Nel commentare quest'ultima fatica, frutto di una trentennale ricerca di un attento e appassionato storico, ormai scomparso da oltre quattro anni, non posso non ricordare quel fanciullesco sorriso che faceva di lui un eterno giovane, malgrado l'età anagrafica e che testimoniava inconfutabilmente la sua gioia di vivere e soprattutto di scrivere e la sua mai sopita curiosità culturale. La ricerca certosina fra i documenti ingialliti ed impolverati degli archivi, era per Salvatore Candido, un raffinato piacere e insieme un ineluttabile dovere nei confronti dei posteri che non potevano essere privati della memoria storica del nostro passato. Passato fatto di ombre e di luci, ma indubbiamente sintomo della grande civiltà di un popolo antico, combattuto da sempre tra tradizione e rinnovamento.
La rivoluzione siciliana del gennaio 1848, ancora una volta, porta la Sicilia alla ribalta internazionale e conferma la vocazione di tale terra a fungere da laboratorio politico, svolgendo un ruolo da pioniere nella ricerca di nuove strade verso la trasformazione. Fu infatti proprio Palermo, questa periferica capitale europea, mai dimentica dei fasti medievali che l'avevano vista protagonista della storia continentale, ad aprire la stagione delle rivoluzioni del '48 che, da questo estremo lembo d'Europa, si sarebbero estese a macchia d'olio da sud a nord, da est a ovest, confermando, come avrebbe scritto Benedetto Croce, l'esistenza di un comune spirito europeo, che spontaneamente collegava ed univa popoli apparentemente tanto diversi fra loro.
La rivoluzione siciliana che, per un anno e mezzo, determinò la ricostituzione dell'antico Regno di Sicilia, che sperimentò un nuovo periodo ispirato al costituzionalismo inglese e che fece del Parlamento, seppur eletto a suffragio limitato e dominato dalla vecchia classe dominante baronale, il fulcro del nuovo sistema politico, non si può certo liquidare come un fallimento sol per la sua breve durata e per il ritorno, nel maggio del 1849, della dinastia borbonica che spazzò per sempre il sogno di una Sicilia indipendente. Gli aspetti dell'esperimento rivoluzionario furono senza dubbio molteplici: la classe dominante siciliana, seppure per pochi mesi, si assunse una grossa responsabilità politica ed amministrativa, mettendosi alla prova come classe dirigente; il popolo, in genere, accettò il peso delle armi per puro spirito patriottico; i più accesi indipendentisti compresero che una Sicilia indipendente sarebbe sempre stata in balia delle grandi potenze europee e si avvicinarono in maniera irreversibile all'idea federalista e al sogno di partecipare ad una grande patria italiana. Un altro lato positivo da non sottovalutare - ed è proprio questo che mette in rilievo Salvatore Candido - fu quello relativo alla vivacità del dibattito culturale che scaturì da quell'evento politico e che risvegliò la classe intellettuale siciliana da un lungo letargo, prolungato dal mancato arrivo oltre lo Stretto della rivoluzione francese, collegandola al resto della cultura europea. Testimonianza di tale risveglio è data dal proliferare a Palermo, ma anche nel resto della Sicilia, di centinaia di piccoli giornali, di varia diffusione, frutto di una completa libertà di espressione, rara in quel periodo dell'ottocento e ancor più difficile ad ottenersi in una fase storica caratterizzata da eventi rivoluzionari. Si pensi, ad esempio, che nel culmine della rivoluzione si permetteva la pubblicazione di un giornale nettamente antirivoluzionario e filoborbonico come Il Gesuita che cominciò ad essere pubblicato tredici giorni dopo l'espulsione dei gesuiti sancita dal Parlamento siciliano. L'editoriale del primo numero è talmente violento contro il potere costituito che ci sorprende piacevolmente come quest'ultimo permettesse la diffusione di tale foglio. I protagonisti della rivoluzione sono definiti infami e la rivolta popolare contro i Borbone è giudicata orrenda. Il Candido attribuisce alla debolezza dell'esecutivo e alla sua incapacità di effettivi controlli, la pubblicazione di fogli così infamanti nei confronti del governo e della sua politica, noi preferiamo pensare all'esistenza fra la classe politica rivoluzionaria di un genuino rispetto per le libertà fondamentali dell'uomo, fra cui la libertà di esprimersi è forse la più importante.
