Tra tutti i filosofi conosciuti e criticati da Rosmini un posto di rilievo è occupato dal "padre della filosofia germanica moderna"(1) ovvero Immanuel Kant. Già a partire dagli scritti giovanili Rosmini si confronta con un pensatore che, come apprendiamo da una lettera inviata a Don Giuseppe Eccheli(2) a Milano (16 Ottobre 1827), riteneva ancora poco conosciuto in Italia.
Del pensiero di Kant che, nonostante le note divergenze, influenza in modo positivo la speculazione filosofica rosminiana, Rosmini si occupa in modo significativo in varie opere già a partire dagli Opuscoli Filosofici (1827). Oltre a tale scritto giovanile i riferimenti più importanti sono chiaramente il Nuovo Saggio sull'origine delle idee (1830) che riguarda il problema gnoseologico; la Storia comparativa e critica de' sistemi intorno al principio della morale (1837) che concerne il problema morale; la Filosofia del diritto (1841-45) in cui egli svolge la critica al "principio di coesistenza" kantiano, ossia alla dottrina giuridica del pensatore tedesco; ed infine la Teosofia (1859-74) ed il Saggio storico-critico sulle categorie e la Dialettica (1882) in cui egli critica gli sviluppi idealistici del pensiero kantiano.
a) Il sistema morale rosminiano
Prima di esaminare nel dettaglio le critiche che il Roveretano muove in sede morale al filosofo di Königsberg ci sembra opportuno delineare, seppur a sommi capi, la teoria morale di Rosmini.
Nella divisione delle scienze operata nel Sistema filosofico (1845) l'etica appartiene a quelle che Rosmini definisce Scienze di ragionamento, terza classe dopo quelle di intuizione e di percezione. Se queste ultime sono Scienze di osservazione, le Scienze di ragionamento sono invece basate sulla riflessione che "…seguendo la guida di quei 'principi che le somministra il lume dell'essere a cui si riferisce ogni cosa, discopre nuove verità, e fin anco argomenta all'esistenza di enti che si sottraggono all'intuizione ed alla percezione"(3). Nell'ambito di questa classe si distinguono le scienze ontologiche, ossia basate sugli enti così "come sono" e quelle deontologiche, ossia rivolte al "come devono essere gli enti". L'etica o morale appartiene, chiaramente, a questo secondo gruppo in quanto scienza del dover essere, ossia "…volta a render gli uomini buoni"(4).
Il primo compito che l'Autore si propone è quello di scoprire in cosa consista l'essenza della moralità che non è altro che il principio della morale, ovvero la prima legge da Rosmini espressa nel seguente modo: ""Segui il lume della ragione" formula la più estesa di tutte quelle che si possono assegnare nella scienza morale"(5). Rispetto alla tradizione precedente che pure aveva individuato nel "lumen", impresso nella natura umana, la regola-guida dell'agire umano, Rosmini ritiene di fornire un contributo originale individuando fra tutte le idee quella idea da cui le altre discendono, e che realmente, sia il vero lume dell'uomo nel suo processo conoscitivo(6). L'idea prima cui Rosmini si riferisce è, ovviamente, l'idea dell'essere, già trattata nel Nuovo Saggio, che "…è l'idea colla quale la mente umana forma tutti i giudizi, è l'idea dell'ente universale, idea congenita nello spirito umano, o forma d'intelligenza […] L'essere in universale adunque dee essere la prima legge morale"(7). Dopo avere eletto l'idea dell'essere a rango di guida dell'agire morale dell'individuo, Rosmini definisce il bene "una relazione delle cose colla facoltà di appetire"(8). Definendo il bene una "relazione" ne segue che sono necessari due elementi, il soggetto e la cosa da lui "appetita". Il bene viene distinto da Rosmini in soggettivo e oggettivo; il primo è tale perché dipende dalle differenze soggettive degli esseri umani: ciò che è bene per uno può non esserlo per un altro; il bene oggettivo, che più ci interessa, è tale poiché viene percepito oggettivamente, in quanto si fa oggetto di cognizione(9). Rosmini parla di bene oggettivo come "oggetto di cognizione" poiché, quando noi percepiamo un oggetto, tale percezione gode del carattere della oggettività dal momento che l'uomo conosce per mezzo dell'idea dell'essere. È questa idea universale, infinita, illimitata che "…rende la mente atta alla cognizione di tutti i generi e di tutte le specie de' beni, e a godere di questa cognizione. La natura di questa cognizione e di questo godimento ha una dignità veramente somma nel suo genere, ed infinita, poiché con essa il soggetto intelligente dimentica se stesso per considerare le cose così come sono in sé"(10). Visto che ciò che osserviamo intorno a noi non è altro che "essere", il bene diventa "…l'essere considerato nel suo ordine, il quale viene conosciuto dalla intelligenza che in conoscendolo ne trae diletto: il bene in una parola "è l'essere sentito in rapporto coll'intelligenza", in quanto questa vede ciò che ogni natura esiga a se stessa, ciò che tenda colle sue forze nel modo detto"(11).
Alla stima speculativa segue la stima pratica che può essere conforme o no alla prima secondo che noi consideriamo gli oggetti secondo il loro valore intrinseco o in modo discordante da esso(12). Dovere morale dell'uomo è quello di "riconoscere" l'essere ovunque esso sia secondo il suo grado, secondo l'ordine che esprime. Ed è in questo "riconoscere" l'atto volontario dell'uomo che è chiamato ad aderire all'ordine dell'essere che ha precedentemente conosciuto. E questo atto volontario si realizza grazie alla presenza nell'uomo della volontà, definita da Rosmini "la potenza per la quale l'uomo tende al bene conosciuto"(13).
Il bene morale coincide con l'essere conosciuto dall'intelletto e riconosciuto, cioè amato, dalla volontà secondo il grado dell'essere stesso. Questa possibilità di partecipare all'ordine dell'essere fornisce all'uomo quella dignità che lo innalza al di sopra di ogni altra cosa creata da Dio. "Colla attività morale la persona finita compie lo sforzo di innestarsi nel fine dell'universo, riposto nell'essere morale, cioè compie lo sforzo di rendersi sempre più fine nel fine assoluto, mutuando da quello la sua essenza di persona. Essa costruendo in sé la forma morale coll'amare l'essere nell'ordine suo, costruisce in sé un legame sempre più stretto coll'essere, e quindi ne partecipa sempre più e come conseguenza avviene in essa una crescita d'entità"(14).
Se bene ed essere sono la medesima cosa a Rosmini è possibile affermare che il bene sarà uno e trino proprio come l'essere; se quest'ultimo ha, infatti, una forma reale, ideale e morale (quest'ultima intesa come unione delle prime due) lo stesso varrà anche per il bene. Ciascuno di questi generi di beni permette il raggiungimento dell'assoluto relativo al genere stesso, però solo "un ente per sé", cioè Dio, può partecipare di tutti e tre gli assoluti contemporaneamente: "In Dio le tre forme dell'essere sussistono nell'unità dell'essenza. Vi ha un principio infinito di azione: un principio infinito di cognizione: un principio infinito di amore: questi tre principi infiniti nell'unità formano la beatitudine. L'essere reale è assoluto, perché ha tutta la realità, è la realità: l'essere reale è assoluto, perché ha tutta la conoscibilità, è il conoscibile: l'essere morale è assoluto perché ha tutto l'amore, è l'amore"(15).
Coincidendo bene ed essere, ne segue che il male, come realtà ontologica, non esiste poiché una negazione completa dell'essere è il nulla ed il nulla è nulla, cioè ne male né bene(16). Ma leggiamo un passo della Filosofia del diritto nel quale Rosmini riassume in maniera chiara e distinta la sua posizione, mostrando come il male ed il bene morali dipendano dalla libera volontà del soggetto umano: "La persona umana è un soggetto intelligente, un soggetto di sì fatta natura, che il suo bene consiste nell'aderire all'entità oggettiva, presa questa nella sua pienezza, e perciò nel suo ordine. Il bene adunque della persona umana non nasce da essa persona umana; ma questa lo ritrova nell'oggetto, al quale s'unisce mediante un volontario atto d'intelligenza. La persona dunque in questo fatto esce di sé per trovare l'oggetto, e quest'oggetto da essa trovato la perfeziona: il perfezionamento della persona non è dunque, che una partecipazione, che ella fa, della bontà dell'oggetto, un accoppiamento di lei coll'ente.
