznar (1870-1959), nacque a Tierga (Saragozza) e, dopo una breve parentesi nel seminario della città, studiò Lettere e Filosofia. Fondò la rivista La paz social, dedicandosi al giornalismo. Nel 1921 entrò a far parte della Real Academia di scienze morali e politiche. Nel 1928 fu nominato cattedratico di sociologia nella "Universidad Central" di Madrid. Fondò il primo segretariato agrario in Spagna e promosse le cosiddette "Semanas Sociales", aderendo alla dottrina sociale di Leone XIII. Ciò nonostante, durante la Guerra Civile, appoggiò il franchismo. Negli ultimi anni di vita fu direttore della Revista Internacional de Sociología del CSIC. (Cfr. A. Botti, Luigi Sturzo e la Spagna: dalla proclamazione della Repubblica alla vigilia della vittoria del Fronte popolare (1931-1936), Op. cit, p. 31).
(83) Cfr. A. Botti, La Spagna degli anni '30 e Luigi Sturzo, Op. cit., pp. 143-146; A. Botti, Luigi Sturzo e la Spagna: dalla proclamazione della Repubblica alla vigilia della vittoria del Fronte popolare (1931-1936), Op. cit., pp. 40-42.
(84) L. Sturzo, "Orrori e responsabilità", 21 novembre 1934, El Matí, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. III, pp. 96-100.
(85) Ibidem.
(86) Ibidem.
(87) Ibidem.
(88) Ibidem.
(89) Ibidem.
(90) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 16 febbraio 1935, ALS, s. BU, f. 416, c. 22.
(91) Ibidem.
(92) Ibidem.
(93) L. Sturzo, "Alemanya vers l'apostasia", 16 maggio 1935, El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 288-290. Quest'articolo non si trova in Miscellanea londinese.
(94) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 24 maggio 1935, ALS, s. BU, f. 416, c. 56.
(95) Ibidem.
(96) Ibidem.
(97) Ibidem.
(98) L. Sturzo, "Oberammergau", 15 agosto 1935, L'Aube, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. III, pp. 189-191.
(99) Ibidem.
(100) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 8 agosto 1935, ALS, s. BU, f. 417, c. 23.
(101) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 12 settembre 1935, ALS, s. BU, f. 417, c. 38.
(102) L. Sturzo, "Trenta giugno", 30 giugno 1935, L'Aube, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. III, pp. 169-172.
(103) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 12 settembre 1935, ALS, s. BU, f. 417, c. 38.
(104) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 30 gennaio 1936, ALS, s. BU, f. 418, c. 18 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 415-416).
(105) L. Sturzo, "La utilitat d'una derrota", 27-28 febbraio 1936, El Matí, in L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 352-356.
(106) F. Malgeri, Sturzo e la Spagna negli anni Trenta, Op. cit., p. 407.
(107) L. Sturzo, "L'utilità di una sconfitta", 27-28 febbraio 1936, El Matí, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. III, pp. 237-242.
(108) Ibidem.
(109) Ibidem.
(110) Ibidem.
(111) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 28 febbraio 1936, ALS, s. BU, f. 418, c. 47.
(112) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 4 marzo 1936, ALS, s. BU, f. 418, c. 57 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 419-420).
(113) Ibidem.
(114) Ibidem.
(115) Ibidem.
(116) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 5 maggio 1936, ALS, s. CZ, f. 503, c.1.
(117) Ibidem.
(118) Ibidem.
(119) Ibidem.
(120) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 2 giugno 1936, ALS, s. CZ, f. 503, c.2.
(121) Ibidem.
(122) Ibidem.
(123) Ibidem.
(124) Cfr. L. Sturzo, Articles a "El Matí" (1929-1936), Op. cit., pp. 33-34.
(125) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 5 ottobre 1936, ALS, s. CZ, f. 503, c. 4 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., p. 433).
(126) Minuta di Sturzo a Jaume Ruiz Manent, 12 ottobre 1936, ALS, s. CZ, f. 503, c. 6 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 434-435).
(127) Ibidem.
(128) Ibidem.
(129) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 20 ottobre 1936, ALS, s. CZ, f. 503, c. 7 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 435-436).
(130) L. Sturzo, "La causa del popolo basco", 12 maggio 1937, L'Aube, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. IV, pp. 43-46; L. Sturzo, "Il significato di Guernica", 2 giugno 1937, L' Aube, in ibidem, vol. IV, pp. 50-53.
(131) Il testo del manifesto si trova in J. Maritain, Ouvres completes, Edit. Universitaires - Edit. St. Paul, Fribourg-Paris, 1984, vol. VI, pp. 1130-1132.
(132) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 4 giugno 1937, ALS, s. CZ, f. 503, c. 11 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 454-456).
(133) Ibidem.
(134) Ibidem.
(135) José Antonio Aguirre Lecube (1904-1960), membro del PNV (Partido Nacionalista Vasco), strenuo difensore dello Statuto d'Autonomia, eletto ripetutamente deputato alle "Cortes" nel 1931, nel 1932 e nel 1936. Dopo la rivolta dei militari franchisti, le "Cortes" di Madrid approvano lo Statuto d'Autonomia dei Paesi Baschi (1° ottobre 1936), ed Aguirre viene eletto Presidente ("lendakari") del Governo Autonomo (7 ottobre 1936). Caduti i Paesi Baschi sotto i colpi di Franco, fugge a Barcellona e poi in Francia ed in Belgio. Perseguitato dai franchisti e dalla GESTAPO riesce ad arrivare negli Stati Uniti dove rimane fino al 1945. Passò gli ultimi anni di vita in Francia.
(136) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 4 giugno 1937, ALS, s. CZ, f. 503, c. 11 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 454-456).
(137) Ibidem.
(138) Ibidem.
(139) F. Vilanova y Vila-Abadal, Luigi Sturzo i la guerra civil española, a través de la seva correspondencia, en Fe i teologia en la història. Estudis en honor del Prof. Dr. Evangelista Vilanova, a cura de Joan Busquets i Maria Martinell, Facultat de Teologia de Catalunya, Istituto per le Scienze Religose (Bolonya), Publicacions de l'Abadia de Montserrat, 1997, p. 497.
(140) Minuta di Sturzo a Jaume Ruiz Manent, 17 giugno 1937, ALS, s. CZ, f. 503, c. 13 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 457-459).
(141) Ibidem.
(142) G. Campanini, Sturzo e la questione basca negli anni della guerra civile spagnola, Op. cit., p. 423.
(143) F. Vilanova y Vila-Abadal, Luigi Sturzo i la guerra civil española, a través de la seva correspondencia, Op. cit., p. 489.
(144) Cfr. Ibidem, p. 494.
(145) Ibidem, p. 496.
(146) L. Sturzo, "Politica anzitutto o morale anzitutto", 6 settembre 1936, L'Aube, in L. Sturzo, Miscellanea londinese, Op. cit., vol. III, pp. 266-270.
(147) F. Vilanova y Vila-Abadal, Luigi Sturzo i la guerra civil española, a través de la seva correspondencia, Op. cit., p. 497.
(148) La prima edizione di quest'opera si pubblicò in francese (L. Sturzo, L'Eglise et l'Etat. Etude de sociologie historique, traduit de l'italien inédit par Juliette Bertrand, Les Editiones Internationales, Paris, 1937). In Italia si pubblicò per la prima volta nel 1958 (L. Sturzo, Chiesa e Stato, Zanichelli, Bologna, 1958, 2 vol.).
(149) F. Malgeri, Sturzo e la Spagna negli anni Trenta, Op. cit., p. 411.
(150) Cfr. Ibidem, pp. 413-414.
(151) Vedi nota 19.
(152) Hilari Raguer, Divendres de Pasió. Vida i mort de Manuel Carrasco i Formiguera, Publicacions de l'Abadia de Montserrat, 1984; Hilari Raguer, La Unió Democràtica de Catalunya i el seu temps, 1931-1939, Publicacions de l'Abadía de Montserrat, Barcelona, 1976; M. Carrasco i Formiguera, Cartes de presó, Edició i pròleg a cura d'Hilari i Raguer, Publicacions de l'Abadia de Montserrat, Barcelona, 1988.
(153) A. Botti, La liberación de Manuel Carrasco i Formiguera a través de la correspondencia entre Alfredo Mendizábal y don Luigi Sturzo (1937-1938), Op. cit., p. 501.
(154) Ibidem, pp. 512-513.
(155) Cfr. Ibidem, pp. 503-509.
(156) F. Malgeri, Sturzo e la Spagna negli anni Trenta, Op. cit., p. 414.
(157) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 4 giugno 1937, ALS, s. CZ, f. 503, c. 11 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 454-456).
(158) Lettera di Jaume Ruiz Manent a Sturzo, 21 dicembre 1937, ALS, s. CZ, f. 503, c. 14 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., p. 475).
(159) Minuta di Sturzo a Jaume Ruiz Manent, 25 dicembre 1937, ALS, s. CZ, f. 503, c. 15 (pubblicata in Luigi Sturzo, Sritti inediti, vol. II (1924-1940), Op. cit., pp. 477-478).
(160) Ibidem.

 

 

NOTE SULL'EFFICACIA GIURISDIZIONALE DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO* di Leone Melillo

1. Premessa

I "diritti di libertà" previsti dalla "Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma nel 1950 dagli Stati membri del Consiglio d'Europa, ed i suoi Protocolli addizionali firmati a Parigi, Strasburgo e Vienna (anch'essi resi esecutivi in Italia)", sono garantiti "(in seguito all'approvazione del Protocollo di Strasburgo del 1994) dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo"(1).
Ma, i "diritti di libertà", che la Convenzione tutela, sono dati dalla "sua ratifica ed esecuzione interna con legge ordinaria [... che] non consente di elevarne il contenuto al rango delle norme costituzionali", pur essendo "uno strumento di tutela integrativo rispetto a quelli che il diritto nazionale mette a sua disposizione".
Quale la conseguenza?
La sentenza Pellegrini c. Italia - emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo il 20 luglio 2001 - appare emblematica, intervenendo sulla normativa concordataria che prevede la declaratoria di efficacia per la sentenza dichiarativa della nullità ecclesiastica, sicuramente garantita dalla "costituzionalizzazione [... del] principio pattizio"(2). Nessun dubbio, in ogni caso, può insorgere in ordine alla forza vincolante della sentenza(3) emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
Questa sentenza si attesta alla valutazione dell'art. 6 § 1 della Convenzione, valutando nella sua applicazione i principi fondamentali(4) del "giusto processo"(5), già esplicitati dalla previsione giuridica dell'art. 111 Cost.
Questa precisazione, che fuga incertezze sull'applicabilità della sentenza de quo, stabilendo l'ambito di efficacia per lo Stato italiano che si estende al Concordato, esclude ogni conseguenza diretta per gli organi della giurisdizione canonica?
Non v'è alcun dubbio al riguardo, così come non appare trascurabile l'innegabile pregiudizio subito dalla soccombente Pellegrini: paradossalmente la natura giuridica del diritto canonico, preordinata alla "salvezza delle anime" (can. 1752), può determinare conseguenze giuridiche sicuramente non volute, come apparirà chiaramente considerando - nel prosieguo della trattazione - la specialità del giudicato canonico(6), che sicuramente si riflette sulla natura dell'efficacia giuridica civile.
La specialità del caso de quo non deve ad ogni buon conto sorprendere. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con particolare riferimento alla previsione giuridica dell'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, rivendica l' "effettività" della funzione giudicante, che dovrebbe essere garantita anche dalla compiuta applicazione dell'art. 111 della Cost(7).
Il campo di riflessione deve essere quindi sicuramente rivolto alla valutazione del processo, che in specie viene attivato presso i Tribunali ecclesiastici per ottenere la sentenza dichiarativa(8) della nullità matrimoniale.
In questo caso sarà necessario ricorrere alla "dichiarazione di efficacia", riconoscendo piena validità all'art. 8 n° 2, previsto dall'accordo del 1984 - come è avvenuto nel caso de quo - al fine di consentire alla sentenza di poter produrre i propri effetti giuridici. Ma con quale esito precessuale?
È questo un punto di difficile soluzione che investe i "limiti di efficacia della pronuncia canonica nell'ordinamento italiano"(9).
Appare ancor oggi discutibile e difficilmente valutabile - ancor di più in ragione della sentenza de qua - quale sia la "funzione" che determina, per l'ordinamento italiano, la "dichiarazione di efficacia" della "nullità di matrimonio pronunciata dai tribunali ecclesiastici" (art. 8 n° 2). Questa non sembra possa risolversi in una "dichiarazione di efficacia" con "funzione dichiarativa".

2. La "declaratoria di efficacia" della sentenza di nullità ecclesiastica e la sentenza straniera.

È possibile ritenere che la "dichiarazione di efficacia" - "declaratoria di efficacia"(10) - della sentenza di nullità ecclesiastica - munita del "decreto di esecutività" della Segnatura Apostolica produca un' "efficacia preclusiva" che si staglia tra l' "efficacia costitutiva" e quella "ricognitiva o dichiarativa" per l'esistenza di un "effetto che oscilli fra queste due possibilità contraddittorie"?
Non necessariamente - "in maniera universale" - ogni "effetto giuridico presente [... deve] saldarsi al passato" perché "vi sono fatti giuridici - in questo caso la sentenza dichiarativa della nullità matrimoniale - che [...] prescindono completamente dal passato"(11).
La "dichiarazione di efficacia" della sentenza di nullità ecclesiastica - dotata del "decreto canonico" di esecutività - resa dalla sentenza della "Corte d'Appello competente" ha un'efficacia preclusiva: "condizione di efficacia è il solo fatto - sentenza di nullità ecclesiastica - senza il concorso dello stato giuridico anteriore"(12).
Una precisazione sicuramente opportuna. Quale conseguenza deve prevedere questa interpretazione per le sentenze straniere, che pure producono effetti per l'ordinamento italiano in seguito alla "delibazione"?
La dottrina assegnava alla "delibazione" - anteriormente alla "riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato" introdotta dalla legge 31 maggio 1995, n° 218 - una imprecisata "funzione integrativa", secondo una "struttura di tipo cognitivo"(13) che accomunava "[... l'] ordinario giudizio di delibazione delle sentenze straniere alla speciale materia oggetto della pattuizione in sede di Concordato"(14).
Nulla di tutto ciò può ritenersi più pacifico.
Non soltanto "l'utilizzazione dei criteri stabiliti [... dalla] Convenzione di Bruxelles del 1968" - recepiti per la loro applicazione dalla già citata "legge di rifirma"(15) - ma piuttosto la diretta applicazione della "sentenza straniera [...] riconosciuta in Italia automaticamente"(16) pone quesiti sicuramente inediti circa l'efficacia della delibazione.
Qual è la "ragione giuridica" che può rendere solo eventuale il giudizio di delibazione della sentenza straniera, "che deve essere effettuato unicamente quando le parti dissentono in ordine [... alla sua] efficacia in Italia"(17)? E ancor di più. Quale esito, ancora maggiormente pregiudizievole, avrebbe avuto l'applicazione immediata della sentenza di nullità ecclesiastica per la convenuta che, nel caso de quo - prima di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - aveva pur inutilmente attivato in Italia ogni previsione processuale ritualmente utile?
Per quanto possa apparire lodevole l'intenzione dottrinale di promuovere un "processo di progressiva "assimilazione" tra c. d. exequatur delle sentenze ecclesiastiche e "delibazione" delle sentenze straniere", anche al fine di garantire una "cooperazione fondata sul riconoscimento di quell'indispensabile coordinamento tra norme convenzionali e norme generali che comunque coesistono nell'ordinamento italiano", non è possibile dismettere il "ricorso [...] - sicuramente non formalistico - alla prevalenza del principio di specialità"(18).
Le conseguenze sono di tutta evidenza. La declaratoria di efficacia - necessaria e non eventuale - della sentenza di nullità ecclesiastica pronunciata - ritengo con "funzione preclusiva" - dalla "Corte d'Appello competente" nel caso de quo, ha reso necessario l'intervento della corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

3. Il "principio di specialità", l' "efficacia preclusiva" e l' "efficacia dichiarativa o ricognitiva".

È necessario riconoscere la specialità del giudicato canonico in tema di nullità matrimoniale: viene esclusa la possibilità che le "cause sullo stato delle persone [...] passino in giudicato" (can. 1643), ammettendo "il rimedio straordinario della Nova propositio causae", attivato con argomenti "noviter proposita"(19).
Una costatazione di tutta evidenza esclude ogni facile comparazione con le sentenze pronunciate dai tribunali dello Stato italiano ed in genere con ogni pronunciamento giurisdizionale di stampo continentale - nella previsione del giudicato - assimilabile ad una sentenza straniera.
Ma v'è di più. "L'esecuzione forzata dei comandi del legislatore o del giudice è lettera morta nell'ordinamento canonico; giacché si presume che in questo ordinamento esistano le condizioni affinchè possa essere affidato alle virtù eminentemente cristiane della carità e della fede, non già alla forza il compito della giustizia"(20).
Una digressione su queste considerazioni appare quindi fondata.
Il coordinamento fra norme convenzionali e norme generali richiede l'applicazione del "principio di specialità" per consentire l'effettiva attuazione dei principi fondamentali - che anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo persegue - ed esclude qualsiasi semplicistico "adeguamento dell'ordinario giudizio di delibazione delle sentenze straniere alla speciale materia oggetto di pattuizione in sede di Concordato"(21).
Un'ulteriore precisazione, sicuramente opportuna. Deve essere riconosciuta validità - nella produzione degli effetti giuridici della sentenza straniera - all' "efficacia dichiarativa o (ricognitiva)", oppure all' "efficacia preclusiva" - nell'interpretazione delineata - accomunando alla sentenza straniera le sentenze di nullità ecclesistica dotate del decreto di "esecutività canonica" della Segnatura Apostolica?
La soluzione che accomuna la sentenza straniera alla sentenza di nullità ecclesiastica è ancor di più difficilmente praticabile del semplice adeguamento già descritto, sempre per la diversa previsione sancita dalla "riforma" in tema di sentenze straniere - con la loro diretta opponibilità nell'ordinamento italiano - che non può consentire in alcun modo di infrangere l' "ordine giuridico" dello Stato, costituzionalmente garantito(22).
Ritengo che la "riforma del sistema di diritto internazionale privato" abbia determinato - per le sentenze straniere - l'ambito di operatività dell' "efficacia dichiarativa o (ricognitiva)", escludendo - per la loro immediata opponibilità nell'ordinamento italiano - ogni possibile applicazione della "funzione preclusiva".
La conferma è evidente. La previgente disciplina - sancita dagli artt. 796-797 c. p.c. abrogati - differentemente, ma in modo del tutto analogo alla declaratoria di efficacia delle sentenze dichiarative della nullità ecclesiastica, prevedeva "la possibilità di attribuire efficacia anche alle sentenze straniere [... non] in modo immediato ed automatico, ma soltanto attraverso la mediazione di un provvedimento di un giudice italiano con l'evidente funzione - ragionevolmente "preclusiva" - di un controllo [... finalizzato] innanzi tutto [... a verificare la] sussistenza degli elementi essenziali perché il provvedimento [... potesse] essere qualificato "sentenza" anche nel nostro ordinamento, e quindi [... al] fatto che il provvedimento stesso [... fosse] stato pronunciato nel rispetto di talune essenziali esigenze concernenti la giurisdizione e il contraddittorio"(23).
L'attuale "controllo [...] solo eventuale [...] che deve essere effettuato unicamente quando le parti dissentano in ordine all'efficacia in Italia della sentenza straniera"(24) muta evidentemente l'efficacia della delibazione delle sentenze straniere da "preclusiva" a "dichiarativa" o "ricognitiva", "dove il fatto opera sull'effetto in concorso con uno stato giuridico anteriore in cui l'effetto è già contenuto, ma richiede condizioni aggiunte che ne rendano possibile o agevole l'attuazione in concreto"(25).
Un ulteriore interrogativo - del tutto immediato - che sia "fonte di prova" per le argomentazioni già addotte.
Le sentenze pronunciate dai Tribunali ecclesiastici - giudicato con decreto di esecutività canonico - possono in astratto - analogamente a quanto avviene per la sentenza straniera - essere sempre direttamente opponibili, senza incidere - anche in tema di "giusto processo - l' "ordine giuridico" statale?
La sentenza de qua sembra smentire ogni assoluta certezza.
Un'ulteriore precisazione che chiarisce l'interrogativo, ma soprattutto la prospettiva in cui è posto.
In questa sede non s'intende smentire la validità del sistema processuale canonico, ma solo porre attenzione all'efficacia della sentenza di nullità ecclesiastica e quindi alla sua "forza esecutiva" - attuata, in questo caso, dalla "funzione preclusiva" - che richiede particolari cautele proprio perché incide sullo stato giuridico delle persone fisiche(26).
A tal riguardo è opportuno rammentare quanto Mandrioli annota sull'istituto della delibazione. Viene puntualizzata l'espressione "dar forza esecutiva" - anteriore alla vigenza dell'art. 796 c.p.c. - contrapposta all'espressione "far valere", adottata proprio per la formulazione dell'art. 796 c.p.c., successivamente abrogato. Questa giusta opposizione, che assume l'espressione "far valere" - sicuramente prodromica all'esecutività della sentenza e direttamente connessa alla produzione degli effetti - conferma la "funzione preclusiva" - teorizzata da Falzea e qui accolta - che le argomentazioni addotte sembrano dover indurre a ritenere operante, con ogni evidenza, per la declatoria di efficacia della nullità ecclesiastica, già nella vigenza degli art. 796-797 c.p.c.
Ma v'è di più. Questa interpretazione della "riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato" riconosce alla sentenza straniera una "presunzione iuris tantum" di idoneità - ammissibile la "prova contraria" - alla produzione di effetti giuridici nell'ordinamento italiano, che non incidono l' "ordine giuridico" statale. La puntuale applicazione della "regolare costituzione del contraddittorio" e dei "diritti essenziali della difesa" con riferimento all'intero arco del processo, che non si risolvono esclusivamente nel "congruo termine a comparire" della parte convenuta, saranno riscontrate - per le sentenze straniere - solo nell'eventualità di un dissenso tra le parti(27).
Ciò non può dirsi allo stesso modo per il "giudicato canonico"(28) soggetto alla declaratoria di efficacia della Corte d'Appello.
Qual è la conseguenza giuridica per quanto attiene alla declaratoria dell'efficacia civile? Potrebbe una nuova sentenza pronunciata in ragione del "rimedio straordinario della Nova propositio causae", attivato con argomenti "noviter proposita" - che vanifica il giudicato canonico - stravolgere gli effetti civili già prodotti dalla sentenza dichiarativa della nullità ecclesiastica, operanti nell'ordinamento giuridico italiano?
È questa l'ultima verifica dell' "efficacia preclusiva" della declaratoria civile delle sentenze canoniche che - come più volte ribadito - prescindendo "dallo stato giuridico anteriore" garantisce l'ordine giuridico statale. L'assunto bettiano - richiamato dal Dalla Rocca - determina "l'estensione della cosa giudicata" sancendo che "le premesse logiche della decisione", pur se infondate, non incidono sulla decisione che "rimane ferma" per l'ordinamento statale e non possono essere stravolte dall'ordinamento canonico(29).

4. Conclusione

Questa sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ravvisa una violazione dell'art. 6 § 1 della Convenzione - di tutta evidenza processuale - non costatata dalla Corte d'Appello in sede di delibazione "preclusiva".
Nulla impedirebbe una maggiore "uniformità giuridica" del diritto canonico ai principi del "giusto processo" - già sicuramente attuati nella ricerca della "loro giusta durata"(30) - assumendo le determinazioni delle organizzazioni internazionali ed europee che mirano a realizzarla(31), tra le quali v'è sicuramente - come già detto - la "Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali sottoscritta a Roma nel 1950 dagli Stati membri del Consiglio d'Europa. La prospettiva che l'Europa suggerisce nella "tutela delle libertà" intende sicuramente garantire la libertà religiosa anche con le adeguate previsioni processuali del "giusto processo".
La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sembra suggerire la previsione giuridica di un diritto dispositivo(32) alla "libertà religiosa", attivato processualmente dal fedele che, essendosi sottoposto volontariamente all'ordinamento canonico, persegue l'ordine giuridico canonico, costituzionalmente garantito, quanto quello statale, dalla previsione dell'art. 7, primo comma(33).
Quale insegnamento può trarsi dall'operato della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo?
Nessuna "riserva di giurisdizione"(34) potrà mai sottrarre l'ordinamento canonico alla declaratoria di efficacia "preclusiva", che deve necessariamente riconoscere esecutività "statale" e quindi efficacia nell'ordinamento giuridico italiano alla sentenza di nullità canonica - già esecutiva, secondo l' "ordine giuridico canonico" per il decreto di esecutività della Segnatura Apostolica - al fine di conseguire l'osservanza dell' "ordine giuridico statale", costituzionalmente garantito, quanto quello canonico.
L'ordinamento giuridico canonico non può sottrarsi alla "certezza giuridica" che persegue l'ordinamento italiano ed all" "ordine giuridico statale" che l'efficacia della sentenza deve in ogni caso garantire, senza smentire la sua identità normativa volontaristica, ma soprattutto la stessa "ragione giuridica" che l' "ordine giuridico canonico" persegue.