Il Candido ci presenta ben 143 di queste testate, nate a Palermo e poi soppresse, quasi tutte, dalla restaurazione del '49, frutto dell'iniziativa di una classe di intellettuali, solo in parte espressione dell'aristocrazia dominante, per lo più di estrazione medio-borghese e di formazione illuminista come Matteo e Girolamo Ardizzone, Corrado Arezzo de Spuches, Vito Beltrani, Michele Bertolami, Francesco Busacca, tornato a bella posta da Firenze, Francesco Campo, Benedetto e Giambattista Castiglia, Gaspare Ciprì, Francesco Crispi, Gaetano Daita, Giovanni e Vito D'ondes Reggio, Francesco Ferrara, Saverio Friscia, Giuseppe La Farina, Francesco Milo Guggino, Francesco Paolo Perez, Giovanni Raffaele, Gregorio Ugdulena, Leonardo e Salvatore Vigo. Alcuni di essi erano membri del governo, alcuni della Camera dei Comuni, altri, semplicemente, facevano capo ai vari clubs che, alla maniera francese, si erano spontaneamente formati nella capitale siciliana. Ai giornali palermitani Candido aggiunge un foglio di Partinico, ma stampato a Palermo, Stati Uniti d'Italia, e quattro giornali napoletani attinenti alle cose di Sicilia che si pubblicarono a Napoli nel periodo costituzionale di quel regno, dal febbraio al maggio 1848, e che erano diretti da siciliani come Stellario Salafia, interprete del più intransigente liberalismo. Peraltro, tali giornali testimoniano l'apertura del governo costituzionale napoletano di Ferdinando II alle istanze più radicali di quei rivoluzionari che consideravano ormai inevitabile il distacco della Sicilia dal Regno borbonico, cosa, questa, che suscita in noi un'evidente sorpresa.
Nel passato altri studi sono stati fatti sulla stampa del periodo rivoluzionario, anche se non particolareggiati e obiettivi come quello di Candido; ricordiamo, in proposito, la Bibliografia sicula sistematica di Alessio Narbone del 1855 che elenca 141 testate fra cui alcune oggi assolutamente irreperibili, i Giornali di Palermo pubblicati nel 1848-49 di Giuseppe Lodi, apparso nel 1898, che esamina 151 testate e, infine, il più recente, Giornali di Palermo nel 1848-1849 di Martino Beltrani Scalia, pubblicato nel 1931, che annota 138 giornali. Il Beltrani, tuttavia, pecca di notevole superficialità, non solo nel trinciare giudizi sulle qualità dei singoli fogli, ma, soprattutto, nel rilevarne l'appartenenza politica, definendo, per esempio, come giornali borbonici pubblicazioni che si distinguevano, nonostante la loro opposizione al governo, proprio per il fervore rivoluzionario. Rifacendosi al lavoro di Beltrani, uno dei nostri più illustri storici del Risorgimento, Rosario Romeo, dà poco peso al ruolo che nel biennio liberale svolse la stampa siciliana, tacciandola come "astiosa e petulante, di bassissimo livello intellettuale e morale"( p. 27). Ingannato, infatti, dai giudizi superficiali del Beltrani, alla cui opera attinse notizie in materia, finisce per fare di tutta l'erba un fascio e confondere giornalucoli malevoli e di basso livello, con testate degne di ogni nostra attenzione, sia per la validità degli articoli che per la capacità e l'onestà politica dei compilatori.
Il primo giornale ad apparire, solo nove giorni dopo lo scoppio della rivoluzione, fu il Giornale patriottico che poco dopo avrebbe mutato il suo titolo in Il Tribuno e che ebbe come principale collaboratore Salvatore Salafia e forse come direttore quello stesso Bagnasco che aveva redatto il manifesto rivoluzionario. Nei 45 numeri del giornale, pubblicato fino al 13 marzo 1848, si leggono prestigiose firme come quella di Michele Amari, di Gregorio Ugdulena, di Benedetto Castiglia, di Gaetano Picone. Dai contenuti di detto giornale, esso si può classificare come favorevole ad un costituzionalismo moderato e come molto vicino alle correnti federali, sulla base di un'adesione al programma neo-guelfo di Gioberti.
Il giorno successivo all'apparizione del Giornale patriottico, vede la luce un nuovo foglio Il Cittadino, di cui si pubblicarono 208 numeri dal 22 gennaio al 30 settembre 1848. Probabili direttori ne furono Mario Corrao e Biagio Privitera, anche se nella pagina 4 del foglio erano indicati come direttori l'Abate Giuseppe Fiorenza e l'avv. Gaetano De Pasquali. Il giornale si propone di riferire i fatti della rivoluzione, almeno fin quando la situazione non si fosse stabilizzata; da quel momento in poi si sarebbe occupato esclusivamente del dibattito politico. La linea politica del giornale, preoccupato, almeno nei primi tempi di vivere sui fatti della giornata, è alquanto incerta; ciò che appare chiaro è l'appoggio al ripristino della costituzione del 1812 e all'idea federalista propugnata da Gioberti: "Tralasciando di parlare degli altri regni italici, parliamo della Sicilia. Ella, che ha sospirato sempre l'essere unita all'Italia tutta, o con la Lega o colla Confederazione, rilutterebbe affatto alla fusione. Ella ove sarà compito il suo Statuto, vorrà restare nazione indipendente, né sottrattasi eroicamente dalla fusione napoletana, vorrà divenire piemontese o toscana. Sarà sempre italiana: ma sarà nazione a sé con quel regime che meglio converrà ai suoi bisogni, all'esigenza dei tempi" (p. 54).