Che cosa è poi l'oggetto? Che cosa è l'ente?- Tutto ciò che sta nell'idea, nella verità, nell'entità presa in tutta la sua estensione; in quest'essere eterno, impassibile, pieno di bellezza, divino"(17).
Ma da dove viene l'obbligo per il soggetto di aderire a quest'ordine? Non certo da sé, risponde Rosmini, bensì dalla natura dell'essere oggettivo: "La persona è la potenza di affermare tutto l'essere (il che involge un parteciparne, un compiacersene) quale e quanto esso viene da lei appreso intellettivamente. La necessità di far ciò non è la persona che la impone ma a lei viene imposta dalla natura dell'essere. Perocchè ella, la persona, veggendo l'essere, vede pure ch'egli è immutabile, identico a sé stesso ecc.; vede ancora o sente che se dicesse il contrario direbbe una falsità. Falsità, disordine intrinseco, ed evidente male, sono sinonimi. La natura dell'essere oggettivo dunque è quella onde viene alla persona la necessità di riconoscerlo, pena, facendo il contrario, la propria degradazione, che è il male personale, come dicevo, il male morale, che ne consegue"(18).
Come emerge dai testi, c'è un legame indissolubile tra morale e Verità; l'adesione della volontà alla Verità, che segue l'atto conoscitivo, produce nel soggetto intelligente il sublime diletto(19).
Sottolineare il nesso morale-Verità è importante perché permette a Rosmini di collegare la morale alla religione, o meglio di fondare su quest'ultima la morale stessa. Riconoscere la verità è il primo dovere dell'uomo, dice Rosmini, è un dato che si ritrova ovunque nelle Sacre Scritture: "Quella maniera di favellare, per la quale ogni virtù chiamasi verità, ed ogni vizio menzogna, non dimostra ella assai chiaramente, che si pone il principio della moralità nell'unione della volontà dell'uomo cogli enti a quella guisa che la verità prescrive?"(20). Quando, dice Rosmini, consideriamo religione e morale "…in tutta la loro naturalezza, senza smozzicarle, come pure si fa da troppi, ritornano alla stessa cosa considerata sotto due aspetti diversi. Se si considera quella cosa idealmente, astrattamente, come dovere, chiamasi morale; se si considera realmente, come commercio coll'Essere santissimo, colla santità stessa, chiamasi religione. In una vista astratta e teoretica, questa ci si presenta come parte di quella; in una vista pratica e come di cosa realizzata, quella ci si presenta come parte di questa: differiscono dunque nel concetto, e non nella cosa […] Ma ora, se la morale e la religione riescono alla stessa cosa, considerate nella loro integrità e perfezione, esse poi differiscono certamente l'un l'altra, qualora si considerino ne' gradi di maggiore o minore sviluppo, ne' quali esse trovansi a diverse epoche nell'animo umano.
Avendo la morale per suo principio una regola astratta e ideale (l'idea dell'essere), e la religione all'incontro avendo per suo principio un essere sussistente (la concezione, o la percezione della divinità); esse partono da punti di vista diversi, e tengono perciò stesso un cammino diverso. Solamente quando sono alla fine del loro viaggio, e quando l'una e l'altra suppongonsi già perfette, allora trovansi insieme, anzi veramente diventano perfettamente identiche"(21). Pur essendo distinte, dunque, morale e religione conducono alla stesso risultato; la seconda però serve per dare un fondamento necessario alla prima: "Ella è cosa troppo nota che la moralità non trova nella natura una sanzione sufficiente: e che solamente i premi ed i castighi della vita possono costituire una tale sanzione"(22). È la religione, tramite il concetto di Essere Supremo "legislatore e remuneratore di chi opera bene e male" che esorta l'uomo ad agire in conformità al Sommo Bene (sintesi di felicità e virtù) la quale cosa è perfettamente d'accordo colla naturale inclinazione umana alla felicità(23). È d'altronde la religione vera, ossia il cristianesimo, quella cui Rosmini si appella, la religione che "…comanda la massima attività possibile: trae tutte le forze umane in movimento: <<Amerai, dice, il Signore Dio tuo di tutto il cuor tuo, e in tutta l'anima tua, e in tutta la mente tua. - Amerai il prossimo tuo come te stesso>>"(24). Tale posizione appare al Rosmini radicalmente differente da quella di Kant in cui la dottrina finisce col ridurre la religione a completamento della morale e Dio a semplice postulato della ragione pratica.
b) La critica alla morale kantiana.
Nella Storia comparativa Rosmini inserisce Kant tra quei pensatori che, operando una distinzione nell'ambito morale tra materia e forma, pongono quest'ultima nella ragione, la quale ragione, che per Rosmini è soggettiva, finisce con l'inficiare le premesse stesse del sistema morale, cioè l'universalità dell'agire morale e il rispetto della dignità umana.
É bene ricordare che la lettura che Rosmini fa della morale kantiana è svolta da un punto di vista ben preciso: sganciando la morale dalla religione, o comunque relegando quest'ultima a completamento dell'altra, si perde quel fondamento saldo ed ultimo dell'esperienza morale che invece ogni pensatore dovrebbe ricercare. Questo punto di vista è presente già negli Opuscoli Filosofici: "Ben vero che se toglie alla ragione teoretica il potere di dimostrare la divina esistenza, ricorre alla ragione pratica per ammetterla. Ma è ciò fors'altro che un effigio novello? […] La cognizione pratica non ci dice adunque che vi è veramente Iddio, ma solo ch'egli sarebbe giusto che Iddio vi fosse: ella è una verità di convenienza, è un desiderio della natura, non una verità della mente"(25). Accettare l'esistenza di Dio per motivi di convenienza è assurdo nell'ottica di Rosmini che così continua: "Ricogliamo almeno di buono da così desolante filosofia questa confessione preziosa, che l'esistenza di Dio è pur ciò che riempie il vôto della natura umana, ciò che questa natura sente a sé medesima necessario, ciò a cui incessantemente e irrepugnabilmente sospira: confessione che fa il maggiore encomio alle filosofie le quali insegnano essere questa esistenza dimostrabile, e che fa la maggiore condanna e la maggiore critica del criticismo. Potrà l'uomo abbracciare un sistema, che dichiara impossibile dimostrare ciò, che alla sua natura è assolutamente necessario ammettere? […] Adunque la prova morale, onde Kant vuole dimostrare la divina esistenza o non prova nulla, o se prova, prova insieme colla divina esistenza anche la falsità, e l'impossibilità del kantiano sistema"(26).
Rosmini ha creato un sistema in cui nel "riconoscimento pratico dell'ente" ossia nell'agire morale si opera una sintesi perfetta tra la libertà umana e la Verità oggettiva che la religione cristiana insegna, quella stessa verità che Kant ha rifiutato di porre a fondamento della sua filosofia. Le conseguenze di questo rifiuto sono molteplici e si ripercuotono nello stesso sistema filosofico pieno di contraddizioni e difficoltà. Ecco alcuni esempi.
Kant farebbe convergere il concetto di legge con quello di volontà che invece sono opposti poiché la legge limita la volontà. Tutto il ragionamento kantiano volto a giustificare tale contraddizione è basato sulla supposizione che riconoscersi obbligato, e obbligare se stesso sia la stessa cosa. L'errore di fondo del ragionamento kantiano è di confondere la ricettività della legge con la legge stessa, di non comprendere, come osserva Rosmini, che, mentre la ricettività è soggettiva, la legge non lo è poichè essa non dipende dall'uomo ma è la luce dell'uomo(27). Addirittura, continua Rosmini in una nota, anche la definizione di personalità risulterebbe contraddittoria con quanto affermato prima dal filosofo tedesco. Ecco il testo latino riportato dal Rosmini con il relativo commento: "Personalitas moralis nihil aliud est, quam libertas naturae, rationisque legibus moralibus subiectae. […] Unde sequitur, personam quondam nullis legibus, aliis, quam quas - sibi ipsa fert, subiectam esse! Dall'esser la personalità morale quella libertà che è soggetta e non padrona delle leggi, dovrebbe dedursi per direttissima conseguenza, ch'ella non è quella che fa le leggi, ma quella che le riceve, cioè il contrario appunto di quanto Kant ne deduce"(28). Dal punto di vista rosminiano la critica può essere ritenuta valida ma dal punto di vista kantiano la coincidenza di legislatore ed esecutore della legge è necessaria per affermare quell'autonomia della volontà che dovrebbe garantire da ogni forma di eteronomia morale.