NOTE
(*) Pubblicazione parziale dell'intervento tenuto il 12 aprile 2003 in occasione della Tavola rotonda sulla sentenza di Strasburgo del 20 luglio 2001 - l'altra parte del testo è in Atti, in corso di pubblicazione - svolto nel corso del Convengo La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 20 luglio 2001, tenutosi presso l'Università degli Studi di Teramo.
(1) P. Caretti - U. De Siervo, Istituzioni di Diritto pubblico, Torino, 2001, p. 430.
(2) M. Tedeschi, Manuali di diritto ecclesiastico, Torino, 1999, p. 81.
(3) In tema di "efficacia civile della giurisdizione ecclesiastica" cfr. F. Zanchini, L'efficacia civile della giurisdizione ecclesiastica fra insindacabilità e controllo, in Politica del diritto, 1982, 2, p. 317 sgg.
(4) "I diritti fondamentali trovano espressione deontica nei principi fondamentali, sicché è su questi ultimi che occorre fermare la nostra considerazione [... :] caratterizza questa categoria di principi la loro più elevata idealità assiologica rispetto a quella dei principi comuni e [...] è proprio questo loro carattere ad esigere quella particolare formalizzazione che è rappresentata dalla loro assunzione nei testi costituzionali". A. Falzea, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Milano, 1999, I, Teoria generale del diritto, p. 622.
(5) "In vista della piena realizzazione [... del giusto processo] (che punta ad assicurare un'effettiva parità delle parti nel processo, un rigoroso rispetto del diritto alla difesa, l'effettiva terzietà degli organi giudicanti) si è proceduto ad un'integrazione dell'art. 111 Cost. (sono stati inseriti cinque nuovi commi all'inizio dell'articolo sì che i tre commi originari sono ora il sesto, settimo e ottavo) al fine di esplicitare in dettaglio il contenuto di detto principio anche alla luce di quanto disposto al riguardo dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali [...], allo scopo precipuo di impegnare il legislatore a darvi compiuta attuazione [...], precisando tuttavia che esso attiene - con riferimento più specifico al caso de quo -: a) al rispetto del principio del contraddittorio tra le parti "in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale"; b) alla garanzia di una "ragionevole durata" dei processi; c) [...] al diritto ad avere il tempo e le condizioni necessarie ad apprestare la propria difesa; d) alla facoltà di interrogare o far interrogare sia coloro che hanno reso dichiarazioni a suo carico, sia le persone a sua difesa, anche qui in condizioni di parità con chi sostiene l'accusa; e) al diritto di acquisire ogni mezzo di prova a suo favore; di essere assistiti, se del caso, da un interprete [...]". P. Caretti - U. De Siervo, Istituzioni di Diritto pubblico, p. 423.
(6) P. Fedele, Giudicato (diritto canonico), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1969, vol. XVIII, pp. 924-931; Verità e definitività della sentenza canonica, Città del Vaticano, 1997; A. Bettetini, Verità, giustizia, certezza: sulla cosa giudicata nel diritto della Chiesa, Padova, 2002.
(7) La durata ragionevole del processo, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 2000, 113, p. 9 ss.
(8) "[...] in forza [... dell'] efficacia ricognitiva o dichiarativa, che dir si voglia [...] le situazioni giuridiche rimangono immutate e tendono alla loro concreta e piena attuazione". A. Falzea, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, p. 151.
(9) Da tempo la dottrina si interroga su questi "limiti" proponendo almeno "due soluzioni: l'una, nel senso della rilevanza del giudicato ecclesiastico nella sua integralità, sicché varrebbero in sede civile anche la parte motiva e gli accertamenti in essa compiuti, in quanto costituiscano indispensabili presupposti della decisione; l'altra, nel senso della rilevanza del giudicato ecclesiastico come mero "fatto giuridico che fa cessare il presupposto del rapporto giuridico matrimoniale", sicché di esso varrebbe soltanto il risultato finale (declaratoria di nullità o di scioglimento) senza nessun ulteriore rilievo di parti o elementi della pronuncia". A. Galoppini, Esecutorietà delle pronunce matrimoniali canoniche e limiti di efficacia dei relativi accertamenti nell'ordinamento statale, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, Milano, 1978, vol. III. Diritto pubblico, p. 645.
(10) In tema di "declaratoria autoritaria della esistenza (o inesistenza) di una situazione giuridica" cfr. A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli, 19888, p. 75.
(11) A. Falzea, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, p. 152 s.
(12) A. Falzea, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, p. 157.
(13) C. Mandrioli, Corso di Diritto processuale civile, Torino, 1991, vol. III, p. 339.
(14) C. Mandrioli, Corso di Diritto processuale civile, p. 347.
(15) V. Starace, La disciplina dell'ambito della giurisdizione (artt. 3-11), in Il Corriere Giuridico, 1995, 11, p. 1235.
(16) A. Saggio, Efficacia di sentenze ed atti stranieri (artt. 64-71), in Il Corriere Giuridico, 1995, 11, p. 1259.
(17) A. Saggio, Efficacia di sentenze ed atti stranieri (artt. 64-71), in Il Corriere Giuridico, 1995, 11, p. 1260.
(18) P. Colella, Riconoscimento di sentenze ecclesiastiche e riforma del diritto internazionale privato, in Famiglia e Diritto, 1997, 6, p. 546 s.
(19) P.V. Pinto, I processi nel Codice di Diritto Canonico, Commento sitematico al Lib. VII, con pres. Arciv. G. Augustoni, Città del Vaticano, 1993, p. 437 s.
(20) P. Fedele, Discorso generale sull'ordinamento canonico, Roma, 1976, p. 25.
(21) C. Mandrioli, Corso di Diritto processuale civile, p. 347.
(22) La previsione costituzionale dell'art. 7, primo comma, sancendo che ""Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani" [... evidenzia] una paritetica posizione tra le due entità, ferma restando che la parola ordine non è sinonimo di ordinamento giuridico ma indica solo una diversa sfera di competenze e di attribuzioni". M. Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, p. 79.
(23) C. Mandrioli, Corso di Diritto processuale civile, p. 340.
(24) A. Saggio, Efficacia di sentenze ed atti stranieri (artt. 64-71), p. 1260.
(25) A. Falzea, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, p. 157.
(26) C. Mandrioli, Corso di Diritto processuale civile, p. 340.
(27) Una evidente annotazione. Questa previsione - garantita dall'art. 64 della legge 31.5.1995, n. 218 già citata - non differisce sostanzialmente dall'art. 6 § 1 della Convenzione quanto alle garanzie del "giusto processo". A. Saggio, Efficacia di sentenze ed atti stranieri (artt. 64-71), p. 1260.
(28) Il processo canonico che vuole in ogni caso attuare "sul piano umano e concreto la norma legale in aderenza alla realtà storica" persegue la "verità processuale con un'originalità che caratterizza l'ordinamento giuridico della Chiesa a confronto degli ordinamenti statuari". F. Della Rocca, Appunti sul processo canonico, Milano, 1960, p. 131.
(29) F. Della Rocca, Appunti sul processo canonico, p. 133.
(30) Quanto ai possibili rimedi ritenuti idonei ad evitare l'eccessiva durata dei processi cfr. F. D'Ostilio, I processi canonici. Loro giusta durata, con pres. Card. A. Silvestrini, Roma, 1989, p. 77 ss.
(31) A tal riguardo non v' alcun ragionevole dubbio nel considerare la personalità giuridica internazionale della Santa Sede. M. Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, p. 71.
(32) "Le norme direttive [... per] eccezione piuttosto diffusa, [...] possono ammettere, entro limiti più o meno ampi la loro deroga. Si distingue pertanto, nel linguaggio corrente, tra "diritto cogente" (inderogabile) e "diritto dispositivo" (derogabile dai soggetti)". A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli, 199711, p. 32.
(33) M. Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, p. 79.
(34) M. Tedeschi, La riserva di giurisdizione alla prova. Prospettazioni teologiche e realtà ontologica, in Scritti di Diritto ecclesiastico, Milano, 1997, p. 91 sgg.

 

CANNONI E FONDITORI IN SICILIA NEL XV E XVI SECOLO di Antonino Palazzolo

1. Galee e munizioni.

In quell'ottima storia dell'artiglieria che costituisce la parte maggiore del volume Guns & sails in the early phase of European expansion 1400-1700, di C.M.Cipolla edito nel 1969, è trattata persino l'artiglieria cinese; manca invece ogni accenno ai cannoni fabbricati nell'Italia Meridionale ed in Sicilia non perché l'autore non ne percepisca l'interesse storico, ma sol perché fino ad oggi non vi è una bibliografia in proposito.
In questo lavoro, certamente datato, l'autore mette in evidenza alcuni aspetti fondamentali della ricerca che si possono così riassumere:
- Individuare i centri di produzione (dimensione, struttura,costi) ed il mercato delle armi da fuoco.
- Considerare il lavoro specializzato e, quindi, quelli che si direbbero i problemi umani connessi con la tecnologia di produzione e di uso dei nuovi mezzi.
- I volumi delle produzioni in relazione alla domanda ed ai prezzi delle materie prime (specie il rapporto bronzo e ferro).
- Il ruolo dell'intervento dello Stato e gli aspetti 'imprenditoriali' nell'attività manifatturiera della fabbricazione dei pezzi di artiglieria.
Passando a considerare la situazione nel Mediterraneo si rileva che le grosse bocche da fuoco erano note fin dalla seconda metà del secolo XIV; un episodio del 1383 concerne la Sicilia in cui si constatano gli effetti devastanti delle bombarde.(1)
A parte i pezzi che venivano predati a navi nemiche, la produzione sembra sia stata locale, esercitata dai medesimi artigiani che fondevano le campane, come il Cipolla ha messo in evidenza: erano richiesti pezzi da montare sulle navi e pezzi adatti alla difesa di fortificazioni.
Da quando i Martini cominciarono a munire le coste dell'isola con un sistema di difesa stabile, all'inizio del '400, fu istituita la figura del Provveditore dei castelli che aveva il ruolo di ispezionare e rifornire armi e munizioni; in ogni presidio vi era almeno un bombardiere il quale aveva il compito di far sparare il pezzo e di apprestare la polvere da sparo di cui venivano forniti i tre ingredienti separatamente (salnitro, zolfo, carbone); col '400 avanzato la polvere venne distinta in due qualità, per cannoni e per archibugi.
Nella seconda metà del '400 i feudatari che avevano castelli furono presi da entusiasmo per il nuovo mezzo bellico; è significativo il caso di Barnaba Di Gaetano, barone di Tripi, il quale nel 1463 vende al sindaco di Palermo Enrico D'Arpa quattro bombarde di ferro, guarnitas de chippi cum duodecim masculis.
Pietro Speciale, maestro razionale, ordina a Perusino Giordano nel 1468 di costruire a difesa della torre di Ficarazzi sagittaroli e bombarderi, per poter disporre le armi da fuoco.
Negli inventari di castelli del primo '500 sono spesso registrate bombarde vecchie e in disuso; segno questo, che l'armamento non venne rinnovato, ma è pur vero che la bombarda sarà l'arma da fuoco che dominerà incontrastata per tutto il secolo XV (vedi Appendice documentaria).
In alcuni documenti dell' archivio maltese risulta che l'università comprava qualche pezzo da feudatari siciliani e dai conti del tesoriere generale Cola Leofante furono erogate onze 20.18 a Giovanni Pages in conto di 4 bombarde grandi eseguite per la difesa nel 1480.(2)
I clienti migliori dei fabbricanti di cannoni avrebbero dovuto essere in teoria lo stato e le città; ma l'uno e le altre non avevano mai denaro sufficiente né per la prima fornitura né per il rinnovo e l'ammodernamento, sicchè accadeva sovente (per es. a Trapani) che corsari e pirati fossero armatissimi mentre la città scarseggiava di artiglierie.
In Sicilia le città si facevano un punto d'onore del difendersi da sole, sembra che ciò fosse connesso con l'autonomia ed ottenevano spesso privilegi in proposito (a Messina ed a Palermo erano capitani d'armi lo stratigoto ed il pretore); ma, con le città sempre gravemente indebitate anche per la sola provvista di frumento, mura e fortezze erano fatiscenti e le artiglierie erano vecchie ed insufficienti.
Si è detto che la tecnica di produzione delle artiglierie (superata rapidamente la prima fase delle canne costruite con doghe e cerchi come i barili) era la stessa adottata per la fusione delle campane; infatti Vannuccio Biringuccio tratta delle artiglierie e delle campane nel medesimo libro VI della Pirotechnia perché tecnicamente, nell'un caso e nell'altro, si tratta di fondere, colare e formare il bronzo.(3)
Poichè di volta in volta la forma veniva rotta, era impossibile che due pezzi fossero perfettamente identici e per tutto il '500 il pezzo d'artiglieria fu una specie di opera d'arte, un'opera singola realizzata da ogni maestro a seconda della sua esperienza e delle sue idee.
Il fonditore, per così dire, firmava le sue opere apponendo le armi regie, il nome e l'anno di fusione; per cui sarebbe interessante individuare alcuni pezzi sparsi nei vari paesi, come è il caso dei cannoni segnalati recentemente nel museo militare in Turchia.
Credo che non sia stato trovato nemmeno un ricettario per la lega del bronzo di cui si conosce soltanto un rapporto generico, 10 parti di rame ed una parte di stagno e che le proporzioni della lega costituissero uno di quei segreti dei maestri, di cui è piena la tecnologia primitiva.
Da quanto scrisse Biringuccio (verso il 1540 circa) pare che in fatto di artiglieria fosse in vigore una unità di misura che era il diametro della palla; il cannone serpentino di 60 cantára (1 cantáro di 100 rotoli era circa 80 Kg.) aveva un rapporto diametro- lunghezza di 24 volte e la colubrina serpentina di 35.
La costruzione della forma e la colatura sembra fossero il grado sublime dell'arte della fusione, ma cure e collaudi non impedivano ai pezzi di scoppiare al momento dell'uso, come scoppiarono quelli mandati per la difesa del castello nuovo di Tripoli, dopo la conquista del 1510.
Ma si producevano anche pezzi del tutto inutili, come l'enorme, terrorizzante bombarda trainata da buoi, con la quale Alfonso Siscar, figlio di Aiello in Calabria, si mescolò nelle lotte interne della città di Messina nel primo quarto del secolo XVI.
Non è del tutto infondata l'ipotesi che le guerre terrestri e navali di Carlo V abbiano chiuso l'età pioneristica dell'artiglieria, favorendone invece la razionalizzazione(4) ad una sommaria distinzione in artiglieria da assedio, da postazione, da campagna e navale.
Fu proprio l'artiglieria, con il suo peso, a decretare la fine della galera, nave troppo debole e già aggravata dall'enorme peso del motore umano, per ciò incapace di sopportare il peso dei cannoni.
Un concetto al quale i comandanti di allora arrivarono assai presto fu quello del volume di fuoco e si cercò di realizzarlo mediante il grande numero di bocche da fuoco, anziché con il loro miglioramento tecnologico, che consentisse una più rapida esecuzione delle operazioni di caricamento e sparo.
Il cannone opera d'arte nel quale peso, dimensioni, gittata dipendevano dal duplice capriccio del committente e del fonditore doveva creare problemi logistici non facilmente risolubili.
Biringuccio, che doveva possedere un intelletto sistematico, cercò di individuare le caratteristiche dei vari pezzi che portavano nomi talvolta strani (Cap. III, libro VI): longhe et di pallottola piccola, come le cerbottane, o un poco maggiori, come passavolanti et basilischi et a chi è piaciuto le corte, come le spingarde, mortari, cortaldi, cannoni, bombarde et simili.
Gli antichi chiamavano bombarde certi grandi e spaventosi strumenti; minori ma molto più lunghi i basilischi; poi i passavolanti; infine le spingarde, le cerbottane, gli archibugi e gli schioppi.
Oggi, scrive Biringuccio, si fanno doppii cannoni, cannoni e mezzi cannoni.
I cannoni sono lunghi 5 braccia e mezzo o sei, che corrispondono a circa 22 diametri della palla; il peso della palla di ferro è di circa 50-60 libbre; il peso del pezzo di bronzo è migliara 6 o 7 .
Il mezzo cannone tira palle da 25-30 libbre; il doppio cannone palle da 120 libbre; il resto è in proporzione.
Oggi si fanno colubrine e mezze colubrine che delle antiche conservano soltanto il nome; infatti tirano spesso, si caricano facilmente e si spostano dove si vuole; tirano palle di ferro per lo più di 30 libbre (o di 15); sono lunghe otto o nove braccia, sono comode da maneggiare, tirano lontano e spesso.
Spingarde, cerbottane e caccia- cornacchie sono sostituiti dai sacri, falconi e falconetti, con palle di ferro; il sacro tira 12 libbre e da molti è chiamato quarto cannone, il falcone 6 libbre e il falconetto 3 o 4.
Vengono poi smerigli e moschetti, adatti a tirare spesso; le palle sono di ferro o di piombo, da una a due libbre.
Infine gli archibugi da mura, da forcella, da braccia; prima si facevano di bronzo, ora di ferro.
Seguono l'archibugio comune e gli schioppetti, sparano palle di piombo o di ferro da un'oncia.
Poi nel cap. IX del libro VII, sulle palle di ferro, Biringuccio dà la notizia, storicamente assai valida sotto vari aspetti, che le palle di ferro vennero conosciute in Italia nel 1495, con l'arrivo dell'esercito francese di Carlo VIII; certamente i progressi delle artiglierie d'oltralpe decretarono la fine delle bombarde come osservarono Guicciardini e Paolo Giovio.
Non si chiarisce, certamente, da dove i metalli venivano importati e dove la stessa legna per la fusione scarseggiava: governo, città, feudatari non erano certamente in grado di incentivare esperimenti; c'era il vantaggio che non occorrevano artiglierie da campagna perché nessuna guerra campale venne combattuta allora in Sicilia; ma per il resto è da supporre che le artiglierie di produzione locale fossero una riproduzione di quelle prodotte altrove.
Anche in Sicilia il grande volume di fuoco veniva raggiunto moltiplicando il numero dei pezzi e molta gente che aveva il potere per comandare impartiva ordini in materia senza la minima base logica.
Nel 1526 Ettore Pignatelli, vicere di Sicilia, doveva recarsi in Spagna a riferire su una situazione non scevra di pericoli; noleggiò allora la nave Bortunda ed una nave più piccola, che era del castellano del Castellammare di Palermo, come scorta.
Aveva con sé cavalli e muli ed il loro foraggio consistente in 130 salme di orzo; per vitto proprio e di genti di sua casa portava 30 salme di frumento.
Bestie e cereali costituivano già un carico da impensierire; ma il Monteleone aggiunse un bel numero di cannoni prelevati dalle difese del Castellammare: una mezza colubrina di bronzo quadrata del peso di cantari 21.20; un mezzo cannone serpentino di cantári 11.50; due mezze colubrinotte di bronzo, una di cantári 13.50 e l'altra di cantári 14.80; un sacro di cantari 9; due mezzi falconetti di cantári 8; sei smirigliotti a bucca di serpi, in tutto cantári 8; con le pietre di ferro.
Erano 13 pezzi non enormi ma di almeno sei calibri diversi, che comportavano sei problemi di munizionamento; tutti quei pezzi pesavano 86 cantari, che sono Kg. 6880, con le palle almeno 8 tonnellate(5).
C'è da dubitare della navigabilità di una nave del primo cinquecento, non costruita a tale scopo, sovraccaricata con cannoni non ripartibili simmetricamente, e con quella colubrina di 1696 chili non maneggiabile senza apparecchi speciali; navi e cannoni ritornarono a Palermo in novembre.
Quei 13 pezzi facevano parte della difesa del Castellammare di Palermo ed in Sicilia vi erano molte altre fortezze marittime che pure abbisognavano di cannoni, come: il castello di Milazzo e quello di Lipari, quelli di Messina; e poi Catania e Siracusa; e poi Licata, Terranova e Agrigento; Mazara, Marsala e Trapani e naturalmente Pantelleria, Malta e Tripoli.
Nel 1520 Salvo Carbone, Alessandro Corvo e Salvatore Bruno fondono una colubrina per il castello di Milazzo con i rottami di altri pezzi di artiglieria(6).
Quello che bisogna mettere in evidenza è il salto di qualità e di peso verificatosi in pochi anni, dalle bombardelle quattrocentesche ai pezzi del peso di qualche tonnellata.
Varietà di tipi e numero di pezzi relativamente notevole farebbero avanzare la facile ipotesi del ricorso a centri di produzione specializzati e quindi ad un commercio di cannoni.
Ma contro tale ipotesi sta, almeno per la Sicilia priva allora di ponti, di strade, e priva anche oggi di pianure, l'impossibilità del trasporto in senso orizzontale, non appena il pezzo superasse il cantaro, 80 chili, carico di un mulo robusto.
Paradossalmente, era più facile mandare cannoni da Messina a Tripoli per mare, corsari permettendo, che da Messina a Milazzo; trovo un trasporto di rame e stagno da Palermo a Messina che può giustificarsi soltanto in tal modo(7).
Del materiale fornito facevano parte anche i cannoni in disuso ed i frammenti di quelli scoppiati, perché il rame andava diventando sempre più prezioso.
Lo dimostra, meglio di ogni considerazione, un episodio del 1522; Violante Porcu, della già ricca e potente famiglia messinese, domandò a Carlo V il rimborso di 1000 fiorini che il defunto marito Matteo aveva prestato a re Alfonso contro pegno di un diamante, un rubino e una perla(8).
Il vicere Monteleone non era un bravo soldato come il predecessore Ugo Moncada: dopo la rivolta Squarcialupo del 1517 e dopo le esecuzioni capitali del 1523 che avevano liquidato la cosiddetta congiura dei fratelli Imperatore, egli aveva paura della popolazione di Palermo, si era circondato per la prima volta di una guardia personale di alabardieri (48) ed abitava dentro la fortezza del Castellammare(9).
Nel 1526 era passata per lo Stretto di Messina una flotta di 13 galere veneziane, considerate nemiche(10); inoltre vagavano liberamente per il Mediterraneo una flotta francese, una flotta genovese del partito dei Fregoso, le solite flottiglie turco- barbaresche.
La Sicilia non aveva navi da guerra e soltanto nel 1526 Carlo V impartì l'ordine di costruire sei galere, a carico del bilancio siciliano ed impiegando 1000 onze del riservato cioè di quel fondo speciale, oltre il donativo, che era amministrato dal tesoriere generale e che poteva essere speso soltanto su ordine personale del sovrano.
Intanto a Messina era stata già costruita una galera e fu dato ordine di comprarla in conto delle sei; per costruire le altre si anticiparono 400 onze a Girolamo Campolo che dirigeva i lavori(11).
Mentre i provvedimenti per la difesa erano urgenti si ricorse quindi all'arruolamento di compagni o gruppi di fanti da dislocare in varie città costiere, capaci di operare con armi individuali; si preferivano gli spagnuoli, poi gli italiani; di elementi locali non si parlava nemmeno(12).
A Napoli risiedeva Francesco Obregon (tale cognome aveva anche il ricevitore dell'Inquisizione) che su un galeone dell'Ordine Gerosolimitano mandò 457 scopette, fiasche (da polvere), 2000 picche(13), poco dopo, con uno dei soliti cambi, che realizzavano tangenti a favore di estranei all'affare, venivano pagate 3000 scopette a Martino e Giovanni Bonvisi; il prezzo era poco meno di 2 ducati napoletani; parte delle scopette erano state distribuite ad università e se ne aspettavano i denari; parte erano finite in un naufragio e c'era lite con gli assicuratori(14).
A Tripoli vengono mandati 40 cantari di salnitro, 20 di zolfo, 30 di piombo, armi, pietre per mulini da polvere; legname per carrette d'artiglieria; 20 archibugi di ferro e una mezza colubrina di bronzo proveniente da Messina(15).
In tutto ciò la Sicilia godeva di un piccolo vantaggio; abbondava di salnitro (anche Enrico VIII ne comprò) ed era autarchica in fatto di polvere da sparo, tanto che ne esportava; in luglio 1525 ne furono mandate d'urgenza 200 cantári a Barcellona(16).
Le università, come abbiamo visto, pagavano le scopette perché vigeva ancora la finzione dell'autodifesa(17); il servizio militare feudale si era tramutato in una burla e molti lo sostituivano con un piccolo tributo in denaro.
Stante l'obbiettiva difficoltà dei trasporti si ricorse alla fusione sul luogo a mezzo di tre maestri i de Arena; i quali in pochi mesi fusero un numero di cannoni persino sorprendente(18).
La Sicilia non aveva rame, che era il terzo metallo monetato; la scarsità del rame era tale che in molti paesi non vi era nemmeno una campana e talune università ottennero in via di grazia di farne confezionare una usando il metallo delle monete false confiscate.
Per l'artiglieria poteva dunque valersi dei frammenti di bronzo e delle modeste quantità di rame e stagno che il commercio riusciva a far filtrare, veramente a gocce.
Nella prima metà del secolo XVI i migliori erano considerati i cannoni fiamminghi, venivano poi i tedeschi e veneziani; la Spagna tentò le grandi fonderie a Medina del Campo, Baza e Malaga, ma le mancò la capacità tecnica od organizzativa.
A sua volta Enrico VIII, che importava salnitro dalla Sicilia, comprò a Malines, Paesi Bassi meridionali, 140 cannoni in meno di 20 anni, da tale Poppenruyter.
Le guerre dei Paesi Bassi stimolarono lo sviluppo dell'artiglieria: nel 1574 don Luis de Requesens mandò a Malines 35.000 libbre di rame ungherese e 2000 di stagno inglese per fare 38 cannoni; altri ne commissionò in Inghilterra ma la regina Elisabetta non ne permise l'esportazione.
Allora nuove fornaci furono create a Liegi e tale Wathier Godefrin ebbe commissione di 46.000 palle e 300 pezzi per 620.000 libbre di ferro in 6 mesi; l'Olanda nel secolo XVII creò una propria industria e la sua domanda stimolò la produzione tedesca e svedese(19).
In Mediterraneo i Turchi non fecero tentativi coi cannoni in ferro, rimasero fedeli al bronzo di cui prima due milanesi e poi nel 1505 quattro veneziani avevano insegnato i segreti in Oriente; la Turchia disponeva di rame in Anatolia.
Ma il fortissimo consumo provocò anche là una crisi del rame e la Turchia si mise a comprare rottami di bronzo delle chiese inglesi, che la blanda Inquisizione maltese lasciava passare su navi inglesi e vi facevano scalo ai tempi della regina Elisabetta la quale nutriva certe sue aspirazioni su Malta; forse, un mezzo di lotta contro il cattolico Filippo II.


