Rassegna Siciliana di Storia e Cultura - N. 16

RECENSIONI

 

F. RENDA, Salvatore Giuliano. Una biografia storica. Sellerio Editore, Palermo 2002.

Francesco Renda, professore emerito dell’Università di Palermo, prolifico autore di pregevoli opere sulla storia della Sicilia, si sofferma in quest’ultimo suo lavoro, sulla figura, ormai quasi leggendaria di Salvatore Giuliano, per trarne, passando per gli innumerevoli scritti sul bandito (ben 51 biografie più il film di Rosi), quella che egli stesso definisce una biografia storica, cioè mirante a rappresentare la verità storica al di là delle interpretazioni di parte.

L’autore, ripercorrendo le fonti e le testimonianze, distingue una verità processuale dalla verità storica. La prima ha bisogno di prove certe e inconfutabili, senza delle quali il giudice non può che assolvere; la seconda, pur non potendo prescindere da documenti certi, può farsi strada anche in assenza di prove inconfutabili sostituendole con la logica deduzione derivante dalla conoscenza dei fatti, dei precedenti storici e dell’ambiente.

Così se dal processo tutta la classe politica del tempo uscì indenne da condanne giudiziarie, dal giudizio storico essa risulta direttamente o indirettamente coinvolta in quella terribile strage che non è esente da risvolti internazionali.

In effetti sulla strage di Portella della Ginestra ancora oggi nulla appare scontato, nemmeno l’effettiva volontà di Giuliano di uccidere deliberatamente, colpendo nel mucchio, contadini ignari e innocenti, riuniti in quel pianoro per festeggiare, dopo le tragedie della guerra, un giorno diverso, festeggiare quella speranza nella riscossa che molti vedevano ormai vicina a realizzarsi.

Lo stesso Giuliano in una delle tante testimonianze rese, sostenne di avere avuto l’intenzione di colpire i capi comunisti, avendo saputo che fra di loro si annidavano spie e traditori, per dare al popolo una lezione politica, per far capire a tutti da che parte stava il potere; tuttavia non vedendo nessuno dei capi, ordinò di sparare in aria, in segno di avvertimento. Ma i primi spari colpirono i cavalli e i muli all’altezza dei garretti e poi cominciarono ad abbattersi sulle persone in piedi; era una traiettoria ben diversa da quella desumibile dalla testimonianza del bandito, una traiettoria quasi orizzontale rispetto alle vittime e quindi appariva impossibile credere che i colpi provenissero dalle mitragliatrici degli uomini di Giuliano, appostati sulla montagna. Questa è la tesi sostenuta da Giuseppe Casarrubea, il quale avanza l’ipotesi che oltre alla banda Giuliano, altri uomini, segretamente, erano pervenuti sul luogo, appostandosi alle falde della montagna. Erano questi ad aver ricevuto l’ordine di sparare sulla folla, mentre all’ignaro Giuliano era stato ordinato di sparare in aria per intimidire la gente, senza rivelargli il vero progetto stragista dei mandanti. Un volta commesso l’eccidio, nessuno avrebbe potuto dubitare della colpevolezza di Giuliano e della sua banda, il che avrebbe reso molto più difficoltoso risalire ai mandanti.

Tale tesi, seppur non sostenuta apertamente da Renda, appare da lui stesso ventilata, soprattutto quando viene sottolineata la natura del bandito di Montelepre, guascone, crudele, ribelle, ambizioso, ma mai schieratosi contro i più poveri e i più deboli. L’autore ricorda ciò che nella zona si raccontava di Turiddu, diventato un eroe leggendario non soltanto per i suoi paesani, ma anche per i mass media nazionali ed esteri che vedevano in lui un odierno Robin Hood. Tutti erano a conoscenza di come beneficasse i più miseri – ad una vecchia signora minacciata di sfratto per morosità aveva fatto trovare, la mattina ai piedi del letto, la somma necessaria – e nessuno si sarebbe spiegato il suo comportamento feroce contro donne e bambini innocenti se non accettando l’ipotesi che fosse stato ingannato per ottenere un duplice scopo: lanciare alle masse, che pochi giorni prima avevano mandato al parlamento siciliano una maggioranza di sinistra, un chiaro messaggio sull’anticomunismo del loro indiscusso eroe; liberarsi di un personaggio che, se era stato utile nel passato, appariva adesso troppo scomodo, anche perché con le sue manie di protagonismo attirava troppo l’attenzione dell’opinione pubblica sugli affari del mondo agrario siciliano.

Certo se Giuliano aveva accettato di combattere il comunismo ottenendo come contropartita l’immunità e la libertà, da uomo d’onore non avrebbe mai accettato di conseguire tali mete a prezzo del sangue innocente dei suoi compaesani: "Non ho sparato volontariamente contro quei poveri lavoratori inermi: 1) perché non sono disceso mai a tale bassezza di agire contro uomini inermi, e lo dimostra il fatto non solo che ho affrontato interi eserciti, ma anche ho usato quello spirito di cavalleria di avvertire il nemico prima di svolgere l’azione; 2) che non potevo commettere di sparare volontariamente contro gente che sono della mia stessa classe, che nelle mie circostanze ne sono stato sempre familiarizzato e gli ho dato quel po’ d’aiuto che mi è stato possibile; 3) io non sono un ricco feudatario, non appartengo a quel cerchio di patrizi a cui piace fare il gioco dello schiavismo della bassa plebe e neanche sono stato al loro servizio, ma, posso dire, forse loro nemico" (pp. 66-67)

L’autore analizza con abbondanza di particolari, il giallo della lettera ricevuta, pochi giorni prima della strage, da Giuliano e da lui immediatamente distrutta. Renda riporta le varie tesi risultanti dai verbali degli interrogatori di Giuliano e degli altri coimputati e dagli atti del processo. Si affacciano varie verità: la lettera era stata scritta da Scelba e prometteva al bandito la libertà in cambio dell’uccisione dei lavoratori, oppure proveniva dai servizi segreti americani intenzionati a servirsi dello stesso Giuliano per annientare in Italia la minaccia comunista che, dopo le lezioni regionali del 1947, era divenuta sempre più pressante?

Pur mantenendo un pieno distacco sulla vicenda processuale e in parte sul processo storico – sociologico che sulla vicenda fu fatto da una moltitudine di storici e giornalisti, l’autore esprime un chiaro e inequivocabile giudizio sulle conseguenze di quella misteriosa strage, cioè sul risultato storico:

"[…] Fu nel contesto di quell’ineluttabile grande passaggio dalla Sicilia antica alla Sicilia moderna e democratica, che venne ideata ed attuata la strage di Portella della Ginestra, nell’assurdo tentativo di bloccarne il compimento […] Gli ideatori, i mandanti e gli esecutori della strage, oltre che sconfitti sul piano morale e politico, sono anche definitivamente scomparsi come attori e partecipi della vita del Paese. Non c’è più il latifondo, come non c’è più con primaria funzione dirigente la classe dei grandi proprietari del latifondo titolari e beneficiari. Quella Sicilia è scomparsa senza più possibilità di ritorno. Le vittime della strage, invece, insieme con i contadini guidati dalle loro cooperative, dai loro sindacati e dai loro partiti, rifulgono nella memoria storica italiana fra i protagonisti che hanno concorso a fare dell’Italia un paese industriale, democratico e moderno" (pp. 76-77).