Rosmini continua la sua disamina cercando di mettere in mostra quegli aspetti nascosti del pensiero kantiano che gettano però nuova luce sul significato dello stesso. Già negli Opuscoli Filosofici egli accusa Kant di materialismo(29), ma vediamo cosa dice a proposito nella Storia comparativa: "Basta dire, che Kant non concede, che nulla si conosca, se non ciò che cade sotto il senso: di che deduce, che l'etica non ha uffici da insegnare verso Dio, ma solo verso gli uomini fra loro: il che è veramente un distruggere ogni morale, privandola di quell'assoluto fine […] Ora alle osservazioni che qui facciamo sulla morale kantiana non può che aggiungere luce il considerare appunto, come un sensismo, che s'approssima ad un vero materialismo, trascorra per così dire in tutte le vene del kantiano sistema. A dimostrarlo mi porge buona occasione quel luogo dove Kant spiega che cosa intenda per natura animale. Dalla natura animale non esclude la ragione: "Perocchè, dice, la ragione, secondo la facoltà teoretica, forse può cadere in una natura corporea vivente" Ora non sembra qui che si rinnovi il famoso dubbio di Locke sulla possibilità che la materia pensi?"(30). Ed il ragionamento rosminiano si fa ancora più stringente a proposito del rapporto anima-corpo. Sempre nella nota sopra riportata Rosmini dice: "È perché non resti dubbio circa l'indole più che mediocremente materiale di questa filosofia, che si chiama Idealismo trascendentale, si odano questa altre parole di Kant medesimo:"Quantunque in un rispetto teoretico noi possiamo distinguere nell'uomo l'anima e il corpo, tuttavia non possiamo pensare queste parti come diverse sostanze, onde a noi nascano diverse obbligazioni, affine di aver agio di dividere gli ufficî morali in ufficî verso il corpo e ufficî verso l'anima. Noi né mediante l'esperienza, né mediante argomenti di ragione possiamo bastevolmente apprendere se v'abbia nell'uomo un'anima come sostanza dal corpo diversa che lo inabiti, o non più tosto se la vita sia proprietà della materia"[…] Insomma l'intendimento umano, secondo Kant, non va al di là de' sensi e della materia; e questo non è solo esser sensista, ma esserlo in un grado maggiore di Locke e Condillac"(31).
Alle accuse di sensismo e di materialismo si aggiungono anche accuse al concetto di libertà, che, com'è noto, costituisce il fulcro della morale di Kant. Com'è noto nella Critica della ragione pura (1781) nella parte intitolata Dialettica trascendentale Kant spiega come sia impossibile pervenire ad una conoscenza teoretica della libertà: "La libertà qui è trattata solo in quanto idea trascendentale, onde la ragione pensa di iniziare assolutamente la serie delle condizioni del fenomeno mediante qualcosa di incondizionato rispetto al senso; dove per altro ella s'avvolge in una antinomia con le sue proprie leggi, che essa prescrive all'uso empirico dell'intelletto"(32). Ora, nota Rosmini, dopo aver negato la possibilità di aver esperienza della libertà, Kant dice che essa è un "fatto" scaturente dall'ambito morale: devi dunque puoi. Questa conclusione del ragionamento però è inaccettabile: la libertà, dice Rosmini, non cade sotto l'esperienza esterna, bensì sotto quella interna e l'errore di Kant è di riconoscere solo la forma di esperienza esterna. D'altronde "la libertà, come dicevamo, non è una idea, ma una realità; e le realità non si percepiscono che coll'esperienza, non si intuiscono semplicemente come le idee. Se noi non avessimo sperienza alcuna della nostra libertà, non potremmo dedurla a priori"(33).
A questo punto Rosmini passa ad occuparsi della volontà definita da Kant "facoltà di appetire, considerata non tanto (come l'arbitrio) in rapporto all'azione, e, propriamente parlando, essa non ha per se stessa nessun motivo di determinazione, ma, in quanto può determinare l'arbitrio, coincide con la ragione pratica stessa"(34). Tale definizione appare a Rosmini inefficace, contraddittoria perché non spiega come una facoltà di appetire, cioè la volontà possa essere disinteressata. Da ciò ne segue che il sistema kantiano finisce con l'essere una esaltazione della libertà umana e dell'uomo che "crede d'esser libero, perché nella libertà sola trova il mezzo di soddisfare a quella eccellenza che tanto brama, all'eccellenza ch'egli ravvisa nell'operare con indipendenza. L'uomo adunque è lusingato, tradito da un infinito amor proprio in questo sistema; il quale amor proprio trae l'uomo irresistibilmente a mentire a se stesso, a mentirsi fermamente, a giurare, a perjurare che è libero. […] Indi è, che nello stesso uomo pone Kant il fine assoluto ed ultimo, che pure non può trovarsi che nell'unico essere infinito, a cui tutte le cose sono ordinate; indi l'idolatria dell'uomo, che da mezzo secolo in qua si è manifestata in tante forme, o nelle private o nelle pubbliche cose, e nelle filosofie, e nelle sette, e ne' costumi, e nelle leggi, più o meno mascherata, sola od associata ad altri principî di sacrilego culto"(35).
In conclusione le accuse rosminiane vertono sul soggettivismo che la morale kantiana realizzerebbe, un soggettivismo che, nei confronti di Kant, Rosmini combatte già dal Nuovo Saggio, quando, non accettandone la distinzione tra fenomeno e noumeno, rivendica come forma a priori della conoscenza l'idea dell'essere, cioè verità presente alla mente che fonda l'atto conoscitivo in modo obbiettivo e non trascendentale nel senso kantiano. Il filosofo italiano si è reso conto, infatti, che, ammettendo l'esistenza di una forma a priori da un lato, e la cosa in sé dall'altro, non si riesce a superare completamente la pozione empirista, così che il sistema di Kant potrebbe essere definito un "empirismo trascendentale"(36).
c) Metafisica, etica e antropologia nei due pensatori
Come sottolinea M. F. Sciacca, l'esigenza prima del pensiero rosminiano è un'esigenza metafisica. Contro le pretese gnoseologiche della filosofia moderna Rosmini vuole recuperare "l'istanza critica della metafisica". L'interpretazione kantiana del rosminianesimo professata da Gentile, secondo Sciacca, farebbe perdere di vista il recupero, operato da Rosmini, dell'istanza critica dell'oggettività (principio ontologico) come fondamento del conoscere; tale operazione è diretta proprio contro il criticismo kantiano riconsiderando cioè, contro lo gnoseologismo moderno, il fondamentale problema della metafisica(37). Posta la questione in questi termini, continua Sciacca, è chiaro che "…il Rosmini non si muove sulla stessa linea del Galluppi e del Kant [come vorrebbero gli idealisti], in quanto l'esigenza più vera del suo pensiero non è la gnoseologica, ma quella metafisica che sempre condiziona la prima"(38). Ma se il problema della metafisica è così importante per una "genuina" comprensione del pensiero di Rosmini che non lo riduca, cioè, ad un semplice Kant italiano, quale è il ruolo della metafisica nel sistema di Kant?