Troviamo nel giornale anche alcuni articoli favorevoli alla forma repubblicana, ma si tratta di posizioni sempre molto vaghe in cui si guarda alla repubblica, più come ad un'astratta ed irraggiungibile organizzazione politica, che ad un determinato tipo di regime istituzionale. Ciò ha fatto sì che Beltrani giudicasse il foglio in oggetto privo di un'effettiva linea politica e di un programma costante. Peraltro, tutto questo potrebbe essere imputato sia alla pluralità di direttori che si avvicendarono, sia al fatto che, il più delle volte, gli articolisti dovevano dibattersi tra l'ideale romantico repubblicano e ugualitario e i freni ad esso imposti dagli interessi delle classe sociale dominante che aborriva la forma repubblicana vedendo in essa il principio della fine, cioè il sovvertimento dell'ordine sociale esistente. Tale sorte sarà condivisa da tanti altri giornali sorti in tale periodo che, pur mantenendosi fedeli alla forma monarchico istituzionale, auspicata dall'aristocrazia e dall'alta borghesia palermitana, cedevano talvolta alla forza del richiamo democratico ed egualitario, di cui la cultura romantica, pronta a diffondersi anche in Sicilia, faceva un suo cavallo di battaglia.
Anche La Rigenerazione, che vide la luce il 27 gennaio del '48 e che continuò le pubblicazioni fino al 4 settembre successivo, si schiera dalla parte di un costituzionalismo monarchico finalizzato ad un unione col resto dell'Italia su basi federaliste, anche se in un primo tempo si parla solo di unione federale tra Napoli e la Sicilia. Successivamente però, il giornale plaude entusiasticamente alla bandiera tricolore con la scritta Confederazione Italiana, fatta sventolare, la mattina del 5 febbraio dalla cima della più alta torre del Castello. E, riferendosi alla bandiera, l'articolista così scriveva: "Ecco, dicea, Italiani il segno della nostra nuova alleanza: la Sicilia fra tutti gli Stati italiani inalberò la prima questo vessillo; questa è la nostra comune patria; dalle Alpi al Lilibeo [...] corriamo ad abbracciarsi con un nodo indissolubile confederiamo l'Italia ad onta degli sforzi dei nostri oppressori". Il direttore Tirrito diede spazio anche al ruolo politico che le donne avrebbero ricoperto nel rinato regno di Sicilia e non fu il solo a porsi su questa linea, visto che lo avrebbero fatto successivamente altri fogli, a dimostrazione dell'interesse che l'avvenire politico dell'isola esercitava anche fra il pubblico femminile.
Di particolare importanza appare, fra i giornali del primo semestre rivoluzionario, L'Apostolato, fondato e diretto da Francesco Crispi, tornato da Napoli a Palermo per prendere parte da protagonista alla rigenerazione politica della sua terra. Il foglio vide la luce il 27 gennaio 1848, interruppe le pubblicazioni il 25 maggio successivo per riprenderle il 13 febbraio dell'anno seguente e concludere definitivamente la sua breve vita il 6 marzo 1849. In totale furono stampati 54 numeri. E' interessante notare che nella prima serie, quella che va dal gennaio al maggio '48, sotto la testata appare il motto rivoluzionario francese nous marchons, motto che nella seconda serie viene sostituito con un altro molto meno giacobino: post fata resurgo. Ciò dimostra il cambiamento sia della posizione politica del Crispi, sia della situazione politica contingente. Il Crispi che produce la prima serie di fogli è il Crispi giacobino e rivoluzionario, legato al modello ideale della rivoluzione francese, giovane appassionato attirato dall'idea di una palingenesi generale. Egli scrive nel periodo delle vittorie rivoluzionarie, quando ormai tutto sembra facile e a portata di mano per l'edificazione di uno stato siciliano libero ed indipendente. Quando il giornale riprende le sue pubblicazioni tutto è cambiato: la rivoluzione è alla fine, le forze borboniche si apprestano a riconquistare la Sicilia debole militarmente ed isolata diplomaticamente. Anche Crispi è cambiato e punta, forse, in una conversione al moderatismo come ultima speranza per salvare l'indipendenza e placare le paure di Francia ed Inghilterra e dell'aristocrazia siciliana . Al giornale collaborarono grossi nomi della cultura siciliana come Filippo Cordova, Salvatore Chindemi, Michele Bertolami, Giovanni Bruno e anche una donna, Elisabetta Fiorini.
Il giornale sosteneva la necessità di ritornare alla Costituzione del 1812 e di mantenere l'indipendenza politica, senza rifiutare, peraltro, un'unione confederale a Napoli e agli altri stati della penisola. Significativa è la pubblicazione della lettera di Michele Bertolami a Mazzini sui destini della Sicilia e dell'Italia: "[...]Non mi parlate di Unità ma di Unione. Ed Unione grida la Sicilia a Napoli, come tutti gli altri stati italiani[...], unione che unifichi l'Italia nei sacri interessi della sua piena indipendenza e lasci inviolati ad un tempo i diritti di ogni stato al cospetto degli altri. Unione grida la Sicilia, ma quell'Unione vera che è tra fratelli fieri della propria dignità e bramosi di sostenere e difendere la madre comune, quell'unione che la faccia parte d'Italia e non provincia di Napoli, quell'unione che consigliata e, dirò meglio, comandata dai sacri solenni interessi, non possa mai venire meno per astuzia di principi e sciagurate passioni di popoli[...]" (p. 69) Nell'ultimo numero della prima serie, quello del 13 maggio 1848, Crispi firma un editoriale in cui ribadisce la sua convinzione sulla necessità di una Sicilia indipendente in un contesto confederale italiano, Sicilia che si era "[…]disgiunta da Napoli, come dalla sua matrigna, ma che va a ricongiungersi coll'intera Italia, come colla sua naturale madre"( p. 73).