2. Da campanari a fonditori di cannoni: gli Arena di Tortorici.

L'attività degli Arena, rinomati fonditori di campane e di cannoni originari di Tortorici (Me) trasferitisi a Catania agli inizi del XV secolo, fu iniziata dal capostipite Pietro il quale aveva partecipato come bombardiere all'assedio di Siracusa, Catania e del castello di Paternò, per cui fu accusato di ribellione contro la regina Bianca(20).
Nel 1417 Pietro è presente all'assedio del castello di Alcamo assieme a mastro Josep judeus , catanese, in cui appresta 24 cantara di salnitro proveniente da Marsala; Oliviero Boira era il refinador della polvere di bombarda per le artiglierie regie.
L'arte della fusione di artiglierie originariamente era legata a quella delle campane, da cui deriva l'appellativo di Campanaro o Campana attribuito ai componenti della famiglia Arena, i fratelli Antonio, Gaspare e Pietro sr., magistros expertos faciendo passavolanti zarbatanas et alias res de mitallo, i quali acquisiscono la cittadinanza palermitana nel 1488.
Nel privilegium ferrariorum del 1498 gli Arena compaiono in carica come consoli della maestranza dei ferrari, qualificati come mastri bombarderi e campanari, assieme a Giovanni Pages, fonditore regio(21); certamente prima di quella data il mestiere di ferraro era esercitato a Palermo dalla comunità ebraica e lo attestano le decine di documenti registrati nei notai dell'epoca oltre alla permanenza del toponimo, ferraria judeorum.
Un Antonio Campanaro, bombarderius, viene menzionato in un rogito notarile del 16 giugno 1492; forse, si tratta dello stesso fonditore che nel ' 96 viene chiamato per fornire bombarde alla città di Troina.
L' 8 ottobre del 1492 Giacomo Di Michele, mercante forentino, era debitore di onze 6.4.15 per l'acquisto di cantára 7.11 di ferro biscaino, a tarì 24 a cantáro, che doveva consegnare a mastro Bartolomeo Balbo, forse un fonditore.
Il 15 marzo 1494 Pino Tarbone, aromataro di Cammarata, ordina la fusione di una campana per la chiesa di S. Blasi e nello stesso anno i fratelli Antonio e Pietro Arena apprestano una campana di cantara 11.25 per il convento di S. Domenico a Palermo.
Antonio muore a Palermo nel 1500 e gli subentra nell'attività il figlio Pietro che entrerà in società con gli zii; dalle disposizioni testamentarie del 31 luglio di quell'anno troviamo interessanti indicazioni relative all'estensione della attività di fonditore tra Messina e Palermo.
In un contratto del 15 ottobre 1502 Gaspare, assieme al fratello Pietro major, riscuote 10 onze a saldo della fusione di alcuni pezzi di artiglieria eseguiti per conto della regia Corte, commissionati l'anno precedente(22).
Nella primavera del 1505 Giacomo Basilico UJD loca una casa a Pietro Arena nel quartiere del Cassaro a Palermo, di fronte l'antica chiesa di S. Elia, adiacente alla Corte del Pretore.
Il 12 gennaio 1510 Gaspare Arena doveva riscuotere un compenso pattuito con la chiesa madre di Corleone per una campana di cantàra 6.1/2 (circa 520 Kg.), con la mastria di onza 1 a cantàro(23); l'anno successivo egli scompare dalla scena e gli subentrano nel '29 Matteo e Gaspare figli di Pietro majuri.
L'anno precedente un altro fonditore di Tortorici, Bartolomeo Citro, si era allogato con la confraternita della chiesa di S. Marco nel quartiere Seralcadi a Palermo per una campana.
Nel '14 Pietro Arena prende il posto di fonditore dell'artiglieria del Regno per la morte di Giovanni Pages, il quale era stato inviato in Sicilia dalla sua terra d'Aragona nel 1467.
Il 16 settembre 1524 Pietro Arena sottoscrive un contratto con Benedetto Ram (banco) per fondere due mezze colubrine di bronzo, denominate bastardi, di cantàra 10 ciascuna (circa 8 ql.), lunghe 12 palmi (circa m. 3) che lanciavano palle di pietra di 4 rotoli (circa Kg. 3,2 ) ed il 26 gennaio 1525 si obbliga con Antonello Vultaggio, procuratore di Cesare Lanza, per una bombarda di bronzo o girifalco, forse a difesa del castello e del trappeto di zucchero di Trabia.
Nello stesso anno Pietro, campanarius, si impegna nella fusione di un mezzo cannone serpentino di 11 cantàra (circa 9 ql.) che doveva consegnare al tesoriere Francesco Bologna ed a Pietro Andrea Lambardi, conservatore del regio patrimonio, con la solita mastria di onze 2.15 a cantara; la stessa cifra viene pagata a Pietro minuri per l'opera di un cannone pitrero di cantara 30.95 da imbarcare via mare per Trapani.
Nel 1529 Giovan Domenico riceve 50 cantàra di rame e 5 di stagno per fondere due mezze colubrine, due cannoni serpentini, due sagri e due falconetti che dovevano essere consegnati a Michele Torres nel castello di Matagrifone a Messina, costo dell'opera onze 102.3 di cui 40 dovute al fonditore; pezzi che furono collaudati dall'ingegnere militare Pietro Antonio Tomasello.
Contemporaneamente un altro bombardiere, Federico Musarra, anch'egli originario di Tortorici, fonde quattro mezzi cannoni di bronzo del peso di cantara 35.50 da destinare alle galee regie.
Il 15 dicembre dell'anno successivo Giacomo Agliata, barone di Castellammare del Golfo, ordina a Pietro Arena tre pezzi di artiglieria a difesa del caricatore; il 26 novembre 1526 il fonditore si era impegnato con Antonio Agliata, barone di Villafranca, per una campana del peso di un cantaro da destinare alla chiesa di S. Giovanni di quella terra, valutata onze 7.15.
L'11 giugno 1531 Pietro mayuri, assieme a Giacomo e Matteo, in società con il nipote Pietro minuri, si obbligano a fondere per la regia Corte 200 smerigli di bronzo di rotoli 60 ciascuno, composti da 180 cantàra di rame, (circa 144 quintali), e 12 di stagno, (9 quintali e mezzo); nel '33 rifondono una campana di 6 cantára per il convento del Carmine e l'anno successivo quella del Castellammare di Palermo di cantáro 1.15.
Il 29 agosto 1536 i fratelli Matteo e Gaspare Arena si allogano con Domenico Di Beatrice uno dei giurati di Sciacca per eseguire 2 mezze colubrine, di cantàra 30 ciascuno, (circa 24 ql.), con una gittata per palle di ferro di 7 rotoli, (kg. 5,6), ad onze 6.9 a cantàro.
Gli stessi fonditori furono chiamati ad eseguire 4 pezzi di artiglieria, una colubrina e tre mezze colubrine, per conto dei deputati delle fortificazioni di Palermo; la colubrina doveva avere un peso di cantàra 52.50, (circa 42 ql.), oltre ad un basilisco di cantàra 39, (intorno ai 32 ql.).
L'attività dei fonditori regi prosegue con Gaspare, il quale nel 1540 consegna una campana di bronzo di 4 cantàra a Francesco Giaconia, procuratore del convento di S. Francesco di Ciminna.
Giovan Domenico Arena aveva fornito nel 1541 alcuni pezzi di artiglieria a Siracusa e nello stesso anno Matteo viene nominato regio fonditore.
Nel '46 l'università di Palermo concede a Gaspare Arena un magazzino per la fusione delle artiglierie; nel '49 fonde 2 sagri di bronzo di 12 cantàra ciascuno, lunghi 12 palmi, a ragione di onza 1.18 il cantàro, che dovevano essere consegnati a Giulia Ventimiglia, vedova del capitano Bernardino Requesens, per la difesa del castello di Pantelleria.
Un altro fonditore di Tortorici, Nicola Bolo, fonde un sagro di 4 cantàra, (circa ql. 3.20), per conto dei deputati dell'artiglieria Nicola Galletti e Francesco Bologna, barone di Cefalà; un Pietro Bolo, dell'omonima cittadina, era presente a Palermo nel 1508 per impiantare una forgia nella contrada della Guzzetta.
Il Bolo bombardiere fonde una campana grande per il convento della Gancia a Palermo nel 1561, costo 12 onze.
Nel '48 Gaspare Arena si era allogato con i giurati di Cefalù per 2 falconetti ed un sagro dell' importo di onze 162.21; il 5 dicembre di quell'anno fornisce una campana al convento di S. Domenico di Trapani.
Per concludere questo breve capitolo sui fonditori al servizio della regia Corte, possiamo rilevare che l'attività degli Arena cessò inspiegabilmente con Matteo nel 1555, per cui non se ne conoscono le cause, forse, imputabili al superamento dei processi di fusione o più semplicemente ad uno scarso interesse per l'attività familiare.
Attualmente, quindi, possiamo formulare solo ipotesi che potrebbero essere smentite dal rinvenimento di ulteriori documenti ad una analisi più approfondita e consentirebbero di mettere in luce aspetti inediti e nuove situazioni riguardanti l'attività e le ragioni della crisi di questa dinastia di fonditori.

NOTE
(1) H. Bresc: Un episode de la guerre de course, in ASSO.1970, pagg. 137/144.
(2) Wettinger G.: Acta juratorum et consilii civitatis et insulae Maltae, Palermo 1993.
(3) V. Biringuccio: Pirotechnia, Venezia, 1558/59.
(4) C. Singer: Storia della tecnologia, Torino, 1963, voll. III.
(5) Nel 1537 Pietro Faraone si impegna con il tesoriere regio Francesco Bologna per 18.000 palle di ferro del peso complessivo di cantára 1.465 che dovevano essere inviate nelle Fiandre.
Ciascun tipo di palle di ferro doveva servire per sette tipi di artiglierie: cannone grosso (rotoli 20), colubrina (rotoli 15), mezzo cannone (rotoli 11), mezza colubrina (rotoli 6), mezza colubrina bastarda (rotoli 5), sagro (rotoli 3.10), falconetto (rotoli 2.10).
(6) ASPa. Cancelleria, 280, ff. 515/516.
(7) ASPa. Secrezia 79, f. 54.
(8) ASPa. Cancelleria 282, f. 688.
(9) ASPa. Cancelleria 280, f. 546; Idem, Cancelleria 277.
(10) ASPa. Cancelleria 280, f. 571.
(11) ASPa. Cancelleria 280, f. 553.
(12) ASPa. Cancelleria, 279.
(13) ASPa. Cancelleria 279, f. 351.
(14) ASPa. Cancelleria 279, f. 416.
(15) ASPa. Cancelleria 279, ff. 425/427.
(16) ASPa. Cancelleria 279, f. 588. Il salnitro andava ad onze 2 il cantáro, lo zolfo a tarì 12 e il carbone a tarì 13, un cantaro di polvere onze 3.6.
(17) ASPa. Cancelleria 279, f. 638, 31 agosto 1525.
(18) C. Trasselli: Sui biscaglini in Sicilia tra '400 e '500, in MEFRM, 1973, pag. 143.
(19) Cipolla, op. cit. pag. 53.
(20) ASPa. Protonotaro 3, f. 269.
(21) ASCPa. ABP. 106/22, f. 194.
(22) ASPa. Cancelleria 203, f. 58v.
(23) ASPa. Cancelleria 230, f. 353.


Bibliografia

Baldanza B.-Triscari M.: Le miniere dei Monti Peloritani, Messina, 1987.
Smith R.B.: Five 16 th century cannons in the Turkish Military Museum. Lisbona 2002.
Dentici Buccellato R.M.: Miniere siciliane nel XV secolo, in Ricerche Storiche, 1984, pagg. 117/14.
Antoni T. : Costi e prezzi del ferro in Pisa alla fine del '300, in Bollettino Storico Pisano, 1971/72.
Mariani E.: La fabbrica di moschetti e archibugi di Tivoli, in Atti e memorie della Società Tiburtina di Storia e d'Arte, vol. LXXIII, 2000, pagg. 169/181.
Salamone Marino S.: Per la storia delle miniere in Sicilia, in ASS, 1907, pagg. 533/34.
Pagano L. A.: Antiche miniere metallifere della Sicilia, in Bollettino dell'osservatorio economico del Banco di Sicilia, 1939, pagg. 3/12.
Rocca P.M.: Fonditori di campane in Alcamo, in ASS. 1890, pagg. 40/107.
Sciuto Patti C.: Le più antiche campane esistenti in Catania ed i fonditori di esse, in ASS, 1892, pagg. 497/503.
Arenaprimo G.: Statuti dell'arte dei ferrari e calderai del 1538, in ASMe, 1907, pagg. 304/308.
Ferrigno G.B.: L'arte di fondere le campane in Sicilia, in ASS, 1930, pagg. 259/280.
Trasselli C.: Sui biscaglini in Sicilia tra '400 e '500, in MEFRM, 1973, pagg. 143/158.
Bresc Bautier G.: Fonderie del '400 in Sicilia, (dattiloscritto), 1973, pagg. 15/17.
Pelù P.: Industria e commercio del ferro nei territori lucchesi, (secc. XIII-XV), in Deputazione di Storia Patria per le antiche provincie modenesi, vol. XXIII, 2001, pagg. 333/356.
Ventura D.: L' impresa metallurgica di Fiumedinisi nella seconda metà del XVI secolo, in Imprese industriali in Sicilia, Caltanissetta-Roma, 1996, pagg. 131/214.
Trasselli C.: Miniere siciliane dei secoli XV e XVI , in Economia e Storia, Milano, 1964, pagg. 511/531.
Franchina S.: Campane e campanari di Tortorici, secc. XIII-XX, Patti, 1999.
Abrate M.: Ricerche per la storia economica dell'artiglieria nella prima metà del XVIII secolo, in Nuova Rivista Storica, 1969, pagg. 146/166.
Salamone L.: La numerazione provvisoria del TRP nell' ASPa, in ASMe, 1997, pagg. 5/94.
Giuffrida A.: La finanza pubblica nella Sicilia del '500, Caltanissetta- Roma, 1999.
Termotto R.: Fonditori di Tortorici a Collesano, in Collesano per gli immigrati, 1991.
Rubino G. E.: Le ferriere di Stilo e di Azzi in Calabria dal XVI al XVIII secolo, in Archivio Storico per la Calabria e la Lucania , XLIV- XLV, 1977/78.

Appendice documentaria: Inventari di artiglierie.

Doc. 1. ASPa. Conservatoria 1011, a. 1423/28, f. 62.
-Essendu bisognu per li novi di larmata di Janua occurrenti preparari et providiri Castellu ad mari di quista chitati havimu provistu chi si digianu construiri et fabricari chincu virdischi consari lu ponti fari martillitti tanti quanti sunnu et consari li bombardi dilu dittu castellu et fari tutta quella riparationi chi necessiria sia ali mura merguli et altri lochi per defensione et securitati di quilli.
Item dati su a Buelaya judeu firraru per unu cannolu di ferru di bombarda chi si fa di novo per lu ditto castellu lu quali pisau cantara 18.
Item dati su a mastro Muscatu judeo firraru per una bombarda facta di novo a tutto soi spisi la quali pisau cantara 54.
Item ultimo augusti I ind.s dati su a mastru Bertinu balistreri per conzatura dili balestri di lu castellu per manu di Joanni Lombardu tarì 6.

Doc. 2. ASPa. Segrezia, Lettere 39, f. 238v.
Inventario del Castellammare di Palermo da parte di Pietro Cardona per la morte di Giovanni Villaraut.
-21 novembre 1441.
In primis barrili menzu di pulviri di bombarda.
Item dui barrili di salinitru.
Item pala una di ferru rutta et frachida.
Item palu unu di ferru a pedi di porcu.
Item mazza una di ferru.
Item ancugnina una.
Item la forgia cù dui mantichi cù li coyri ructi.
Item quattru torni di parari balestri.
Item bombardi dui vecchi di ferru senza chirki.
Item bombarda una di ferru cù so chippu.
Item una altra bombarda grossa di ferru cù chippu vecchu.
Item una altra bombarda grandetta di ferru cù chippu vecchu.
Item una bombarda di mitallu cù so chippu vecchu.
Item una bombarda di ferru ructa.
Item una bombarda tutta di ferru nominata a bulsuni.
Item una bombarda grandi di mitallu dila universitati di Palermo cù petri 17.

Doc. 3. ASPa. Conservatoria 1016, a. 1443.
- 2 maggio 1443.
Li cosi inventariati et trovati in lu castellu dila Pantallaria assignati a misser Jorgi di Sanctu Stefanu commissariu per Simuni Nigru locumtenente di Arnau Nigru castellanu chi era dilu dictu castellu.
In primis balestri di lignu vechi tali quali XXII.
Item caxuni di bilictuni vechi tali quali VIII.
Item carcari cù certi bilictuni VIIII.
Item martinecti sani IIII.
Item martinectu ruttu I.
Item tileri di balestra vecha I.
Item cuyrazi sei guarnuti vechi XV.
Item coppi vechi di galea XX.
Item guzalini di galea vechi XX.
Item cuyraza bianca vecha I.
Item pavisi vechi e ructi X.
Item certi para di armi e coppi vechi, mecza cuyraza et gambari di nullu valuri.
Item fasci dui di asti di bilictuni vechi.
Item tilari smarrati vechi XXXIIII.
Item certa pulviri di bombarda intru unu quartaloru e barrili.
Item sachettu di salinitro.
Item quartaloru di carbuni per pulviri di bombarda.
Item para dui di moli pichuli di machinari.
Item paru unu di moli di mustarda.
Item molinu unu fornutu cù asini chincu ad opu dilu mulino.
Item paru unu di moli di molinu ala torrecta.
Item molinu uno sfornutu.
Item lictera una et bancu vechi.
Item bancali unu vechiu.
Item cona una cù armariu.
Item tavula di majari cù li trispi.
Item ascia.
Item serra grandi.
Item statia.
Item campana ala turri una.
Item torni di balestra IIII.
Item bombardi sani III.
Item bombardi ructi IIII.
Item bucti intimpagnati III.
Item palu di ferru di bombarda.
Item para di grigliuni VI.
Item certi bilictuni.
Item chippu unu di bombarda.
Item dui currii di bombarda.
Item chircu unu di bombarda ructu.

Doc. 4. ASPa. Conservatoria 1019, a. 1448.
Inventarium municioneriorum et fornimentariorum castri regii palacii universitate Messane.
Item bumbardi dui consimili cù li loru chippi grandi ad rationem di unci 10 per ciasquiduna.
Item unaltra bumbarda pichola cù so chippu tt. 4.
Item unaltra bumbarda plui pichula cù so chippu tt.2.
Item torni dui di balestri tt.1.
Item petri di bumbarda in numero 80.
Item rutelli di ficara et di chippu.
Item balestra una di torniu grandi.
Item balestri dui di zaffoni consimili.
Item balestra una di torniu usata.
Item balestra una di zaffoni con tileri di jocu.

Doc. 5. ASPa. Conservatoria 1018, a. 1450/51.
Inventario del castello di Noto eseguito da Nicola Rizzari.
Bombardi dui di mitallo li quali gettanu petra di rotula 10 vel circa omni una et la una havi unu chircu di ferru cù unu anellu.
Item bombardi tri di mitallu et omni una getta petri di rotulu unu vel circa.
Item bombarda una altra di mitallu plui grani cù lo so chippu et lectu guarnutu.
Item bombarda una di ferru inchircata a dui pezzi.
Item unaltra bombarda di ferru plui grandi inchircata di ferru cù lo so chippu guarnutu.
Item altri dui bombardi di ferru dili quali una è unu cannolu di ferru.
Item chippi seu lecti tri di bombardi guarnuti cù loru chinti clavi di ferru.
Item chirki quattru di ferru di bombardi.
Item cavallitti uno di stari bombarda quannu spara.
Item varrili chincu di salinitru.
Item varrili quattru di sulfaru.
Item mezzu carratellu di pulviri di bombarda.
Item barrili quattru di pulviri di bombarda.
Item criva quattro di cherniri pulviri di bombarda.
Item unu peczu di carbuni di salichi in fundu di una butti.
Item caxuni septi di passaturi di balestra di pedi inpirnati et ferrati.
Item peczi setti di passiaturi di balestra di torniu inpirnati et ferrati.
Item caxuni tri di asti lavurati senza ferru di balestra di torniu li quali fichi viniri lu mag.cu misser Gaspare Rizzari.
Item cuyrati sive ganci di ferru di galioti trentanovi et una frachida.
Item cuyrati 19 genuiski et cathalaniski vecchi et mali guarnuti cù certi loru faldagri griceski et cursalini.
Item balestri XI di lignu di torniu.
Item balestra 1 di azaro cù li tileri di jucari.
Item balestri 28 di lignu di martinectu dili quali una è rutta et senza nuchi.
Item balestri novi di pedi senza cordi et alcuni senza nuchi.
Item balestri dui ructi cù li tileri.

Doc. 6. ASPa. Conservatoria 64.
- 20 settembre 1455.
Inventarium bonorum castri veteris terre Leocate assignatorum per nobilem d.um Berlingario di Gaytano procuraturi et castellano dicti castri.
In primis balistre sex di ligno vechi consunti et quasi nullius valoris.
Item pecii quattro di bacinetti rupti fragidi chi non su boni per nenti et nullius valoris.
Item quattro landi di coyra su fragidi rupti et nullius valoris.
Item unu torniu senza pedi vechu.
Item bombardi dui una di mitallu et laltra di ferru.
Item molendinum unum furmentum absque mula.
Item torchium unum sine lictera vecha.
Item martinettum unum.
Item campanella una parva di missa di mitallo.
Doc. 7. ASPa. Conservatoria 1074, a. 1468/69.
Inventario da parte di Antonio Mastrantonio nel castello di Jaci.
Item 364 ballotti di ferru per zarbatana.
Item unu bellu masculu di mitallu.
Item una bombarda di ferru facta ad ultra cù 11 cerchi.
Item unaltra bombarda ad unu chircu dintra la intrata.
Item unaltra bombarda di metallu rupta rotula 73.13.
Item vinti spingardi di mitallu et una di ferru cù 27 masculi di mitallu.
Item una balestra di azaru di cayruni 15 rupta di coyru russu.
Item unaltra balestra di azaru nominata la brunetta cù li tileri bornizatu di cayruni 19.
Item unaltra balestra di azaru rupta di russu cù lu tileri blancu di cayruni 15.
Item unaltra balestra di azaru di cayruni 9.
Item unaltra balestra di azaru di cayruni 10.

Doc. 8. ASPa. Conservatoria 1007, a. 1418/1537, f. 312.
- 16 dicembre 1478.
Lu inventariu dili municioni et beni di Castellammari dela felichi chitati di Palermo fattu per lu mag.cu Joanni Adam locotenente regiu dilu officio di conservaturi, pro comandamentu dilu ill.i s.re vicerè poi dila morti dilu quondam Joan Antoni Fuxa olim castellano dilu dictu castellu cù interventu di Jacobo Maddalena de eodem conservatoris officio.
In primis in una cammara subta la cammara di mari su li infrascritti municioni vz:
Item dui bombardi grossi cù soi masculi di ferru cù dui furquetti novi et li traversi.
Item una bombarda di ferru seu zarbatana cù tri masculi.
Item dui bombardi vecchi rutti cù tri masculi.
Item furquetti dui di ferru per li bombardi rupti.
Item certi petri di bombardi.
Item dui moli di machinari chintimuli.
Item una jarra grandi vacanti.
Item septi peczi di travi grossi vecchi.
- In la intrata su li infrascripti municioni vz:
Item una bombarda grossa di mitallu.
Item dui lanzi vecchi rupti.
Item dui partixani.
Item dui altri vecchi.
Item dui runcuni.
Item dui para di traversi.
Item quattro rutelli di lignu cù li armi di Villaragut.
Item sei targhi di lignu vecchi cù li armi di Villaragut.
Item una cona undi è pinta Nostra Donna.
Item in la intrata dila turri mastra su certi petri di bombardi grossi et picchuli.
- In la turri mastra su li infrascritti municioni zoè in lu primo solaro:
Item tri bombardi vecchi di ferru.
Item una bombarda pichula di mitallu.
Item una bombarda rupta pichula.
Item dui carratelli menzi di carbuni di salichi per pulviri.
Item unu carratellu plui di menzu di sulfaru.
Item una butti menza plena di salinitru.
- In la cammara dila turri mastra su li infrascripti municioni vz:
Item chincu banchi di parari balestri.
Item quattro balestri di azaro cù quattro martinetti.
Item chincu balestri di azaro.
Item dui balestri di cornu.
Item lanzi lunghi 99 guarnuti.
Item una ascia di ferru.
Item dui spingardi di mitallu cù novi masculi.
Item tri spingardi di ferru cù dui paraturi.
Item quattro chilati di azaro.
Item undichi cuirazi blanchi di azaro cù li fadali.
Item septe para di spalleri di azaro.
Item septi armaturi blanchi cù li loru armetti.
Item una testera di cavallu.
Item novi para di arnesi di coxia e di gamba.
Item unu paru di cuxotti cù li soi arnesi di gamba blanchi.
Item unu barliri in lu quali su 38 marrelli di filu di balestra.
- In la cammara dilu vice castellanu su:
Una campana grandi cù lu battagliu et miolu.
- In li merguli :
Una campana cù lu miolu et lu battagliu.
Item unaltra campanetta la quali servi ala cappella cù lu battagliu et miolu.
Item dui banderi una cù li armi di Aragona et laltra cù li armi di Sichilia.

Doc. 9. ASPa. Conservatoria 1009, a. 1465/1513.
Inventario del castello di Cefalù per la morte del castellano Antonio Cucinello.
- 26 gennaio 1487.
Nos quam de mandato et ordinacion illustris et potentis regni Sicilie viceregis conformi ego Jacobus Maddalena de officio conservatoris ad castrum predictum civitatis eiusdem et a manu et posse nobilium Raymi Gactula et d.ni Jacobi eius filii…
Eodem celebrata missa in eodem castro ego predictus Jacobus coram supradictis nobilibus dedi et conservi possessionem dicti castri nobili Alonso del Peso procuraturi ad hec constituto per magnificum Lupum de Sancto Martino castellano dicti castri…
Arma municiones artigliaria et res assignate per dictis nobiles Raymum et dominum Jacobum dicto Alonso procuraturi ut chi sunt infra.
In primis bombarda una grossa cù chippi et cavallicto et chinco masculi.
Item bombardi dui grossocti cù loru chippi et cavallicti cum dui masculi per una.
Item tri bombardi pichuli cù loru chippi et cavallicti cum dechi masculi.
Item bombarda decta pichula cù so chippu et tri masculi et lu cavallictu.
Item bombarda una a tre rannolecti cù so chippu.
Item bombarda una pichula senza masculu cù so chippu.
Item bombarda una vecha ructa ala bucca cù so chippu et cavallicto cù quattro masculi.
Item bombarda una di mitallo cù so chippu et cavallicto antica dilu castello.
Item octu spingardi chincu di mitallu et tri di ferro cù loro carricaturi cù uno saccu plinu de ballottuli di plumbo et la virrina di spilari.
Item balestri di azaro quattordichi cù loru furnimenti chinti carcasi et passaturi.
Item balestri octu di legno cù li rinforzi.
Item cilati tridichi et unu armectu.
Item tavolachini sidichi et dui pavisi.
Item pavisi vintiquattro cù diversi armi.
Item corasi sani sei et octu rupti.
Item pavisi blanchi et virdi quattro.
Item bucti vacanti chinco.
Item tri banchi di bombardi cù una chintetta di ferro.
Item chintimulu unu cù tucti soi fornimenti novi.
Item vinticinchu mandruni cù loru ligni guarnuti.
Item XXV mazaxundi a manu.
Item bucti vacanti tri/ quattro carratelli/ una mezzalora et octu barlirocti tutti vacanti.
Item sei bucti vechi per reponiri farina.
Item cartelli dilu reami di castagna vintisepti.
Item circa salmi dui di carbuni di salichi.
Item circa migliaro uno et menzo di cugni di bombarda di ligno.
Item certi pezzi di lignami circa dechi.
Item circa chentuvinti petri di bombarda.
Item dui bardi una sichiliana altra napulitana et una sella.
Item libanu unu di cannavu et unu di erba.
Item mulinectu unu sardiscu.
Item paru unu di mantichi di foria.
Item ferri tri guarnuti.
Item paru unu di canchelli.
Item tri tagli.
Item una chinga et unu croccu et unu cofinu per pigliari li falcuni.
Item chippi dui ferrati de ferro per bombarda.
Item menzo barliri di chiovami.
Item mazzoli dui grandi di lignu per carricari li bombardi.
Item sicchi dui di ferro.
Item uno mortaro et dui moli una sana cù so fornimento et laltra ructa.
Item runcuni chinco cù li asti.
Item axi quattru di ferro cù li asti.
Item infra lanzi partixani et unu rampinu peczi dechinovi cù li loru asti.
Item lanzi tri di jungiri guarnuti cù li ferri.
Item partixani chinco.
Item partixana una di spata.
Item unu runcuni grandi.
Item una strazavita.
Item unu disarmo et unu rampuni cù dechi lanzi tucti cù li asti.
Item dui stocchi.
Item para quattro di ferri et unu paru di muffuli.
Item brogni tri una cù la vaylora et li dui senza vaylora.
Item caxi quattru vechi.
Item circa cantara XXV di pulviri.
Item circa cantara X di salinitro.
Item circa cantara XIIII di sulfaro.
Item certu sulfaru pistato circa barliri menzo.
Item una tavula cù li trispidi.
Item unu bancu di sediri.
Item quattru crivi et una maylla.
Item axi di ferro cù li manichi chinco et unu axuni una chiana et dui maschi.
Item dui incuinetti tri virrini una statiolecta unaltra virrinecta pichula unu martello di petra di bombarda unu graunectu dui manuali seu martelli di forya unaltro martello di foyra dui altri martellecti di foyra unu martellu apicu dui graunecti ructi.
Item una virrina di piruni di bucti dui forbituri di armi unu saturu una zappulla dui archectuli pichuli et unaltra virrina et certi pezzi di ferri et scarpelli et cavigli per fari cordi di balestra.
Item multi altri cosi et stigli ferramenti infra una catina di ferru di focu cazoli di murari palecta di ferro di pigliari focu una balestra ructa una serra pichula dui chanecti di fari busuni et passaturi unu runchiglu certi nuchi di balestra ferri di passaturi et multi altri stramagli di ferru et ligna.
Item una caxa di passaturi cù li ferri.
Item unu paliu di lu altaru et unu paru di ampulluczi di stagno.
Item certi stigli di corbiseri comu su una mannara senza manico, due trunchetti lesini fusu et chinco para di furmi.
Item tri carrabelli di chiri.
Item chinco firmaturi di porti.
Item una chanca di ruvulu per mectiri alu limbitaru dila porta.
Item una bandera cù li armi reali.
Item circa tummina quattro di sali intru dui barliri.
Item tri barliri di tonnina voti.
Item circa carricu unu di gipsu crudu.
Item dui camopani.
Item para dui di chippi.
Item caxia una grandi.
Item pali dui di ferro et zappi tri vechi.
Item spitu unu.
Item lima una vecha.
Item padella una vecha.
Item una tina.
Item una tavula di majari nova et grandi cù li trispidi.
Item paru unu di trispidi.
Item banchi dui di abitu di sediri.
Item una porta di lignami grandi chi servi per tavuli di lectu et unu bancu per davanti.
Item una caxecta di abitu.
Item bucti sei intru li quali è bucti una et menza di vinu et li altri sù vacanti.
Item carratelli septi intro li quali su bucti dui et menza di achito li altri sù vacanti.