È un problema lungamente discusso e da certi studiosi è stata, addirittura, ipotizzata una lettura metafisica della filosofia kantiana. Tale lettura metafisica del sistema di Kant viene sviluppata da autori come Paulsen(39), Wundt(40), e in Italia soprattutto da Martinetti(41), per il quale si parla di intepretazione metafisico-religiosa. Tale lettura metafisica si pone in netta antitesi all'impostazione della scuola neokantiana la quale interpreta la filosofia di Kant come semplice teoria della conoscenza o metodologia della scienza. Contro questa interpretazione, secondo la quale la Critica della ragione pura servirebbe solo a fissare i limiti "negativi" della conoscenza, Martinetti ed altri sostengono esattamente il contrario. Così, ad esempio, Mario A. Cattaneo: "…la stessa limitazione della ragione speculativa all'ambito dell'esperienza ha per fine la fondazione di una metafisica morale; […] La metafisica che Kant vuole fondare è pura, svincolata da qualsiasi elemento empirico, deve essere costruita a priori: la strada autentica per raggiungerla è la via morale, che trova il suo fondamento teoretico nelle idee della ragione"(42).
Anche Giovanni Ferretti in un recente volume, alla luce del dibattito sul rapporto tra ontologia e teologia sorto nel Novecento per l'influsso di figure come Heidegger o Levinas, sostiene che la filosofia di Kant si configura come un ontologia del limite che è al tempo stesso "anche un'ontologia "critica", che porta la ragione ad installarsi "sul limite" tra mondo dell'oggettività fenomenica e mondo dell'ulteriorità e differenza noumenica, vigilando perché la ragione non s'illuda di poter dilagare con i suoi concetti al di là dei suoi limiti, perdendo il senso del mistero che la circonda, ma anche perché alla ragione non sia data ad intendere, con la scusa del mistero, ciò che fa a pugni con la ragione e di fatto si riduce a puro e semplice frutto del fantasticare esaltato (Schwärmerei) dell'uomo"(43). Ed è tramite l'uso analogico dei concetti puri, così come vengono trattati soprattutto nei Prolegomeni, dice Ferretti, che secondo Kant si potrebbe raggiungere "ad una qualche determinazione "simbolica" della natura del nesso che connette i due mondi"(44).
In questo modo la Critica della ragione pura non avrebbe solo un risultato "negativo", ossia volto a fondare i limiti della conoscenza scientifica, bensì "positivo" come lo stesso Kant ci dice nella nota Prefazione alla seconda edizione (1787) dell'opera: "Da uno sguardo fuggevole a quest'opera si crederà di argomentare che l'utilità di essa sia solo negativa: […] Ma essa diventerà anche positiva appena si accorgerà che i principi sui quali si fonda la ragione speculativa per spingersi di là dai suoi limiti, nel fatto non sono un allargamento; anzi, se si considerano più da vicino, portano una inevitabile conseguenza, una restrizione del nostro uso della ragione, in quanto essi in realtà minacciano di estendere a tutto i limiti della sensibilità, alla quale propriamente appartengono, e di soppiantare così l'uso puro (pratico) della ragione. Perciò una critica che limiti la prima, è, in ciò, veramente negativa; ma, in quanto nello stesso tempo con ciò non toglie pur via un ostacolo, che ne limita o minaccia di distruggere affatto l'uso indicato da ultimo, in realtà è di vantaggio positivo e grandissimo, quando si sia riconosciuto che vi è un uso pratico (morale) della ragion pura, assolutamente necessario; nel quale la ragione inevitabilmente si estende di là dai limiti della sensibilità, e non ha bisogno per ciò dei sussidi speculativi, ma solo di assicurarsi contro le loro opposizioni, per non cadere in contraddizione con se medesima"(45).
Questa lunga citazione mostra chiaramente come per Kant valicare i limiti dell'esperienza sia un bisogno umano, una necessità che si sviluppa pienamente nell'ambito pratico. Ecco perché egli parla di primato della ragione pratica su quella teoretica. La Critica della ragione pratica completa la Critica della ragione pura rendendo possibili su base morale le verità che in sede teoretica sono indimostrabili. Questo punto è incontrovertibile: "Nel collegamento, dunque, in un'unica conoscenza della ragione pura speculativa con la ragione pura pratica, quest'ultima detiene il primato; a patto che tale collegamento non sia casuale ed arbitrario, bensì fondato a priori sulla ragione stessa, e, per ciò, necessario. Senza una tale subordinazione si produrrebbe un contrasto della ragione con se stessa, se i due usi fossero semplicemente giustapposti (coordinati)[…] Ma subordinarsi alla ragione speculativa, rovesciando così l'ordine, non è cosa che si possa chiedere alla ragione pura pratica, perché ogni interesse, in ultima analisi, è pratico, e anche quello della ragione speculativa è perfetto solo condizionatamente e nell'uso pratico"(46).
Osserva a questo punto Martinetti che, anche condannando la metafisica dogmatica, Kant insiste sulla necessità di ricercare le origini del bisogno metafisico dell'uomo e vedere in qual modo ed entro quali limiti esso può "condurci a risultati accettabili"(47). Le idee trascendentali sono proprio il frutto del desiderio umano di trascendere la sensibilità e di aspirare alla totalità. Non a caso, le idee sono frutto non dell'intelletto, i cui concetti puri sono le categorie, bensì della ragione, facoltà "…dell'unità delle regole, dell'intelletto sotto principi. Essa, dunque, non si indirizza mai immediatamente all'esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all'intelletto per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un'unità a priori per via di concetti; unità, che può dirsi unità razionale, ed è di tutt'altra specie da quella che può essere prodotta dall'intelletto"(48).
Già nella Critica della ragione pura, mentre si occupa delle idee trascendentali, Kant rimanda esplicitamente alla tradizione platonica, dimostrando con ciò questo sfondo metafisico di tutta la sua filosofia. Egli cita Platone lodandone lo sforzo di porre le idee (che per il filosofo greco sono delle entità a se stanti) in ciò che è pratico, cioè svincolato dai sensi e dall'esperienza, e, addirittura, pur riconoscendo certe esagerazioni del filosofo greco, afferma: "Se si toglie quello che è di esagerato nell'espressione, lo slancio spirituale del filosofo per sollevarsi dall'osservazione della copia nell'ordine fisico dell'universo al suo sistema architettonico secondo scopi, cioè secondo idee, è uno sforzo che merita di essere rispettato e imitato; ma rispetto a ciò che concerne i principi della moralità, della legislazione e della religione, in cui le idee, prima di tutto rendono possibile la stessa esperienza (del bene), comecchè non vi possano trovare una piena espressione, egli è un merito al tutto peculiare, che non si riconosce soltanto perché lo si giudica…"(49).
Se le idee hanno la loro sede nella ragione pratica, e se è vero quanto dice Paulsen che il fenomenalismo non è per Kant un fine, ma un mezzo da un lato per rendere possibile la conoscenza a priori dell'esperienza, dall'altro per guadagnare spazio al pensiero (non alla conoscenza specifica) del mondo intellegibile(50), allora per Kant l'ambito pratico diventa l'unico ambito in cui l'uomo possa aprirsi alla conoscenza del noumeno, ossia della Verità. Se di questa Verità empiricamente non dimostrabile (per questo Kant parlerà di fede morale) si può fare esperienza tramite l'agire pratico, noto che c'è una curiosa analogia con quanto detto da Platone nel Fedone proprio sulle modalità di visione del vero: "E allora quand'è, riprese egli [Socrate], che l'anima tocca la verità? Che se mediante il corpo ella tenta qualche indagine, è chiaro che da quello è tratta in inganno. - Dici bene - E dunque non è nel puro ragionamento, se mai, in qualche modo, che si rivela all'anima la verità?-Sì- E l'anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né vista nè udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo; e nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso, intende con ogni suo sforzo alla verità"(51). Si può allora discutere sulla plausibilità o meno dell'interpretazione metafisica della filosofia kantiana, e dei suoi legami con il platonismo, ma è indubbio, come da tali testi si evince, che la via morale, tramite la quale si accede alla Verità autentica, sia per Platone che per Kant, deve essere percorsa rifiutando ciò che è sensibile, corporeo.