Amara è la conclusione che Crispi trae degli eventi rivoluzionari in un editoriale del 16 febbraio 1849 quando ormai ogni speranza appariva perduta: "[...] nulla saranno le rivoluzioni se al popolo, che n'è strumento e scopo, e in cui si riassume ogni sovranità, non si manifestano i mezzi a conservare i poteri, non s'indica in quale tempo egli viva, e con quali riforme amministrative possa assicurarsi del presente, e prepararsi in avvenire" (p. 74)
Fra i fogli del primo semestre riveste particolare importanza Il Popolo, giornale democratico fortemente critico sul ruolo della nobiltà siciliana nel periodo rivoluzionario. Di tale giornale, di cui direttore (amministratore responsabile) era Agatino Previtera e a cui collaboravano note firme dell'intellighenzia isolana come Corrao, Ciprì, Bertolami, Campo e anche una donna, Maria Agata Sofia Sasserno, sono giunte fino a noi una cinquantina di copie, sparse fra varie biblioteche. Il primo numero uscì il 9 febbraio 1848 e, con frequenti interruzioni, il foglio si pubblicò fino al 27 febbraio 1849 anche se con un altro titolo, La Costituente Italiana.
In uno dei primi numeri Biagio Privitera metteva in guardia i siciliani dall'eccesso di municipalismo che non avrebbe dovuto essere il fine della rivoluzione. La Sicilia che aveva precorso i fatti del Risorgimento, avrebbe dovuto, invece, rivolgersi al generale movimento d'Italia ed unirsi ad essa con vincoli federativi, senza perdere cioè, la sua individualità. Il Corrao, invece, in un altro articolo ribadiva il suo concetto di sovranità che risiede nel popolo e di cui il sovrano è solo l'esecutore. Un'eccedenza dei poteri del re rispetto al popolo poteva, dunque, configurarsi come usurpazione e dispotismo. Sempre il Corrao fa una cauta, quanto poco chiara apertura al socialismo a proposito della necessità che la Sicilia si federi al resto della penisola affermava: "Favorire la causa del popolarismo, la lega, l'indipendenza italiana è favorire le leggi naturali del socialismo, del progresso umano, del vostro benessere" (p. 84)
Il giornale si fa sostenitore della Costituzione del 1812, adattata, tuttavia, ai nuovi tempi. Tale costituzione avrebbe, infatti, dovuto tener conto del progresso nel pensiero costituzionale e del riconoscimento, dunque, della piena sovranità popolare, sulla cui base avrebbe dovuto fondarsi "l'edificio della nuova società vera costituzionale e civile". Contro tali principi si poneva l'aristocrazia, timorosa di perdere quei privilegi di cui aveva sempre goduto e che costituivano il contraccolpo della sovranità popolare. La seconda serie del giornale, che si apre il 23 settembre del '48, appare fortemente e coraggiosamente critica nei confronti del governo scaturito dalla rivoluzione, chiaramente dominato dall'aristocrazia e dai suoi interessi, incapace di ricostruire ciò che con facilità era stato distrutto e assolutamente antisabauda, mentre l'esaltazione della repubblica e della democrazia, man mano che le sorti della rivoluzione conservatrice volgono al peggio, si fa sempre più evidente. Indubbiamente questa è una testata che si distingue da tutte le altre per originalità e coraggio e per notevole spirito critico.
