Gian Biagio FURIOZZI, Il socialismo liberale, Manduria, Lacaita, 2003, pp. 160.
Nel 1930 Carlo Rosselli pubblicò a Parigi quel Socialismo liberale che, conosciuto in Italia dopo la seconda guerra mondiale ma a lungo sottovalutato dagli studiosi e dai dirigenti politici, sta avendo da qualche anno, a seguito anche della perdita di consensi del socialismo marxista, quella fortuna che gli era mancata in passato. Ad usare per primo in assoluto l'espressione "socialismo liberale" fu però, documenta il Furiozzi, il deputato radicale francese Alfred Naquet, autore di un volume dal titolo Socialismo collectiviste et Socialisme libéral, pubblicato a Parigi nel 1890, oltre venti anni prima, dunque, di quel Leonard Hobhouse che è stato a lungo indicato da molti studiosi quale suo primo teorizzatore.
Il primo autore italiano ad esprimere con sufficiente chiarezza l'esigenza di una stretta unione tra il socialismo e l'individualismo fu il democratico umbro Luigi Pianciani che, già a metà Ottocento, parlò di "libertà sociale". Dopo di lui diversi altri autori manifestarono in Italia la stessa esigenza: da Pietro Siciliani a Osvaldo Gnocchi Viani, da Olindo Malagodi ad Arturo Labriola, da Francesco Saverio Merlino a Giovanni Montemartini, fino al più esplicito di tutti, ovvero Eugenio Rignano, autore nel 1901 di un grosso volume, tradotto tre anni dopo anche in Francia, nel quale si propose di conciliare il socialismo con l'economia liberale. Fu infine Gaetano Salvemini, negli anni del primo dopoguerra, a continuare un filone di pensiero che, attraverso molteplici influssi e intrecci, trovò nel saggio rosselliano del 1930 la sua massima formulazione teorica.
Nel presente volume sono raccolti tredici saggi incentrati in gran parte sulla ricerca delle origini, in Italia e nel resto d'Europa, del socialismo liberale nelle sue varie sfumature. Alcuni di essi riguardano poi l'analisi del pensiero politico di Carlo Rosselli, visto anche nei suoi rapporti con personaggi come Georges Sorel e Giuseppe Saragat. Gli ultimi due trattano rispettivamente della concezione politica di Aldo Capitini, ideatore - insieme a Guido Calogero - della variante del "liberalsocialismo", e di un recente saggio di Francesco Stolfa sul socialismo liberale del XXI secolo.
Gabriella Portalone
Angelo ROMANO, Ernesto Ruffini Cardinale arcivescovo di Palermo (1946-1967), Studi del Centro A. Cammarata, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 2002, pp.625
Il volume di Angelo Romano sulla figura e l'opera di Ernesto Ruffini non è una semplice biografia. L'autore, infatti, ripercorrendo le tappe fondamentali della vita di uno dei "cardinali più citati ma meno conosciuti della seconda metà del '900" ci offre un'analisi della storia d'Italia e della Sicilia che s'intreccia con la storia della chiesa. Dal liberalismo al fascismo, dalla crisi del dopoguerra al declino dei governi di centrodestra, dagli anni delle battaglie contro il modernismo al Concilio Vaticano II; questi i momenti cruciali che Ruffini ha vissuto da "cattolico intransigente" ma al tempo stesso aperto ad un moderno ed articolato impegno sociale della chiesa.
La sua formazione culturale prima a Mantova in seminario e poi a Roma, fu fortemente influenzata da un clima di lotta contro ogni forma di modernismo che potesse minare i fondamenti della dottrina della chiesa.
Nel lungo periodo trascorso a Roma si dedicò con zelo agli studi di esegesi e all'insegnamento presso l'Ateneo Pontificio del Seminario Maggiore; dal 1924 Pio XI iniziò ad affidargli i primi importanti incarichi: sostituto per la censura dei libri al Sant'Uffizio, consultore della Pontificia commissione biblica, e infine segretario della Sacra congregazione dei seminari e delle università. Nel contempo, Ruffini iniziava una serie di attività caritative a favore dei poveri grazie anche al particolare rapporto di vicinanza che egli instaurò con il card. Merry del Val.