Doc. 10. ASPa. Conservatoria 1010.
- 10 ottobre 1503.
Inventario del castello di Termini da parte di Giovanni Luna barone di Bivona.
Bona et arma infrascripta existentia in turri mastra dicti castri vz: balestre XL de posta de ligno cum eorum cordis novis et maistra veteribus.
Item balestras sex de asaro vz: duas de passa et quatuor ad plegias.
Item martinettos decem per dictis balestris septem fulcitos et tres isguarnutos.
Item balestras decem et octo del cugno de posta parti ructi li archi et parti interi.
Item caxettas XXIV de passaturi.
Item in uno barrile marrellas 125 fili di balestra et in altero barrile marrellas 129.
Item una armatura blanca integra cum so armecto senza scuto.
Item quattro corpi di armi blanchi cum loro faudi et tri armetti.
Item 12 spallachi di armi blanchi.
Item quattro cuxotti blanchi.
Item bisarmi bacinetti et chilati 33.
Item cotti di maglia sei di azaro vz: quattro di una xorta una di insaranti a busata di collu et da pedi di Franza a busata unaltra subtili guarnuta dila ditta Franza.
Item unu pau di guzecti guarnuti tutti circum circa di Franza a busata dila qualitate predicta.
Item faldi sei di maglia grossi a lantiqua di circa un sumissu luna.
Item tri gurjarini di maglia.
Item coyrazi 23 vz: 20 sani et tri ructi et vecchi cù 9 contrafaudi et 30 spallachi di landi.
Item uno petto di coyracza.
Item lanceas 21 di homo di armi et una ructa.
Item lanceas 10 ala bastarda.
Item acheam unam.
Item roncones sex.
Item spingardis tres de ferro cum manicis ligneis cum duobus fullatoribus.
Item arcabuxos 5 de brunczo de quibus sunt duzenas cum duobus fullatoribus cum sex manis sanis et uno ructo.
Item una tenda di campu et una littera di campu.
Item una scala a barruni.
Item una currula di martoriari.
Item tri virrini di circa palmi 6 unaltra di 5 et laltra di circa palmo 1.!/2.
Item tri furchetti di bombardi cum dui peczi di ferro.
Item sei masculi pichuli di bombardi.
Item tri bombardi di ferru ructi cù loro chippi senza masculi.
Item unu trabucco isguarnuto cù so levaturi.

Doc. 11. ASPa. Conservatoria 1046, a. 1514/15.
Inventario delle munizioni nel castello di Malta.
-17 ottobre 1514.
Item una menza butti di pulviri.
Item una butti di salinitro.
Item tri quartaroli e mezzo di salinitro rifinato.
Item circa dui butti di sulfaro.
Item dui butti di carbuni per fari pulviri.
Item uno barliri plino di gansagli vecchi et 50 gansagli novi.
Item dui dozani di partixani.
Item 4 dozani di lanzi manischi.
Item circa 2 cantara di chumbo.
Item 24 coyrazi frachidi.
Item 12 scopetti refatti et sguarnuti.
Item 12 balestri di torchiu frachidi.
Item 12 arcabuxi di ferro antichi.
Item 8 caxetti di passaturi camulati.
Item 2 bombardi grossi di ferro in ordini cù loro chippi vecchi.
Item dui bombardi vecchi frachiti.
Item uno passavolanti di ferro cù soi masculi.
Item 12 pezzi di bombardi comuni di ferro vecchi mali in ordini.
Item pavisi 58.
Item chelati 34.

Doc. 12. ASPa. Conservatoria 1047, a. 1516/17.
- 5 novembre 1515.
Inventario di monicioni et armi sunno in lo castello de Castellammari dela felici chità de Palermo fatto per Antonino de Genti de officio conservatoris cum intervento delo m.co Francesco Calandrino mastro notaro delo sp.li providituri deli castelli.
In primis in la camera de mari una caxia d'abito in la quali sono dui armaturi de omo d'armi in blanco fornuti et solu li manca uno elmetto.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi de omo de armi in blanco fornuti.
Item unaltra caxia simili in la quali è una armatura d'omo d'armi in blanco fornuta.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi d'omo d'armi in blanco senza li dui elmetti.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi d'omo d'armi in blanco fornuti.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi d'omo d'armi in blanco fornuti.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi d'omo d'armi in blanco manco uno elmetto et uno paro de magnoculi seu inguanti.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi d'omo d'armi in blanco fornuti.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi d'omo d'armi in blanco manco li dui elmetti et li magnoculi seu inguanti et li fiancaletti.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi d'omo d'armi in blanco ali quali mancano li dui elmetti li brazaletti li inguanti seu magnoculi et li fiancali.
Item unaltra simili caxia in la quali sunno dui armaturi d'omo d'armi in blanco manco li dui elmetti et uno paro di brazaletti.

Item 40 petri de plumbo de falconetti.
Item una balestra di ligno antica musiata di avolio cù la chiavi di brunzu cù sua streva de ferro senza corda.
Item dui martinetti di parari balestri antichi.
- In la turri mastra ala cammera di larmi.
Item balestri 23 di ligno a lantica cù soi tileri senza nuchi et senza corda.
- Alo magaseno de lartegliaria ala chitatella.
Item dui bombardi di ferro cù soi chippi et dui masculi per una.
Item 6 masculi di bombarda di ferro pichuli seu mizani.
Item 11 balestri di azaro cù li soi tileri et martinetti tutti guarnuti.
Item una quantitati di pichi e lanzi mezzi arsi di quando si arsi lu magaseno.
Item circa 1000 petri di petra di bombarda de columbrina e di omni xorta.

 

L'intervento pubblico nell'agricoltura siciliana e la fine del mondo contadino di Giuseppe Palmeri