Un altro giornale che si eleva su tutti gli altri del periodo, sia per la cultura e le capacità politiche del suo direttore, Francesco Ferrara, sia per la qualità degli articoli, è L'Indipendenza e la lega. Sorto a Palermo il 15 febbraio 1848 e definito il migliore da Michele Amari fra quanti apparvero in Sicilia nel biennio liberale, si pubblicherà fino al 14 ottobre successivo per 149 numeri a cui, talora, venivano aggiunti Supplementi su particolari argomenti. La chiusura del giornale fu, probabilmente, dovuta alla partenza per Torino, da cui non farà più ritorno, del suo direttore, designato dal Parlamento come componente della Commissione costituita per offrire la Corona di Sicilia al figlio di Carlo Alberto. Al giornale, il cui titolo rivelava il programma politico, indipendenza siciliana e federazione italiana, collaborò il fior fiore degli intellettuali siciliani come Vito e Giovanni D'Ondes Reggio, Giacinto Carini, Vincenzo Errante, Giuseppe Ugdulena, Andrea Guarneri. Il Ferrara fu accusato di essere asservito al potere per la mancanza nei suoi articoli di un'effettiva intransigenza ideologica. In effetti, il grande economista, che lo scoppio della rivoluzione aveva colto all'interno del carcere di Palermo, prigioniero politico assieme ad altri suoi compagni, futuri collaboratori del suo giornale, Emerico e Gabriele Amari, Gioacchino D'Ondes Reggio, Francesco Paolo Perez, aveva le idee ben chiare sul futuro della Sicilia e dell'Italia, ma moderava le sue posizioni per realismo politico. Infatti, pur essendo convinto che la repubblica fosse il meglio a cui si potesse aspirare, sapeva anche che i tempi non erano maturi, che l'opinione pubblica moderata rifiutava drasticamente la soluzione repubblicana e che quindi, per non distruggere l'unità di un popolo in lotta, bisognava optare per una monarchia costituzionale, limitando i poteri del re con i puntelli apposti dai rappresentanti del popolo. Peraltro, anche la posizione della Sicilia a livello internazionale sarebbe stata pregiudicata da una scelta repubblicana. Il dibattito monarchia - repubblica proseguì sul giornale del Ferrara ad opera di due suoi giovani collaboratori, Andrea Guarneri e Gaetano Deltignoso: mentre il primo sosteneva la superiorità della repubblica, che era, di fatto, il sistema adottato in quel tempo in Sicilia, visto che la massima potestà era affidata ad un Presidente eletto, Ruggiero Settimo il secondo appariva più attendista, giudicando ancora non maturo il popolo, ma soprattutto l'opinione pubblica, per un regime repubblicano.
Particolarmente lungimirante si dimostrò il Ferrara nel giudizio su Carlo Alberto, in quel momento osannato da tutti i liberali italiani: " Carlo Alberto vuol essere re d'Italia; la Santa Alleanza non gliel'ha permesso; i liberali del Piemonte gli preparano la via, attendiamoci un ultimo tradimento che coroni la vita di questo camaleonte politico"(p. 113). Sulle stesse posizioni altri giornali del tempo, come La Moderazione e La Bussola, quest'ultimo diretto da Benedetto Castiglia, a riprova che i siciliani avevano ben capito le mire dinastiche di Carlo Alberto per cui nutrivano ben poche speranze sul suo aiuto politico.
Il Parlamento, sorto a Palermo il 26 marzo del '48, concluse le sue pubblicazioni il 7 giugno successivo. Di ispirazione moderata e di tendenze filo - governative, si avvalse di valorosi collaboratori come Michele Amari, Francesco Paolo Perez, Vito Beltrani, Gaetano Daita, ecc. Di rilevante importanza appare la polemica alimentata dal Beltrami sulla scelta dei ministri fra i componenti il parlamento, soluzione, questa, giudicata lesiva del principio della divisione dei poteri, poiché avrebbe reso i ministri - deputati partecipi, contemporaneamente, del potere legislativo e di quello esecutivo.
Apertamente repubblicano si rivelava Il Fulmine di cui uscirono solo 20 numeri a partire dal 5 aprile 1848 fino al 28 giugno successivo. Direttori e proprietari risultano gli avvocati De Caro, Ferro, Dominici e Greco, tra i collaboratori più noti: Salvatore Salafia, Giuseppe Barresi, Giuseppe Fazio Spada, Francesco Campo. Proprio quest'ultimo, in un articolo pubblicato il 15 aprile, Un avvertimento alla Sicilia, esterna le sue preferenze repubblicane in maniera quanto mai forte e chiara: "[...] Lo stato naturale dei popoli è quello dove tutto è per tutti, e poi chiamatelo come volete, repubblica o altrimenti se pure questo nome spaventa i timorosi, gli abituati alla sferza, i pregiudicati [...] il secolo è repubblicano e l'Europa sarà repubblica"( p. 156) e nell'edizione del 19 aprile ribadiva così il concetto: "Se l'Italia avrà compiuta vittoria e l'esempio di Venezia, seguito da Milano e da Genova, si propagherà negli altri stati italiani e formerà una federazione di repubbliche, la Sicilia non potrebbe in tal caso negarsi a tale processo civile [...] Io confido che anche senza volerlo noi avremo in breve una repubblica, ma per Dio non mostriamo all'Europa che avendo un braccio ed una mente disponibili pel progresso e per il bene dell'umanità, noi ci restiamo inoperosi" ( p. 157)
Un altro interessante foglio nato nel primo semestre rivoluzionario e diretto dal grande patriota autonomista Giovanni Raffaele, fu Lo Staffile. Detto giornale ebbe vita breve, dal 19 aprile al 20 maggio 1848, anche se poi riprese le pubblicazioni, per soli quattro numeri, tra l'11 giugno e il 1 luglio successivi. Nell'editoriale del primo numero il direttore enuncia chiaramente il programma del giornale: "Il titolo di questo giornale vi rivela lo scopo a cui mira. Il compilatore menerà a dritta e a manca il suo staffile, ma non alla cieca. Egli desidera e curerà di non colpire gli amici, ma badino che se essi visi menano sotto rimarranno storpiati, né la colpa sarà da addebitarsi a chi lo maneggia, bensì a loro stessi che ciechi non han veduto il precipizio verso cui correvano, avvertiti non hanno ascoltato[...]" (p.162) Pur trattandosi di una pubblicazione di alto livello culturale e corretta anche nell'impostazione della critica, dovette, senza dubbio, per il coraggio delle opinioni espresse, dar fastidio ai potenti del momento, visto che la sua brevissima vita potrebbe spiegarsi solo con un intervento, a favore della sua soppressione, partito dalle alte sfere, a dimostrazione che la tanto sbandierata libertà di stampa si calpestava di fronte a chi si spingeva troppo oltre sulla via della democrazia.