Apparentemente, tale concezione della esperienza morale come propedeutica per la conoscenza della Verità, potrebbe far pensare ad un possibile punto di contatto con la filosofia cristiana (dunque anche con Rosmini, per il quale la ricerca del bene morale consiste nella scoperta della Verità).
Ad esempio, Sofia Vanni Rovighi, nel suo volume intitolato Introduzione allo studio di Kant (1968), sostiene che, dopotutto, la morale kantiana, incentrata sull'autonomia della volontà, potrebbe essere avvicinata ad un'etica teologica, ad esempio, quella tomista, se solo Kant accettasse l'idea che, provenendo la natura razionale dell'uomo da Dio, questi non comanderebbe all'uomo dall'esterno, inficiando così il comportamento morale nel senso kantiano.
Ma Kant, continua la Vanni Rovighi, non può accettare tale ragionamento che vede a fondamento della morale e del dovere una volontà intelligente, poiché egli rifiuta una fondazione metafisica della morale mentre per San Tommaso la legge morale è partecipazione della creatura razionale alla lex aeterna cioè al "… piano della divina sapienza relativo ad ogni azione e a ogni moto"(52) . Sebbene Kant non concepisca un discorso filosofico su Dio anteriore alla legge morale, tuttavia non vuole rinunziare al carattere oggettivo della legge morale, fondato invece, nell'etica tomista, sulla teologia naturale. Così, conclude la Vanni Rovighi, la legge morale rimane un dato non ulteriormente analizzabile(53).
In realtà, a nostro parere, la differenza tra la posizione di Kant e quella tomista non sembra risiedere nelle argomentazioni sopra riportate per le seguenti ragioni: primo, perché, come abbiamo cercato di dimostrare, la fondazione della morale in Kant non prescinde interamente dalla metafisica come la Vanni Rovighi sostiene(54); secondo, perché Kant non afferma che le proprietà di Dio siano differenti da quelle umane (non importa a questo punto se da Dio ci siano donate), anzi il seguente passo afferma proprio il contrario: "…mentre si attribuiscono a Dio diverse proprietà la cui qualità si pensa che convenga anche alle creature, con la sola differenza che nel primo caso esse vengano elevate al più alto grado […] ve ne sono tre che vengono attribuite a Dio in modo esclusivo, o senza specificazioni di grandezza. Tutte e tre sono morali: egli solo è santo, il solo beato, il solo saggio"(55). Se, dunque, la Vanni Rovighi sostiene che il riconoscere a Dio quella stessa natura razionale dell'uomo potrebbe eliminare, nell'ottica kantiana, il problema di una legge morale donataci da un estraneo, in realtà tale uguaglianza razionale è già presupposta da Kant; solo che il pensatore tedesco, non riesce a contemplare la piena autonomia morale del soggetto qualora la legge morale non sia creata da quello stesso soggetto che ne sarà l'esecutore. L'impossibilità di accostare la morale kantiana a quella tomistica o rosminiana risiede, invece, nello stesso presupposto per cui Kant non si riconosce in nessun sistema morale a lui precedente: il presupposto per cui solo un sistema morale formalistico-rigorista garantirebbe la necessità e l'universalità propri dell'istanza morale, mentre qualsiasi altro sistema sfocerebbe in qualche forma di eteronomia(56).
Allora l'impossibilità di accostare Kant ad un etica cristiana, e quindi a Rosmini, risiede in questa posizione di fondo su cui si fonda tutta la riflessione morale del filosofo tedesco. È da questo presupposto, secondo cui la purezza morale (sulla scia platonica) si possa raggiungere solo eliminando ciò che vi è di empirico e di prettamente umano (inteso come non conforme alla pura ragione) che scaturisce una visione diametralmente opposta tra l'uomo così come viene inteso dalla tradizione luterano-tedesco, e l'uomo così come è visto dalla tradizione cattolica di cui Rosmini è uno dei più validi rappresentanti. È questo il vero punto insanabile tra la morale kantiana e quella rosminiana.
Citiamo a proposito un passo del Capograssi in cui egli sottolinea la differenza tra la persona kantiana, quella hegeliana (che non riporteremo) e quella rosminiana: "Kant vede la persona come ragione cioè universalità: tutto l'individuale è empirico, non ha significato di verità, e nell'individuale tutta la vita emozionale le profonde correnti vitali del dolore e dell'amore. Essendo ragione, la persona è universalità senza individualità, pensiero senza amore. In quanto persona ogni soggetto è uguale all'altro, è lo specchio dell'altro è la stessa cosa dell'altro: si rispetta l'altro non per l'altro ma per la ragione che è nell'altro. La ragione rispetta sé stessa.[…] Le differenze appartengono all'individuale, ora l'individuo è per Kant il negativo. I vari individuali che sono i vari negativi non hanno in quanto tali legami positivi tra di loro: la ragione non è legame perché suppone cancellate le differenze; ed il legame positivo individualizzante, che è l'amore, non c'è, perché l'amore è negato come forza costruttiva ed etica della vita e gli sono negate le condizioni di vita. […] Ora Rosmini è perfettamente e assolutamente alieno dall'uno e dall'altro messaggio [quello di Hegel] Rosmini considera l'individuo come amore. Egli fonde insieme l'universale e l'individuale che Kant faceva eterogenei e va a ricercare l'universale proprio nel segretissimo centro di amore e di slancio che fa l'individualità umana e viva, l'individuo"(57). La distinzione tra l'uomo kantiano e quello rosminiano operata da Capograssi è chiara e, sebbene per il Kant giuridico riteniamo che le parole di Capograssi siano in parte opinabili, per il problema morale, questo passo è esemplare.
La vera differenza tra Kant e Rosmini in sede morale risiede proprio in questo. La morale rosminiana, in quanto parte di un sistema filosofico cristiano-cattolico, è fondata su un'antropologia positiva come emerge limpidamente dalla opera intitolata Antropologia in servizio della scienza morale (1838). Alla base dell'esperienza morale e, potremmo anche dire, della legge morale, come abbiamo dimostrato, vi sta l'amore per l'essere presente nella molteplicità sensibile che ci circonda; è compito nostro riconoscerlo ed amarlo secondo il suo grado ma amare questa differenza è fare proprio ciò che Kant rifiuta, come abbiamo visto con Capograssi. La legge morale, di cui l'uomo è legislatore ed esecutore, deve prescindere, leggiamo nella Fondazione, da ogni antropologia, cioè da tutto ciò che è contrario alla pura ragione: "Così le leggi morali e i loro principi non soltanto si distinguono per essenza, all'interno della conoscenza pratica, da tutta quella in cui vi sia qualcosa di empirico, ma tutta la filosofia morale riposa interamente sulla sua parte pura e, applicata all'uomo, non trae il minimo elemento della conoscenza di quest'ultimo (antropologia), bensì gli fornisce, in quanto essere razionale, leggi a priori…"(58).
Solo prescindendo da tutto ciò che vi è di empirico è possibile per Kant preservare l'universalità e la necessità della legge morale; in Rosmini, invece, tali requisiti sono rispettati perché la Verità, oggetto per entrambi pensatori dell'esperienza morale, la si scopre proprio là dove Kant non la riconosce: nella molteplicità sensibile a tutti i livelli ossia in quella che Kant definisce, sulla scia platonica, mondo fenomenico, cioè non corrispondente alla verità oggettiva. La valutazione positiva del mondo sensibile è possibile per Rosmini, in quanto la morale, come abbiamo visto, è una delle tre forme dell'essere, ciascuna delle quali "…contenendo tutto l'essere, contiene anche le altre forme, restando sempre diverso il modo della contenenza. L'essere quindi è uno e trino, uno nella essenza, trino nei modi, l'unità spiega e giustifica l'insidenza delle forme, la loro circumsessione. Distinzione ed unità: è una caratteristica dell'essere, è una esigenza della sua costituzione ontologica, non è un modo soggettivo di considerarle"(59). Quindi, proprio l'aver elevato la forma morale a forma dell'essere, determina, da un altro punto di vista, la netta opposizione tra la posizione morale del Roveretano e quella di Kant: il piano morale non rappresenta per l'uomo un assolutamente altro, cioè un noumeno cui si può l'uomo può solo aspirare di tendere a causa degli impulsi sensibili sempre presenti in questa vita: esso invece gli appartiene potenzialmente e lo muove oggettivamente dalla interno della sua costituzione ontologica(60).