Gabriella Portalone

F. M. STABILE, Giovanni Blandini. Dal neoguelfismo al cattolicesimo sociale, Collana del "Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia" della Facoltà Teologica di Sicilia, Caltanissetta – Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2002, pp. 185.

Francesco Michele Stabile iniziò questa ricerca nel 1994, a 150 anni dalla fondazione della diocesi di Noto che, per l’occasione, aveva affidato a un gruppo di storici i lavori di un Convegno.

L’autore ripercorre la vita e l’opera del vescovo Giovanni Blandini (1832-1913) attraverso ben 38 anni di episcopato e osservando il passaggio dal vecchio regime a quello liberale "dalla chiesa della Legazia alla chiesa papale, dal localismo municipalistico alla consapevolezza di far parte della chiesa italiana" (p. 5).

Blandini, forgiatosi sulle idee neoguelfe, apparteneva a quel clero che si diceva convinto in una possibile conciliazione tra patria e fede religiosa. E, nonostante il prevalere della soluzione francese, prospettata e voluta dal regime liberale che non garantiva tale armonia, egli continuò sempre nella sua vita a tentare di conciliare religione e libertà stimolato anche dalla nuova realtà prodotta nel mondo cattolico dall’enciclica leoniana Rerum Novarum.

Durante il suo episcopato vecchi ordini religiosi e nuove congregazioni cominciarono ad attivarsi in favore dei poveri, dei malati e degli orfani. E quasi sempre il tutto avveniva gravando sulle finanze del vescovo già oberate da molteplici tasse. Egli volle fondare anche nuove associazioni "inculcando lo spirito di devozione e di ansia missionaria per la conversione dei peccatori e la fedeltà al vescovo e al papa" (p. 43). L’obiettivo era di formare un cattolico più attento all’impegno etico e caritativo. E Blandini si inserì nella vita amministrativa chiedendo al clero di fare altrettanto. Per tale scopo egli si adoperò per introdurre la diocesi di Noto nel movimento cattolico nazionale dell’Opera dei congressi diffondendo messaggi e inviando un suo rappresentante al congresso di Firenze del 1875.

Il punto culminante del movimento cattolico siciliano si ebbe con l’organizzazione a Palermo di una conferenza episcopale (20 gennaio 1903) i cui documenti principali furono le Deliberazioni e Disposizioni pratiche intorno alla Democrazia cristiana e la lettera pastorale collettiva, scritta proprio dal vescovo di Noto, dal titolo La Democrazia cristiana, che avrebbe dovuto portare al riscatto economico della Sicilia e a una nuova coscienza civile facendo leva sulla consapevolezza religiosa. In seguito alla lettera, Noto fu scelta come sede del IV Congresso regionale cattolico (14-19 dicembre 1903). Durante i lavori il vescovo chiese a Romolo Murri di prendere la parola: la Chiesa doveva aprirsi al mondo moderno e all’impegno civile e sociale (p. 143) e la democrazia doveva essere diretta dai principi cattolici. Il discorso del prete marchigiano piacque a Blandini, il quale, riprendendo la battuta di Leone XIII – morto l’estate prima – a proposito di Cristoforo Colombo, esclamò "il sac. Murri è nostro" (p. 144).

Stabile, con la sua specifica competenza di studioso della storia del cattolicesimo siciliano, ha il merito di aver documentato e ricostruito la vicenda di Giovanni Blandini, uno dei vescovi più impegnati e più sensibili nella diffusione del pensiero cristiano, del movimento sociale cattolico e della democrazia di ispirazione cristiana. Convinto che solo la Chiesa potesse porsi come mediatrice tra operai e proprietari egli chiese al clero di presentarsi come "pacificatore tra le classi sociali" (p. 136). Il suo modello di prete sociale era certamente rappresentato da Luigi Sturzo "quel giovine Levita che, con isparuto numero di seguaci, sulla montagna Calatina inalberava […] arditamente il bianco vessillo della democrazia cristiana" (p. 155). Blandini sollecitò il clero a uscire dalle sacrestie e "dall’inerzia del sonno" ma ebbe il limite di non riuscire a liberarlo dai forti legami con le strutture municipali, con gli interessi familiari e i partiti locali. Il clero di Noto, provenendo dalla borghesia, non fu capace di sganciarsi dai propri interessi e di mobilitarsi in favore delle classi più umili. Fu questa la grande scommessa di un vescovo - figlio di un calzolaio, uno dei pochissimi a non avere origini aristocratiche – che presentò Dio come il liberatore dei mali sociali, e che, legato ad uno schema controriformistico, portò i cattolici "fuori dalle sacrestie" per poi farli "rientrare" nelle parrocchie.

Claudia Giurintano

 

AA.VV., Georges Sorel nella crisi del liberalismo europeo, presentazione di Paolo Pastori, introduzione di Giovanna Cavallari, Università degli Studi di Camerino, Collana del Dipartimento di Scienze giuridiche e politiche, Ancona, edizioni Affinità elettive, 2001, pp. 667.

Il volume raccoglie le relazioni del Convegno internazionale di Studi, Georges Sorel nella crisi del liberalismo europeo, svoltosi, il 22-23 febbraio 1999, in occasione del trentennale dell’istituzione del Corso di laurea in Scienze Politiche, a cura dell’Istituto di Studi storico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza di Camerino e sotto l’alto patronato dell’Ambasciata di Francia in Italia.

Gli Atti sono divisi in quattro sezioni. La prima, Sorel fra più culture, introduce il saggio di Paolo Pastori sulle ipotesi di localizzazione del sostrato etico-politico nella critica soreliana alla società borghese. Dal senso critico del filosofo normanno emerge la piena "consapevolezza della necessità di rafforzare scienza, razionalità, progettualità politica al loro stesso fondamento, al primato del fine etico, cioè del benessere morale, culturale e pratico degli individui" (p. 39).