La Gazzetta dei saloni era un giornale preesistente alla rivoluzione e che sopravvisse alla stessa, essendo stati reperiti alcuni numeri pubblicati dopo la restaurazione borbonica, anche perché il suo direttore e proprietario, Salvatore Abate, personaggio camaleontico, si sarebbe affrettato a passare, una volta tornati i Borbone, al servizio di questi ultimi. Durante il periodo liberale uscì soltanto dal 22 aprile al 3 giugno 1848 per complessivi 7 numeri. Nonostante fosse prevalentemente un giornale culturale ed economico e non politico e nonostante il passaggio del suo direttore, dopo il maggio 1849, dalla parte dei Borboni, in quel breve periodo in cui si pubblicò durante la rivoluzione, rivela tendenze fortemente radicali e chiaramente repubblicane. In un epoca in cui ancora si credeva alla sacralità dell'autorità monarchica, incita verso il tirannicidio, riconoscendo il diritto intangibile dei popoli, anzi il loro dovere, a reagire contro un malvagio governo. Quanto alla forma istituzionale, uno dei suoi principali collaboratori, Bandiera, scriveva: "[...] lo spirito repubblicano riunisce nel sacro centro del bene pubblico gli interessi particolari di tutti i cittadini" ed esortava i giovani "affinché non si facessero sedurre da coloro che diffamano il governo repubblicano e che hanno interesse a veder ristabilito il regno dell'arbitrio e della forza" (p. 169).
Apertamente repubblicano ci appare anche L'Argo siciliano, diretto da Giambattista Giordano, che arriva addirittura ad auspicare la convocazione di un'assemblea costituente eletta a suffragio universale per risolvere il problema istituzionale e una forma repubblicana federale, garantita dalla presidenza del sommo pontefice, per l'intera penisola italiana. C'è da dire, tuttavia, che pur schierandosi per la forma repubblicana, i collaboratori del giornale concordano nell'accettare, almeno per il momento, la scelta monarchico-costituzionale, considerandola, tutto sommato, più adatta allo spirito dei tempi e agli equilibri internazionali. Anche La Forbice, diretta da Salvatore Salafia si pone su identiche posizioni, esortando i politici a non perdersi in lunghe ed inutili disquisizioni dottrinali, ma a dedicarsi, piuttosto, ai problemi più concreti ed urgenti come la difesa della rivoluzione. Ciò dimostra che nel campo del giornalismo dell'epoca era molto diffuso, malgrado l'esaltazione che ogni rivoluzione porta con sé, un notevole e costruttivo pragmatismo e una reale aspirazione alla libertà politica e all'inserimento dell'Isola nel contesto della vasta cultura europea.
Un discorso a parte merita L'Osservatore, giornale su cui scrisse Vincenzo Mortillaro e che appare il portavoce di quell'aristocrazia che non avrebbe mai rinunziato al suo ruolo di classe dominante anche a costo di diventare rivoluzionaria, in modo da dare al sollevamento popolare un'impronta essenzialmente conservatrice. Esso esalta la parte aristocratica della nazione e quindi quelle repubbliche aristocratiche che, soprattutto in età classica e nel medioevo, avevano dato alle nazioni stabilità e prestigio. Conformemente agli interessi politici che sosteneva, il giornale si schiera per un sistema amministrativo diverso dall'accentramento francese, che desse ampia autonomia a città e comuni, sul modello delle città - stato greche, in modo da mantenere il potere che localmente deteneva la piccola aristocrazia di campagna, i vecchi feudatari insomma, e limitare, secondo la tradizione siciliana, il potere centrale.
Di orientamento opposto, dichiaratamente progressista e anti aristocratico è La Vipera, diretta da Giovanni Raffaele. Tale foglio si proponeva di avviare assieme a due altri giornali La Forbice e Il Fulmine, un'opera di incitamento ai rivoluzionari puri affinché non si adagiassero sugli allori del successo momentaneo o non si cullassero di soddisfare essenzialmente interessi ed ambizioni personali, ma pensassero, piuttosto, a difendere seriamente la Sicilia dalle insidie controrivoluzionarie. E' chiaro, nei vari numeri del giornale, l'attacco a Mariano Stabile, accusato di mire dittatoriali, il quale appariva come il vero arbitro assoluto, a causa della debolezza di Ruggero Settimo, della situazione politica siciliana .