Grazie a queste considerazioni la morale rosminiana sfugge all'accusa di eteronomia che Kant lancia a tutti i sistemi diversi dal suo; Rosmini riafferma per l'ambito morale il ruolo positivo dell'esperienza che Kant rifiuta per non inficiare l'assolutezza della legge morale. Vediamo cosa dice Sciacca in proposito: "Il Rosmini, invece, introduce il momento particolare del volere in quello universale, e dà alla forma quel contenuto che la rende veramente completa"(61). Rosmini, con l'obbiettivo di tutelare l'esperienza sensibile nella sua totalità, in quanto espressione dell'essere, riesce, a differenza di Kant, a garantire la formalità e l'universalità della legge proprio facendo ricorso alla volontà come strumento che permette al soggetto, non solo di adeguarsi all'ordine dell'essere ma, al tempo stesso, di realizzare la propria felicità senza cadere in alcuna forma di edonismo: "Il bene perfeziona il soggetto perché questi aderisce all'ordine dell'essere, lo riconosce, lo vuole, lo realizza nell'ordine suo, e in questo riconoscimento trova la propria felicità, il bene eudemonologico. Che l'essere virtuoso abbia diritto ad essere felice, che il bene morale abbia un legame col bene eudemonologico, sicchè il virtuoso sia felice e il malvagio sia punito, lo richiede l'ordine dell'essere. C'è quindi un fondamento ontologico e teleologico nella unione del bene morale col bene eudemonologico, fondamento che si ritrova nella natura del Bene (Dio) che è quella di comunicarsi, e quindi di rendere felice la creatura a cui il bene viene partecipato"(62).
Abbiamo parlato di convergenza tra morale e Verità, della morale come punto di congiunzione tra reale e ideale. Ma se bene e vero sono collegati, non si corre il rischio di ricondurre l'atto morale a puro conoscere? Questo problema ha attirato l'attenzione dei critici e già Sciacca lamenta l'interpretazione di Gentile che, tentando di risolvere il problema, afferma che pensiero e volere, nel pensiero rosminiano, si identificano nell'attività pratica. Così Sciacca controbatte l'interpretazione gentiliana: "La morale rosminiana non è intellettualistica. Il bene coincide con la verità, ma ciò non significa che essa come tale sia bene morale: con la sua contemplazione non usciamo fuori dell'attività dell'intelletto; nel solo conoscere non c'è morale, la quale comincia quando ciò che è vero è voluto come bene, amato come l'essere nel suo ordine"(63).
In realtà, osserva Pietro Prini, Sciacca, nella polemica con Gentile, sembra ribadire il problema più che risolverlo. Il vero aspetto innovativo della morale rosminiana, secondo Prini, risiederebbe, invece, nell'aver accolto l'istanza fondamentale dell'interiorismo agostiniano.: "C'è un'intrinseca reciprocità nel finalizzarsi degli esistenti all'Essere: questi è il loro fine in quanto quelli sono voluti, chiamati, da Lui […] La vita morale è l'esercizio di questa nostra disponibilità ad accogliere il dono dell'esistenza, è la scelta di essere in una vocazione d'amore. Dentro queste modulazioni schiettamente interioristiche il rigore dell'imperativo che ci comanda di "riconoscere l'essere nel suo ordine" si fa corresponsabilità creativa nelle prove della vita a cui ci espone la fraternità delle creature"(64). C'è, dunque, un indissolubile e profondo legame tra etico e teoretico che pone il pensiero rosminiano, secondo Prini, in un legame strettissimo con la tradizione agostiniana. Non era, infatti, Sant' Agostino che nel De vera religione (389-390 d.c.) affermava con forza l'esistenza di una Verità oggettiva da ricercare e che una volta trovata ci avrebbe cambiato irrimediabilmente? Così scriveva il Vescovo di Ippona: "Chi dubita, quindi, se vi sia la verità, ha in se stesso il vero per cui non deve dubitare; ma non v'è vero che sia vero se non per la verità […] Forse che queste verità possono corrompersi in qualche parte, anche se perisce ogni uomo che ragiona…[…] Ma non è il ragionamento che le fa; esso scopre soltanto. Perciò sussistono in sé prima di essere scoperte, e, quando sono scoperte, ci rinnovano [corsivo nostro] "(65).
Infine, se per Rosmini, come abbiamo visto, l'esperienza morale si basa sull'adeguamento dell'uomo all'ordine dell'essere, ossia alla Verità, come non vedere in queste tesi una chiara anticipazione di quanto affermato nell'enciclica Veritatis Splendor (1993) dal Pontefice Giovanni Paolo II. Tutta la teoria morale del Roveretano è un omaggio a quella legge morale che è al centro dell'enciclica papale, la quale enciclica, imperniata sul concetto di persona, intesa come unione di anima e corpo, così recita, non allontanandosi molto dal messaggio rosminiano: "Così nel giudizio pratico della coscienza, che impone alla persona l'obbligo di compiere un determinato atto, si rivela il vincolo della libertà con la verità. Proprio per questo la coscienza si esprime con atti di "giudizio" che riflettono la verità sul bene, e non come "decisioni" arbitrarie. E la maturità e la responsabilità di questi giudizi- e, in definitiva, dell'uomo, che ne è il soggetto- si misurano non con la liberazione della coscienza dalla verità oggettività, in favore di una presunta autonomia delle proprie decisioni, ma , al contrario, con una pressante ricerca della verità e con il farsi guidare da essa nell'agire"(66).
Chiaramente il substrato della concezione morale rosminiana è la religione cattolica con il suo schema di fondo e riteniamo che l'accettare nella concezione kantiana certe categorie cristiane senza accoglierne le conseguenze religiose sia la fonte di certe incongruenze o punti insormontabili del kantismo morale stesso(67).
Ora noi riteniamo di poter fare, nei confronti di Kant, osservazioni in parte analoghe a quelle che Karl Löwith ha fatto nei confronti delle filosofie della storia.
In suo famoso volume, Significato e fine della Storia, Karl Löwith afferma che il fallimento di tutte quelle che egli chiama "filosofie della storia", cioè tutte quelle filosofie che hanno ritenuto di cogliere il senso oggettivo della storia in riferimento ad un significato ultimo(68), sia da attribuire al fatto che tali visioni della storia hanno origine dalla teologia giudaico-cristiana o meglio dall'interpretazione teologica della storia come storia della salvezza. Ma questa, nel suo originale schema, si fonda sulla fede in un Dio creatore, mentre le altre visioni della storia difettano perché si presentano come scientifiche mentre nei confronti del futuro, nota Löwith possiamo avere solo fede.
Ora, anche Kant utilizzerebbe determinate categorie desunte dal cristianesimo, sganciandole, però, dal substrato religioso tradizionale allo scopo di tutelare l'autonomia del soggetto. Così facendo, però, si generano problemi difficilmente superabili. Ad esempio, a proposito dell'immortalità dell'anima e di Dio, da Kant postulati per rendere possibile il raggiungimento della perfezione morale nella vita futura, ciò che non si riesce a capire è, ad esempio, cosa significhi che l'anima progredirà all'infinito dal momento che essa sarà libera dagli impulsi sensibili: "Ed allora, data l'assenza di un conflitto, come giustificare che la sottomissione spontanea alla legge sarà anch'essa soggetta a un progresso all'infinito? Quale l'ostacolo che stimolerebbe una tale dialettica? E in che cosa esattamente consisterebbe la legge morale alla quale l'uomo dovrebbe cercare di adeguarsi in una vita futura, in cui la santità non lo "pone al di sopra di tutte le leggi pratiche, ma al disopra di tutte le leggi praticamente restrittive, e quindi al di sopra dell'obbligo e del dovere"?"(69) Kant non ne fa cenno ed anzi, continua Lambertino: "La moralità verrebbe convertita nel postulato di un dinamismo assoluto. Il senso del destino dell'uomo verrebbe integrato non dalla prospettiva di un possesso, di una conquista, di una sanzione definitiva [come nella visione religiosa cristiana dove le anime che si salvano ottengono la beatitudine eterna e la visione di Dio], ma da quella di una perenne ascesi, che sarebbe tensione verso un non ben definito compimento della moralità. Il progresso indefinito non sarebbe rivelativo di un termine, ma fine in se stesso. Il valore assoluto verrebbe affidato ad un anelito mai placato, col rischio che l'esplicito riferimento alla persistenza della legge morale renda vana la prospettiva della beatitudine"(70).