La seconda parte, Sorel in Francia, presenta i contributi: di Willy Gianinazzi sulle reminescenze della storia e il mito rigeneratore; di Alessandra La Rosa sul sindacalismo rivoluzionario e la riformulazione in un confronto tra Éduard Berth e Georges Valois che tende a cogliere il "filo rosso" tra i due intellettuali accomunati dalla critica alla democrazia, dal concetto di lavoro e di processo lavorativo; di Patrice Rolland che studia il liberalismo e la democrazia in Sorel e in Ernest Renan; di Enzo Sciacca che approfondisce il pensiero di Fernand Pelloutier tra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario partendo dalla considerazione che buona parte della sua fortuna postuma fu dovuta al filosofo normanno.

La terza sezione, Sorel in Italia, si apre con il saggio di Paolo Bagnoli sulle suggestioni soreliane in Piero Gobetti e Carlo Rosselli.

Sorel rappresentò il punto di "referenza dottrinaria primaria" (p. 241) per tutti quegli intellettuali che, tra la fine del XIX e i primi del XX secolo, avvertirono l’esigenza di riformare, in modo creativo, la politica. E se su Gobetti Sorel influì in modo teorico, su Rosselli ciò avvenne in modo pratico-politico (p. 243). Stefano Boninsegni traccia la "via sindacalista" al socialismo; Giuseppe Ceci analizza il sindacalismo rivoluzionario e la rivoluzione liberale in Sorel e Gobetti. Pur essendo ritenuto uno dei precursori del Fascismo – tanto che Mussolini, nella Dottrina del fascismo, non mancò di sottolinearne le influenze (p. 427) - Sorel fu, insieme a Gobetti, "un nemico accanito del parlamentarismo parolaio, del compromesso, del trasformismo socialdemocratico, dell’ottusità della classe dirigente" (p. 261).

Luciano Cicconi, esaminando le Riflessioni sulla violenza, rileva come per Sorel il proletariato possa liberarsi dalla sua posizione attraverso il sindacalismo rivoluzionario, unico mezzo in grado di porre un freno alla borghesia e fondato sulla violenza come metodo di lotta e sullo sciopero generale come ideale momento propulsore. Daniela Coli ricorda che Benedetto Croce ebbe parecchi stimoli dal filosofo normanno che offriva un metodo per criticare la democrazia liberale; metodo che, poi, venne abbandonato da Gramsci – per fondare il Partito comunista – e da Mussolini per dar vita al Partito fascista (p. 294). Angelo D’Orsi coglie le influenze di Sorel sulla cultura e sulla vita intellettuale torinese, dimostrando come la fortuna soreliana in Piemonte costituisca uno "dei capitoli, se non più ricchi, certo stimolanti" (p. 296).

Allo scoppio della Grande Guerra, Sorel si attestò subito su posizioni di aperta condanna; e proprio la ricognizione del suo atteggiamento dinanzi al nazionalismo italiano può rilevare – afferma nel suo lavoro Francesco Germinario - motivi interessanti in ambito storiografico (p. 319).

Critico dell’impresa di Fiume, egli contestò il gruppo de "La Voce" e, soprattutto, coloro che, come Giovanni Papini, elogiavano Gabriele D’Annunzio senza comprendere che questi rappresentava la "peste per l’Italia" (p. 331) e il pervertitore delle "giovani generazioni" (p. 309). Tale confronto con il poeta pescarese è affrontato da Gian Biagio Furiozzi al cui studio segue quello di Marco Gervasoni sulle "avventure" della ricezione tra il 1890 e il 1932 partendo dalla riflessione che "le prese di posizione [di Sorel] furono sempre sottoposte ad uno spettro di letture tanto vasto quanto capace di generare distorsioni nel segnale tra mittente e destinatario" (p. 333).

Stefania Mazzone esamina il liberalismo e sindacalismo in Enrico Leone, esponente della frazione del "sindacalismo rivoluzionario" guidata da Arturo Labriola (p. 363) e il cui approccio sulla violenza e sulla forza appariva antitetico a quello del filosofo normanno. Mario Sznajder approfondisce il tema del sindacalismo rivoluzionario italiano mentre Stefano Tacchinardi, studiando il sorelismo nel Partito Socialista Italiano, riscontra in Amadeo Bordiga il "primato del politico sull’economico, della funzione del partito su le rivendicazioni sindacali promosse a progetto rivoluzionario dalla tradizione nuova e vecchia del sindacalismo o operaismo" (p. 423).

Infine, la quarta parte è dedicata alle influenze di Sorel in Europa e nelle Americhe con i contributi di Marco Dotti sulla filosofia del diritto italiano; di Alberto Filippi su Josè Carlos Mariátegui, con il quale il pensiero soreliano giunge nelle Ande; di Juan Francisco Fuentes sulla fortuna soreliana in Spagna tra il 1912 e il 1936; di Robertino Ghiringhelli sui Difensori della Libertà di James Burnham - seguace del trotskismo, membro della Quarta Internazionale, diffusore dell’elitismo di Mosca, Pareto e Michels in America - il quale fece scoprire al pubblico americano i caratteri peculiari del pensiero soreliano (p. 537).

La quarta sezione continua con i saggi di Yves Guchet su Karl Kautsky e di Francesco Mancuso su Carl Schmitt. Nonostante l’apparente distanza tra i due pensatori, il conservatore e "interprete della statualità" Schmitt, non mancò di citare l’antistatalista filosofo normanno in quasi tutte le sue opere.

Maria Pia Paternò approfondisce il tema del germanesimo, aspetto che interessò poco Sorel ma le cui riflessioni offrono spunti per una migliore comprensione del suo pensiero. Mario Ricciardi, nel suo studio, evidenzia il fatto che Isaiah Berlin - il filosofo britannico che ispirò la sua filosofia della storia ad una equilibrata concezione liberale – fu anche lettore di Sorel. E, infine, il contributo di Domenico Scalzo sul significato del mito attraverso le interpretazioni di Thomas Mann, Nietzsche, Walter Benjamin e assumendo come "paradigmatico della relazione violenza/ordine nella filosofia politica "il caso hobbesiano"" (p. 613).

I ventisei saggi hanno tutti il merito di continuare le ricerche su Sorel che, ben trent’anni prima – come ricorda nella sua attenta introduzione Giovanna Cavallari - avevano visti impegnati storici affermati tra i quali Luigi Firpo, Salvo Mastellone, Gian Mario Bravo e Enzo Santarelli. E proprio nella collana Utet curata da Firpo, nel 1963, Roberto Vivarelli aveva presentato alcuni scritti nei quali Georges Sorel prospettava la lotta contro lo Stato liberale in termini politici privando la classe operaia di ogni effettiva conquista del potere. L’ampio volume, nell’organica sequenza delle relazioni, ha il pregio di mettere in evidenza gli echi che il pensiero soreliano ebbe non solo in Italia "fino a condizionare la revisione […] del marxismo e a determinare il distacco dell’ala del sindacalismo rivoluzionario dal socialismo" (p. 15) ma anche nel resto dell’Europa e, come nei casi testimoniati da Mariátegui e da Burnham, anche nelle Americhe.