Interessante e controcorrente appare La tribuna delle donne, di cui sono giunti fino a noi solo due numeri, che si presenta come il portavoce delle richieste di emancipazione da parte delle donne, anche se la lotta " contro i perfidi, cioè gli uomini, che le trascuravano assume un tono scherzoso e ridanciano e sullo stesso tono è proposta la guerra agli oppressori dichiarata per rovesciare l'impero che gli uomini esercitarono su di noi, come vi è detto" (p. 270). Nel secondo semestre della rivoluzione, a partire dal 21 ottobre 1848 fino al 2 gennaio successivo, uscì a Palermo un altro giornale molto simile a quello precedentemente citato, si trattava de La legione delle pie sorelle, diretto da padre Antonio Lombardo delle Pie Scuole e redatto quasi esclusivamente, da donne: Rosalia Auteri, Sarina Batòlo, Irene Corvaja, Mariannina de Buzzi, Annetta Rini, Caterina Rossi. Il giornale avrebbe dovuto pubblicare esclusivamente gli atti relativi all'attività della nuova istituzione filantropica, appunto la Legione delle Pie sorelle, ma di fatto pubblicò anche parecchi articoli di carattere politico, nei quali si rivendicavano i diritti politici delle donne e si insisteva sulla necessità del loro affrancamento dalla tirannide maschile.
Tra i giornali del secondo trimestre rivoluzionario si distingue Lo Statuto, diretto dal catanese Nicolò Musumeci e di cui sono giunti fino a noi 126 numeri, a partire dal 22 agosto 1848. Di tendenze moderatamente repubblicane, federaliste e fortemente antisabaude, non sempre segue una linea coerente ed un programma concordato. Sulla stessa linea si pone L'Educazione popolare, bisettimanale diretto dal sacerdote monrealese Pietro Gambino e di cui principale compilatore fu Giambattista Castiglia. Ferocemente contrario alla politica di Carlo Alberto che definisce principe senz'anima e inetto si rivela, altresì, fiero fustigatore di Mariano Stabile, uomo ricco di straordinaria scaltrezza e certa arte finissima di abbindolamenti che aveva instaurato nell'isola una dittatura spuria e per colpa del quale, ad un anno dallo scoppio della rivoluzione, la Sicilia si presentava come una regione delusa, malcontenta "senza pace, senza tranquillità, senza sicurezza, senza governo veruno"( p. 340)
Notevole tra i fogli stampati in tale periodo, appare La Costanza, seguito del giornale, sempre diretto da Giovanni Raffaele, dal più bellicoso titolo Vincere o morire. Ne furono pubblicati 236 numeri, a partire dal 14 settembre 1848 fino al 25 maggio 1849, ben dieci giorni dopo l'entrata delle truppe borboniche a Palermo, cosa che apparve come un vero e proprio gesto di sfida, che si confaceva al carattere del Raffaele, al regime restaurato con la forza e contro la volontà dei siciliani. Fieramente antiaustriaco e anti monarchico - "L'Austria è in Italia la negazione più positiva del diritto popolare, della libertà umana, noi diremo anche della giustizia provvidenziale"( p. 349) e " Fa rabbia pensare che gli uomini del 1848[...] abbiano potuto illudersi e credere che possono esistere re amici della libertà e protettori dei popoli insorti a viva forza, rigenerati contro gli interessi e l'inclinazione dei principi" (p. 352)- annoverò collaboratori, come Paolo Paternostro, che si sforzarono di dare al foglio il ruolo di coraggioso fustigatore della nuova classe dirigente rivoluzionaria, priva del coraggio necessario a voltare definitivamente pagina e a fare della Sicilia uno stato repubblicano che potesse essere faro e guida per i paesi del mediterraneo e dell'Italia tutta. E appunto in occasione del rifiuto ad accettare la corona siciliana, da parte del duca di Genova, il giornale esorta il Parlamento e il governo, affinché senza più aspettare oracoli che mai sarebbero venuti da Torino, si decidesse a mutare la testa che debba incoronarsi, cioè, che tralasciassero di designare un nuovo re e che si decidessero, invece, a proclamare la repubblica. Primo fra i vari fogli apparsi in Sicilia nel periodo rivoluzionario, il giornale ha il coraggio di trattare il delicato problema dell'abolizione del potere temporale dei Papi. "Bisogna aver ben poca fede per temere che la Religione possa soffrire, se il Papa non è principe e se non risiede a Roma"( p. 354) Sorprendente è la foga con cui un sacerdote, Padre Lo Cicero, morto qualche tempo dopo, forse di veleno, sostiene dalle pagine del giornale la necessità dell'avvento della repubblica e di u n sistema ispirato a principi di uguaglianza e di democrazia che ritiene conformi al progresso del genere umano: "Repubblicani non sono nemici del popolo! [...] La repubblica è nome santo; è dessa la figliola dell'Altissimo[...] tristo chi osi pubblicamente contaminarla![...] I repubblicani non vogliono anarchia, ma ordine[...] rispettano lo Statuto e vogliono far conoscere al popolo i propri diritti [...] la propria sovranità" (p. 355).