Allora, o accettiamo l'esistenza di un Dio creatore, e a partire da essa costruiamo il nostro sistema, ed è ciò che fa Rosmini; oppure la rifiutiamo e cerchiamo altre strade. Sicuramente non possiamo recuperare l'idea di Dio o l'immortalità dell'anima per ragioni utilitaristiche come sembrerebbe fare Kant per dare completezza ad un sistema che, nonostante tutto, rimane pieno di punti oscuri.
d) Di fronte al problema politico
Il discorso resterebbe, per così dire, monco se non guardassimo anche agli sviluppi che in campo politico tali pensatori danno al loro pensiero.
Per Rosmini la politica è "l'arte di dirigere la società verso il suo fine mediante que' mezzi che sono di pertinenza del civile governo"(71); dal momento che il principio costitutivo della società è l'uomo, il fine della politica è quello di realizzare il vero bene umano cioè quello che Rosmini chiama appagamento(72) o più precisamente la formazione della sua coscienza eudemonologia. Essa non è altro che un giudizio che l'uomo emette sul soddisfacimento dei suoi desideri; dal momento che l'oggetto di questo giudizio è il nostro stato interno di benessere, tale giudizio, afferma Rosmini, è infallibile in quanto non possiamo ritenerci contenti quando non lo siamo e viceversa. E, addirittura, continua Rosmini, tale giudizio contribuisce esso stesso al formarsi dell'appagamento. L'appagamento umano, infatti, non è costituito solo da semplici atti o dal semplice possesso di beni materiali, bensì da uno stato piacevole, alla cui formazione la coscienza eudemonologia contribuisce direttamente, quasi come in un circolo vizioso: "il diffondersi nel fondo dell'animo, qual effetto di quella sentenza che ci assicura del nostro buono stato, che resta in noi astratto, un cotal piacevole sentimento, che stabilmente ci fa lieti e del tutto paghi"(73).
Che l'appagamento non sia solo un possesso di beni materiali ma un qualcosa di più profondo che coinvolga l'animo dei cittadini ci porta ad altre considerazioni fondamentali del discorso rosminiano sulla politica: in primo luogo la subordinazione della filosofia della politica alla filosofia del diritto, cioè l'affermazione il primato del giusto sul politico ed in secondo luogo l'istituzione dell'organismo del Tribunale politico come strumento per tutelare tale primato. La società civile, infatti, ha il compito di regolare le modalità dei diritti, ma non può violare l'essenza dei diritti perché questo significherebbe ledere la persona stessa visto l'identificazione rosminiana tra persona e diritto(74).
Anche Kant prevede uno stato di diritto in cui le libertà dei cittadini vengano tutelate dall'invadenza del potere sovrano, ma, paradossalmente, nega, com'è noto, il diritto di resistenza affermando che, se esso fosse accettato, l'autorità del sovrano non sarebbe più assoluta. Questo comporta, da parte di Kant, l'accettazione, già a livello teorico, della possibilità che lesioni da parte del potere devono essere accettate in virtù di una concezione assoluta della sovranità; questo per Rosmini è inaccettabile perché il principio supremo di ogni attività umana, ivi compresa la politica, è la persona: e il Tribunale politico ha proprio la funzione di tutelare la persona e i suoi diritti.
Per entrambi i pensatori, quindi, la politica deve essere sottomessa alla morale, però, mentre in Kant già nella teoria politica si verificano certe contraddizioni con quanto affermato in ambito morale, per Rosmini tali contraddizioni sono inammissibili, e il Tribunale politico gli permette, già a livello teorico, di fare un passo in avanti rispetto al filosofo tedesco(75).
Per concludere riportiamo la pagina conclusiva dell'Antropologia in servizio della scienza morale (1838) in cui emerge chiaramente la visione della persona umana che Rosmini professa: "Ciò che fu ragionato in quest'Opera dimostra, che i molteplici elementi, di cui risulta l'umana natura, formano insieme una perfetta unità. Tutto è connesso nell'uomo, tutto tendente ad un solo fine. La materia è investita dal sentimento animale, che tende a dominarla pienamente. Nel sentimento s'inizia e procede e s'acchiude l'istinto: l'unità dell'istinto costituisce l'individuo. Ma sopra l'animal sentimento sorge un principio maggiore, intuendo l'essere ideale, destinato a dominare per intero il sentimento medesimo. Questo principio soggettivo si manifesta sotto le forme di ragione e di volontà: così esiste la persona che esprime la primazia di tutte le attività. Egli è dominato alla sua volta da leggi ideologiche e fisiche, le quali sortono dall'ordine intrinseco dell'essere ideale, e di qui la moralità. La persona in virtù di questo rapporto divien morale, entra nella sfera di quelle cose che partecipano dell'infinito, che acquistano un infinito prezzo. Ma il principio soggettivo di cui parliamo non si lascia però dominare interamente da tali leggi, né ne conserva necessariamente il naturale rapporto; ma o si sottrae alle stesse, o liberamente vi si sottomette: quindi una nuova forma di attività, la libertà. In quest'ultima forma sta il fastigio dell'umana come natura potenziale, non però della sua piena attuazione. Poiché non basta che si consideri questa attività, sì elevata sopra tutte l'altre, in se stessa; conviene meditarla nel suo atto, e ne' maravigliosi effetti di lui. Per quest'atto l'uomo merita; egli s'unisce di proprio moto a tutti gli enti, al fonte degli enti, gli ama tutti, e da tutti riscuote amore, trasfonde in tutti se stesso, e tutti si trasfondono in lui; rallarga allora i proprj suoi limiti, completa la sua natura angusta e deficiente: non fruisce di tutte le l'entità, e nel mare dell'essere essenziale trova e riceve la propria felicità, una felicità morale che non può più disvolere, un bene che non può perdere: questo è il fine dell'uomo, l'altissimo fine della persona, e conseguentemente della natura umana: e questa comunicazione, e questa società mutua degli enti coll'ente degli e tra sé, è il fine dell'universo"(76).
Tali considerazioni sulla natura umana sono il frutto di una filosofia cristiano-cattolica che si oppone a quella di Kant, poiché fa dell'uomo, creato ad immagine e somiglianza del Creatore, un qualcosa di unico, assolutamente positivo in tutte le sue manifestazioni, dotato di potenzialità che lo pongono come centro privilegiato di tutto il creato.
NOTE
1) A. Rosmini, Storia comparativa e critica de' sistemi intorno al principio della morale, in A. Rosmini, Principi della Scienza morale, Città Nuova-Stresa 1990, pag. 240.
2) Cfr. A. Rosmini a Don Giuseppe Eccheli, Rovereto 16 Ottobre 1827, in A. Rosmini, Epistolario filosofico, a cura di G. Bonafede, Celebes, Trapani 1968, pag. 73.
3) A. Rosmini, Il sistema filosofico, a cura di G. Bonafede, Società Editrice Internazionale, Torino 1966, pag. 101.
4) A. Rosmini, Principi della scienza morale, in A. Rosmini, Principi della Scienza morale, Città Nuova-Stresa 1990, pag. 36.
5) Ivi, pag. 99.
6) Ivi, cfr. pag. 60.
7) Ivi, pag. 55.
8) Ivi, pag. 66.
9) Ivi, cfr. pag. 101.
10) Ivi, pag. 98.
11) Ivi, pag. 83.
12) Cfr. A. Rosmini, Storia comparativa…, op. cit., pag. 172.
13) A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, Città Nuova Editrice, Roma 1954, pag. 32.