Claudia Giurintano

 

DAVIDE TARTAMELLA, Caro figlio... Caro padre..., Maroda Editori, Collana Narrativa, estate 2001, pagg. 112.

L’autore di questo libro Caro figlio... Caro padre... è un giovane nato nel 1982, tuttora studente. E, bisogna convenire, che non è di tutti i giorni incontrare un giovane appena ventenne che presenti una scrittura di eccellente fattura. Davide Tartamella possiede tale qualità e in questo diario in forma epistolare ne dà chiara dimostrazione.

Uno dei pregi del libro, che subito emerge, è infatti proprio la semplicità e la chiarezza, due caratteri fondamentali dello scrivere che oggi sembrano, sul piano generale, essere caduti nel dimenticatoio. Il giovane Davide li riesuma e se ne serve per dare luce e linearità al racconto, che è autobiografico e prende le mosse dal distacco dalla famiglia (che continua a vivere a Trapani) per raggiungere in Toscana il Cicognini, convitto dove dovrà continuare gli studi.

Naturalmente i primi sentimenti che travagliano il suo animo sono la nostalgia e la solitudine. Una nostalgia struggente. Un senso di solitudine profondo. Poi una serie di piccoli accadimenti registratisi in convitto (una palla da tennis che rotola nel corridoio dell’edificio, una rubrica che scompare, un diario ridotto a brandelli) e alcune lettere del padre aprono la stura ad importanti considerazioni sui temi attuali della società e della vita.

Di rilievo il modo in cui è affrontato il tema della sicilianità e della mafia. La sicilianità è illustrata nelle sue molteplici dimensioni e soprattutto nei suoi controsensi. In ordine alla mafia invece Tartamella scrive: "La mafia è come un gas velenoso: non la vedi, non la odori, ma galleggia nell’aria e quando vuole arriva ai polmoni prescelti e ammazza". L’immaginazione si confonde con la realtà e viceversa.

Il punto focale del racconto è però il dialogo padre-figlio, figlio-padre. Un dialogo intenso. Un dialogo in cui emergono i valori della famiglia. Ed è chiaro l’intento di valorizzarli, sia da parte del padre che del figlio. La famiglia è infatti il centro degli affetti colti nella loro sublimazione.

Altro aspetto importante del libro è dato dalle descrizioni. Quelle sulla notte e sui luoghi dell’infanzia raggiungono vette di liricità. Sulla notte il giovane Davide annota: "Bella è la notte. È eterna. È l’amore... La luce viene sconfitta dal buio. Il giorno si consuma... Il giorno si può creare uccidendo il buio, la notte è invincibile e irripetibile. E poi la notte genera il giorno, come fosse un parto". E per quanto riguarda i paesaggi dell’infanzia, ecco le montagne di Custonaci ed ecco come sono descritte le segherie: "Montagne a guardarle brulle e inospitali, arse e riarse dal sole, inasaporite dalla salsedine del mare, popolate di corvi, di falchi pellegrini, di ratti, di poche lepri, di timidi ricci e di volpi... E le segherie, osservate da lontano, sembrano minuscoli altari dell’ossessione, collocati quasi volutamente sui crinali delle colline, e appaiono lontane quanto puntini stellari nel cielo d’estate". Come sempre sullo sfondo appare la Sicilia con le sue ombre e con le sue luci e, soprattutto, con le sue stupende bellezze naturali.

Visto come opera prima, il libro è più di una promessa della narrativa. Peraltro è un libro fresco, se così si può dire. Un libro da leggere in questa estate particolarmente afosa.

Dino D’Erice

 

GAETANO ALLOTTA DI BELMONTE, Patrioti Girgentini esuli a Malta, Edizioni "Centro Studi Giulio Pastore" Agrigento, Pubblicazione realizzata con il contributo dell’Assessorato Beni Culturali Ambientali e Pubblica Istruzione della Regione Siciliana, Agrigento 2000.

Gaetano Allotta, appassionato cultore di storia siciliana, dedica questo suo ultimo lavoro al ruolo culturale e politico svolto dagli emigrati siciliani del 1849 nella vicina isola di Malta. L’attrazione da sempre esercitata da queste due isole distese sull’azzurro del Canale di Sicilia, rilevata dallo stesso Goethe - "Era un arco di nuvole leggere che, appoggiando una delle sue estremità sulla Sicilia... finiva esattamente nella direzione di Malta [...]. Sarebbe alquanto strano che la mutua forza d’attrazione delle due Isole si manifestasse in tal modo anche nell’atmosfera" - viene particolarmente sottolineata dall’autore. Sottratta alla dominazione araba da Federico II di Svevia e divenuta parte integrante del Demanio della Corona di Sicilia, fin quando Carlo V non la concesse all’Ordine Gerosolimitano, nel Quattrocento Malta appariva a tutti gli effetti come un’appendice della Sicilia per lingua, costumi, istituzioni politiche. La lingua in cui venivano redatti i documenti ufficiali era il siciliano che, evolutosi poi, nell’italiano - toscano, rimase il principale veicolo di comunicazione anche durante l’occupazione inglese. Anzi, quando nel 1899 gli inglesi imposero l’uso della lingua inglese al pari di quell’italiana, i maltesi che si sentivano particolarmente vicini alla Sicilia, anche per la comune religione cattolica, accolsero l’imposizione con atti d’aperta ribellione.

D’altronde l’autore dimostra con numerosi e dettagliati documenti tratti dall’Archivio di Stato di Agrigento, i secolari e continui rapporti commerciali, culturali, familiari tra Girgenti e Malta, ma soprattutto tra Licata e Malta.

Il legame naturale fra le due isole - ricordiamoci che Malta è più vicina di Lampedusa alla Sicilia e a differenza di quella appartiene alla piattaforma continentale europea - fu accentuato dal ruolo ivi svoltosi dagli emigrati politici siciliani. Questi, accolti con estremo calore ed amicizia dal popolo maltese, scelsero tale isola come meta del loro esilio per molteplici motivi: la vicinanza geografica alla loro patria e dunque la possibilità di seguirne da vicino gli avvenimenti politici e di farvi ritorno in brevissimo tempo; la comunanza di lingua e di costumi, capace di dar loro la sensazione di trovarsi ancora in patria; e infine, la libertà che colà si respirava per merito della dominazione inglese, perciò i nostri emigrati, grazie alla libertà di stampa, potevano scrivere ciò che volevano sulla politica del tempo e addirittura fondare giornali, alcuni dei quali venivano diffusi clandestinamente anche in Sicilia. In tal modo l’emigrazione siciliana svolse a Malta una notevole azione di sviluppo culturale, attivando l’interesse degli ambienti intellettuali a sostegno della causa dell’unità italiana.