Ogni riflessione sull'attuale momento in cui versa l'attività agricola in Sicilia non può non avere come presupposto di conoscenza una profonda considerazione di quello che un tale impegno dell'uomo ha rappresentato per millenni. Tali riflessioni dovrebbero avere, poi, come base anche la constatazione di ciò che, nella storia e fino a pochi decenni fa, ha costituito il mondo contadino, con le sue pratiche, le sue credenze, i suoi pregiudizi ed, in sostanza, con la sua particolare cultura, tramandatasi in una società del tutto particolare; spesso comunicante per tradizione oltre gli stessi confini delle nazioni ma, nell'ambito di ogni paese, assai ben distinta dalla società complessiva in cui quella parte sociale era collocata. Si trattava, comunque, di una cultura tale da far considerare ai nostri etnografi (Pitrè, Guastella ecc.) un mondo a parte quello rurale e l'agricoltura tutt'altro che una semplice attività economica, fungibile con le altre.
Riflessioni del genere non possono che essere svolte a completamento della considerazione che l'interesse pubblico per l'attività agricola è sorto e si è sviluppato parallelamente e proporzionalmente col formarsi degli stati moderni; mentre, con attenzione alla Sicilia, non può prescindersi dalla storica questione della distribuzione della terra tra i soggetti che, da braccianti o coloni, erano interessati alla sua coltivazione, ossia da quello che fu il problema dello smembramento del latifondo; problema delineatosi concretamente e sotto l'aspetto delle attuali conseguenze, nell'ultimo secolo. Ma poiché, dovendo affrontare un discorso, è sempre bene porre dei limiti temporali e oggettivi ad esso, supposti tutti tali argomenti come basi di comune conoscenza, conviene dire che la riflessione che segue intende muoversi nella interazione di due fattori caratterizzanti la storia dell'agricoltura in Sicilia negli ultimi decenni: l'intervento dei poteri pubblici nel processo di svolgimento sempre più intenso dello sviluppo della produttività della terra ed il drastico ed epocale coevo mutamento che il mondo rurale ha irreversibilmente subìto negli stessi decenni.
Nel libro "Il Secolo breve" Eric. J. Hobsbawm, esaminando i mutamenti sociali verificatisi nel corso del ventesimo secolo, al suo compimento, osserva che "il mutamento sociale più notevole e di più vasta portata della seconda metà del secolo, quello che ci taglia fuori per sempre dal mondo del passato, è la morte della classe contadina." Questo storico riflette che tale fenomeno, certo non dovuto unicamente alla migliorata produttività della terra ed alla politica di riduzione degli addetti all'agricoltura, è fenomeno irreversibile perché quella che è finita non è la cura dei campi per produrre generi alimentari, ma una concezione morale ed un rapporto sociale tra l'uomo e la terra del tutto speciali, durati millenni. Furono atteggiamenti fatti di conoscenze, usi e tradizioni economiche descriventi dei sistemi di vita ben distinti. Quella tradizione millenaria ora viene meno, per cause varie, in tutte le regioni della Terra, povere o ricche che siano(1).
In Sicilia, nel corso del secolo ventesimo o, meglio, negli ultimi settant'anni di esso, mentre, senza che ci accorgessimo del profondo mutamento di cui parla Hobsbawm, così come avveniva del resto in tutto il pianeta, può dirsi che si sia realizzata la maggiore attenzione ai problemi del mondo rurale. E' in questo periodo che le espressioni riforma agraria e bonifica sono state assunte e classicizzate come parametri della politica agricola: l'una nel senso di azioni di modificazione e trasformazione, secondo il senso letterale delle parole, e specificamente come riorganizzazione del sistema produttivo agricolo attraverso interventi legislativi dello Stato nell'economia privata per la redistribuzione del fattore terra; l'altra come complesso di interventi pubblici di risanamento con opere edili ed agrarie di zone povere, prosciugamento di terreni paludosi, aridi o malsani per renderli adatti alle coltivazioni ed agli insediamenti abitativi. Tali espressioni saranno sostituite negli anni sessanta con quella di sviluppo, ossia di accrescimento progressivo e potenziamento in senso produttivo di un patrimonio ormai ritenuto effettivamente distribuito razionalmente tra i cittadini o, comunque, distribuito secondo le regole di tutti gli altri beni produttivi.
I risultati di tali processi di intervento, se possono offrire importanti occasioni di valutazione all'economista, al sociologo o al politico, meritano forse qualche attenzione anche da parte dei cultori di storia, al fine di registrarne alcuni dati e fatti d'ordine regionale.
Negli anni venti, l'Italia viveva l'avventura della forte e dirigistica politica del fascismo. Tale politica, riguardo all'agricoltura ed agli aspetti sociali del mondo rurale, se la si voglia indicare per il suo connotante aspetto più evidente, la si può definire "politica di colonizzazione e di sbracciantizzazione". L'intenzione era quella di modificare il sistema fondiario favorendo le piccole e medie proprietà (i poderi), incidendo sul lavoro e sulle strutture agricole del Paese ed assumendo la figura del colono e della mezzadria come modelli ideali del ruralismo fascista. Ciò pare abbia portato effettivamente ad una forte diminuzione del numero dei braccianti (giornalieri) e ad un aumento delle forme di conduzione mista, come la colonìa, la mezzadria e l'affitto; mentre controverso resta il giudizio sull'evoluzione della piccola proprietà contadina nel ventennio. Insieme ad una crisi, verificatasi nella seconda metà degli anni venti, dovuta a fattori di oscillazione dei prezzi mondiali, si suole rilevare anche una espansione quantitativa delle produzioni, parallela alla grande avanzata dell'affitto e della colonìa, come sistemi razionali di conduzione dei fondi. Nel complesso, la politica della "sbracciantizzazione" favorì l'aumento delle forme di compartecipazione e di conduzione in proprio, sebbene difficili restassero le condizioni per il rafforzamento e la reale autonomia delle nuove microimprese e ardua (probabilmente perché contro la Storia marciante, come visto, in senso diverso) la via dell'arresto del fenomeno dell'inurbamento, con la fuga dalle campagne e della riaffezione delle masse rurali alla vita nei borghi ed a contatto continuo con la terra, come era auspicato dal fascismo ed incentivato con misure di vario genere.
Questo tipo di attenzione ai vecchi problemi della campagna ed, in particolare, di quella meridionale, derivava dalla cultura socialista di Mussolini e dei primi fascisti e si inserì logicamente nella politica di autarchia(2).
Il problema del latifondo siciliano era già stato posto, del resto, prima dell'avvento al potere del P.N.F. nel programma agrario di questo partito, approvato nel congresso dell'Augusteo, nel 1921, ed era stato poi ridiscusso nel corso del congresso del partito, svoltosi a Napoli nell'ottobre del 1922, proprio alla vigilia della "Marcia su Roma", nell'ambito di una considerazione più ampia che, mentre non riteneva ancora proficuo lo smembramento del latifondo, ravvisava la necessità di un generale piano di bonifica comprendente costruzioni di strade, captazioni di acque, costruzioni di acquedotti e colonizzazioni, cioè di un vasto sistema d'interventi infrastrutturali che potessero porre le basi per l'estensione delle aree coltivabili e fosse premessa per un futuro accesso dei contadini alla proprietà della terra, al fine di migliorare le condizioni di vita di questi ultimi(3). Il problema di una frantumazione generale del latifondo non fu comunque assunto subito nella politica del fascismo, dato che, sebbene questo partito mostrasse un interesse forte per la trasformazione dell'economia agricola e per i problemi sociali degli addetti, volle essere anche, dopo le lotte contadine e del proletariato in genere, portate avanti dalla parte socialista e marxista nei primi decenni del secolo, rassicurante nei confronti dei proprietari col rispetto, in via di principio, del diritto di proprietà.
In una visione, comunque, di profonda riforma, già nel 1923 fu approvato il testo unico delle leggi sulla bonifica che, sebbene fosse ancora un'operazione di coordinamento legislativo delle norme già esistenti, apriva la via a quella che sarebbe stata una generale ed incisiva ridisciplina normativa delle attività rurali. Nell'anno successivo, sarebbe stato emanato, infatti, il decreto-legge 18 maggio 1924, n. 753 sulle trasformazioni fondiarie di pubblico interesse, che assumeva il problema del latifondo al centro delle proprie disposizioni.
In Sicilia la storia della disciplina normativa degli interventi sistematici dello Stato e delle altre pubbliche amministrazioni, al fine di determinare un cambiamento ed un serio ammodernamento della vita nelle campagne, per fini di maggiore produttività e quindi di elevazione sociale delle relative popolazioni, può dirsi che inizi con la fondazione -per promozione del Banco di Sicilia, allora istituto di diritto pubblico- dell'Istituto Vittorio Emanuele III per il bonificamento della Sicilia. Il regio decreto legislativo 19 novembre 1925, n. 2110 con cui tale istituto venne creato prefiggeva come compito del nuovo ente quello di "promuovere, assistere ed integrare in Sicilia, ai fini del bonificamento, con particolare riguardo alle trasformazioni fondiarie, l'attività di privati, singoli e associati, condizionandola con quella dello Stato".
L'azione di tale istituto, che cominciò ad operare effettivamente nel 1930, si svolse in varie direzioni: promozione di consorzi, redazione di progetti di bonifica e direzione dei relativi lavori per conto di consorzi; finanziamenti agevolati; ricerche idro-geologiche; diffusione delle più moderne tecnologie. Per potere, poi, conferire all'insieme di tali pratiche la visiva concretezza della loro utilità ai fini d'una più elevata remunerazione del fattore lavoro, l'Istituto fondò l'azienda sperimentale dimostrativa Sparacia, nella Valle del Tumarrano al centro della Sicilia, ove tipico era l'ambiente vocato alla granicoltura estensiva. Successivamente, di questa azienda sarebbe stata affidata la conduzione alla Facoltà di agraria dell'Università di Palermo(4).
L'attività dell'Istituto "Vittorio Emanuele III" si inserì presto nell'ambito di una visione complessiva di quella che doveva essere la politica dello Stato e del "Regime" nell'agricoltura; politica che si andava rivelando con una legislazione sistematica che inevitabilmente avrebbe portato alla trasformazione del latifondo. Ciò accadeva mediante l'agevolazione della creazione di piccole proprietà contadine, la fondazione di borghi rurali, la bonifica dei territori coltivabili e tutta una disciplina normativa mirante all'elevazione del reddito agricolo come presupposto per una serie di azioni intese all'evoluzione sociale delle popolazioni rurali.
Notevole fu anche, in un tale complessivo orientamento normativo del "Regime", la revisione della disciplina agevolativa del credito agrario, nelle due forme di credito di esercizio e credito di miglioramento; con il riordino anche degli istituti bancari incaricati di coordinare l'azione creditizia in favore degli agricoltori e l'istituzione delle "casse comunali di credito agrario"(5).
Fu così che, in base al rivelarsi di tutto un sistema di esigenze per il potenziamento del tessuto produttivo rurale, anche sulla spinta degli studi e delle teorie espressi dal sottosegretario all'agricoltura del tempo, Arrigo Serpieri(6), si dette inizio nel 1928 alla c.d. Bonifica integrale, le cui azioni furono disciplinate da una legge di fondo che potremmo dire di carattere ideologico, mediante le quali si interveniva per il risanamento delle zone paludose, prime tra tutte le Paludi Pontine; si imponeva ai privati di rendere coltivabili i terreni di loro proprietà e si poneva in essere tutta una serie di altri interventi al fine di estendere la complessiva superficie coltivabile(7).
Molto importante, ed in sistema con la detta legge, fu il regio decreto 13 febbraio 1933, n. 215 che darà all'intento della politica fascista di bonifica, mediante un testo sistematico di 121 articoli, una disciplina completa, distinguendo gli interventi di competenza dei privati, sebbene con sussidi dello Stato, dagli interventi di competenza dello Stato, esplicantisi soprattutto nel compimento diretto delle opere strutturali necessarie all'attuazione del piano generale di bonifica, e destinando a tali azioni notevoli risorse finanziarie.
Della particolare intenzione di trasformazione dell'ambiente rurale (in questo caso onde favorire la pastorizia), è testimonianza anche la normativa a carattere generale per l'assetto dei tratturi della Puglia e delle trazzere della Sicilia, dettata dal R.D. 30 dicembre 1923, n. 3244(8).
Ma gli anni venti furono anche il tempo della Battaglia del grano, di cui si ebbe in Sicilia una profonda eco, data la particolare vocazione del suo territorio alla coltivazione del grano e specialmente del grano duro, particolarmente adatto alla produzione di pasta alimentare.
La Battaglia del grano, annunziata da Mussolini il 14 giugno 1925, nasceva dalla constatazione che in quel tempo le importazioni di cereali nel nostro paese si aggiravano ogni anno intorno ai 25 milioni di quintali ed incidevano pesantemente sulla bilancia commerciale, già sfavorevole per l'Italia a causa della sua nota generale povertà di materie prime (ferro, carbone, petrolio ecc.). D'altra parte, l'obiettivo d'una autosufficienza almeno per un prodotto primario ed emblematico nei minimi di esigenza per il vivere comune (il pane) fu visto, ove lo si potesse raggiungere, come indicatore d'un certo prestigio per la Nazione.
La propaganda d'una tale "battaglia" fu molto efficace e capillare, al fine di sfruttare convenientemente tutte le aree dedicate alla coltura dei cereali ed estenderne la consistenza, tanto che nel 1931 poté annunziarsi la "vittoria del grano", registrandosi una produzione nazionale di 81 milioni di quintali.
Il raggiungimento di un tale traguardo, naturalmente, è visto ora con interpretazioni critiche di vario contenuto, tra cui, per esempio, quella basata sulla considerazione che l'incremento a tutti i costi della produzione del grano incise a discapito di altre colture, anche se tipiche in alcune zone, o quella che ritenne non proficua, nei tempi lunghi, l'utilizzazione anche di terreni, in effetti, poco vocati alla cerealicoltura. Ma tali considerazioni, forse esulanti dai fini immediati del nostro discorso, come ogni valutazione storica, vanno probabilmente viste in funzione di quello che il grano e il pane rappresentavano negli anni venti per una popolazione non ancora entrata, nel suo complesso, nel modo di vivere d'una società industrializzata ed urbanizzata né tanto meno tra i protagonisti del grande mercato internazionale.
Fu comunque nello spirito della Battaglia del grano che, con regio decreto 12 agosto 1925, n. 2034, fu costituito il consorzio per la fondazione ed il funzionamento della Stazione sperimentale di granicoltura "Benito Mussolini" per la Sicilia. Il consorzio venne costituito - con personalità giuridica - tra lo Stato, il Banco di Sicilia, le province siciliane, il comune di Caltagirone, le camere di commercio di Catania, Agrigento, Siracusa, Trapani e Caltanissetta e l'Istituto Siciliano Valdisavoia.
Scopo della Stazione sperimentale di granicoltura era quello di "risolvere i problemi della coltivazione di pieno campo in clima caldo-arido, con particolare riguardo alla cerealicoltura, coordinando la propria azione con quella degli istituti sperimentali allora esistenti ed articolando le proprie ricerche in studi pedologici, sull'uso dei mezzi di fertilizzazione, sulla biologia, l'ecologia e la patologia del grano e sulla sua genetica"(9). Già nel 1932, la Stazione sperimentale avrebbe pubblicato una circostanziata relazione sulla sua attività in cui si riferivano i risultati raggiunti per le coltivazioni foraggere nei campi sperimentali "in pieno latifondo della provincia di Palermo" ed "in un'oasi di vegetazione in mezzo all'estesa zona incolta della piana paludosa ubicata alle porte di Catania"(10).
Nell'ambito d'una tale generale politica intesa a potenziare le attività agricole mediante l'applicazione ai processi produttivi dei più moderni sussidi scientifici e tecnici, favorendosi la sperimentazione ed il progresso degli stessi, nasceva a Palermo, alla fine degli anni venti, la Stazione zooprofilattica sperimentale della Sicilia, con il compito della difesa sanitaria del patrimonio zootecnico, attraverso servizi diagnostici, sperimentazioni e somministrazioni di sieri e vaccini, per la volontà della Società degli allevatori e sotto il patronato del Ministero dell'interno(11). Degli anni venti sono anche altri istituti per il miglioramento delle produzioni, come il Deposito dei cavalli stalloni di Catania, poi Istituto per l'incremento ippico(12).
Ma, tornando alla riforma generale dell'agricoltura siciliana ed all'importanza che tale disegno rivestiva nella politica italiana del Regime fascista, va registrato che con legge 2 gennaio 1940, n. 1, intitolata "Colonizzazione del latifondo siciliano", veniva istituito l'Ente di colonizzazione del latifondo siciliano dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, posto alle dipendenze del Ministero dell'agricoltura e delle foreste, con il compito di assistere, tecnicamente e finanziariamente, i proprietari nell'opera di trasformazione del sistema agricolo produttivo e di procedere direttamente alla colonizzazione delle terre delle quali l'ente acquistasse la proprietà o il temporaneo possesso. L'ente assorbiva, per espressa disposizione della legge istitutiva, l'Istituto per il bonificamento della Sicilia e gli succedeva nei diritti patrimoniali ed in ogni rapporto giuridico attivo e passivo(13). Non era ancora iniziata l'operazione generale di scorporo del latifondo e di assegnazione di lotti ai coltivatori diretti, ma la tendenza a favorire la nascita di piccoli poderi autosufficienti, sebbene con mezzi che volevano essere ancora non traumatici per i proprietari, diventava più decisa.
Nell'ambito del grande disegno di perseguimento della formazione di poderi autosufficienti, dotati di case coloniche, si inseriva anche quello della costruzione di borghi rurali che potessero attirare famiglie di contadini anche in aree che, sebbene fertili o rese tali dall'opera di bonifica, restassero tuttavia poco accettabili per la lontananza dai centri urbani o dalle aggregazioni di case già esistenti e, quindi, prive dei più elementari servizi.
I borghi rurali erano concepiti come dei piccoli villaggi in una versione architettonica moderna, dotati dei principali servizi (scuola, chiesa, ufficio postale, bevai, stazione dei carabinieri, locali per le opere della G.I.L., dell'opera nazionale dopolavoro, ecc.); in molti casi erano realizzati su progetti di noti architetti, tanto che ora se ne cominciano a studiare le linee estetiche ed i valori di collegamento con la più generale architettura italiana degli anni trenta.
Tutto sommato, introducevano nel latifondo e nel tipico panorama siciliano, in cui le case erano sempre quelle classiche ad un piano, con due spioventi coperti da tegole di creta, elementi di evidente modernità ed indizi di progresso tecnico, in modo da rendere competitiva la vita nelle campagne rispetto a quella dei vecchi paesi, dove prevalentemente hanno sempre preferito abitare i contadini siciliani, e fossero perfino tali da attrarre coloni dal nord, dove la vita nei campi era già più confortevole di quella nel latifondo meridionale(14).
Questo progetto del governo fascista, che ebbe una serie di realizzazioni e che era certamente legato ad una predilezione per una società in cui il mondo rurale ricevesse la sua parte del progresso conseguito dalla Nazione, ma restasse riserva importante di forza morale, cultura tradizionale e pilastro dell'economia italiana, non poté che scontrarsi tuttavia con quelli che Tricoli, cui conviene rinviare per una analisi completa del fenomeno(15), chiama "gli ambienti più retrivi e parassitari, cui faceva eco certo vecchio monutengolismo culturale e politico riemergente dal passato pre-fascista", che intravedevano con apprensione il prevedibile sbocco dell'assalto al latifondo e dell'espropriazione di parte degli ex fondi.
Era, del resto, tutto il nuovo modo di presentarsi, anche visivamente, delle campagne in via di bonificamento o già bonificate che appariva ai ceti che avevano dominato per generazioni nel latifondo, rivoluzionario e certamente pericoloso, vedendosi minacciate le "dovute" distanze sociali, attestate da modi diversi ed immutabili del vivere. Ebbe perciò anche i suoi critici, espressi talvolta con la superiorità dell'ironia; per cui troviamo nella stampa quotidiana del tempo articoli che spiegavano il senso di quelle opere edili complesse in aree che apparivano sperdute e desolate(16).
Sia pure faticosamente, comunque, la progressiva riduzione della grande proprietà, aiutata in vari modi, fu un fatto che faceva intendere la linea politica che il Regime fascista andava sviluppando. Socialmente, come osserva uno studioso dell'argomento, Maurizio Scaglione, che ha approfondito la questione(17), "la reazione degli agrari non si fece attendere", come è indizio l'opuscolo pubblicato nel 1942 (evidentemente, in aperta polemica con la linea ufficiale del Governo) da Lucio Tasca Bordonaro ("Elogio del latifondo siciliano") in cui si tentava di provare come la proprietà latifondistica fosse in effetti fonte di ricchezza e di prosperità e quindi un errore il cosiddetto "assalto al latifondo", con cui si indicava la politica del fascismo. Era la spia del nuovo atteggiamento che gli agrari, in ciò alleati dei maggiori gruppi mafiosi, andava assumendo nei confronti del fascismo; atteggiamento che si sarebbe rivelato come aperto antifascismo con l'occupazione della Sicilia da parte degli anglo-americani, quando, caduto il fascismo, si poté avere anche la sensazione che cadesse il potere dello Stato e vi potesse essere posto per un conato di sicilianismo, spingendosi fino al separatismo. Ma, di questi aspetti della questione conviene rinviare al citato autore Giuseppe Tricoli, volendosi qui semplicemente tratteggiare i mutamenti che nell'evoluzione politica di attenzione ai fini di uno sviluppo economico dell'attività agricola e di miglioramento delle condizioni delle popolazioni rurali si andavano realizzando proprio in quello che costituiva l'oggetto della politica: il rapporto tra la terra e i contadini.
In tutti gli anni quaranta si consolidava, comunque, sempre più la convinzione che per un assetto razionale del patrimonio "suolo" o, se si preferisce, del fattore di produzione "terra", per fini d'una equilibrata economia, e di una maggiore giustizia sociale, fosse necessaria la creazione d'un diffuso sistema di piccole e medie proprietà contadine delle dimensioni di quelle che una famiglia poteva coltivare e che poteva dare ad essa i fondamentali mezzi di sostentamento. Del resto, anche la politica agricola del secondo dopoguerra, chiaramente delineata e portata avanti con una certa coerenza dai vari Governi che si succedettero in almeno trent'anni e dalla Democrazia Cristiana, partito-guida della Nazione per mezzo secolo, fu una politica intesa alla creazione della "piccola proprietà contadina", in funzione della quale sarebbero stati distribuiti in Italia 800 mila ettari di terra.
Solo con una riconsiderazione storica sappiamo ora che tutti quegli sforzi non portarono effettivamente al rafforzamento del tessuto agricolo italiano, visto almeno in un'ottica di macroeconomia, e non impedirono la fuga dalle campagne; fenomeno che sarebbe stato evidente negli anni cinquanta e sessanta quando, malgrado ogni sforzo di bonifica e di distribuzione delle terre, molte aree, ossia molti poderi che avevano dato lavoro ad intere famiglie, si rivelarono, nel volgere di breve tempo, "terreni marginali" e quindi non sufficientemente produttivi. Malgrado ciò, tuttavia, proprio perché certe valutazioni possono farsi solo col metodo storico, non può non considerarsi che nei primi decenni del dopoguerra, la proprietà della terra era ciò che centinaia di migliaia di braccianti chiedeva e che l'ideale di un fondo da coltivare sembrò ancora, per molto tempo, ad enormi masse di lavoratori, la soluzione dei propri problemi di sussistenza.
Negli anni quaranta e cinquanta, del resto, molte furono le manifestazioni di braccianti agricoli siciliani che, rientrati dalla guerra e dalla prigionia, chiedevano la distribuzione della terra dei latifondi. Già nell'ottobre del 1944, il Governo di Salerno, presieduto da Ivanoe Bonomi, aveva emanato, su proposta del ministro per l'agricoltura Fausto Gullo (comunista), un decreto che ridefiniva le quote di riparto nei contratti di mezzadria e prevedeva la concessione a gruppi di contadini associati in cooperative delle terre incolte o sequestrate a fascisti. Era l'inizio della più generale riforma agraria mediante gli "scorpori".
Nel luglio del 1945 si svolse in Sicilia una vasta agitazione di contadini e braccianti contro la grande proprietà latifondista e per l'applicazione del decreto Gullo. Successivamente continuarono gli scioperi e le occupazioni in tutto il meridione, con interventi decisi della polizia e talvolta anche con incidenti e morti, come accadde pure nell'ottobre del 1949 in Puglia ed in Calabria.
La concezione più generale dell'attività agricola era, del resto, sia nella considerazione economica che in quelle sociale e politica che nelle aspirazioni di chi viveva in campagna, ancora quella della coltivazione diretta e familiare di un proprio podere e l'agricoltore che si presentava realmente ed idealmente come il potenziale produttore era il contadino; come è facile dedurre dalla stessa terminologia rivelatrice di alcune leggi, fino agli anni sessanta. In esse si parla di proprietà contadina e di assegnazione di terreni ai contadini(18); termini lessicali che descrivono, insieme, la cura della terra con le proprie braccia e l'abitazione del lavoratore e della sua famiglia nel contado.
Per la Sicilia, comunque, quel passaggio "storico" dal latifondo e dal bracciantato alla piccola proprietà contadina e, quindi, all'azienda di piccole o medie dimensioni; nonché quello della trasformazione strutturale ed infrastrutturale dell'agricoltura si presentarono subito, dopo la fine della guerra, in un assetto normativo ed istituzionale del tutto nuovo.
Essendo stata istituita, nel 1946, la Regione siciliana ed avendo attribuito ad essa, il relativo Statuto, competenze esclusive nella materia dell'agricoltura, erano affidate alle scelte legislative dell'Assemblea regionale, "nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato e senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano", le materie dell'agricoltura e foreste, della bonifica, degli usi civici, dell'incremento della produzione agricola (insieme a quella industriale) e della valorizzazione, distribuzione e difesa dei prodotti agricoli (come pure di quelli industriali). E ciò attraverso le attività commerciali, altra materia attribuita all'esclusiva competenza della Regione.
La visione dell'intervento pubblico nel campo dell'agricoltura assumeva, in sostanza, un disegno sempre più sistematico, andandosi considerando l'attività agricola nel contesto, non solo delle coltivazioni e delle condizioni dei contadini, ma anche delle fasi delle trasformazioni industriali, della commercializzazione e della valorizzazione e difesa dei prodotti nei mercati: essendo in tal senso mutato tutto l'orizzonte economico del collocamento dei prodotti agricoli.
E' interessante, ai fini d'una considerazione storica dell'evolversi del problema, che, con indicazione specifica e distintamente, sia citata nello Statuto della Regione la materia della "bonifica". E ciò, in continuità col processo che si è visto essere in atto sin dalla fondazione, nel 1925, dell'Istituto Vittorio Emanuele per il "bonificamento" della Sicilia e dalla legge del periodo fascista n. 3134 del 1928 sulla bonifica integrale.
La materia della bonifica nell'ambito delle azioni specifiche del legislatore e della pubblica amministrazione regionali, per favorire la preliminare coltivabilità di territori marginali, in verità non era stata contenuta nel progetto elaborato dalla Commissione speciale, presieduta da Giovanni Salemi, l'insigne giurista ammistrativista che, in seno alla Consulta che elaborò lo Statuto di autonomia, aveva proposto il testo che sarebbe stato poi posto a base per l'esame da parte dei consultori. Essa era indicata, viceversa, in altri testi propedeutici, ma nel corso del dibattito in seduta plenaria, su proposta del consultore Li Causi, fu approvata con specifico emendamento, divenendo così la materia di quella che sarebbe stata poi la lettera b dell'articolo 14 dello Statuto(19): ossia la voce "bonifica". Si confermava così come, in quegli anni, forte fosse ancora l'esigenza che la pubblica amministrazione riducesse ampi territori a possibilità di colture economicamente convenienti, con la rimozione delle più profonde cause che li rendevano infruttiferi mediante il compimento di massicce opere pubbliche infrastrutturali.
Immediatamente, a differenza che per altre materie attribuite dallo Statuto di autonomia alla competenza della Regione, come quelle dei beni culturali, del lavoro o dell'ambiente, per le quali occorse attendere anche gli anni settanta e ottanta, le attribuzioni del Ministero dell'agricoltura e foreste furono, subito dopo l'istituzione della Regione, trasferite alla Sicilia con le opportune norme di attuazione dello Statuto(20) ed il passaggio alla Regione degli uffici periferici dello Stato.
In Sicilia, comunque, la riforma agraria, nelle sue due componenti, di scorpori dei latifondi con assegnazioni e di assistenza tecnica agli agricoltori, fu gestita fondamentalmente dall'Assessorato regionale dell'agricoltura e delle foreste che si avvalse, nei primissimi anni dell'Autonomia, dell'Ente per la colonizzazione del latifondo siciliano, che successivamnte, nel 1950, assunse la denominazione di Ente per la riforma agraria in Sicilia (ERAS),e dei consorzi di bonifica già esistenti.
La fondamentale legge regionale 27 dicembre 1950, n.104, intitolata Riforma agraria in Sicilia ed atto di nascita dell'ERAS, dispose: "La proprietà terriera compresa nel territorio della Regione è sottoposta agli obblighi ed ai limiti stabiliti dalla presente legge"; quindi, sul solco della legislazione d'anteguerra, prevedeva obblighi di trasformazione agraria e fondiaria per i proprietari dei fondi ed obblighi di buona coltivazione; mentre introduceva norme complete per il conferimento da parte dei latifondisti e l'assegnazione a coltivatori diretti dei terreni eccedenti certe estensioni. Si trattò effettivamente d'una legislazione rivoluzionaria, d'un vero attacco contro la proprietà privata onde risolvere, come era nelle sue intenzioni, l'antico problema siciliano della equa distribuzione della terra. Per anni, questa legge sconvolse l'antico assetto proprietario della terra, determinando seri problemi per gli antichi feudatari.
La stessa legge ordinava i compiti amministrativi della riforma distribuendoli, tra funzioni di governo, funzioni di coordinamento e funzioni esecutive, secondo il seguente sistema: "All'attuazione della riforma agraria sovrintende l'Assessorato dell'agricoltura e delle foreste, presso il quale è istituito un ufficio regionale per la riforma avente il compito di indirizzare, vigilare e coordinare l'attività degli enti ed organi preposti all'esecuzione della presente legge, anche a mezzo dell'Ispettorato agrario compartimentale, che assume la denominazione di Ispettorato agrario regionale". " Disponeva, poi, come l'Assessorato si dovesse avvalere per gli stessi compiti dell'ERAS e dei consorzi di bonifica.
All'ERAS, che succedeva all'Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, era assegnato, in particolare il compito di "assistere gli assegnatari di terreni nella progettazione ed esecuzione delle opere di miglioramento fondiario" e di "promuovere ed organizzare l'attuazione delle provvidenze, anche di natura sociale, intese a migliorare le condizioni di vita degli assegnatari e ad incrementare la produzione, curando in special modo lo sviluppo della meccanizzazione, della industrializzazione e della cooperazione negli acquisti, vendita e trasformazione dei prodotti, ecc.".
Per la Regione siciliana, dotata allora di mezzi finanziari proporzionalmente più ingenti di quelli di oggi e che si avvaleva del concorso finanziario aggiuntivo dello Stato per quanto riguarda il pagamento delle terre espropriate, si trattò d'un forte impianto di mezzi e di opere in favore dell'agricoltura. Tra le opere va detto che si continuò il disegno di costruzione dei borghi rurali, delle case coloniche, degli acquedotti e bevai e degli invasi collinari, con ciò continuandosi l'opera dell'Ente di colonizzazione ed, idealmente, la linea seguita dal fascismo, al fine di rendere, oltre che economicamente efficace, anche confortevole la vita degli agricoltori nelle campagne(21).
La necessità di promuovere produzioni di dimensioni e caratteri industriali, studi per il miglioramento delle piante, penetrazione nei mercati, specializzazioni dei relativi addetti in un settore nel quale la Sicilia è sempre sembrata particolarmente vocata, determinava pure nel 1950 l'istituzione dell'ente pubblico regionale Istituto regionale della vite e del vino(22).
Intanto, nel 1957, come è noto, Italia, Belgio, Francia, Germania Federale, Lussemburgo e Paesi Bassi fondavano, con i trattati sottoscritti a Roma il 25 marzo di quell'anno, la Comunità Economica Europea, nell'ambito del cui ordinamento, al fine di instaurare un regime di libera circolazione delle merci e delle persone, fu prevista tra l'altro una speciale, e tendenzialmente completa, disciplina del settore delle produzioni agricole, instaurandosi anche una Politica agricola comune (PAC).
Una tale politica "comune", che significava l'abbattimento delle barriere doganali tra i sei Paesi membri, un'unica tariffa per esportazioni ed importazioni dei prodotti agricoli nei riguardi dei Paesi terzi, tutto un sistema di regole e procedure per la disciplina di mercato di ogni prodotto, con la fissazione dei prezzi ed il sostegno di essi nonché, correlativamente, di divieti all'introduzione ed al mantenimento di misure di aiuto ad imprese ed alle produzioni, tali da poter falsare una libera concorrenza, costituì un elemento destinato a limitare sul piano normativo lo "spessore" delle effettive prerogative della Regione nella sua responsabilità esclusiva sull'andamento del settore agricolo. Ciò, soprattutto, nell'interferenza con le competenze "esclusive" indicate dallo Statuto di autonomia mediante le espressioni "incremento della produzione agricola" e "valorizzazione, distribuzione e difesa dei prodotti"; dato che, per ogni prodotto, si andavano imponendo via via, dalla Comunità, "discipline complete di mercato", non tolleranti, proprio giuridicamente, discipline particolari degli Stati membri.
In Sicilia una tale limitazione non si avvertì subito, recependosi invece gli effetti benefici di un regime di prezzi, generalmente alti e tali da assicurare la remunerazione delle produzioni; nonché i benefici della collocazione, comunque, di certi prodotti, mediante l'istituto del "ritiro" e delle integrazioni del prezzo.
Il sostegno dei prezzi e delle produzioni, entro certi limiti, rispondeva all'esigenza di rispetto delle peculiarità delle attività rurali e del "mondo agricolo", ossia della società in cui esse si svolgevano. Attività e società che non avrebbero potuto essere abbandonati di colpo ad un regime di concorrenza ed a regole di stretta economia senza determinare gravi scompensi sociali. Lo stesso Trattato comunitario dispone, del resto, che "nell'elaborazione della politica agricola comune e dei metodi speciali che questa può implicare, si dovrà considerare il carattere particolare dell'attività agricola che deriva dalla struttura sociale dell'agricoltura e dalle disparità strutturali e naturali fra le diverse regioni agricole"(23).
Il riferimento alla "struttura sociale" è emblematico per dimostrare come, quando fu redatto il Trattato di Roma, non si era infatti compiuto ancora quel grande mutamento sociale che, con la "fine del mondo contadino" (parametro che inquesto testo è assunto per valutare il mutare della politica agricola) avrebbe segnato il ventesimo secolo e come si sia imposta, negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo, una filosofia della politica agricola comunitaria che, sia pure in una prospettiva di mercato, dovesse comunque evitare ogni drastico e traumatico ridimensionamento della società rurale.
Insieme agli effetti della politica comunitaria dei prezzi, negli anni sessanta si cominciarono ad avvertire anche i divieti comunitari a certi interventi agevolativi del legislatore regionale(24). Se, infatti, la Comunità si intestava la titolarità della politica dei prezzi agricoli e della disciplina completa di un sempre maggior numero di prodotti (dalla loro coltivazione fino all'offerta sul mercato), accollandosene i costi aggiuntivi, era conseguentemente necessario che Bruxelles vigilasse, sempre con maggior rigore, perché interventi agevolativi degli Stati membri non finissero col determinare squilibri nei costi effettivi di produzione, così refluendo sulla formazione dei prezzi, falsando conseguentemente l'obiettivo della competitività intracomunitaria e determinando eccedenze di produzioni. La qualcosa, secondo la politica agricola comune, avrebbe finito col gravare inutilmente sulla stessa Comunità.
Di questa nuova politica e delle relative limitazioni, può dirsi che la Sicilia conservi storicamente la documentazione nel proprio ambiente, essendo stato, in modo appariscente, lo stesso paesaggio a mutare, in funzione delle coltivazioni che, valutate in un'ottica di mercato allargato, ricevettero o no il sostegno Comunitario, sulla base di scelte ormai europee. Un settore che fu visibilmente colpito, con risultati di trasformazione della tradizionale campagna siciliana fu, per esempio, quello delle coltivazioni degli agrumi (che tanto avevano colpito Goethe nel suo viaggio in Sicilia); coltivazioni che dovettero subire la concorrenza di altri paesi della Comunità e di paesi extracomunitari con cui la CEE era andata stipulando trattati commerciali di favore.
Ma mentre una tale politica comunitaria di sostegno, detta "di garanzia", sembrò il necessario costo d'una operazione storica affinchè quel necessario passaggio dal "mondo contadino" all'impresa agricola, come s'è visto essere stato registrato suggestivamente da Hobsbawm, si potesse svolgere nella maniera meno traumatica possibile e si potesse realizzare in maniera altrettanto indolore la riduzione degli addetti al lavoro agricolo, in modo da riportarne la percentuale sulla popolazione ai valori europei, anche la Sicilia ha avuto modo di considerare presto ed accettare le linee della prevalenza d'una politica strutturale comunitaria; ossia la concezione dell'intervento pubblico volto a trasformare le basi d'impianto dell'attività, dotando le imprese e le aree di interesse agricolo di strutture e di infrastrutture moderne, e modificare l'intero atteggiamento degli addetti. E ciò, dovendosi comunque considerare, come è pure detto nel Trattato, "il fatto che negli Stati membri l'agricoltura costituisce un settore intimamente connesso all'insieme dell'economia"(25). Si trattava, in sostanza, del prendere atto del progressivo passaggio dall'agricoltura contadina a quella di impresa. La norma conteneva, appunto, l'avvertimento di quello che sarebbe stato il punto finale della politica agricola transitoria della Comunità.
In una di quelle successioni che nella storia non possono mai dirsi casuali, dopo otto anni dall'entrata in vigore del Trattato comunitario e, quindi, in diretta presa di coscienza da parte della Sicilia degli ulteriori cambiamenti che nel settore dell'agricoltura si andavano realizzando, l'ERAS veniva trasformata in Ente di sviluppo agricolo (ESA)(26).
Elemento qualificante della nuova disciplina legislativa fu quello di considerare il nuovo ente come organo di programmazione regionale, in quanto è stato suo compito precipuo quello di curare la redazione di un piano di sviluppo dell'intera superficie agricola siciliana, articolato in piani zonali "nel quadro del Piano regionale per lo sviluppo economico e sociale della Sicilia", secondo la politica di pianificazione, cara in quei tempi alla sinistra politica ed in genere ai partiti riformisti e secondo la stessa politica comunitaria precedente per progetti integrati.
Il nuovo ente continuava intanto nei compiti dell'ERAS, di riforma del latifondo e di costruzione di strade, trasformazione in rotabili delle trazzere, adduzione di acque, assistenza tecnica agli agricoltori, costruzione di bacini, dighe, condotte, impianti elettrici e strutture commerciali, ma … veniva meno la fede nelle case coloniche e nei borghi rurali.
Alla fine del 2000 (indifferente essendo la definizione successiva di qualche pratica ritardataria) il conferimento di terreni scorporati per l'assegnazione a coltivatori diretti poteva riassumersi in 112 mila ettari circa, suddivisi in circa 25 mila lotti mentre i terreni effettivamente assegnati sono stati della consistenza di circa 100 mila ettari(27).
Ma … il mondo contadino è finito lo stesso e si parla ora di riaccorpamento dei fondi ai fini di creare aziende di dimensioni tali da poter conseguire "economie di scala". E se la politica comunitaria intravede ora azioni per la valorizzazione delle produzioni tipiche e per la protezione di prodotti particolari (specialmente frutta) che, nella guerra dei mercati e dei prezzi, sono risultati soccombenti e rischiano quindi di scomparire, deve pur sempre dirsi che ciò è possibile in una visione correttiva di un andamento che ha avuto a base esclusivamente le leggi del mercato; mentre non vi è dubbio che ormai anche l'agricoltura siciliana nel suo stato complessivo, è entrata in quella condizione che il Trattato comunitario definisce, come abbiamo visto, dell'intima connessione con l'insieme dell'economia; per cui sono ora le imprese agricole ad aver rilievo: come le imprese industriali.
Degli enti, cui è stato commesso il bonificamento, la riforma e l'assistenza allo sviluppo, si progetta ormai la soppressione o la trasformazione in agenzie per la ricerca e la fornitura dei servizi, come del resto è già avvenuto in altre regioni italiane per gli enti omologhi (ma non dalla complessa storia di quelli siciliani)(28). Si è così compiuta quella che si suol definire una fase storica, sì che tutto ciò che ha guidato e riguardato le accennate trasformazioni è ora pronto per investigazioni e valutazioni di tipo storico. Gli archivi dell'Istituto per il bonificamento della Sicilia, dell'Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, dell'Ente per la riforma agraria in Sicilia e dell'Ente per lo sviluppo agricolo siciliano, custodendo la storia di importati momenti dell'evoluzione del mondo rurale nel ventesimo secolo, non sono più gli archivi amministrativi degli uffici pubblici che li detengono; perciò, come per tutti quelli riguardanti l'Autonomia regionale, è auspicio sentito che la Regione siciliana li recuperi e li ordini secondo le regole proprie degli archivi storici(29).

NOTE

(1) Hobsbawm, Il Secolo breve, Rizzoli ed., Milano 2000, pag. 341.
(2) Per la formazione socialista di Mussolini, cfr. Portalone G., Mussolini nel 1914: Il passaggio dalla calasse alla Nazione, in Rassegna Siciliana di Storia e Cultura, Palermo 2002, n. 14.
(3) Cfr. De Felice R., Mussolini il fascista, Einaudi ed., 1966, vol. I, pag. 736.
(4) Cfr. L'Istituto V.E. III per il bonificamento della Sicilia, in Sviluppo agricolo, mensile dell'Ente di sviluppo agricolo, nov. - dic. 1992, pag. 6.
(5) V. 29 luglio 1927, n. 1509, disciplinante il credito agrario nel Regno.
(6) Arrigo Serpieri (n. a Bologna nel 1877 e m. a Firenze nel 1960) fu professore d'economia e contabilità agraria negli istituti agrari superiori di Perugia, Milano e Firenze. Fu, inoltre, presidente dell'Associazione nazionale dei consorzi di bonifica, deputato al Parlamento, sottosegretario all'agricoltura (1923 - 24) e alla bonifica integrale (1929 - 35), della quale fu l'ideatore, ed ha lasciato una grande mole di opere scientifiche dalle quali emerge un pensiero globalistico dei fatti economici, teso a coordinare l'economia rurale, cui dette dignità di disciplina scientifica, con l'economia politica ed a mettere in rilievo i caratteri peculiari, sia economici che sociali, del mondo agricolo.
(7) Cfr. legge 24 dicembre 1928, n. 3134.
(8) I nomi "tratturi" e trazzere", apparentemente simili, hanno diverse etimologie: tratturo deriva dal latino tractoria, privilegio concesso ad alcuni cittadini di usare una via di comunicazione pubblica; trazzere viene dal termine traccia o dal termine francese antico dreciere, come segno di linea di comunicazione primitiva o antica. Per la normativa del tempo, v. anche art. 53 del R.D. 29 dicembre 1927, n. 2801 ("Approvazione del regolamento per l'assetto definitivo dei tratturi di Puglia e delle trazzere di Sicilia").
(9) Con legge regionale 1 agosto 1974, n. 33, la Regione siciliana è subentrata allo Stato, con effetti dal 1969, nella Stazione, mentre ne veniva trasferita la sede da Catania a Caltagirone.
(10) Cfr., Stazione sperimentale di granicoltura di Catania, Relazione sull'attività 1931 - 1932 (presso la stessa Stazione).
(11) La Stazione sperimentale zooprofilattica della Sicilia (poi Istituto sperimentale ecc.) ha avuto origine dalla Stazione sperimentale per la lotta contro le malattie infettive del bestiame, sorta nel 1920 per iniziativa della Società degli agricoltori siciliani, con l'appoggio del Ministero dell'Interno. Con legge 23 giugno 1970, n. 503, gli I.Z.S. furono ridisciplinati come enti sanitari dotati di personalità giuridica di diritto pubblico.
(12) Vedi R.D. 4 maggio 1924, n. 996 e R.D. 18 febbraio 1932, n. 166.
(13) Cfr. anche, R.D. 26 febbraio 1940, n. 247, recante l'ordinamento dell'Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, e la legge 15 aprile 1942. N. 515, contenente norme per la colonizzazione del latifondo siciliano e per la preparazione tecnica dei dirigenti e delle maestranze agricole nei comprensori di bonifica.
(14) Nel disegno di avvicinamento della campagna ai servizi delle città, si possono ricomprendere forse anche i carri di Tespi, ossia quelle istituzioni teatrali viaggianti, create nell'ambito dell'Opera nazionale dopo lavoro, per portare spettacoli teatrali di prosa e di lirica nei luoghi sprovvisti di sale teatrali e comunque meno raggiungibili. Cfr. Aquila N. - Piscolo L., Il teatro di prosa a Palermo, Guida ed., Palermo 2001, pag. 192.
(15) Tricoli G., Bonifica integrale e colonizzazione del latifondo in Sicilia, quaderno n. 5-6 dell'Istituto siciliano di studi politici ed economici, Palermo 1983, p. 11.
(16) Spinello Perticone S., Il villaggio agricolo come base della colonizzazione, in L'Ora, 31 dicembre 1942.
(17) Scaglione M., Bonifica integrale e assalto al latifondo in Sicilia: problemi e realizzazioni, in quaderno 5-6 dell'Istituto siciliano di studi politici ed economici, Palermo 1983, p. 45.
(18) V., per es., l'art. 3 della legge regionale 10 agosto 1965, n. 21.
(19) Cfr. art. 14, lettere a, b, c, e, l dello Statuto della Regione siciliana. V. anche Atti della Consulta regionale siciliana, edizioni della R.S., vol. III, sessione quinta, pagg. 93 e 256 e ss.. Girolamo Li Causi, uomo politico siciliano (1896-1977), fu un illustre esponente del Partito socialista anteriormente all'ascesa al potere del fascismo; quindi aderì al Partito comunista svolgendo una intensa attività organizzativa e giornalistica nel nord d'Italia. Dopo il 1944 guidò in Sicilia la politica comunista. Membro dell'Assemblea costituente, della Consulta per lo Statuto regionale, deputato dell'Assemblea regionale e del Parlamento della Repubblica, svolse, tra l'altro, una intensa azione di denunzia dei problemi delle popolazioni rurali, del banditismo e della mafia.
(20) D.l.vo 7 maggio 1948, n. 789, successivamente modificato con D.p.r. 24 marzo 1981, n. 218.
(21) I Borghi costruiti in Sicilia dall'Ente di colonizzazione del latifondo prima del 1940 sono i seguenti: Bonsignore (Ribera); Gattuso (Caltanissetta); Cascino (Enna); Fazio (Trapani); S. Giuliano (Messina); Lupo (Mineo); Rizza (Carlentini); Schirò (Monreale). Dopo la guerra furono completati i seguenti altri borghi: Baccarato (Aidone); Badìa (Buseto Palizzolo); Bassi (Ummari-Trapani); Binuara (Trapani); Borzellino (Monreale); Bruca (Buseto Palizzolo); Callea (Cammarata); Capparini (Monreale); Castagnola (Contessa Entellina); Guttadauro (Butera); La Loggia (Agrigento); Libertinia (Ramacca); Livio Bassi (Trapani); Filaga (Prizzi); Gurgazzi (Butera); Manfria (Gela); Manganaro (Vicari); Pasquale (Cammarata); Petilia (Caltanissetta); Piano Cavaliere (Contessa Entellina); Piano Torre (Morfia - Francavilla di Sicilia); Pizzillo (Contessa Entellina); Portella della Croce (Prizzi); Runza (Mazara del Vallo); Roccella (Contessa Entellina); S. Giovanni (Francavilla di Sicilia); Schisina (Francavilla di Sicilia); Ventimiglia (Caltagirone); Vicaretto (Castellana Sicula).
(22) L'Istituto regionale per la vite e il vino è stato istituito con la legge regionale 18 luglio 1950, n. 64.
(23) Art. 39, par. 2 del Trattato CEE, nel testo originario.
(24) I divieti risultavano dai procedimenti di controllo comunitario sugli interventi pubblici introducenti "aiuti", ai sensi degli artt. 92 e 93 del Trattato (nel testo originario).
(25) Art. 39, par. 2 del Trattato cit.
(26) Cfr. l.r. 10 agosto 1965, n. 21.
(27) I dati della riforma agraria relativi alla "colonizzazione" degli ex latifondi possono essere espressi analiticamente così: terreni conferiti alla riforma agraria Ha 112.822.11.12; ditte soggette a conferimento dei terreni Ha 960; terreni assegnati Ha 99.421.09.11; terreni vincolati alla R.A. ancora in possesso dei conferenti Ha 12.500.00.00; terreni in fase di trasferimento Azienda foreste Ha 992.00.00; terreni riscattati e affrancati Ha 39.490.00.00; terreni suscettibili d'intervento da parte dell'ESA Ha 73.332.00.00; terreni nella disponibilità ESA Ha 4.868.14.48. I dati relativi alle superfici assegnate, aggregati per province, danno il seguente quadro: Palermo lotti 3578, ettari 16.885.74.46; Catania lotti 2688, Ha 10.659.75.27; Messina lotti 1899, Ha 8.400.19.83; Siracusa lotti 3250, Ha 12.143.34.23; Ragusa lotti 906, Ha 3.390.36.18; Agrigento lotti 3300, Ha 12.612.75.16; Trapani lotti 1690, Ha 6.465.76.55; Caltanissetta lotti 5009, Ha 17.638.02.62; Enna lotti 2636, Ha 11.125.14.80. Il tutto per un totale di 24.956 lotti e di Ha 99.421.09.11 assegnati. (Cfr., Sviluppo agricolo, cit., nov.-dic. 1992).
(28) Vedi, per es., l.r. Umbria 26 ottobre 1994, n. 35; l.r. Lombardia 12 gennaio 2002, n. 12; l.r. Friuli Venezia Giulia 1 ottobre 2002, n. 24; l.r. Lazio 10 gennaio 1995, n. 2.
(29) Il materiale archivistico riguardante l'ERAS e l'Ente di colonizzazione del latifondo siciliano e, quindi le azioni svolte da tali enti anche oltre mezzo secolo fa si trova attualmente accatastato in una casa di Borgo Portella della Croce, in territorio di Prizzi; ed è in via di riordino sotto la sorveglianza della Sovrintendenza Archivistica, opera, a sua volta, di bonifica e documento architettonico interessante come prototipo di tali tipi di realizzazioni.