La nomina ad Arcivescovo di Palermo giunse nel 1945 come un fulmine a ciel sereno; certamente per una persona che aveva vissuto fino a quel momento tra studi e responsabilità accademiche non era cambiamento da poco andare a reggere le sorti di una diocesi e in particolare la diocesi di Palermo. Le comprensibili titubanze iniziali svanirono quando Ruffini, giunto a Palermo nel 1946, si trovò di fronte una città stravolta dalla guerra, bisognosa di tutto ma soprattutto di un punto di riferimento autorevole. Egli, fin dall'inizio del suo mandato episcopale rappresentò per i cattolici siciliani non solo la massima autorità religiosa ma anche colui che avrebbe potuto condurre la diocesi di Palermo verso una rinascita materiale e civile.
Nel corso della sua azione pastorale, Ruffini si occupò di svariate attività: assistenza sociale, scuole, mondo del lavoro, politica ecc…., sulla base di una nuova concezione ecclesiologica. Fondamentale era l'unità attorno al vescovo, l'obbedienza alla gerarchia della chiesa, la centralità della figura del vescovo quale rappresentante di una istituzione, la chiesa cattolica per la quale nulla era impossibile. Pur rivendicando un nuovo ruolo per i vescovi, che non dovevano ridursi a semplici esecutori delle decisioni prese a Roma, l'azione pastorale di Ruffini fu sempre in sintonia con la S.Sede. Per Ruffini la chiesa avrebbe dovuto rinnovarsi, certamente non nella dottrina, ma nella prassi e nella vita ecclesiale e poter così utilizzare i nuovi strumenti che la società esige. L'Arcivescovo di Palermo si muoverà, negli anni del suo lungo episcopato tra tradizione ed innovazione, in una visione integrale dove gli aspetti religiosi erano anche sociali e politici.
Gli avvenimenti politici nazionali del 1947 ebbero ripercussioni anche in Sicilia e di fronte all'avanzata comunista Ruffini si rende conto che la chiesa rimane l'unica forza in grado di contrastare i partiti di sinistra. Inizia per l'Arcivescovo di Palermo la stagione di un impegno politico teso a creare intorno alla democrazia cristiana l'unità dell'elettorato cattolico. Fu una vera mobilitazione anticomunista che lo condusse ad un appoggio esplicito nei confronti dell'unico partito che, a suo parere avrebbe potuto evitare la diffusione della dottrina comunista.
La schiacciante vittoria della democrazia cristiana nel 1948 inaugura una fase in cui l'Arcivescovo di Palermo riesce ad instaurare un rapporto preferenziale con le maggiori istituzioni presenti nell'isola; l'influenza di Ruffini, sullo scenario politico siciliano diventa ogni giorno più forte. Ma a metà degli anni '50 i contrasti all'interno della democrazia cristiana, l'operazione Milazzo (nei confronti della quale Ruffini sarà molto critico) e l'apertura ai governi di centro sinistra segneranno l'inizio di un lento declino dell'influenza del Cardinale di Palermo sulla politica.
Intanto si moltiplicavano gli attacchi da parte della pubblicistica di sinistra; Ruffini veniva presentato come un prelato conservatore, aristocratico, anacronistico, espressione di un passato di oppressione e oscurantismo.
L'impegno sociale e politico di Ruffini non pregiudicò la sua specifica azione pastorale. Importanza rilevante ebbero le visite pastorali effettuate in ogni angolo della sua diocesi. Anche in questo caso il connubio fra tradizione e innovazione è evidente: formalità, stretta osservanza delle norme canoniche, cerimoniale quasi trionfalistico si accompagnavano ad una estrema sensibilità ed umanità; il Cardinale non si limitava a visitare le parrocchie ma cercava il contatto diretto con i fedeli entrando nelle case dei più poveri e dei malati, ascoltando e spesso facendosi carico personalmente dei loro bisogni e delle loro sofferenze.