In piccolo, gli esuli ebbero a Malta un ruolo analogo a quello degli emigrati politici meridionali, siciliani e napoletani, a Torino, sonnolente capitale di un Regno ancora periferico politicamente e culturalmente nel contesto europeo. Fu grazie agli esuli meridionali, infatti, che la borghesia intellettuale piemontese e genovese, acquisì una maggior dimestichezza con il linguaggio democratico e nazionale.

Ma chi furono gli emigrati siciliani a Malta? Allotta si occupa effettivamente degli esuli agrigentini, ma non può trascurare il principe dei patrioti siciliani costretto, dalla restaurazione del ‘49, all’allontanamento definitivo dalla patria e alla famiglia e alla morte nel suo rifugio maltese, da cui, per motivi di salute e d’età, non riuscì più spostarsi, nemmeno dopo che fu nominato da Vittorio Emanuele II di Savoia, senatore e presidente della Camera Alta, per i suoli eccezionali meriti patriottici. D’altra parte fu proprio Ruggero Settimo, principale protagonista della rivoluzion siciliana del ‘48, ad indirizzare la classe politica isolana verso il credo unitario, anche se temperato da una forte fede federalista, inducendola ad abbandonare il ribellismo separatista che aveva fino allora caratterizzato l’intera storia dell’Isola.

Gli altri esuli, coordinati nella loro azione politica da Ruggero Settimo, fra cui Giovanni Andrea Nascè, Michele Caudullo, Giovanni Interdonato, Michele Bottari, e gli agrigentini Gerlando Bianchini, Vincenzo Barresi, Gaetano Navarra, Maiano Gioeni, Antonio e Francesco Gramitto e Vincenzo Montalbano, diedero vita al Comitato Siciliano Centrale, in aggiunta al Comitato Nazionale Italiano, con sede a Londra, dove operava da tempo Giuseppe Mazzini.

Gerlando Bianchini assunse la presidenza del Governo provvisorio siciliano a Malta, mantenendo costanti rapporti con lo stesso Mazzini. Giovanni Ricci Gramitto, probabilmente il più noto degli esuli agrigentini a Malta, nonno materno di Luigi Pirandello, fu uno dei più impegnati a mantenere i contatti con i patrioti rimasti in patria, senza poter, tuttavia gustare la gioia della realizzazione del sogno unitario, perché morto prematuramente proprio nel suo rifugio maltese.

Allotta non dimentica Francesco Crispi, espulso da Torino dove si era rifugiato dopo la restaurazione del ‘49, in seguito ai moti di Milano del 1853 e costretto quindi a cercare esilio a Malta. Il soggiorno nell’Isola ebbe per il patriota riberese una notevole importanza: lì, infatti, contrasse matrimonio con la sua convivente savoiarda, conosciuta durante il soggiorno a Torino, Rosalia Montmasson, unica donna a partecipare all’impresa dei Mille, matrimonio che sarebbe poi stato dichiarato nullo ma che sarebbe comunque valso ad attirare sullo statista sicilianol’accusa di bigamia, danneggiandolo politicamente. A Malta, inoltre, Crispi si dedicò con scrupolo, presso la biblioteca locale, ad una ricerca, commissionatagli da un editore siciliano, sulla storia dell’isola e ivi fondò due giornali, La valigia e La Staffetta che riuscivano ad essere distribuiti sia in Sicilia sia nel continente, ma essendo parecchi articoli poco graditi al Console del Regno delle due Sicilie, il Governatore inglese si vide costretto ad ordinare l’espulsione del patriota siciliano.

Gabriella Portalone

LA STORIA UMANA DI CALOGERO MESSINA: I VICECONSOLI DI FRANCIA IN SICILIA di Vera Maria Nicosia

1. L’universo dell’autore

Scrittore, storico, poeta, romanziere, autore di racconti di viaggio e dialoghi, studioso di feste e tradizioni, critico di storia e letteratura: difficile classificare Calogero Messina, o stabilire quale sia la base fondamentale del suo scrivere, che unisce alla vocazione dello storico e del narratore quella del poeta.

Nel tentativo di conoscere il Messina, è lo stesso autore a venirci in soccorso, quando, nel suo discorso su "La Poesia", che chiude la raccolta di poesie Sodalitas (Palermo-São Paulo, 1999), dichiara: " se volete conoscere l’anima di un uomo, non cercatela nei suoi gesti, nelle sue azioni, ma nelle sue espressioni sincere, nella sua poesia".

Che cos’è la poesia per il nostro autore? "La poesia è riposo, sogno, è evasione dall’impegno, dall’interesse, dalle lotte". Allora, ci verrebbe da dire, essa è soprattutto passione. Una passione che, nel caso del nostro A., si riversa sulla realtà del presente come del passato, sa rievocare immagini e figure della storia, lascia riemergere la voce dell’ "uomo dimenticato – soprattutto se è dimenticato.".

Oggi non si può più negare che la poesia non è solo scrittura in versi, ma anche e soprattutto quel "peu de temps à l’état pur", come piaceva definirla a Proust, di cui sono intessute le pagine di tanti racconti, saggi, romanzi.

Il nostro A. è riuscito a filtrare la storia nella poesia e attraverso di essa l’ha "umanizzata", attualizzata e resa viva. L’ha liberata dagli scaffali degli archivi per raccontarla a suo modo. La sua maniera di fare storia, l’A. lo dimostra a ogni nuova produzione, lo distingue da quella fitta schiera di "studiosi accigliati" che affollano l’Archivio Nazionale di Parigi o quello del Ministero degli Affari Esteri, e che "non vi cercano altro che i numeri per potere elaborare le loro tabelle e mostrare quello che vogliono e così fare carriera e avere cattedre, denaro e onori" (I viceconsoli di Francia in Sicilia, Paris, 2001, p. 8).

Gli storici "scientifici", infatti, basano i loro studi quasi esclusivamente sulle cifre e i numeri, che ricercano affannosamente nei documenti. Eppure, a ben guardare, la storia non è fatta solo di numeri. "Ma cos’è un numero, una parola senza il contesto?" – si domanda il nostro nelle pagine introduttive del suo ultimo libro, I viceconsoli di Francia in Sicilia (Paris, 2001). Il contesto è proprio quello sfondo storico-sociale che serve a comprendere appieno i fatti, i personaggi e la vox populi di un’epoca.

Immaginiamo per un attimo di escludere dalla storia siciliana del XVIII secolo tutte le feste. Che cosa resterebbe, a un tratto, della politica religiosa condotta dagli spagnoli, e non solo dagli spagnoli, in Sicilia? All’epoca dei viceré la storia passava attraverso le feste e i festeggiamenti: il fasto serviva a celebrare il potere, ma anche a compiacere il popolo, e una festa non era mai esclusivamente religiosa; al contrario, l’occorrenza religiosa serviva da pretesto alla politica.