 

Un machiavelliano inglese del Seicento: Henry Neville (1620-1694) di Giorgio E. M. Scichilone

1. La vita

1. Sfogliando qualcuno dei libri di Christofer Hill, "il più acuto conoscitore del Seicento inglese"(1), il nome di Henry Neville(2) compare assai di rado e di sfuggita. Sebbene l'autorevole storico abbia dedicato una particolare attenzione ai contesti culturali in cui è maturata la rivoluzione del '49 e quella, di quaranta anni dopo, cosiddetta gloriosa, ed abbia sottolineato gli aspetti meno ufficiali ed indagati dalla storiografia, evidenziando gli aspetti radicali e popolari del movimento rivoluzionario, non si riscontra alcuna considerazione sul ruolo dell'autore del Plato redivivus. Le cose addirittura peggiorano se passiamo ad altri storici di quel periodo, che vide il fiorire e il declinare delle idee e dell'esperienza repubblicana.
Dopo il fallimento delle iniziative politiche dei commonwealthmen, quando il corso degli eventi cominciava a chiarire quale ruolo Cromwell avesse riservato per sé, i repubblicani presero a riunirsi per impulso di Harrington, che fondò un club a cui diede il nome Rota, con evidente riferimento alle idee espresse in Oceana sulla rotazione delle cariche elettive in un'ideale repubblica. Chiunque abbia lasciato una testimonianza su questo club, ha sottolineato come il principale esponente e frequentatore sia stato Henry Neville, quell'intimo amico di Harrington, capace di convincerlo a tralasciare la letteratura per dedicarsi alla teoria politica. Quest'ultima preziosa attestazione ci proviene da un partecipante a quegli incontri, John Aubrey(3), l'autore di Brief Lives, che descrisse l'ambiente, le modalità di partecipazione, gli argomenti trattati, i frequentatori stessi del club. Sfortunatamente, Aubrey non ha lasciato un profilo specifico ed autonomo di Neville. Sembra gli sia bastato menzionarlo nella vita di Harrington. E proprio da quelle pagine è tramandata la celebre battuta di Thomas Hobbes, al quale viene pure dedicato un capitolo di questo singolare testo (e sono le due biografie più lunghe dell'opera), secondo il quale Neville abbia avuto un dito sulla composizione di Oceana. Una collocazione - in subordine ed in funzione di Harrington - che non ha più abbandonato Neville, per l'appunto, con unanime interpretazione, "amico di Harrington e suo palese erede letterario"(4), come si è espresso John Pocock.
Alla fine, per farsi una ragione che spieghi la causa di una simile trascuratezza, si può sospettare che proprio la forte amicizia che lo tenne legato ad Harrington, particolarmente lodata da Aubrey, che apprezzò la fedeltà di Neville nei confronti dell'antico amico in disgrazia e decadenza fisica, abbia potuto nuocere alla sua conoscenza. La 'partecipazione' o influenza a un testo chiave del repubblicanesimo moderno, ipotizzata (forse in quel caso maliziosamente) dal grande pensatore politico inglese, in ogni caso avrebbe dovuto rendere l'autore del Plato redivivus degno di considerazione da parte degli studiosi. Del resto la condivisone di ideali ed idee repubblicani attestata nella vita e negli scritti dei due amici, legittimano la battuta hobbesiana, ma di fatto la debole fama di Neville, immeritata già rispetto a queste considerazioni preliminari, rimane legata al ricordo dell'amico.
2. L'importanza di Neville si raccoglie infatti nelle non molte notizie che abbiamo della sua vita, che ci dicono del suo impegno politico ed intellettuale nella varie fasi della rivoluzione inglese e, della susseguente restaurazione. Henry era discendete di ciò che era stata, nel Quattrocento, la più importante famiglia del Regno, quando per una combinazione ereditaria e per una serie di vittorie nella guerra delle due rose, Richard, detto The Kingmaker per essere l'alleato decisivo di Richard di York (e poi del figlio di questi), si trovò ad unire su di sé i titoli nobiliari della contea di Warwick e di Salisbury. Titoli che andarono persi nel 1570 dal tradimento di Charles. Le vicende dei Neville andrebbero seguite con particolare interesse, dato che si intrecciano in modo decisivo, anche per motivi parentali, con il sorgere della dinastia Tudor, e con una figura eminente quale quella di Reginald Pole, umanista e cardinale che si oppose al divorzio del suo re e antico benefattore Enrico VIII. In questa fitta e complicata trama di eventi e parentele, proprio il cardinale Pole rappresenta un aggancio fondamentale tra l'aristocrazia inglese, da cui discenderà Henry, e l'Italia di Machiavelli. Sua è l'espressione più antimachiavellica della prima metà del Cinquecento, che inaugurò la stessa categoria dell'antimachiavellismo, quando nella Apologia ad Carolum definì il Principe un libro "libro scritto con il dito del diavolo" e il suo autore come "nemico del genere umano"(5).
Henry Neville, prima del suo diretto impegno politico e quando ancora non aveva completato gli studi universitari ad Oxford, viaggiò per l'Europa, rimanendo legato, come molti repubblicani inglesi di quel periodo, all'Italia e a Firenze in particolare. "Verso il 1645, mentre la prima guerra civile stava raggiungendo il suo culmine, Henry ritornò in Inghilterra"(6), e si arruolò nell'esercito parlamentare. Ma la carriera pubblica, aggiunge la Robbins, seguendo le supposizioni delle principali biografie(7), sembra iniziare dopo l'esecuzione del re nel 1649. Infatti, sappiamo dalla voce curata da J. M. Riggs per il Dictionary of National Biography, "sebbene apparentemente non in parlamento, fece parte della Goldsmiths' Hall committee sui delinquenti nel 1649 (per raccogliere denaro dai patrimoni confiscati, precisa la Robbins), e fu posto nel Consiglio di Stato nel 1651"(8).
Membro del Parlamento, dunque, fino ad essere segretario del Consiglio di Stato, il governo che aveva condannato a morte Carlo I, si oppose, come i repubblicani intransigenti (Vane, Sidney e Ludlow), al potere personale di Cromwell, finché fu espulso nel 1653 dal Rump dai soldati e costretto a lasciare Londra e vivere in un ritiro semiforzato. Tentò qualche anno dopo, nel 1656, di farsi rieleggere nel collegio di Reading, ma sebbene avesse riportato abbastanza voti per ottenere uno dei cinque seggi, fu battuto da candidati cromwelliani in elezioni che risultarono irregolari per le violente pressioni esercitate dallo Sceriffo. Neville lo citò in giudizio, e non fu il solo caso in cui si accusò il governo di intervenire illecitamente in favore dei candidati di osservanza cromwelliana, ma perfino giudici come John Vaughan dichiararono la difficoltà di dirimere una questione così complicata sotto il profilo legale e giudiziario. Nel caso di Neville, il giudice si rimise all'autorità del Parlamento, e lì se ne discusse tra il 1659 e il 1660, ma non si arrivò mai a un verdetto, malgrado fosse investita della faccenda anche la Exchequer Chamber(9).
Ma in realtà la vita parlamentare fu fortemente condizionata da Cromwell, il quale nel '53, quando ancora Neville era deputato, aveva sciolto con la forza il Rump (ciò che rimaneva del Long Parliament dopo la cosiddetta purga di Pride del dicembre del 1648 che aveva avviato la riforma dello Stato), convocato e nuovamente sciolto un altro parlamento nello stesso anno (il cosiddetto Barebones o Piccolo Parlamento), quando nel dicembre, con l'Instrument of Government, fu istituito il Protettorato. I successivi Parlamenti del 1654, del '56 e del '58 o furono quasi subito sciolti (il primo e il terzo) o subirono una pesante epurazione.
Ancora una volta la sua vita politica sembra riprendere grazie alla scomparsa del grande nemico del momento, in questo caso il Lord Protettore. Neville fu infatti rieletto nel Parlamento nel 1659, sempre nel collegio di Reading, l'anno dopo la morte di Cromwell, sotto il Protettorato di Richard Cromwell, che era succeduto al padre nella più alta carica del Commnwealth. Ma i nemici di Neville continuarono a lavorare contro di lui, accusandolo di ateismo e blasfemia, un modo per espellerlo dal Parlamento. Sembra infatti che Neville avesse detto di preferire Cicerone alla Bibbia e questo fu sufficiente per gridare all'eresia. La questione, come riportano anche i diari di alcuni personaggi eminenti di quel periodo, fu portata al dibattito parlamentare, ma a difesa di Neville intervennero autorevoli commonwealthmen che scongiurarono il tentativo di allontanarlo dal Parlamento.
È probabile che queste avversità intervenissero per le sue posizioni rispetto alle questioni più urgenti per la situazione politica del Paese. Neville si prodigò perché alcuni oppositori di Cromwell fossero liberati dalla prigione, e soprattutto non deve avergli giovato la sua insistenza per evitare di riconoscere Richard null'altro che come capo di Stato de facto, dato che pensava che sia il Protettore che la Camera dei Lord fossero impropriamente costituiti. Egli era per "a single person and two houses", ma se i Cromwell aspiravano ad essere dei re, disse Neville, allora gli Stuart avevano un titolo migliore. In tal senso, in un frangente fluido e teso, si opponeva alla concentrazione di potere nelle mani del Protettore, il quale pericolosamente aveva il controllo delle forze armate. Come sosteneva allora e avrebbe scritto nel Plato redivivus, le nazioni perdono la loro libertà quando i loro governanti detengono il potere militare senza alcun controllo.
Il 27 gennaio del 1659 Richard Cromwell convocò un nuovo parlamento per cercare un appoggio contro l'esercito che rifiutava di accettarlo come erede del padre. Un tentativo inutile, dato che nella seduta del 7 maggio di quell'anno alcune frange repubblicane e lo stesso esercito si accordarono sulle sue dimissioni e il Lord Protettore fu costretto ad abdicare. Così Neville, che aveva partecipato ad entrambe le decisive sessioni (quella di gennaio e l'altra di maggio), nelle quali con Henry Marten e John Wildman aveva portato avanti le tesi harringtoniane, fu nuovamente rieletto nel Consiglio di Stato insieme a Sidney. Ma dopo alcuni mesi, il 13 ottobre, un colpo di stato guidato da Lambert esautora il Parlamento. Il Committee of Safety, un governo di salute pubblica espressione dell'esercito, viene posto in carica per estromettere il Consiglio di Stato.
Ciò che è curioso in questo frangente caotico, e che non è mai stato approfondito dagli storici, è che Harrington e Vane, tra gli altri, vengono cooptati in questo governo del nuovo regime, mentre Neville ed altri membri del deposto Consiglio si oppongono alla nuova situazione, considerandosi l'unica autorità legittima, fino a cercare di reclutare forze in propria difesa. Non dunque una contrapposizione teorica, ma una situazione che poneva Neville addirittura nella illegalità costituzionale, e Harrington nel versante del potere legittimo e quindi contrario a quello che sosteneva l'amico. La confusione sulle vicende di quei mesi si infittisce allorché sappiamo che Harrington organizzò un club, chiamato Rota, che si riuniva nello stesso periodo in cui gli amici erano divisi sulla posizione da prendere nei confronti del governo militare. Il Rota, come è noto, diverrà il celebre luogo di incontro in cui i repubblicani discuteranno le questioni politiche del Paese e "dedicated to devising model republican constitution"(10) e fu oggetto di violenti attacchi di ispirazione monarchica e di satire che descrivevano i repubblicani di contemplare il governo della luna e invitavano Harrington di mandare i suoi aforismi in Jamaica, a dimostrazione della importanza che assunse nei pochi mesi di vita. Come commenterà John Aubrey, "i dibattiti parlamentari erano ben ispidi al confronto". Ma, altra testimonianza preziosa in Brief Lives, la dissoluzione del club avvenne in concomitanza e a causa della restaurazione: "upon the unexpected turne upon generall Monke's comeing-in, all these airie modells vanished".
Gli eventi corrono tutti verso questa soluzione. Così anche il nuovo governo militare finisce i suoi giorni a dicembre, quando un'altra sessione del Parlamento è convocata (per essere subito sciolta), e ancora una volta Neville vene eletto nel nuovo Consiglio di Stato.
Tuttavia le vicende personali, anche quelle di repubblicani come Harrington e Neville, non sono esenti da ambiguità(11), come sottolinea Nicastro, né i fatti sembrano essere del tutto chiari. È possibile che lo stesso Neville, in febbraio nominato dal Parlamento Presidente, sia latore di una lettera di Carlo II che il Parlamento comunque si rifiuta di ascoltare. Ciò che è certo è che la situazione è ancora una volta nelle mani dell'esercito, a cui lo stesso Parlamento si affida. Inevitabilmente il generale George Monk è arbitro delle sorti del Paese e la restaurazione appare fatale. "A dispetto dei segni e portenti"(12), come si esprime eloquentemente la Robbins per sottolineare il coraggio del deputato repubblicano, Neville portò in Parlamento una mozione per un giuramento che rinnegava Carlo. Se ciò è vero, questo è in contrasto con la notizia riportata da Nicastro, a meno che non sfuggano particolari preziosi che intervengano a dare luce in circostanze magmatiche.
Monk comunque provvede a reintegrare a Westmister, i secluded members (i parlamentari espulsi con la purga di Pride per tendenze filomonarchiche), guidati da William Prynne, e questa volta - è il 21 febbraio, lo stesso giorno il Rota Club cessa le sue riunioni - fu Neville, tra i più aperti oppositori della monarchia, con altri trentadue Rumpers, a dover lasciare il Parlamento, che del resto Monk avrebbe finito con il destituire il giorno dopo. Le nuove elezioni istituirono un Parlamento favorevole alla monarchia, che venne così proclamata nella seduta del 1 maggio.
I repubblicani vengono perseguitati: Sidney e Ludlow andarono all'estero, dove furono raggiunti da alcuni attentatori, e l'anno successivo anche Harrington fu arrestato e imprigionato nella Torre di Londra.
"At the Restoration Neville became a target for informers"(13), ma sulla sua sorte a questo punto le fonti non danno sufficienti chiarimenti. Zera Fink non sembra credere all'arresto, quanto piuttosto all'ipotesi che Neville "sought safety in inconspicuous retirement"(14). La Robbins ha probabilmente seguito questa indicazione, e propende per un rifugio a Warfiled o nel Bellingbear, dichiarandosi contraria alle notizie sulla prigionia ("statements that he was improsoned at the Restauration seeem to be incorrect"(15), in quanto dalla corrispondenza che ebbe in quel periodo suo fratello Richard non risultano accenni né preoccupazioni su un eventuale prigionia di Henry. Di diverso avviso il Dictionary of Seventeenth-Century British Philosophers (che pure ha nella sua bibliografia Two English Republican Tracts) secondo il quale Neville sarebbe stato arrestato, interrogato e chiuso nella Torre di Londra, fino ad ottenere un passaporto per andare nel 1664 all'estero, data in cui effettivamente Neville si recò in Italia. Secondo Riggs, infine, che si basa tra gli altri su Wood, citato dalla Robbins abbondantemente, Neville sarebbe stato sospettato di esser coinvolto nella cosiddetta sommossa dello Yorkshire, e quindi arrestato e chiuso nella Torre, ma non essendoci prove contro di lui, rilasciato l'anno successivo(16). Ma Riggs sostiene con eccessiva approssimazione che da allora Neville "sembra avere vissuto in ritiro fino al giorno della sua morte, il 22 settembre 1694", quando è omesso almeno l'importante soggiorno italiano nella corte del Granduca di Toscana, e, soprattutto, il suo intervento nel dibattito politico attraverso la pubblicazione del Plato redivivus, nel 1681.
In ogni caso i migliori dettagli si trovano in Nicastro, che adopera prudenza sulla sorte di Neville all'indomani della restaurazione. Un arresto è possibile nel clima delle cospirazioni che il ritorno degli Stuart determinò, e d'altra parte gli altri repubblicani ebbero guai: Ludlow e Sidney trovarono prudente espatriare; Wildman, autore di alcuni pamphlets, collega di Neville alla Camera e frequentatore del Rota club, e lo stesso Harrington (nel dicembre del 1661) furono arrestati e rinchiusi nella Torre di Londra. A quest'ultimo fu perfino chiesto se conoscesse Neville. Domanda curiosa, dato che era cosa evidente e notoria che i due fossero intimi (egli del resto rispose "molto bene"), e malgrado le lettere di Neville venissero aperte e controllate, non ci sono notizie di un suo arresto.
Ma è nell'ottobre del 1663 - e qui la puntuale ricostruzione di Nicastro(17) (che segue in questo caso la Robbins(18)) si ricongiunge con quella più 'veloce' del Dictionary - che Neville viene condotto alla Torre di Londra per qualche mese sospettato di esser coinvolto nella cosiddetta sommossa dello Yorkshire.
Così anche Neville ebbe a soffrire alcuni mesi di reclusione, un soggiorno certamente non confortevole quello nella Torre, dato che il Colonnello John Hutchinson, che fu arrestato insieme a lui, doveva morire in quella detenzione e lo stesso Harrington, deportato poi all'isola di S. Nicola, non si riprenderà più dalle pene della prigionia. Sembra che Neville abbia perorato con determinazione la propria causa, e i suoi sforzi ebbero successo fino ad ottenere un passaporto per andare all'estero, e nel maggio 1664, al suo rilascio, effettivamente si recò in Italia.
Ciò che possiamo supporre, comparando il destino dei repubblicani dopo la svolta monarchica del Paese, che per almeno il primo periodo ciò che consentì di salvare Neville dal proposito vendicativo del nuovo re che, malgrado le dichiarazioni di amnistia concordate con il generale Monk, intendeva punire i regicidi del '49, può essere stata la circostanza che egli non abbia fatto parte dell'Alta commissione che condannò a morte Carlo I. Inoltre può avergli giovato anche la sua opposizione a Cromwell, l'odiato Lord Protettore che i monarchici dopo la restaurazione disseppelliranno (insieme ad Ireton) e ne impiccheranno il cadavere.
Certo è un fatto che Neville non subì un'ostinata persecuzione di Cromwell, rispetto ad altri che pure furono ostili alla sua dittatura, e rimane anche singolare il fatto che la sua stessa reclusione nella Torre, al ritorno degli Stuart, non gli abbia impedito di difendersi dalle accuse fino ad ottenerne la libertà. Anche questa una circostanza rilevante per un uomo che aveva rivestito le massime cariche del Commonwealth, se si considera che sia Harrington che Sidney, per fare due nomi celebri e assai vicini a Neville (il secondo era anche un suo cugino) ebbero processi clamorosamente irregolari e morirono o sul patibolo, o dopo una penosa detenzione, finendo i loro anni con la salute irrimediabilmente compromessa(19). Che poi anche le accuse per Neville fossero infondate, come è più che lecito ipotizzare (visto peraltro l'esito favorevole della sua difesa in tribunali ligi al potere regio), era un espediente a cui ricorrevano gli uomini di governo, sia repubblicani che realisti, per perseguitare con ogni mezzo i propri oppositori.
L'anno dopo la reclusione avviene il prudente viaggio in Italia, che si protrae fino al 1668, l'anno della pubblicazione dell'Isle of Pines, quando Neville rientra in Inghilterra.
Ma anche la relazione con il Medici merita una considerazione che aumenta le perplessità sopra accennate. Il Granduca di Toscana era parente lontano del monarca inglese e quando si recò in Inghilterra nel maggio del 1669 fu ospite dei fratelli Neville nella loro residenza nel Berkshire, in una località tra Londra ed Oxford. Cosimo III si allontanò dai suoi ospiti solo per un pranzo offerto in suo onore dal re inglese, il quale evidentemente tollerava la frequentazione del cugino italiano con il noto repubblicano inglese. O meglio, il repubblicano inglese, che più volte aveva seduto nel Parlamento repubblicano e nel Consiglio di Stato fino a proporre un pronuncia contro il ritorno degli Stuart, era ben libero di ospitare un principe nella sua residenza.
In sostanza, a parte la reclusione tra il '63 e il '64, Neville passò abbastanza indenne, rispetto ai suoi compagni repubblicani, i periodi turbolenti della guerra civile, della dittatura cromwelliana, della restaurazione monarchica e della svolta costituzionale dopo la gloriosa rivoluzione.

2. Il Plato redivivus

"Neville costituisce un filo di continuità attraverso le tre generazioni del repubblicanesimo inglese del diciassettesimo secolo, dato che egli visse abbastanza a lungo da conoscere ed influenzare la più giovane generazione di commonwealthmen che era emersa dopo la Rivoluzione del 1688-9 e consegnare a loro la fiaccola delle idee di Harrington"(20).
Quando nel 1681 fu pubblicato il Plato redivivus Neville aveva appena superato i sessant'anni e aveva alle spalle l'esperienza diretta della guerra civile e dell'Interregno, vissuti tra la Camera dei Comuni e il Consiglio di Stato, l'opposizione a Cromwell e il carcere, nonché l'attività pamphlettistica e letteraria e il sogno repubblicano spento dalla restaurazione Stuart. Tuttavia per i commonwealthmen nuove speranze sembravano potersi aprire dal dissidio tra i sostenitori del re e i Whigs, divisi da questioni che intrecciano politica e religione nella cosiddetta Exclusion crisis. Carlo II infatti non aveva eredi e a succedergli aveva designato il fratello Giacomo, di tendenze filocattoliche. Il Parlamento si opponeva a questa insistente richiesta del re e ciò determinò un attrito nel precario equilibrio tra le due principali istituzioni del regno. Venne così a porsi ancora la questione delle rispettive prerogative dietro le manovre dei partiti di appoggiare i candidati alla corona: Giacomo appunto, e il duca di Monmouth, figlio illegittimo del sovrano sostenuto dai Whigs. Questi votarono alla Camera dei Comuni un primo Exclusion Bill nel 1679, ma il re impedì la votazione alla camera dei Lord prorogando il Parlamento in Maggio, e per più di un anno, fino all'autunno del 1680, non convocò le aule. Quando il Parlamento si riunì nuovamente, ancora una volta alla Camera bassa fu votata la legge per impedire la successione al fratello del re, ma la Camera dei Lord bocciò il provvedimento sebbene di stretta misura. A questo punto sembrava decisivo il Parlamento che si sarebbe riunito ad Oxford nel marzo del 1681. "Complotti e controcomplotti" erano nell'aria, e le circostanze sotto le quali avveniva questa sessione parlamentare "erano straordinarie", i whigs si presentarono "con bande di uomini armati". "Carlo similmente apparve in forze, e la strada per Oxford era piena di suoi supporter". Per Zera Fink, in sostanza, "Civil war indeed seemed a likely outcome"(21).
È in questo stato di cose che cade la composizione del Plato redivivus, un clima tutt'altro che "favorevole alla riflessione"(22). La 'fiaccola harringtoniana' portata da Neville doveva essere trasmessa alle giovani generazioni di repubblicani in un contesto simile a quello che aveva determinato l'esecuzione di Carlo I, di cui lo stesso Neville era stato testimone. E date le circostanze, il suo contributo teorico costituirà un tratto decisivo nello sviluppo del costituzionalismo inglese.
L'opera, in forma di dialogo, fu pubblicata nel 1680, e riapparve in una veste leggermente ampliata l'anno successivo. La seconda prende in esame più dettagli sul dibattito dell'Exclusion Crisis, focalizzando l'attenzione sulla candidatura del duca di Monmouth contro quella del duca di York, il fratello del re, e come la precedente ha l'obiettivo di "influenzare il re e il Parlamento" con una discussione che procede dalla ricognizione storica dell'Inghilterra, la causa dei mali che l'affliggono e l'ipotesi della migliore forma di governo tracciata sull'esempio del modello veneziano.
Nella prefazione dell'opera si afferma che si tratta di una ripetizione dei principi di Oceana, e in effetti è dichiarato che "il dominio è fondato sulla proprietà"(23). Secondo Neville i problemi dell'Inghilterra sono dovuti all'incapacità di adattare la costituzione ai cambiamenti intervenuti nel corso dei tempi alla proprietà. È questa, secondo Pocock, "la tesi cruciale" di Neville, secondo cui "il declino del baronaggio aveva lasciato che il re, e il suo potere esecutivo con le connesse prerogative, dovessero fronteggiare una massa di sudditi "comuni", rappresentati in parlamento, sui quali il sovrano non aveva controllo alcuno. E allora fino a che non si fosse adottata una soluzione costituzionale […] mediante la quale si avesse una redistribuzione del potere, i rapporti tra corte e comuni erano destinati a rimanere fluidi e incerti"(24). Questa analisi della storia inglese aveva una chiara ispirazione di teoria politica.
Pur professando lealtà "ad una della migliori monarchie del mondo"(25), il Plato redivivus spingeva Carlo II a ridurre i propri poteri. Neville voleva che il Parlamento convincesse il re, se possibile con la ragione ma anche con insistenza, a trasferire i poteri di governo alla Camera dei Comuni. Gli eventi successivi dimostrarono che, almeno in questa direzione, fu un appello vano.
Il passaggio che ci sembra fondamentale dell'opera, e che è in realtà, se non spingiamo troppo l'interpretazione del suo pensiero, un tratto che indica l'essenza dello stile repubblicano di Neville, tra ironia e realismo, imparato dai canoni del suo "divino Machiavelli"(26), risiede proprio nel tentativo di ricondurre il potere regale in pratiche che, a posteriori, definiremmo costituzionali: "terremo per fermo che, reggendo il re nelle sue mani la suprema esecuzione delle leggi, non si può ragionevolmente supporre che egli sia disposto ad osservarle allorquando egli sia in grado di scegliere se farlo o no, essendo cosa naturale che nessun uomo, ove possa evitarlo, faccia alcunché contro il proprio interesse. Ora, quando avrete considerato bene che cosa possa essere quella che dà al re la libertà di decidere qual parte della legge debba o meno aver corso, allora vedrete che questa cosa è il grande potere che re ha nel governo della cosa pubblica. Quando il Parlamento avrà scoperto ciò, indubbiamente esso si farà a chiedere a Sua Maestà una diminuzione delle sue regali prerogative soltanto in quelle materie che toccano i nostri beni supremi, e cioè le nostre vite, le nostre libertà e le nostre proprietà, e lascerà il suo regale potere integro e intatto in tutte le sue altre branche".(27)
Zera Fink osservò con acume e non senza eleganza a quali conseguenze portava la proposta politica del Plato redivivus, una lettura che non ha trovato purtroppo adeguato sviluppo nelle successive interpretazioni: "Neville sottolinea che egli vorrebbe abbattere le "prerogative reali soltanto in quelle materie che toccano i nostri beni supremi, e cioè le nostre vite, le nostre libertà e le nostre proprietà". Carlo può benissimo essersi chiesto perché egli abbia inserito la parola "only""(28). "E lascerà - la conclusione di Neville, che la Fink ha mancato di aggiungere alla sua citazione per rendere più gustosa e penetrante l'osservazione - il suo regale potere integro e intatto in tutte le sue altre branche".