All'interno del Concilio Vaticano II, Ruffini ebbe sin dall'inizio un ruolo di protagonista. Fermo nei suoi principi non ebbe mai timore di esprimere le sue perplessità nei confronti di un'apertura della chiesa e di rappresentare la minoranza nel dibattito conciliare.
L'autore conclude affermando che molti problemi restano ancora aperti sulla personalità e sull'attività di Ernesto Ruffini; tuttavia il suo lavoro risulta di grande interesse e dà un notevole contributo per la comprensione di una figura così poliedrica, complessa, a tratti contraddittoria, che ha lasciato un segno indelebile nella storia della chiesa e della Sicilia.
Rosanna Marsala
Augusto D'ANGELO, De Gasperi, le destre e l'"operazione Sturzo", voto amministrativo del 1952 e progetti di riforma elettorale, Roma, Edizioni Studium, 2002, pp.154.
E' recente l'interesse degli storici per un argomento che tradizionalmente è stato trattato da costituzionalisti e storici del diritto: le consultazioni elettorali e il loro rapporto con la società e le istituzioni.
In questo lavoro, l'autore, anche attraverso documenti finora inediti, si sofferma su una vicenda complessa della storia politica italiana: il voto amministrativo del 1952, che al di là della sua specificità ebbe ripercussioni sulle successive decisioni politiche della classe dirigente.
Agli inizi degli anni '50 De Gasperi deve affrontare una serie di problemi: da un lato i contrasti interni alla democrazia cristiana, dall'altro le pressioni del Vaticano per un'alleanza con le destre, che appariva come l'unica soluzione per evitare l'avanzata dei partiti della sinistra. Infatti, in un clima di mobilitazione anticomunista preoccupa l'indebolimento della democrazia cristiana e il mondo cattolico rivendica un ruolo più attivo nelle decisioni politiche. Diverse personalità laiche ed ecclesiastiche si adoperano per intraprendere trattative fra il presidente del consiglio De Gasperi , il M.S.I. e i monarchici; De Gasperi, sebbene consapevole della debolezza della coalizione centrista (sapeva che i voti della democrazia cristiana erano in diminuzione, mentre le sinistre aumentavano i loro consensi), rifiuta ogni possibilità di accordo con il M.S.I.,mentre si rende disponibile per un apparentamento con i monarchici. Su questa ipotesi De Gasperi si espresse molto chiaramente: condizione necessaria sarebbe stata la dissociazione del P.N.M. dal M.S.I.,ma ciò non avvenne. Tramontata qualsiasi ipotesi di apparentamento con i monarchici, si riproponeva il problema di possibili alleanze, soprattutto per la città di Roma, che consentissero alla democrazia cristiana di conquistare l'amministrazione capitolina.
E' a questo punto, in un clima di profonda incertezza,a pochi giorni dalla scadenza per la presentazione delle liste, che si inserisce la cosiddetta "operazione Sturzo", sulla quale, l'autore ritiene che esistano ancora molti punti oscuri. Infatti le ricerche finora effettuate si sono basate essenzialmente su testimonianze e giornali dell'epoca, essendo a tutt'oggi indisponibili molti dei documenti relativi alla vicenda.
Il coinvolgimento del sacerdote calatino fu fortemente voluto dal Vaticano e da quegli esponenti del mondo cattolico che desideravano la formazione di una lista civica in cui i voti della democrazia cristiana si potessero sommare a quelli delle destre per impedire la conquista comunista del Campidoglio. Sturzo si fa promotore di una serie di incontri con i rappresentanti dei partiti e prospetta loro la possibile soluzione: una lista unica con democrazia cristiana, le destre e gli esperti. L'autorevolezza di Sturzo e l'appoggio del Vaticano non furono sufficienti per un esito positivo della mediazione.Vari furono i fattori che determinarono il fallimento della proposta sturziana: l'indisponibilità dei partiti minori del centro, la contrarietà all'operazione di importanti settori della democrazia cristiana e dell'azione cattolica che si dissociò dalle iniziative del suo leader Luigi Gedda; a tutto ciò va aggiunto la non accettazione da parte dei partiti di destra delle condizioni che Sturzo poneva.