In Sicilia e Spagna nel Settecento (Palermo, 1986) il Messina, nel tracciare i vari momenti del governo spagnolo nell’isola (nonché di quello sabaudo e poi austriaco), scrive: "Le feste che più piacevano e si ordinavano, dovevano esaltare i regnanti, anche quando ufficialmente erano di carattere religioso e celebravano Dio e i Santi" (p. 30).

La ragione? "Nella festa la gente amava stordirsi, diveniva del tutto incosciente e quindi più docile; per essa si facevano passare le miserie più rivoltanti, persino le atrocità dell’Inquisizione. Ma dietro la festa c’era un certo fermento. Il pericolo si faceva più minaccioso quando la festa finiva; si provvedeva a sollecitare le attese e i preparativi per un’altra festa" (p. 23).

Senza le feste, la storia della Sicilia non sarebbe stata la stessa. Ora, nei documenti ufficiali e non ufficiali le feste sono testimoniate, ma il compito dello storico consiste nell’interpretare il significato e il ruolo che esse avevano e hanno presso il popolo siciliano. Le manifestazioni della vita associata di un popolo non sono mai slegate le une dalle altre; è per tale ragione che una festa può aver rivestito un significato pari a quello di una sommossa popolare, tanto più che quest’ultima imprestava all’altra l’apparato organizzativo necessario alla sua esplicazione.

Lo storico, pertanto, deve fare, non una "storia da manuale" che tenga conto solo degli eventi e dei "grandi", ma anche e soprattutto una "storia umana" che, nell’affrontare temi quali le relazioni commerciali tra i paesi, non trascuri, per esempio, "i viceconsoli, i naviganti, i negozianti e mercanti" e non dimentichi che "i fatti meno conosciuti non sono i meno importanti e il gesto di un anonimo della folla può essere indicativo della prevalente condizione di una società in un momento della storia, a volte più delle azioni dei grandi protagonisti." (p. 58). E’ quello che per l’appunto fa il nostro autore. E non pago di unire alla consultazione delle "carte" la conoscenza delle usanze, delle feste, delle tradizioni dei popoli dei quali scrive la storia, inserisce nel racconto anche i versi che dettarono ai poeti del tempo le vicende di cui essi furono spettatori e attori a un tempo.

Scrive il Messina: "Il dominio della poesia è diverso da quello della storia; è più filosofico e più elevato, come sosteneva già Aristotele: la poesia tende a rappresentare l’universale, la storia il particolare, ma – aggiunge Messina – si può filtrare nella poesia. La poesia è estrema sintesi, dunque più vera della scienza. E dove non arrivano né gli storici né gli scienziati, arrivano i poeti" (Sodalitas, p. 111).

Quando cominciai a occuparmi di Calogero Messina, in principio anch’io, come forse altri, ebbi la tentazione di volerlo classificare. E’ più poeta o storico? – mi chiedevo – E se è più poeta, che genere di poeta è, data la molteplicità dei soggetti delle sue poesie? Poi, dopo un’attenta lettura delle sue opere, mi resi conto di quanto fosse inopportuno, se non addirittura fuorviante, cedere a quella tentazione, perché il nostro A. è quello che in Francia, sua patria d’adozione, si direbbe un "irrégulier des lettres".

Ma se dovessi presentarlo al grande pubblico con pochi termini ben congegnati, prenderei in prestito da Salvatore Vecchio una frase con la quale egli lo dipinse nel titolo di un articolo apparso su "Spiragli" (luglio-settembre 1989): Calogero Messina scrittore delle attitudini umane, in quanto fondamentalmente un osservatore attento dei comportamenti umani. Ma già l’autorevole Giovanni Allegra nel 1986, in un articolo sul citato libro Sicilia e Spagna nel Settecento, pubblicato ne "Il Giornale" (7 settembre 1986), sottolineava il fatto che "l’autore documenta spesso fatti o attitudini mentali".

Questa particolare vocazione del nostro A., evidenziata, tra gli altri, anche da Pierre Grimal in una lettera inviata al Messina nel 1979, è in armonia con i più recenti orientamenti storiografici che in Francia hanno visto affermarsi autori come Jaques Le Goff e Georges Duby, fra i massimi storici del XX secolo. Le opere di Duby sanno leggere al di là degli eventi per cogliere la liason esistente tra i grandi fatti e il quotidiano. Dichiara lo stesso autore, nella prefazione alla Histoire de France (1970): "..in Francia cominciano a prender piede un’archeologia della vita quotidiana e le premesse di un’antropologia del passato, e ci si preoccupa di mettere a fuoco gli atteggiamenti mentali e i comportamenti dei contemporanei di Clodoveo o di San Luigi, di Richelieu o di Robespierre.."

Al centro dell’interesse del Messina è l’uomo nel suo relazionarsi con la storia, la cultura, la vita. L’A. guarda all’uomo nella sua totalità e nelle sue diverse attitudini: ha dedicato poesie "Ai poveri" (Sodalitas), agli uomini comuni che s’incontrano la mattina per la strada, con le loro difficoltà e i loro bisogni sempre nuovi e sempre identici nel mutare dei tempi e dei governi. Si è soffermato anche sui protagonisti della storia, ma senza dimenticare i veri grandi del passato, i poeti greci e latini che sono alla base della nostra civiltà ("Ricordo di Tito Calpurnio Siculo", "A Publio Ovidio Nasone"); ha fatto rivivere l’atmosfera classica nei suoi epigrammi greci, anch’essi contenuti in Sodalitas. Questa parola, sodalitas, ha per il nostro A. un significato che va al di là della convenzionale traduzione letterale di "compagnia, conversazione" o "vicinanza". Come ha scritto Claudia Giurintano in una sua recensione alla raccolta del Messina ("Rassegna siciliana di storia e cultura", aprile 2000), "Sodalitas richiama l’idea più ampia di humanitas, di condivisione del sentimento di umanità". E’ quel brivido che ci assale e c’inebria di fronte all’arte di un uomo del presente come del passato. E’ una sorta di "affinità elettiva" che mette in comunicazione spiriti di epoche diverse o lontane, trascendendo le categorie del tempo e dello spazio. Sodalitas non è il furore poetico e tuttavia spesso stimola e favorisce la creazione artistica. Non per nulla Proust, che fu un grande amante dei libri, definiva la lettura "l’incitatrice dont les clefs nous ouvrent au fond de nous-mêmes".