In effetti quasi tutti i più quotati giornali del secondo semestre rivoluzionario, Il libero monitore, La propaganda, La repubblica, La Giovane Sicilia, si mostrano sostenitori dell'ideale repubblicano e seguono una linea politica ben più radicale dei giornali nati nel primo semestre del '48. Ciò si giustifica facilmente tenendo presente che nel periodo di cui trattiamo era già avvenuto il rifiuto da parte del Duca di Genova della corona di Sicilia e ciò per le mutate circostanze politiche nazionali ed internazionali. Il rifiuto del giovane figlio di Carlo Alberto, accompagnato all'isolamento diplomatico in cui stava per cadere l'Isola e alla ripresa delle ostilità da parte dell'esercito borbonico, aveva determinato fra i siciliani fortissime delusioni. La Francia, che nel dicembre del '48 aveva eletto presidente della repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, aveva ripiegato, dopo la repressione dei moti popolari del giugno precedente, su una linea politica notevolmente moderata. La maggioranza degli elettori francesi non avrebbero certamente appoggiato avventure pericolose all'estero a sostegno di cause rivoluzionarie che non si sapeva dove potevano condurre. D'altra parte sarà questa stessa Francia a reprimere con le sue truppe, nel giugno 1849, la rivoluzione romana che aveva portato alla cacciata del Papa e alla proclamazione della repubblica. L'Inghilterra che attraverso il suo plenipotenziario Lord Minto aveva fino ad allora sostenuto i rivoluzionari isolani, visto la piega che aveva preso la situazione politica internazionale, aveva paura di impelagarsi in un'impresa non più conveniente sostenendo il governo rivoluzionario siciliano che, sebbene dominato dalla classe aristocratico - conservatrice, sembrava, negli ultimi tempi essersi fatto sempre più sensibile ai richiami repubblicani. A tutto ciò la libera stampa della Sicilia rivoluzionaria non poteva che reagire gridando al tradimento da parte delle potenze europee e soprattutto da parte delle famiglia Savoia, accentuando la sua sfiducia nell'istituzione monarchica." Sappia la Francia, l'Inghilterra, il mondo intero - scriveva Giuseppe Crescenti su La repubblica - che la Sicilia proclamerà la repubblica [...] noi vogliamo un governo democratico bene organizzato; lo Statuto che il Parlamento ha decretato e fondato sopra elementi tutti democratici tratti dalla repubblica degli Stati Uniti d'America; con piccole modificazioni noi cambieremo la nostra forma Monarchica Costituzionale; il nostro Ruggiero Settimo, l'Eroe della nostra rivoluzione sarà il Presidente della Repubblica[...]" (p. 392)
Il primo semestre del 1849 si apre con una pubblicazione a carattere reazionario e clericale, Il Pensiero della Nazione, influenzata soprattutto dagli avvenimenti romani e dalla fuga del pontefice a Gaeta. "Ogni scossa che essi daranno alla Chiesa sarà fierissimo urto che scuoterà dalle fondamenta il nascente edificio della libertà e dell'indipendenza"( p.443).
Tutti i giornali che si pubblicheranno in questo scorcio del biennio rivoluzionario, reazionari o progressisti, monarchici o repubblicani, saranno tutti caratterizzati dalla delusione per la condotta delle potenze europee, particolarmente della Francia e dell'Inghilterra - vedasi a tal proposito La Democrazia, quotidiano vicino a Giuseppe La Farina - dalle recriminazioni e dalle critiche alla conduzione politica attuata dal governo di Mariano Stabile. Si rimprovererà ad esso di non aver saputo avviare una politica fiscale adeguata, di non aver saputo prevenire i disordini e il caos amministrativo, di non essere riuscito a promuovere una razionale leva militare capace di dar vita ad un esercito che potesse fronteggiare la controffensiva borbonica. Su questa linea si pone soprattutto La Luce, diretto dall'ex ministro delle Finanze Filippo Cordova. Nell'editoriale del primo numero il giornale si rivolgeva ai lettori augurandosi che la "luce tornasse sull'Isola afflitta da le ambizioni, le invidie, le ire[...] La missione di questo foglio periodico è di riparare a questi mali. Esso si propone di giudicare le opinioni, gli atti legislativi e governativi e gli avvenimenti con un'imparzialità che, cento volte promessa, non si ha cuore qui di ripromettere, ma della quale sarà giudice il pubblico." (p. 461)
L'ultima fatica di Salvatore Candido appare fondamentale per illuminarci su un periodo glorioso della nostra storia: il risveglio politico e ideologico di una Sicilia, fino ad allora sequestrata, e il suo ingresso all'interno del mondo culturale europeo da cui si era dolorosamente staccata con la fine della dinastia normanno - sveva, distacco che avrebbe segnato l'inizio per l'Isola di un lungo e oscuro medioevo.