3. La fortuna

È stato più volte sottolineato come l'Inghilterra si sia scoperta repubblicana solo dopo il regicidio, nel senso che un esito così drammatico per la monarchia inglese era a quel tempo impensabile, dato il sostegno diffuso, al di là delle turbolenze sociali e politiche, di cui godeva la Corona. Il Protettorato cromwelliano, che pure nasceva dalla rivoluzione repubblicana, e la successiva restaurazione, cancellando l'esperienza istituzionale della repubblica, potrebbero lasciare supporre che il movimento intellettuale e politico repubblicano avesse esaurito la propria parabola. Se fosse così, il rilievo di Neville e dei repubblicani inglesi, marginalizzato nell'attività politica di quegli anni attorno alle istituzioni della nuova forma di Stato, avrebbe un'importanza relativa.
A partire dagli anni Sessanta si è imposto nella comunità scientifica un modo differente di studiare la storia intellettuale. La tunnel story di John Pocock(29), ha mostrato infatti come le idee e gli ideali repubblicani inglesi non solo siano sopravvissuti ai contingenti sbocchi istituzionali di un breve frangente storico, ma costituiscono l'esito dell'elaborazione di una concezione della libertà sviluppatasi con la filosofia politica aristotelica e ciceroniana, che ha avuto il suo apogeo culturale e politico nell'umanesimo civile fiorentino e, proprio attraverso l'esperienza repubblicana inglese (con quella delle repubbliche "sorelle" olandesi), abbia continuato ad alimentare il dibattito politico nella lotta d'indipendenza delle colonie britanniche fino a costituire la matrice ideologica dei nascenti Stati Uniti d'America.
E in effetti i repubblicani inglesi del XVII ebbero una singolare ammirazione per Niccolò Machiavelli. In Oceana, una delle opere maggiori del pensiero politico inglese, il Segretario fiorentino è descritto come il più grande pensatore politico dei tempi moderni, e da Milton a Sidney, a Moyle, Osborne e Nedhaam, troviamo sempre un riferimento costante, argomentato ed elogiativo dell'autore dei Discorsi. Questo apprezzamento particolarmente accentuato da parte dei commonwealthmen di quel periodo per l'autore dei Discorsi bilancia una tendenza altrettanto larga nella cultura inglese, che diffusasi inizialmente nella Francia, faceva dell'autore de il Principe uno scrittore maledetto e demoniaco. Questa vocazione tra i repubblicani a riferirsi all'autorevolezza del "divino Machiavelli" si accentua in Neville, il quale, non mancando anch'egli di elogiare il Segretario fiorentino nelle sue opere, ne diviene il cultore più eminente, traducendone per la prima volta in lingua inglese l'opera omnia.
Neville pertanto rappresenta una figura di eccezionale interesse per la comprensione storica della cultura politica inglese del Seicento, per essere egli stato lo studioso più acuto, sistematico e non occasionale di Machiavelli, introducendolo con perfetta competenza nel dibattito politico di quegli anni.
Il problema è che su Neville è stato scritto davvero molto poco. Neppure gli studi specifici sulla fortuna di Machiavelli nell'Europa moderna di Giuliano Procacci, che oggi rappresentano una guida irrinunciabile in questa strada, accennano alla complessa ed importante attività di traduzione di Neville. Probabilmente Procacci ha valutato le indicazioni di Felix Raab, la sua autorità sulla ricezione machiavelliana in Inghilterra(30), in maniera eccessivamente prudente, e i dubbi avanzati in The English Face of Machiavelli sulla paternità della traduzione di Neville - in realtà risolti dallo stesso Raab - suppongo abbiano finito per avere determinato il silenzio di Procacci. Comunque sia, occorre ritornare per questo aspetto al 1964, la data in cui è stata pubblicata la brillante tesi di dottorato dell'allievo di Trevor-Rooper per avere le migliori indicazioni.
Il libro di Raab infatti è la sintesi, per quell'epoca, degli studi sulla questione del machiavellismo, verificata attraverso una ricerca minuziosa. Così sappiamo che la prima traduzione in inglese di un'opera machiavelliana - The Arte of Warre - è del 1563 ad opera di Peter Whitehorne e dedicata alla regina Elisabetta. Tra il 1580 e il 1610 circolano in Inghiltera delle traduzioni manoscritte del Principe e dei Discorsi nonché le edizioni pirata in italiano delle medesime opere, stampate nel 1584 da John Wolfe a Londra ma recanti la falsa dicitura di Palermo come luogo di edizione. Tre anni dopo lo stesso stampatore pubblica, sempre in italiano e sempre con falsi luoghi di edizioni, le Istorie Fiorentine (Piacenza) e l'Arte della Guerra (Palermo). Finchè nel 1595 vengono tradotte le Istorie da Thomas Bedingfield e soprattutto, rispettivamente nel 1636 e 1640, Edward Dacres volge in inglese i Discorsi e il Principe.
Dopo alcune ristampe delle traduzioni di Dacres, nel 1674 appare finalmente la traduzione e fu edita sotto il titolo: The works of the famous Nicholas Machiavel, Citizen and Secretary of Florence, containing, 1. The History of Florence. 2. The Price. 3. The Original of the Guelf and Ghibilin Factions. 4. The Life of Castruccio Castracani. 5. The Murther of Vitelli, &c. by Duke Valentino. 6. The State of France. 7. The State of Germany. 8. The Discourses of Titus Livius. 9. The Art of the War. 10. The Marriage of Belphegor , a Novel. 11. Nicholas Machiavel's Letter, in Vindication of himself and his writings: All written in Italian, and from thence newly and faithfully Translated into English.
Dunque si tratta dell'opera omnia con un'importantissima aggiunta, oltre all'apocrifo machiavelliano sui guelfi e ghibellini, vale a dire The Letter, in cui è evidente l'artifizio letterario tendente ad attribuire a Machiavelli uno scritto composto dieci anni dopo la sua morte.

Colmare questa lacuna è davvero difficile. Zera Fink, nel suo pionieristico saggio del 1945 sul pensiero politico inglese del Seicento, dedica a nostro parere uno dei migliori commenti sul Plato Redivivus, contestulizzandolo nella problematica apertasi con la crisi sull'Esclusione.
Peres Zagorin, altro celebre studioso degli avvenimenti durante la rivoluzione, lo cita soltanto un paio di volte, in nota, per riportare ancora una volta la questione dell'attribuzione della celebre Lettera di un Ufficiale dall'Irlanda, il pamphlet che riprende le tesi espresse da Harrington in Oceana, e poi per identificare gli autori di un altro pamphlet, che si erano firmati con le sole iniziali. Tra queste proprio le H N. Un problema analogo di attribuzione, questa volta concernete i tre scritti non machiavelliani presenti nella traduzione di Neville, di cui il più significativo è certamente la Lettera di Machiavelli, è discusso da Felix Raab nella seconda appendice del suo libro The English Face of Machiavelli(31). Nel caso specifico, ad oggi sono le migliori argomentazioni sulla paternità di Neville dell'apocrifo machiavelliano. Il fatto che qualcuno abbia supposto autentica The Letter può semmai dimostrare la padronanza e familiarità dell'autore con gli scritti del Segretario fiorentino(32).
Rimane a tutti gli effetti preziosa dunque l'edizione del Plato Redivivus di Caroline Robbins, pubblicata nel 1969 insieme a An Essay upon the Constitution of Roman Government di Walter Moyle nel Two English Republican Tracts, se non altro perché ci consegna l'opera maggiore del pensatore e uomo politico repubblicano, e anche perché fornisce finalmente una specifica ed importante biografia del suo autore ricavata principalmente dai lavori di Anthony a'Wood, contemporaneo di Neville, e che fu maestro proprio dell'Aubrey. Dopo di ciò, benché il pensiero politico del repubblicanesimo inglese abbia suscitato una sempre maggiore attenzione da parte degli storici, soprattutto da quando vengono riconosciuti i suoi debiti intellettuali con l'umanesimo italiano ed è interpretato come fase di elaborazione ideologica di idee che culmineranno nella stagione costituente americana, Neville, che di Machiavelli fu tra i repubblicani inglesi del XVII secolo il maggiore cultore, sottoponendosi alla poderosa fatica della traduzione delle opere del "Cittadino e Segretario di Firenze", è rimasto, nei testi che approfondiscono quella stagione intellettuale, una figura assolutamente minore, ritornando alla collocazione che da Aubrey a Zogorin gli è stata assegnata.
Sviluppando alcune suggestioni della Robbins, John Pocock, che ha dato un impulso straordinario agli studi sulla storia intellettuale del pensiero politico repubblicano, ha proposto un'interpretazione del Plato Redivivus nel contesto intellettuale della restaurazione come mediazione e adattamento della teoria politica harringtoniana alla mutata situazione politica ed istituzionale inglese dopo il 1660. Al di là della plausibilità dell'autorevole spiegazione, rimane il fatto che Neville non sembra sfuggire al destino di essere letto e criticato in funzione della vicinanza ad Oceana, come se non avesse avuto un'autonoma elaborazione intellettuale.
Gli studi più recenti ed importanti sui repubblicani inglesi, specialmente quelli di Quentin Skinner(33), che ha ripercorso e interpretato lo sviluppo della teoria repubblicana della libertà prendendo in esame una serie di autori che furono i protagonisti di quelle vicende politiche e i maggiori teorici di quel contesto culturale, e Jonathan Scott(34), che ha dedicato una speciale attenzione alla vita e all'opera di Algernon Sidney, non approfondiscono il peculiare contributo del traduttore inglese di Machiavelli.
È inutile dire che la lacuna non giova alla comprensione della storia intellettuale della rivoluzione inglese.

4. Neville in Italia

La storia della fortuna di Machiavelli in Inghilterra ha avuto importanti cultori italiani, Napoleone Orsini(35) a Mario Praz innanzitutto, per finire con i saggi di Giuliano Procacci. Nessuno di loro ha mai, incredibilmente, incrociato Henry Neville, che, come detto, rappresenta il passaggio cruciale di quella storia.
Il celebre testo di Praz, Machiavelli in Inghilterra ed altri saggi, contiene uno studio specifico su Machiavelli e gl'Inglesi dell'epoca elisabettiana(36), in cui viene seguita la "leggenda nera" dell'autore del Principe nel Paese di Shakespeare.
Sulla scia delle ricerche di Orsini, Praz ha infatti evidenziato come il nome del Segretario fiorentino già compare in Inghilterra in un'accezione sinistra, prima ancora che sia tradotta in inglese nel 1577 l'opera denigratoria di Gentillet, composta del 1576 e stampata poi nel 1602. La tradizione demonica del Principe e del suo autore, che Reginald Pole contribuì in modo decisivo ad accreditare, si fonda su precise operazioni ideologiche che servivano a 'demonizzare' piuttosto l'avversario del momento.
Il saggio di Mario Praz è di particolare interesse perché individua nelle prime traduzioni del termine politica l'originario principio di travisamento e tradimento dell'autentico pensiero machiavelliano. Politica assume un valore negativo, ed è assimilata alla figura stessa di Machiavelli, con cui divine una sorta di sinonimo. Di più, "i termini Machiavelli e Satana divennero a tal segno equivalenti, che, laddove in principio le astuzie attribuite a Machiavelli eran chiamate diaboliche, più tardi le astuzie del diavolo furon dette Machiavellian"(37).
Ma oltre alla fama diabolica, vi è pure l'ammirazione per Machiavelli, "whose genius had illuminated all the dark places of policy"(38), come si espresse Maculay per riabilitarne a metà Ottocento il nome. Praz allora sottolinea come "persone colte, statisti, pensatori, filosofi, potevano leggersi Machiavelli nell'originale, e un intraprendente stampatore di Londra, Wolfe, provvide ai bisogni di questo pubblico col divulgare le opere del Fiorentino falsando il luogo di stampa (Palermo e Roma invece di Londra) tra il 1584 e il 1588, così riuscendo ad eludere la censura"(39). La quale censura, mentre incoraggiava la diffusione del Contre-Machiavel per motivi di propaganda anticattolica(40), impediva la pubblicazione delle prime traduzioni del Principe e dei Discorsi, permettendo tuttavia quella di opere ritenute meno pericolose come l'Arte della Guerra (1562) e le Istorie fiorentine (1595). Solo nel 1640 veniva pubblicata la prima versione a stampa del Principe di Edward Dacres. Questi sono gli importanti presupposti del contesto in cui si muove la ricezione di Machiavelli in Inghilterra, che curiosamente mancano della tappa decisiva: la prima traduzione dell'opera omnia di Machiavelli.
Solo le importanti ricerche di Anna Maria Crinò(41) hanno finalmente posto in risalto in Italia l'importanza di Henry Neville, che dell'Italia ebbe una grande passione. La Crinò ha studiato le relazioni tra la Toscana del Seicento e l'Inghilterra, e rinvenuto tra gli archivi di Firenze e di Reading alcune lettere e notizie riguardanti sia il soggiorno di Neville in Italia, avvenuto in età giovanile, dopo avere lasciato l'Università di Oxford, sia il successivo viaggio del Gran Duca di Toscana Cosimo III in Inghilterra, di cui Neville era divenuto amico, nonché i rapporti degli ambasciatori di quest'ultimo che forniscono dettagli interessanti che illuminano l'amicizia tra il repubblicano inglese e il principe italiano.
Nel 1956 Vittorio Gabrieli ha pubblicato per Einaudi Puritanesimo e libertà, Dibattiti e libelli. Si tratta di una raccolta di testi che vanno dal 1647 al 1652, le date che rappresentano "i quattro anni cruciali della rivoluzione puritana", come spiega lo stesso Gabrieli. La selezione ci permette di leggere in italiano degli estratti dai Dibattiti di Putney, "uno spettacolo inconsueto di ufficiali e soldati riuniti in un'assemblea democratica a discutere il futuro destino di tutto il paese", che è senz'altro "un fenomeno senza precedenti"(42); e alcuni scritti di Liburne, Walwyn e Winstanley. Tuttavia, dal Saggio introduttivo alla finale nota sugli autori dei "pamphlets" e sulle principali persone da esse nominate non c'è traccia di Neville, che fu straordinario pamphlettista, né, a dire il vero, di altre figure di primo piano della rivoluzione inglese, quali Francis Osborne o Marchmont Needham, per tacere degli stessi Harrington e Sidney.
Dopo di ciò, a parte la pubblicazione di alcune lettere tratte dalla The Neville Paper da parte della stessa Crinò(43) (sulla cui importanza basta dire che risultano tra le fonti utilizzate dalla Robbins), in italiano non esistono che due frammenti delle opere di Neville. Si tratta di una parte esigua, come impongono i testi antologici, del Plato Redivivus, curata per il Mulino da Nicola Matteucci nell'oramai lontano 1980. Un'edizione prestigiosa (la collana è quella diretta da Vittorio de Caprariis) ma che appare inevitabilmente datata, dato che i testi raccolti che vanno da Lilburne a Burke, passando appunto per Harrington, Neville, Milton e Sidney, tutti accomunati e ricondotti al costituzionalismo inglese, che dà il titolo all'antologia(44), meriterebbero oggi ulteriori specificazioni.
Accomunare il filone repubblicano con quello liberale è stato tuttavia un indizio 'profetico', le cui suggestioni andrebbero tenute presenti e approfondite proprio per quel dibattito che si è sviluppato, specialmente negli ultimi tempi tra repubblicani e liberali sul concetto di libertà. Nella sua presentazione Matteucci tiene distinte le due tradizioni per il loro proprium, ma è sottolineato come entrambe abbiano contribuito congiuntamente a creare, anche nella prassi costituzionale anglosassone, quei principi che stanno alla base della democrazia liberale. Se si leggono già in questo contesto gli interventi di Neville nel Plato redivivus, ci si rende conto del contributo originale del suo pensiero politico.
Arriviamo così al 1984, anno in cui appare la traduzione parziale della lettera di Niccolò Machiavelli, il celebre apocrifo composto da Neville quando tradusse in inglese nel 1674 l'opera machiavelliana. Anche questo episodio della produzione di Neville si trova in un'antologia, curata da Enrico Nuzzo e molto ben documentata sotto il profilo della bibliografia e della stessa comprensione del pensiero politico repubblicano inglese del Seicento.
Infine, nel 1988, il compianto Onofrio Nicastro, fine e scrupoloso studioso palermitano e docente all'Università di Pisa(45), ha tradotto e commentato The Isle of Pines, quel pamphlet di Neville che, come con dovizia di particolari spiega il curatore nel suo studio introduttivo, raccolse un notevole successo all'epoca della sua pubblicazione. La biografia nevilliana di Nicastro è oggi sicuramente quella più completa e accurata di cui si possa disporre, così come il suo commento alle vicende dei Pines, che hanno evocato, nella critica letteraria, l'archetipo di Robinson Crosue. Anche le notizie raccolte con passione da Nicastro per ciò che riguarda la fortuna editoriale europea di questa particolare pubblicazione nevilliana rimane un modello di ricerca storiografica, e meriterebbero una valorizzazione di cui neppure l'Inghilterra è stata capace.
Per eccesso di scrupolo, qualche critica può essere avanzata, a parere di chi scrive, per taluni aspetti dell'interpretazione che Nicastro muove per l'autore dell'"invenzione letteraria" - "ci troviamo…di fronte a uno scritto minore di un autore minore"(46) - quando sarebbe forse più opportuno ribadire che la comprensione del repubblicanesimo inglese non può non passare per l'autore del Plato redivivus (e di qualche altro personaggio - penso a Francis Osborne - che la critica ha quasi del tutto trascurato). Anche la bibliografia, minuziosa, erudita, e spesso anche raffinata rispetto alle ricerche riguardanti le specifiche vicende di Neville e delle sue opere, può apparire adesso, relativamente ad alcuni particolari della cornice ideologica e culturale, datata, come è inevitabile per ogni apparato bibliografico sul repubblicanesimo che sia precedente alle ricerche di Skinner o che, per propri motivi, comunque ne prescinde(47).
Tuttavia la traduzione di Nicastro, e la competenza con la quale è presentata al lettore (purtroppo solo) italiano, al quale è offerto opportunamente anche il testo originale e, come detto, una serie di utili appendici, ha il notevole merito di avere anticipato la scoperta che i ricercatori inglesi hanno fatto dell'Isola nevilliana, avvenuta soltanto nel 1999 allorché la Oxford University Press ha ripubblicato quell'opera di Neville in un volume insieme all'Utopia di Thomas More e alla New Atlantidis di Francis Bacon. Quest'ultimo atto editoriale potrebbe sancire l'assoluta dignità del pensiero politico di Henry Neville.

NOTE

(1) Così viene presentato dall'editore Einaudi che ha curato le maggiori traduzioni dei suoi saggi storici, di cui segnaliamo, per il contesto storico ed intellettuale del periodo che stiamo analizzando, almeno C. Hill La formazione della potenza inglese. Dal 1530 al 1780 (1967), Torino, Einaudi, 1977; Id., Il mondo alla rovescia (1972),Torino, Einaudi, 1981; Id., Le origini intellettuali della rivoluzione inglese (1965), Bologna, Il Mulino, 1980, oltre alla celebre biografia di Cromwell e agli studi su Milton.
(2) Per le biografie di Henry Neville esiste l'ormai imprescindibile studio di Onofrio Nicastro - alla cui memoria dedico questo saggio - che, come si dirà in seguito, sarà lo studioso che più di ogni altro approfondirà l'opera e la vita del repubblicano inglese. Ma preziosi aspetti della vita di Neville, a cui Nicastro (come la stessa Robbins) farà riferimento, si trovano in Anna Maria Crinò, che ha studiato le relazioni culturali tra la Toscana e l'Inghilterra del XVII secolo. Le altre fonti principali sono il noto saggio di Zera Fink, l'introduzione della Robbins al Plato Redivivus, il Dictionary of Seventeenth-Century British Philosophers e il Dictionary of National Biography, che a loro volta si rifanno a documenti dell'epoca, come l'opera di Wood o i diari di personaggi che furono coinvolti in quelle vicende. Talvolta tutte queste fonti, che spesso si richiamano a vicenda, sono in contraddizione tra loro o non chiariscono alcuni aspetti, sia pure cruciali, della vita di Neville e delle vicende a cui egli partecipò.
(3) The Brief Lives di John Aubrey (1626-1697) furono pubblicate per la prima volta nel 1949 da O. L. Dick, che raccolse in un volume i 56 manoscritti che l'autore aveva lasciati caoticamente incompiuti alla sua morte, da quando il suo maestro e professore di Oxford, Anthony Wood, lo sollecitò a fornirgli materiale biografico per il dizionario, da lui stesso curato, sugli scrittori ed ecclesiastici di quella università. L'importanza di questo testo risiede nel fatto che Aubrey sia stato in contatto personale con le più eminenti personalità del suo tempo, e che abbia potuto raccontare, dei personaggi descritti, particolari altrimenti sconosciuti.
(4) J. G. A. Pocock, Il momento machiavelliano (1975), Bologna, Il Mulino, 1980, II, p. 716.
(5) G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell'età moderna, Bari, Laterza, 1995, p. 87. Ma sul Pole, ovviamente, si rinvia agli studi di Adriano Prosperi. Cfr. F. Raab The English Face of Machiavelli, A changing interpretation, 1500-1700, London, 1964, pp. 267-272.
(6) C. Robbins, Two English Republican Tracts, Cambridge, Cambridge University Press, 1969, p. 6.
(7) Così anche il The Dictionary of Seventeenth-Century British Philosophers, II, ed. By A. Pyle, Thoemmes Press, 2000, p. 604.
(8) Dictionary of National Biography, ed. by S. Lee, vol XL, London, Smith, Elder & Co., 1894, p. 259.
(9) C. Robbins, Two English Republican Tracts, cit., p. 6.
(10) The Dictionary of Seventeenth-Century British Philosophers, cit., p. 604.
(11) O. Nicastro, Henry Neville e l'isola dei Pines, SEU, Pisa, 1988, pp. 24-25.
(12) C. Robbins, Two English Republican Tracts, cit., p. 11.
(13) The Dictionary of Seventeenth-Century British Philosophers, cit., p. 604
(14) Z. Fink, The Classical Republicans, Northwestern University Press, 1962, p. 123.
(15) C. Robbins, Two English Republican Tracts, cit., p. 11.
(16) Dictionary of National Biography, cit., p. 259.
(17) O. Nicastro, Henry Neville e l'isola dei Pines, cit., p. 25.
(18) C. Robbins, Two English Republican Tracts, cit., p. 12.
(19) Sidney sarebbe divenuto, proprio per il processo farsa che fu costretto a subire nel quale venne condannato in base ad alcune asserzioni scritte nei suoi Discourses, che saranno pubblicati postumi, un mito per le successive generazioni di repubblicani. Harrington subì la censura di Cromwell, ma soprattutto la persecuzione di Carlo II, sebbene fosse stato amico del padre fino ad assisterlo negli ultimi giorni della sua vita.
(20) B. Worden, English Republicanism, in J. H. Burns-M. Godie (eds.), The Cambridge History of Political Thought (1450-1700), Cambridge, Cambridge University Press, p. 458.
(21) Z. Fink, The Classical Republicans, cit., p. 129.
(22) R. Farneti, I repubblicani inglesi, in Il Pensiero politico, Idee Teorie Dottrine, vol. II: Età Moderna, Torino, Utet, 1999, p. 209. Anche altre affermazioni di Farneti, nella stessa frase, suscitano alcune perplessità. Si dice infatti che Neville "si trova a meditare sul disastro determinato dalla dissoluzione della repubblica in una fase non inoltrata della propria esistenza, ad avere cioè davanti a sé un tempo sufficiente per ripensarne i fondamenti ideologici in un clima favorevole alla riflessione". Sul clima s'è già detto, rimane il dubbio su come lo scrittore potesse supporre, peraltro a 60 anni, di vivere "in una fase non inoltrata della propria esistenza" ed "avere cioè davanti a sé un tempo sufficiente" per ripensare ai "fondamenti ideologici" repubblicani.
(23) H. Neville, Plato redivivus, in C. Robbins, Two English Republican Tracts, cit., p. 89.
(24) J. G. A. Pocock, Il momento machiavelliano, II, cit., p. 715.
(25) H. Neville, Plato redivivus, in C. Robbins, Two English Republican Tracts, cit., p. 69.
(26) H. Neville, Plato redivivus, in C. Robbins, Two English Republican Tracts, cit., p. 21.
(27) Citiamo in questo caso dalla traduzione parziale apparsa in I costituzionalisti inglesi, a cura di N. Matteucci, Bologna, Il mulino, 1980, p. 155.
(28) Z. Fink, The Classical Republicans, p. 130. L'autrice del saggio tuttavia ha lasciato questa straordianria osservaizone in una nota - la 41 - al suo commento dell'opera di Neville.
(29) Ci limitiamo a segnalare solo qualche testo: J. G. A. Pocock, Politics, Language and Time, Atheneum, New York 1971 e Id., Politica Linguaggio e Storia, Prefazione e cura di E. A. Albertoni, Ed. di Comunità, Milano 1990, una raccolta di saggi (che contiene anche due capitoli del libro citato precedentemente) che Pocock ha dedicato nel corso degli anni alla metodologia nell'indagine storica e all'interpretazione dei testi politici. Per una critica cfr. I. Hampsher-Monk, Political Languages in Time: The Work of J. G. A. Pocock, in "British Journal of Political Science", XIV, 1984, pp. 89-116; R. Hamowy, Cato's Letters, John Locke and the Republican Paradigm, in "History of Political Thought", XI, n. 2, 1990, pp. 273-294 (che discute criticamente l'interpretazione di Pocock della teoria politica anglo-americana del diciottesimo secolo in termini neo-machiavelliani e non, come una consolidata corrente storiografica che l'autore esamina, quale prodotto della filosofia politica di Locke); V. B. Sullivan, Machiavelli's Momentary "Machiavellian Moment". A Reconsideration of Pocock's Treatment of the Discourses, in "Political Theory", XX, n. 2, 1992, pp. 309-318. Cfr. infine le interessanti osservazioni I. Shapiro, Realism in the Study of the History of Ideas, in "History of Political Thought", III, n. 3, 1982, pp. 535-578, che critica un approccio alla storia della political theory e delinea una visione alternativa: "The view I criticize has, over the past fifteen years, come to command widespread assent within the (Anglo-American) discipline. Its roots lie in the work of Skinner, Pocock and Dunn" (p. 535)
(30) G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell'età moderna, cit., p. 213: "Felix Raab […] rimane ancor oggi un punto di riferimento obbligato". Tuttavia precisa che dal 1964, data della pubblicazione di The English Face of Machiavelli, "gli studi sulla fortuna inglese del Segretario fiorentino hanno registrato ragguardevoli avanzamenti", e il riferimento è soprattutto a Pocock. Sfortunatamente non abbiamo alcuna allusione a qualcosa riguardante Neville, di cui anche Pocock, oltre a Raab, si è occupato.
(31) F. Raab The English Face of Machiavelli, A changing interpretation, 1500-1700, cit., pp. 267-272.
(32) Sarebbe interessante capire quale sia l'origine degli altri due testi non machiavelliani. Su questi Raab non si pronuncia, limitandosi a riportare le congetture di altri interpreti: The Original of the Guelf and Ghibilin Factions, che appare dopo The Prince, sarebbe secondo Gerber una traduzione di un'introduzione francese alla vita di Castruccio Castracani (e Wood sembra accreditare l'ipotesi che Neville abbia cominciato ad avere una qualche familiarità "con le lingue moderne" grazie ai suoi viaggi per l'Europa, sebbene sia noto che non conoscesse il francese). Sempre secondo Gerber, anche l'introduzione all'Arte della Guerra, il terzo apocrifo presente nella traduzione di Neville, avrebbe origini francesi.
(33) In particolare si fa riferimento all'ultimo libro che Skinner ha dedicato al tema, Liberty before liberalism, rinunciando a dare un resoconto dell'opera dello storico di Cambridge sull'argomento, che sarebbe impossibile contenere in una nota. Tuttavia mi sia permesso di rinviare, anche per alcuni aspetti bibliografici, al mio La libertà e il mestiere dello storico. Dialogo con Quentin Skinner, in "Teoria Politica", 1, 2003, pp. 178-191.
(34) Jonathan Scott è tra i maggiori storici del periodo, e sicuramente il più autorevole interprete dell'opera di Sidney, a cui ha dedicato due importanti e orami imprescindibili lavori: Algernon Sidney and the English Republic, 1623-1677 (1988) e Algernon Sidney and the Restoration Crisis 1677-1683 (1991), entrambi editi dalla Cambridge University Press. L'ultimo suo libro è una generale panoramica sul pensiero politico inglese XVII secolo (England's Troubles, Seventeenth-Century English Political Instability in European Context, Cambridge University Press, 2000).
(35) N. Orsini, Le traduzioni elisabbettiane inedite di Machiavelli, in Id., Studi sul Rinascimento italiano in Inghilterra, Firenze, 1937.
(36) M. Praz, Machiavelli in Inghilterra ed altri saggi, Roma, Tumminnelli, 1942, pp. 87-147.
(37) M. Praz, Machiavelli in Inghilterra ed altri saggi, cit., p. 130.
(38) T. B. Maculay, Critical and Historical Essays, London, Longman, Brown, Green, and Longmans, vol. I, p. 50.
(39) M. Praz, Machiavelli in Inghilterra ed altri saggi, cit., p. 98.
(40) Poco importava dell'anticlericalismo machiavelliano, più ancora interessava presentare Machiavelli come espressione tipica del cattivo genio italico, e, quindi, papista.
(41) A. M. Crinò, Un amico inglese del Gran Duca di Toscana Cosimo III: Sir Henry Neville, in English Miscellany, 3, (1952); id., Antologia del pensiero politico inglese, Firenze, 1953.
(42) V. Gabrieli, Puritanesimo e libertà, Dibattiti e libelli, Torino, Einaudi, 1956, p. XIX.
(43) A. M. Crinò, Lettere inedite italiane di Sir Henry Neville, in Fatti e figure del Seicento Anglo-Toscano, Olschki, Firenze, 1957, pp. 174-208.
(44) I costituzionalisti inglesi, a cura di N. Matteucci, Bologna, Il Mulino, 1980.
(45) Nella biblioteca pisana esiste un fondo a lui intitolato, e, se è lecita una nota personale, i funzionari della biblioteca di Reading, dove ho anche trovato i testi di Nicastro e della Crinò, ricordano con precisione la dedizione del ricercatore italiano, di cui anche Jonathan Scott, professore di storia a Cambridge ed esperto di Sidney, mi ha parlato.
(46) O. Nicastro, Henry Neville e l'isola dei Pines, cit., p. 7, in cui tuttavia si precisa che si tratta di un'opera "meno superficiale forse di quel che la prima impressione potrebbe suggerire, e comunque non priva di interesse in rapporto a temi e a questioni di portata più generale".
(47) Alla data della pubblicazione erano già apparsi importanti contributi di Quentin Skinner sulla storia intellettuale del repubblicanesimo inglese e sul contesto culturale ed ideologico dell'epoca della rivoluzione di cui Nicastro non tiene conto.