La poliedricità del Messina già emerge scorrendo i titoli delle sue poesie. In Sodalitas diversi componimenti c’immergono nell’universo delle rimembranze del poeta, altri sono ispirati da avvenimenti storici ai quali l’A. riesce ad assistere nonostante il tempo trascorso ("Per il ritorno degli spagnoli"), altri ancora da esperienze di viaggio ("Sotto il cielo di Grecia", "Amburgo un anno dopo un anno", "Una notte a Toledo", "Notte alla Bastiglia") o da letture giovanili ("A Giacomo Leopardi"). Anche le emozioni più quotidiane costituiscono lo spunto per una poesia, come in "Solo", dedicata al gattino morto, a dimostrazione del fatto che la poesia non ha bisogno di un argomento aulico per germogliare e, come la ginestra, travalica i limiti circostanziali e fiorisce.

2. I viceconsoli di Francia in Sicilia

(Librairie-Galerie Racine, Collection "Les feux de l’histoire", Paris 2001)

I libri del Messina hanno il fascino della scrittura suadente, la pregnanza della narrazione nobilitata dalla poesia. Lo storico potrà forse fare a meno di essere poeta, ma invano lo scrittore tenterà di raggiungere le vette del "bello stile" ove non sia anche poeta. Scorrendo i titoli delle opere dell’A., si nota una varietà di generi letterari e argomenti che vanno dal mondo classico – la monografia storica T. Calpurnio Siculo (Padova, 1975), i commenti al De senectute di Cicerone (Palermo, 1975) e al De otio di Seneca (Palermo, 1976), le antologie Humanae voces (Palermo 1976) e Maiorum voces (Palermo, 1990) – alle tradizioni, alla cultura e alla storia della Sicilia e del suo paese d’origine in particolare, S. Stefano Quisquina – S. Stefano Quisquina. Studio storico-critico (Palermo, 1972), Lu recitu di S. Stefano Quisquina (Agrigento, 1973), una raccolta di canti popolari della Settimana Santa, l’antologia poetica Voci di Sicilia (Agrigento-Palermo 1973), Il caso Verga: "I Malavoglia". Se si vuole ricominciare... (Agrigento-Palermo, 1976), Il caso Panepinto (Palermo, 1977), Giordano Ansatone in Sicilia (Agrigento-Palermo, 1980), Giuseppe Ganci Battaglia Poeta delle Madonie (Palermo, 1981), Figure siciliane (Palermo 1982), Immagine della Sicilia (Palermo 1983), Sicilia 1943-1985 (Palermo, 1985), Una chiesa nel cuore. La Matrice di S. Stefano Quisquina (S. Stefano Quisquina 1987), Jordanus non est conversus retrorsum (Roma, 1998) –, dalle relazioni tra siciliani e spagnoli – il diario Viaggio in Spagna e Portogallo dalla Sicilia (Palermo, 1981), i saggi storici Il viceregno di Spagna in Sicilia e Messico (Palermo, 1985) e L’Inquisizione di Spagna nell’America Latina (Palermo, 1993), la monografia storica Sicilia e Spagna nel Settecento (Palermo, 1986) – fino ad arrivare ai romanzi storici Volevano l’Inquisizione (Roma, 1992) e I vendicatori (Rimini, 1995).

Un cenno a parte meritano gli scritti del Messina sugli autori francesi, spagnoli e italiani del Settecento, visti alla luce del loro rapporto col mondo classico. Superando un vecchio cliché che vorrebbe illuminismo e classicismo antagonisti, l’A. piuttosto li accosta, rintracciando negli illuministi francesi i segni per nulla affievoliti del classicismo. Montesquieu e l’antichità greco-romana (in "Atti della Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo", 1975-76), Voltaire e il mondo classico (Palermo 1976), La Mettrie e Diderot. Antagonisti, ammiratori di Seneca (in "Atti dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo", 1978-79), Settecento italiano classicista e illuminista (Palermo, 1980) e Umanesimo nella Spagna "ilustrada" (in "Boletín de la Biblioteca de Menéndez Pelayo", 1981 e 1982) hanno suscitato un vivo interesse nel mondo degli storici più autorevoli, come Pierre Grimal, Helmut Koenigsberger, Adam Wandruszka.

Ma eccoci giunti in Francia, e naturalmente a Parigi, dove, ormai da qualche anno, Messina è di casa. Ultima sua creazione, I viceconsoli di Francia in Sicilia: un libro estremamente coinvolgente, che ha ricevuto un’attenzione particolare in Francia, e non è un caso che sia stato pubblicato a Parigi, ispirando la creazione di una nuova collezione, "Les feux de l’histoire", fatta su misura per il nostro autore. Il libro narra la storia dei viceconsoli francesi che vigilavano sul commercio con la Sicilia durante il Settecento. È un racconto fresco e appassionato delle loro vicende. Ma attenzione! Anche se "cela ressemble à un roman", come è stato scritto, non c’è nulla d’inventato, ogni cosa è documentata, ogni riferimento è rintracciabile fra le carte AE/B1 e B3 dell’Archivio Nazionale di Parigi e della sottoserie "Naples" dei "Mémoires et documents" e della "Correspondance politique" dell’Archivio del Ministero degli Affari Esteri. Non inganni dunque l’impianto narrativo del testo: sotto c’è la storia.

Ma questo racconto, che a me piace definire "la storia umana", presenta un aspetto formale fortemente innovativo nel settore della ricerca storica: I viceconsoli è un’opera originale anche per la mancanza di note. E non è certamente, questa, una scelta casuale o un segno della pigrizia. Lo scrittore ha volutamente tralasciato non il metodo classico di ricerca delle fonti, ma il meticoloso riferire e ossessionante rendere conto del lavoro al lettore. Come ha evidenziato Lucio Zinna, "Messina – fedele ai documenti – ha preferito adottare il più agile e coinvolgente modulo narrativo del racconto-verità (o del romanzo-saggio), che ha vari e illustri precedenti: dalla manzoniana Storia della colonna infame a Morte dell’Inquisitore di Sciascia, passando magari attraverso la Storia universale dell’infamia di Borges, per la sua valenza stilistica" ("Stilos", 16 ottobre 2001).

Nei Viceconsoli, anche per l’originale modulo narrativo, è una "nouvelle histoire que Messina nous propose", finalmente senza quelle note che "disturbano il racconto e interrompono il discorso di chi sta parlando", come l’A. stesso dichiara nel Prologo. Una felice intuizione del Messina che, d’altra parte, anticonformista com’è, non tiene al giudizio degli storici "scientifici" e degli addetti ai lavori, come quelli che ha incontrato di persona negli archivi e che il computer ha "incretiniti": "Individui incapaci di un’idea, i più ottusi, usando il computer, si sentono importanti". "Agli storici scientifici occorrono i numeri per i loro calcoli con le formule algebriche; non serve tutto ciò che non può essere computerizzato: nulla sono per loro i dettagli, che spesso sono le cose più importanti".