14) Cfr. Cirillo Bergamaschi, L'essere morale nel pensiero filosofico di Antonio Rosmini, La Quercia, Genova 1982, pag. 115.
15) Cfr. A. Rosmini, Storia comparativa…, op. cit., pag. 435.
16) Cfr. A. Rosmini, Principi della scienza morale, op. cit., pag. 84.
Chiaramente, tale modo di concepire il male, risale a S. Agostino: si vedano in merito Confessioni, Libro VII cap. XII, oppure La natura del bene, Cap. 6. Pur riallacciandosi alla tradizione agostiniana, Rosmini tratta il problema del male con qualche leggera differenza, e sottolineando maggiormente l'aspetto soggettivo del male; in particolare, il male morale (cioè il male autentico) viene analizzato sottolineando l'aspetto del "disordine" che esso crea rispetto al bene, cioè il riconoscimento gerarchico dell'ordine. Tale "disordine" è il risultato della volontà umana che si fa guidare più dal bene soggettivo che da quello oggettivo.
17) A. Rosmini, Filosofia del diritto, CEDAM, Padova 1967, pag. 66.
18) Ivi, pag. 66.
19) A. Rosmini, Principi della…, op. cit., pag. 104.
20) A. Rosmini, Filosofia del…, op. cit., pag. 89.
21) Ivi, pag. 95.
22) Ivi, pag. 97.
23) Ivi, cfr. pag. 100.
24) Ivi, pag. 100.
25) A. Rosmini, Della Divina Provvidenza. Saggio primo, in Opuscoli filosofici, Vol. I, Stresa 1827, pag. 106.
26) Ivi, pag. 108.
27) Cfr. A. Rosmini, Storia comparativa…, op. cit., pagg. 246-247.
28) Ivi, nota 35 pag. 247.
29) Si veda A. Rosmini, Della Divina…, op. cit., pag. 92 e ss.
30) A. Rosmini, Storia comparativa…, op. cit., pag. 248.
31) Ivi, pag. 248.
32) I. Kant, Critica della ragione pura, a cura di V. Mathieu, Laterza, Bari 1996, pag. 360.
33) A. Rosmini, Storia comparativa…, op. cit., pag. 253.
34) I. Kant, Metafisica dei Costumi, Laterza, Bari 1989, pag. 14.
35) A. Rosmini, Storia comparativa, op. cit., pag. 266
36) Cfr. M. F. Sciacca, La filosofia morale di Antonio Rosmini, Edizioni Rosminiane Sodalitas-Stresa 1999, pag. 61.
37) Ivi, cfr. pag. 58.
38) Ivi, pag. 54.
39) Cfr. F. Paulsen, Kant, Sein Leben und seine Lehre, Stuttgart 1898.
40) Cfr. M. Wundt, Kant als Metaphysiker, Enke, Stuggart 1924.
41) Cfr. P. Martinetti, Kant, Feltrinelli, Milano 1968.
42) Mario A. Cattaneo, Metafisica del diritto e ragione pura. Studio sul "platonismo giuridico" di Kant, Giuffrè , Milano 1984, pag. 10.
43) G. Ferretti, Ontologia e teologia in Kant, Rosemberg & Sellier, Torino 1997, pag. 211.
44) Ivi, pag. 211.
45) I. Kant, Critica della ragione pura, op. cit., pag. 21.
46) I. Kant, Critica della ragione pratica, a cura di V. Mathieau, Bompiani, Milano 2000, pag. 247.
47) P. Martinetti, Kant, op. cit., pag. 71.
48) I. Kant, Critica della ragion pura, op. cit., pag. 240.
49) Ivi, pag. 249.
50) Le osservazioni del Paulsen sono riportate da Mario A. Cattaneo, Metafisica del diritto…, op. cit., pag. 15 così come i precedenti riferimenti sul Platone, op. cit. pag. 47 e ss.
51) Cfr. Platone, Fedone, X 65b-66 a,in Tutto Platone, Editori Laterza,Bari 1966, pag. 111.
52) S. Tommaso D'Aquino, La Somma Teologica, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1996, I-II, q. 93, a. 1.
53) Cfr. Sofia Vanni Rovighi, Introduzione allo studio di Kant, Editrice La Scuola, Brescia 1968, pag. 246.
54) Su questa negazione della fondazione metafisica della morale si veda anche il più esplicito passo della Vanni Rovighi a pag. 229 del volume Introduzione allo studio di Kant, op. cit..
55) I. Kant, Critica della ragione pratica, op. cit., pag. 265 nota.
56) Su questo si veda Antonio Lambertino, Il rigorismo etico in Kant, La Nuova Italia, Milano 1999. Vedi soprattutto pag. 307 e seguenti in cui è fatto anche un confronto con l'etica tomista.
57) A. Capograssi, Il diritto secondo Rosmini, Opere IV, Giuffrè Editore, Milano 1959 pag. 347-348.
58) I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, traduzione ed introduzione a cura di F. Gonnelli, Laterza,Bari 1997, pag. 7.
59) A. Rosmini -Dizionario filosofico, a cura di Giulio Bonafede, Herbita, Palermo 1977, pag. 100. E' bene precisare che la forma morale, in quanto congiunzione delle altre due forme, ha un primato teleologico sopra di esse. Ma questo non significa che le tre forme abbiano valore ontologico differente. Per questo problema si veda, ad esempio, Cirillo Bergamaschi, L'essere morale di …, op. cit., pag.40 e ss.
60) Cfr. Maria A. Raschini, L'essere morale in Antonio Rosmini, in AA.VV., La forma morale dell'essere- Verità e libertà nel mondo contemporaneo, Atti del XXVIII Corso della "Cattedra Rosmini", Edizione Rosminiane Sodalitas- Stresa 1994, pag. 42.
61) M. F. Sciacca, La filosofia morale di…, op. cit., pag. 181.
62) A. Rosmini- Dizionario filosofico, op. cit., pag. 33.
63) M. F. Sciacca, La filosofia morale…, op. cit., pag.183.
64) Cfr. Pietro Prini, Rosmini e l'esperienza morale come svelamento e compimento dell'essere, in La forma morale dell'essere-Verità e libertà nel mondo contemporaneo, op. cit., pag. 240.
65) S. Agostino, De Vera Religione, introduzione, traduzione e note a cura di Marco Tannini, Mursia, Milano 1987, pag. 139.
66) Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor-Lettera enciclica a tutti i vescovi della Chiesa cattolica circa alcune questioni fondamentali dell'insegnamento della morale della Chiesa, Paoline, Milano1993, pag. 65.
67) Questo il giudizio di Jacques Maritain sulla morale kantiana: "Potremmo dire che la filosofia kantiana è l'esempio di una filosofia morale che l'influenza - mal recepita - del cristianesimo ha contribuito a stravolgere; è una filosofia morale cristiana, ma travisata. Kant ha cercato di trasferire nel registro e nei "limiti" della pura ragione - il che equivaleva a deformarla completamente - la morale rivelata, quale ce la consegna la tradizione giudaico-cristiana" (J.Maritain, Neuf lecons sur les notions primières de la philosophie morale, Editions Pierre Téqui, Paris 1951 (ed. it., Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, intr. di V. Possenti, Editrice Massimo, Milano 1996, p.52).
68) Cfr. Karl Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 1998, pag. 21.
69) A. Lambertino, Il rigorismo…, op. cit., pag. 188.
70) Ivi, pag. 188.
71) A. Rosmini, Filosofia della politica, Città Nuova Editrice, Stresa 1997, pag. 122.
72) Su questo tema si veda Mario D'Addio, Libertà ed appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Studium, Roma 2000.
73) A. Rosmini, Filosofia della politica, op. cit., pagg. 368-369.
74) Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, op. cit., Vol. I pag. 191.
75) Sul problema giuridico-politico in Rosmini e Kant si veda: S. Muscolino, Osservazioni rosminiane alla concezione giuridica di Kant, in Rassegna Siciliana di Storia e cultura, Anno V, n.14, Palermo Dicembre 2001, pp. 143-163.
76) A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, op. cit., pag. 488.