Nonostante la mancata alleanza con le destre, a Roma i partiti del centro ebbero la maggioranza, ma nel complesso vi fu un calo della democrazia cristiana rispetto ai risultati del 1948 a tutto vantaggio delle forze di opposizione sia di destra che di sinistra. La stessa cosa si verificò in alcune regioni del meridione.
L'analisi dei risultati del voto del 1952 condusse ad una seria riflessione sul sistema elettorale e ad un possibile progetto di riforma. Tutte le forze politiche concordavano sulla necessità di una riforma elettorale per preservare l'impianto democratico assicurando stabilità e governabilità.
La riforma elettorale tanto auspicata non venne, con evidenti ripercussioni sui successivi sviluppi della democrazia italiana.
Rosanna Marsala
Claudia GIURINTANO, L'idea di democrazia in Auguste Ott (1814-1892), Torino, G. Giappichelli Editore, 2003, pp. 156.
Il saggio di Claudia Giurintano, risultato di una ricerca condotta sulle fonti parigine della Bibliothèque Nationale de France e della Bibliothèque Historique de la Ville de Paris, ha il merito di far conoscere il pensiero e l'opera del filosofo, economista e giornalista Auguste Ott, il più importante discepolo di Philippe Buchez del quale fu amico ed esecutore testamentario.
Ott vive e opera in un periodo ricco di riflessioni politiche e comincia a elaborare i suoi scritti nel decennio 1838-1848, periodo in cui si collocano, in particolare, le brochures anonime pubblicate presso l'editore Prévost e dedicate ad argomenti cari alla scuola bucheziana: l'idea di nazionalità, l'organizzazione del governo rappresentativo, l'associazionismo, la federazione europea.
Attento studioso della filosofia tedesca, Ott critica l'idealismo e il criticismo e nell'opera Hegel et la philosophie allemande mostra la sua appassionata adesione alla scuola filosofica francese di matrice cattolica. Se, infatti, nella filosofia francese l'individuo era presentato in stretto rapporto con gli altri membri della società, in Germania - patria del protestantesimo e dello spirito di divisione - la ragione individuale dominava sul punto di vista sociale concentrando il problema della coscienza sulla supremazia della ragione individuale.
Tra le scienze morali Ott sottolinea l'importante ruolo della storia universale che insegna a misurare il progresso sociale e a dirigere verso il bene le scelte dell'umanità. La teoria del progresso permette di dimostrare che i principi della conoscenza umana sono donati attraverso la Rivelazione e l'uomo non fa che applicarli e svilupparli.
Ma, certamente, le più interessanti riflessioni di Ott riguardano la sua idea di democrazia frutto della sua concezione della società e del suo progetto di unione dei popoli europei. Il discepolo di Buchez si fa sostenitore della distinzione tra società temporale e società spirituale affermando che i due poteri non devono essere confusi nelle stesse mani poiché essi costituiscono due funzioni distinte. La società spirituale è una e universale; le società temporali sono multiple perché indicano "uno stato variabile e passeggero dovuto al fatto che la loro azione si riferisce al mondo materiale cioè a tutto ciò che riguarda esclusivamente la vita degli uomini sulla terra" (p. 76). Tra i primi principi posti alla base della società Ott considera lo scopo comune di attività che deve dominare la società e che non può che essere identificato con la morale, con la fede, la sola in grado di dare alle nazioni la forza e l'energia di renderle potenti. La religione cristiana, infatti, aveva dato al mondo una nuova morale e dei principi fino ad allora sconosciuti: libertà per gli schiavi, uguaglianza, fraternità dei popoli, realizzazione dell'umanità; principi che dipendevano dalla legge di progresso. Ott ribadì che i rapporti umani dovessero essere visti alla luce della legge morale l'unica atta a regolare le relazioni tra gli uomini e a obbligare, reciprocamente, l'umanità e le nazioni. Il fatto che essa è imposta a tutti significa che gli individui sono sottoposti a un dovere, a uno scopo comune di attività. Il dovere è il punto essenziale dell'attività sociale e individuale; è il solo fondamento delle relazioni morali tra gli uomini.