 

 

IL SOCIALISMO INTEGRALE di Gian Biagio Furiozzi

Se il congresso socialista di Imola del 1902 vide l'affermazione della tendenza riformista e quello di Bologna del 1904 quella della tendenza sindacalista rivoluzionaria, quello di Roma del 1906 segnò la vittoria di un nuovo raggruppamento, sorto appena l'anno precedente, denominatosi Blocco socialista integrale. Ma, mentre sulle prime due tendenze la storiografia ha prodotto abbondanti studi, a quest'ultima ha dedicato assai scarsa attenzione, liquidandola generalmente come una confusa aspirazione alla conciliazione degli opposti, attribuendone l'elaborazione concettuale prevalentemente a Oddino Morgari e ritenendola una esperienza esauritasi con il congresso socialista di Firenze del 1908(1).
In realtà, ad un'analisi più approfondita questa tendenza risulta avere una precisa cornice ideologica ed una chiara delimitazione politica dei suoi obbiettivi, coinvolgendo nella sua formulazione dottrinale lo stesso Enrico Ferri e soprattutto, e prima ancora di Morgari, l'umbro Francesco Paoloni ed ebbe delle propaggini organizzative che giunsero fino al 1912.
L'espressione "socialismo integrale" era di derivazione francese, ed era stata coniata dall'ex comunardo Benoît Malon, che nel 1981 aveva pubblicato un volume dal titolo Le socialisme intégral, nel quale il socialismo veniva definito come attinente alle principali manifestazioni dello spirito (politica, economia, etica) e la rivoluzione veniva concepita non come esclusiva trasformazione economica, ma come trasformazione sociale, ovvero anche morale, filosofica e politica. In sostanza, il movimento verso il socialismo doveva intendersi non solo come un movimento di forze economiche ma dell'intera società, e doveva riguardare tanto i fattori economici quanto quelli etici e giuridici(2).
Malon era ben conosciuto in Italia, dove aveva soggiornato dal 1873 al 1885, collaborando anche ad alcuni periodici di area socialista come "La Plebe" di Enrico Bignami(3). Tra i suoi seguaci italiani vi fu Osvaldo Gnocchi Viani, per il quale la questione sociale si identificava con la questione umana e non con la sola questione operaia(4). Anche Francesco Saverio Merlino espresse più volte la sua simpatia per un socialismo "integrale" inteso come confluenza di tutte le forme di socialismo in circolazione, tutte miranti ad uno scopo comune(5).
Nel corso del 1905 la formula fu ripresa da Enrico Ferri, che la utilizzò nella lotta interna del PSI, attribuendole un significato che della iniziale formulazione maloniana conservava essenzialmente la visione di un socialismo non imprigionato in uno schema dottrinale rigido e fissato una volta per tutte. Il 19 marzo di quell'anno, infatti, Ferri pubblicò sull'"Avanti!", un articolo di fondo nel quale si richiamava il PSI "al ricordo delle sue dottrine fondamentali, che possono e devono integrarsi, correggersi, modificarsi nei dettagli ma non si possono cancellare né mutilare nella loro spina dorsale, che Carlo Marx ha genialmente plasmato".
Per bussola, proseguiva il direttore dell' "Avanti", si dovevano avere due criteri: l'unità del partito e una "tattica che non lo trascini né a destra (verso l'ideologia democratica), né a sinistra (verso l'anarchismo parlamentare e l'uso della violenza), ma che lo conduca sempre diritto sulla strada maestra della dottrina socialista integrale, quella che vuole - nel campo politico come in quello economico - un multiforme concorso di azione socialista: dalla propaganda orale all'azione parlamentare, dalla organizzazione delle leghe all'amministrazione delle cooperative, dal comizio alle iscrizioni elettorali, dallo sciopero economico o politico alla diffusione dell'istruzione anche alfabetica. Ma vuole pure che queste diverse forme di azione siano sempre animate dalla visione della meta finale, sul terreno della lotta di classe, considerando le riforme non come stazioni di arrivo, ma come stazioni di partenza per la conquista graduale delle condizioni onde si matura nella storia la realizzazione dell'ideale socialista"(6). In sostanza, con il termine "integrale" Ferri intendeva riferirsi ad una concezione "completa" del socialismo, che riprendesse l'originario programma del partito basato sulla stretta connessione del programma minimo e del programma massimo, visti in funzione di mezzo a fine(7).
Il 2 aprile 1905 il "Sempre Avanti!" riprese, dandogli il titolo Per il socialismo integrale, la parte essenziale dell'articolo ferriano, per ora senza alcun commento. Ma, nelle settimane seguenti, questa espressione cominciò a circolare su alcuni periodici riformisti. Così "L'Azione Socialista", fondata da Bonomi all'inizio di maggio di quell'anno, opponeva alle teorie e ai metodi del sindacalismo rivoluzionario (che valorizzava soprattutto l'azione diretta dei sindacati operai) una "concezione integrale di tutti i vari aspetti e di tutti i vari mezzi della lotta proletaria"(8). Mentre il "Secolo Nuovo" di Venezia pubblicò - il mese dopo - una dichiarazione di principi nella quale si invitavano tutti coloro che credevano che, per essere socialisti e per operare utilmente a favore della classe lavoratrice, non fosse necessario "accettare tutto d'un pezzo ed esclusivamente o il riformismo o il rivoluzionarismo, o il sindacalismo", a mettersi d'accordo "per stabilire il blocco socialista fra tutti quei compagni dei quali le teorie e le opere non sieno assolutamente incompatibili".
Questo obbiettivo, commentò Francesco Paoloni il 2 luglio, veniva perseguito da qualche tempo anche da "Sempre Avanti!", e quindi la dichiarazione del "Secolo Nuovo", per quanto "generica", poteva fornire "le idee direttive" del programma attorno al quale poteva aggregarsi il blocco socialista. Aggiunse di aver visto con soddisfazione che la "Giustizia" di Reggio Emilia aveva riprodotto la dichiarazione suddetta, accettandola e riconoscendo in essa "il socialismo integrale, senza aggettivi", il suo socialismo; con "altrettanta soddisfazione" egli disse di aver letto sull'"Avanti!" della domenica precedente un articolo di Enrico Ferri contenente concetti più o meno equivalenti a questi, dunque, concluse, "dal "Sempre Avanti" al "Secolo Nuovo", alla "Giustizia", da Prampolini a Rigola, da Morgari a Ferri [...] ecco già gli elementi per la costituzione del blocco socialista che non si ispira esclusivamente né al socialismo riformista, né al sindacalismo, bensì al socialismo integrale. Un po' d'intesa di buona volontà, ed il blocco può costituire una forza che nei congressi e nell'azione quotidiana potrà dominare le esagerazioni tendenzaiole e degli ultra-rivoluzionari e degli ultra-riformisti. C'è qualcuno che vuole aiutarci a raggiungere questo intento? Si faccia vivo"(9).
Da questo momento in poi il socialista umbro, con una serie fittissima di articoli, a cadenza settimanale, procedette alla messa a punto della nuova teoria, oltre che alla indicazione delle modalità da seguire per l'organizzazione del conseguente raggruppamento all'interno del partito. Morgari interverrà pubblicamente in materia (con tre articoli) solo nel mese di novembre, limitandosi fino allora ad incoraggiare privatamente la campagna del suo condirettore con qualche consiglio epistolare. Come prima cosa, Paoloni procedette alla spiegazione letterale delle due espressioni di "blocco socialista" e di "socialismo integrale", riferendosi rispettivamente ad "un programma di ricostituzione del partito socialista e ad un programma d'azione socialista pratica". Blocco era sinonimo di "unione compatta", e integrale era vocabolo proveniente dal verbo integrare, ovvero "aggiungere ad una cosa le parti che mancano". Blocco socialista - dunque - "significa unione di tutti quei socialisti fra i quali la convivenza politica e solidarietà non siano rese assolutamente impossibili da incompatibilità di teoria e di azione". Socialismo integrale "significa azione socialista che non trascura e non rifiuta né il miglioramento immediato, sia pur minimo, delle classi sfruttate nella società borghese, né il fine della socializzazione dei capitali fruttiferi, mezzi di lavoro, ecc.; che non trascura e non rifiuta né l'azione elettorale e parlamentare, né l'azione diretta del proletariato, né l'azione sindacale, perché le ritiene tutte utili, anzi necessarie, se armonizzate; azione socialista che caso per caso adotta i metodi di difesa e di conquista possibili, pratici e idonei, senza assoluta ripugnanza preventiva per alcuno, purché raggiungano l'intento di avviare la società verso la soluzione socialista, o di rafforzare la classe lavoratrice e migliorarne le condizioni senza distoglierla dalle finalità del socialismo senza spegnere in essa la coscienza di classe"(10).
Nel mese di maggio Paoloni pubblicò, presso l'editore Mongini, l'opuscolo Salviamo il partito! Manifesto-programma del blocco socialista integrale(11). A tale scritto il suo estensore affidò l'intera formulazione dell'idea che stava alla base dell'integralismo italiano e con esso intendeva rivolgersi "a quanti socialisti vogliano farla finita col settarismo e col dottrinarismo delle tendenze", di quelle due tendenze, cioè, i cui membri egli definiva spregiativamente "tendenzaioli di sinistra e di destra". Scritto con largo anticipo in preparazione del IX congresso nazionale del PSI, esso venne ufficialmente accolto come il programma di tutto il blocco socialista integrale.
Il 20 maggio 1906 Paoloni pubblicò sul "Sempre Avanti!" un altro Manifesto-programma, questa volta contenuto tutto nella "Pagina dei pratici". Una versione ancora più stringata dello stesso, sottoscritta da Morgari, Paoloni e Cabrini, veniva riportata anche dall'"Avanti!" in data 12 agosto 1906. Fu proprio questo manifesto che, nell'approssimarsi della prova congressuale, venne fatto circolare in tutta Italia, spedito dal Nostro nelle varie sezioni socialiste per essere controfirmato dagli aderenti e quindi per assolvere ad una funzione di sondaggio dell'ultima ora.
In tutti gli scritti del socialista umbro teorizzanti il programma della propria corrente è esplicito il richiamo ai principi fondamentali e storici del partito socialista, così come furono delineati nella dichiarazione-programma adottata a Genova nel 1892. Egli riaffermava dunque: 1) il fine ultimo della socializzazione dei mezzi di produzione; 2) lo scopo immediato della conquista dei pubblici poteri e delle organizzazioni economiche e sociali; 3) il mezzo della lotta di classe.
Riguardo all'organizzazione economica, Paoloni parlava di un "sindacato integrale di resistenza, cooperazione e previdenza". Con esso intendeva esprimere un concetto di associazionismo che, rifiutando il ruolo dell'istituzione sindacale come "cinghia di trasmissione", le attribuiva, invece, compiti vastissimi, non ultimo quello di funzionare da specifico supporto, sostegno e complemento all'azione del partito. La propaganda, dal canto suo, trattando temi che andavano dall'antimilitarismo all'anticlericalismo, non doveva esimersi dal divulgare i principi cardine e generali del socialismo.
L'affermazione integralista a Roma fu clamorosa, quale nessun altro congresso aveva mai visto prima. L'ordine del giorno formulato dal socialista perugino riuscì a far convergere su di sé la bellezza di 26.493 voti sui 34.082 aventi diritto, mentre le altre due mozioni, quella sindacalista di Labriola e quella intransigente di Lerda, si spartirono ciò che era rimasto in ragione, rispettivamente, di 5.278 e 1.101 voti(12).
La rivincita del riformismo fece venir meno la funzione di quello che è stato definito il "cuscinetto integralista"(13). Non sarebbe comunque mai venuta meno, negli anni successivi, la presenza nel PSI di una componente centrista, a testimonianza di una esigenza di mediazione tra posizioni contrapposte che sarà a lungo sentita da alcuni settori del partito. Perfino Turati, nel suo discorso congressuale di Firenze, affermò che il socialismo era ormai entrato, in Italia e in Germania, in una "corrente intermedia" tra la "vecchia concezione marxista" e la concezione "democratica e pacifista", anche se ribadì la sua accusa agli integralisti di voler conciliare gli estremi invece di respingerli entrambi(14).
Tra i fiancheggiatori del socialismo integrale non può essere annoverato propriamente, nonostante la terminologia usata, il socialista reggiano Antonio Vergnanini, teorizzatore, nel 1907, della cosiddetta "cooperazione integrale" (ovvero una cooperazione che abbracciasse la produzione, lo scambio e il consumo) concepita come una forma di socialismo all'interno della società capitalistica(15). E, tuttavia, può essere considerato un esempio evidente della fortuna goduta in questi anni dal concetto integralista.
Al congresso di Milano del 1910, vinto ampiamente dai riformisti, Oddino Morgari aderì alla corrente intermedia, guidata da Modigliani e da Salvemini, sostenendo che la sua stessa esistenza provava che l'integralismo, nonostante la sconfitta subita al congresso di Firenze, "non era ancora morto"(16).
In vista del successivo congresso di Modena del 1911, Paoloni osservò che, ormai, il movimento socialista aveva fatto in Italia una tale presa sulle masse, che poteva permettersi "l'adozione del sistema razionale di divisione del lavoro"; perciò, concluse, "proponiamo una intesa tra i socialisti non disposti ad accettare una politica diretta verso la partecipazione al governo, e non disposti nemmeno ad accettare una politica di affermazioni rivoluzionarie verbali e di sistematiche intransigenze; un'intesa per una affermazione e per una preparazione"(17). In pratica, la strategia congressuale prospettata da Paoloni ribaltava quella adottata da Morgari al congresso di Milano dell'anno precedente (e che egli aveva sostenuto a posteriori con scarsa convinzione), in quanto rifiutava per l'integralismo il ruolo di "testimonianza" minoritaria e indicava per esso l'alternativa secca tra la conquista della maggioranza dei consensi e l'uscita dal partito. Per parte sua, egli uscì per ora dalla redazione dell'"Avanti!" (che nel mese di ottobre di quell'anno sarebbe peraltro stata trasferita a Milano) e tornò, nel corso dell'estate, ad occuparsi del movimento contadino in Umbria.
Siccome Oddino Morgari alla fine di agosto era partito per un lungo viaggio in Estremo Oriente, Paoloni, insieme agli amici del "Sempre Avanti!", stilò poi uno schema di ordine del giorno da consigliare a quelle sezioni e a quei compagni che non volevano votare "né per il socialismo di governo, né per il socialismo rivoluzionario". Egli stesso presentò questo o.d.g. all'assemblea dell'Unione socialista romana, dove però venne battuto da quello intransigente presentato da Giovanni Lerda (752 voti contro 15). Questa volta, comunque, Paoloni tornò a partecipare ai lavori del congresso nazionale (Modena 15-18 ottobre 1911) guidando, insieme al Pascetti, e in assenza di Morgari, la residua pattuglia dei socialisti integralisti. Vi tenne anche un discorso nella seduta pomeridiana del giorno sedici.
Nelle votazioni finali si fronteggiarono cinque ordini del giorno: riformista di sinistra (Treves e altri), riformista rettificato (Modigliani), rivoluzionario (Lerda), riformista di destra (Basile) e infine quello integralista (presentato, a nome del gruppo, da Pascetti) che era del seguente tenore: "Il Congresso, in seguito all'atteggiamento politico preso da alcuni compagni, atteggiamento che determinò la convocazione straordinaria del congresso medesimo; afferma che il carattere e le finalità del Partito socialista non consentono appoggio a indirizzi di governo, ma soltanto, ed in via eccezionale, la difesa di una azione concreta, profondamente rinnovatrice, se però con l'accordo della Direzione del Partito, e sentita la Conferenza del Lavoro; esclude ogni partecipazione di socialisti al Governo, anche in considerazione delle vigenti istituzioni politiche; riafferma in tutti il dovere della disciplina e del rispetto ai deliberati del Congresso"(18).
Vinsero, come si sa, i riformisti delle varie tendenze, che raccolsero complessivamente oltre 11.000 voti, seguiti dai rivoluzionari intransigenti (8.646), mentre alla mozione integralista andarono soltanto 1.073 voti, circa la metà dei quali erano rappresentati dalle Federazioni di Perugia e di Alessandria(19).
Al congresso di Reggio Emilia del 1912 - dove Paoloni si recò come semplice giornalista - non si realizzò la concentrazione, da lui in fondo auspicata, tra intransigenti e riformisti di sinistra e la pattuglia degli integralisti fece convergere i suoi voti sull'o.d.g. rivoluzionario presentato da Mussolini, ricevendone in cambio l'ingresso in Direzione di un suo esponente, nella persona di Arturo Vella. Non fu esaudito nemmeno l'altro suo auspicio di evitare, cioè, l'espulsione dal partito dei riformisti di destra(20).

NOTE
(1) Il Cortesi lo ha definito "un enorme pasticcio" (L. CORTESI, Il socialismo italiano tra riforma e rivoluzione. Dibattiti congressuali del PSI 1892-1921, Bari, 1969, p. 227). Anche il Ciuffoletti lo ha definito "un grosso pasticcio, una sorta di riformismo camuffato" (Z. CIUFFOLETTI, Storia del PSI. Le origini e l'età giolittiana, Bari, 1982, p. 272).
(2) Cfr. G.D.H. COLE, Storia del pensiero socialista. La Seconda Internazionale 1889-1914, Bari, 1968, p. 392. anche il socialista belga Emile Vandervelde condivise l'impostazione maloniana (cfr. ivi, parte 2°, pp. 154-156).
(3) Cfr. L. BRIGUGLIO, Benoît Malon e il socialismo in Italia, Padova, 1978.
(4) Su di lui si veda G. ANGELINI, Il socialismo del lavoro. Osvaldo Gnocchi Viani tra mazzinianesimo e istanze libertarie, Milano, 1987.
(5) Cfr. F. S. MERLINO, Il socialismo senza Marx, a cura di A. Venturini, Bologni, 1974, pp. 28-30.
(6) E. FERRI, Parlamentarismo, sindacalismo e azione socialista, "Avati", 19 marzo 1905.
(7) Va notato che l'espressione "concezione completa" del socialismo compariva nell'o.d.g. presentato a Bologna da Rigola e Morgari. "Il congresso - vi si diceva - afferma il bisogno della conquista delle coscienze alla concezione completa del socialismo mediante l'assidua propaganda dei principi fondamentali e quella positiva che fa scaturire dai fatti particolari la veduta generale della critica e della dottrina socialista" (F. PEDONE, Il Partito socialista italiano nei suoi congressi. II, 1902-1917, Milano, 1961, p. 36).
(8) L'AZIONE SOCIALISTA, Riprendendo il lavoro, "L'Azione Socialista", 7 maggio 1905. Anzi, nel novembre di quell'anno Bonomi pubblicò una Lettera aperta a O. Morgari per rivendicare la paternità dell'espressione "socialismo integrale" (I. BONOMI, Alleanza, non blocco eterogeneo. Lettera aperta a Oddino Morgari, "L'Azione Socialista", 25 novembre 1905). Morgari gli rispose sbrigativamente di non aver nemmeno letto l'editoriale della sua rivista (O. MORGARI, Per la costituzione del partito, ivi, 9 dicembre 1905). In realtà,come si è visto, essa era stata usata prima di lui da Ferri, e fu ripresa da Paoloni prima ancora di Morgari. (Per la polemica Bonomi-Morgari si veda G.B. FURIOZZI, Da Mazzini a Bissolati, Firenze, 1988, pp. 185-196).
(9) F. PAOLONI, Il socialismo integrale, "Sempre Avanti!", 2 luglio 1905.
(10) ID., Blocco socialista e socialismo integrale, ivi, 23 luglio 1905.
(11) ID., Salviamo il partito! Manifesto-programma pel blocco socialista integrale, Roma, 1906. Su Paoloni si vedano G.B. FURIOZZI, Francesco Paoloni e il socialismo integrale 1892-1917, Firenze, 1993 e S. DOMINICI, La lotta senz'odio. Il socialismo evangelico del "Seme" (1901-1905), Milano 1995.
(12) I riformisti votarono l'o.d.g. Paoloni-Morgari, mentre solo 757 furono gli astenuti (cfr. il "Sempre Avanti!" del 14 ottobre 1906).
(13) S. CANNARSA, Il socialismo e i XXVIII Congressi nazionali del partito socialista italiano, Firenze, 1950, p. 162.
(14) Cfr. F. PEDONE, op. cit., P. 104.
(15) A. VERGNANINI, Cooperazione integrale, Reggio Emilia, 1907. Si veda a questo proposito T. DETTI, Il socialismo riformista in Italia, Milano, 1981, pp. 225-233.
(16) Cfr. F. PEDONE, op. cit., p. 143.
(17) F. PAOLONI, Ciascuno per la sua via, "Sempre Avanti!", 1° maggio 1911, pp. 172-173. Nello stesso numero del periodico Paoloni definiva la famosa frase giolittiana del Marx "messo in soffitta" dai socialisti una "volgare barzelletta che aveva fatto fortuna sui giornali clericali e aveva purtroppo trovato credito anche fra i compagni rivoluzionari" (ID., Marx in soffitta, ivi, p. 174).
(18) F. PEDONE, op. cit., p. 178
(19) Sui risultati del congresso di Modena si veda, tra gli altri, L. CORTESI, Le origini del partito comunista italiano. Il PSI dalla guerra di Libia alla scissione di Livorno, Bari, 1972, p. 25.
(20) I risultati del congresso furono pubblicati senza commenti sul "Sempre Avanti!" del 15 luglio 1912, p. 293. Nello stesso numero, il periodico pubblicava una lettera di Morgari in cui si smentivano le voci di sue presunte dimissioni del partito.

 

Register and Claim Bonus at williamhill.com