Se il suffragio universale è la conditio sine qua non di una vera democrazia Ott avverte la necessità di migliorare il modo di elezione per mettere in pratica tale suffragio e assicurare la "vera" rappresentanza. A tal proposito egli auspica il ripristino del decreto sulle elezioni che era stato modificato l'11 agosto 1792 quando l'Assemblea elesse un Consiglio esecutivo composto da sei ministri e furono indette le elezioni per la Convenzione abolendo la distinzione tra elettorato attivo e passivo. Ott, piuttosto, propone l'istituzione di assemblee primarie che non dovevano comporsi solo di appartenenti a "classi superiori" ma dovevano vantare la presenza di un gran numero di uomini del popolo che, in quanto tali, erano in grado di comprendere i bisogni della massa. L'eletto, a suo avviso, doveva possedere non solo qualità morali ma anche abilità intellettive frutto di studi speciali necessari per poter risolvere le questioni diplomatiche e finanziarie. E solo l'elezione di secondo grado, a suo avviso, poteva permettere al popolo di dedicare "ai più morali, ai più imbevuti di sentimento nazionale e di dovere, ai più intelligenti, la missione di scegliere coloro i quali avrebbero rappresentato meglio il sentimento morale e nazionale e che avrebbe riunito le qualità del legislatore" (pp. 99-100).
Ott giunge così a sostenere la necessità che tra i diversi popoli di Europa si realizzi un patto federativo che ponga fine all'uso delle armi e decida pacificamente sotto la guida della Francia. A suo avviso, i popoli europei si distinguevano dal resto dell'umanità per qualità intellettive e sviluppo di scienza. Il loro substrato comune era rappresentato da quegli stessi sentimenti di libertà e di fraternità che però, fino a quel momento, non erano stati in grado di porre fine alle lotte contro gli egoismi nazionali e le opposizioni religiose e politiche. La federazione avrebbe incrementato le relazioni tra i popoli europei; il commercio e l'industria; avrebbe fatto scomparire le barriere nazionali. Ma i tempi ancora non erano maturi; la Francia di Napoleone III sembrava allontanare tale prospettiva riservando la sua attuabilità solo in una dimensione politica internazionale futura.
I temi del diritto di proprietà, distribuzione degli strumenti di produzione, circolazione della moneta, associazionismo erano tutti i punti cardini della teoria economica ottiana. Egli, in perfetta sintonia con gli insegnamenti bucheziani, credeva che l'associazione operaia fosse l'unico sistema in grado di porre fine ai mali del sistema economico del tempo perché ispirata dal principio che "celui qui ne travaille pas ne doit pas manger" (p. 138). La concorrenza, la cattiva distribuzione degli strumenti di lavoro avevano trasformato il mercato in una lotta spietata nella quale a soccombere sarebbero stati solo i più deboli. Ott fu impegnato in prima linea nella realizzazione di tali principi poiché fece parte del Conseil d'encouragement pour les Association ouvrières creato dal governo nel 1848 per ripartire il credito di tre milioni di franchi tra le associazioni operaie.
Il volume di Claudia Giurintano, scritto con il rigore scientifico che contraddistingue l'autrice, ha il pregio di portare all'attenzione degli studiosi una figura finora poco conosciuta. Ott non fu solo il più "ortodosso" discepolo di Philippe Buchez ma, soprattutto, un originale interprete delle sue idee tanto che il coevo Pierre-Joseph Proudhon lo annoverò tra gli ideologi fondatori della "scuola" bucheziana, un "rappresentante moderno della democrazia cristiana" che con i suoi scritti contribuì all'affermazione di quelle idee che, sotto diverse prospettive, saranno riprese dai rappresentanti di tutto quel movimento ispirato dalla figura e dalla dottrina di papa Leone XIII.
Rosanna Marsala