Questi "studiosi accigliati" hanno la stessa aria grave della donna che deve "mostrare il grugno per essere considerata morigerata". Nel Prologo l’autore, cui certo non fa difetto l’ironia, ci regala una bellissima comparazione tra le donne siciliane e quelle francesi che, diversamente dalle prime, "ti sorridono [...] perché in Francia la donna sorride ed è più seria che in tanti altri paesi in cui non sorride". Il "grugno" che lo scrittore osserva invece nelle donne di Sicilia sembra fare pendant con le barbe di quegli studiosi giunti a Parigi da ogni parte del mondo, che restano delusi se non trovano ciò che avevano in mente di trovare e hanno la tentazione di inventarlo per poi spacciarlo "affastellato e con lunghissime note, che nessuno leggerà: infatti oggi si mettono spesso alla fine".

Contrariamente a ogni aspettativa, gli Archivi di Parigi, dove il nostro si trova, non ostentano un aspetto austero: "Per altro anche qui si sente un’aria allegra, di festa, all’ingresso, nei corridoi, nelle sale: anche qui dentro c’è la gioia di vivere a Parigi". E gli uomini della gendarmerie, "diversamente da quello che accade in molte parti del mondo, in cui lo stare muti o quasi è la norma, ti salutano affabili e conversano, sorridono anche, senza nulla togliere all’austerità del luogo e alla dignità dei loro compiti". Senza che il lettore se ne sia reso conto, l’A. gli ha somministrato un’analogia "filée" tra l’atteggiamento degli storici "scientifici" e l’espressione del volto della donna siciliana col suo "grugno", come a dire che la gentilezza e il "bello stile" non escludono affatto la serietà né di una donna né di uno storico.

Ma lasciamo il Prologo per entrare nel vivo del racconto. Il libro si compone di quindici capitoli, ciascuno dedicato a un momento storico o, più spesso, a un viceconsole o ad altro personaggio. I primi due capitoli c’immettono subito nel contesto storico dell’isola, disegnando la vita del popolo siciliano, le tendenze e preferenze e gli atteggiamenti di fronte al commercio.

"Una città da risollevare" è il titolo del primo capitolo, che fa riferimento alla città di Messina. Siamo nella prima metà del Settecento: la città continuava a subire le conseguenze della sua ribellione alla Spagna degli Asburgo; Filippo V, il nuovo re di casa Borbone, voleva premiarla restituendole i privilegi di cui aveva goduto. Di lì a poco la Sicilia, dopo le parentesi sabauda prima e austriaca poi, sarebbe tornata alla Spagna con Carlo III di Borbone, con grande entusiasmo dei siciliani, checché ne possa aver detto Giambattista Caruso dei baroni di Xiuremi, il cui giudizio tuttavia ha condizionato per secoli l’opinione degli storici sulla Spagna. Fu lo Xiuremi, infatti, l’autore della celebre frase: "Venga al governo della Sicilia anche il diavolo, pur che non vengano li Spagnuoli altra volta". Ma era tutto il contrario ciò che traversava il cuore dei siciliani: non si contano le acclamazioni per il ritorno degli spagnoli. Anche nei momenti di scontro si udì il grido "Viva il Re e fuori il Viceré!". Ma mai si udì gridare in Sicilia "abbasso il Re!" o "abbasso la Spagna!", sebbene non mancassero i fautori della Casa d’Austria.

Il 1734 fu l’anno dell’insediamento del re Don Carlo, anche se questi, di fatto, iniziò a governare sulle Due Sicilie più di un decennio dopo, dal 1746, quando morì Filippo V, suo padre, e salì al trono di Spagna Ferdinando VI, suo fratellastro.

Al centro del racconto del Messina non sono solo le grandi vicende: l’attenzione è rivolta soprattutto alle relazioni commerciali tra la Francia e la Sicilia, ai loro protagonisti, agli uomini che vissero e operarono nell’isola nel periodo preso in considerazione, che va dal 1734 alla Rivoluzione francese e oltre. Al momento dell’insediamento di Carlo di Borbone nelle Due Sicilie, il commercio con la Francia necessitava decisamente di essere rinverdito. Durante l’amministrazione austriaca, infatti, la tensione nei rapporti franco-austriaci aveva influito negativamente sugli scambi del regno con la Francia. E gl’inglesi avevano colto la palla al balzo, organizzando basi commerciali nel Mediterraneo. La presenza del Borbone sul trono di Napoli faceva ora sperare, e a ragione, che fossero da lui favoriti i rapporti con la Spagna e con la Francia. Effettivamente le cose andarono così, ma non grazie alle varie iniziative diplomatiche, agli editti e proclami emanati allo scopo di una ripresa delle relazioni commerciali con la Francia. Anche, certo. Ma, come ho evidenziato in un mio saggio sul Commercio della Francia con le Due Sicilie nel secolo XVIII ("Rassegna siciliana di storia e cultura", dicembre 2000), la ragione essenziale stava piuttosto nell’attrazione reciproca che i due regni, quello meridionale e quello francese, esercitavano l’uno sull’altro. Una fitta rete di interessi li legava. Il regno delle Due Sicilie aveva più seta, più olio, più grano di quanto i mercati, attraverso gl’inglesi e i genovesi, potessero assorbire. Le industrie francesi, dal canto loro, aumentavano la produzione e avevano bisogno di nuovi mercati di sbocco. Alle fabbriche di sapone di Marsiglia occorrevano olio e cenere di soda per sostenere il ritmo sempre crescente della produzione. Le seterie lionesi, lamentava Tanucci, compravano la seta grezza di Messina a due ducati la libbra, per poi vendere alle Due Sicilie il prodotto finito a sei ducati la canna, e spesso si trattava dei panni di peggiore qualità.

Tutti i viceconsoli di Francia in Sicilia lamentavano l’incapacità dei siciliani a gestire direttamente il loro commercio e, soprattutto, la mancanza di un trattato di commercio che consentisse ai francesi di avere nei porti delle Due Sicilie lo stesso trattamento di cui godevano i genovesi e gl’inglesi. Al trattato si lavorò dal 1736 al 1788, ma alla fine esso non fu stipulato, perché il governo di Napoli temeva di alienarsi gl’inglesi. Così i francesi dovettero continuare a pagare dazi più alti, a subire i controlli sui loro bastimenti e quant’altro.

L’elemento risolutore del commercio tra la Francia e le Sicilie fu il contrabbando, al quale i Mémoires e le varie relazioni del tempo fanno spesso esplicito riferimento. Esso rappresentava un elemento di preoccupazione per il governo napoletano, per i negozianti che in contrabbando acquistavano le merci, per i capitani delle navi, per i consoli e i viceconsoli. I contrabbandieri non potevano certo dormire sonni tranquilli: venire scoperti avrebbe significato la rovina. Ma il contrabbando non dispiaceva alla Francia, ché le consentiva d’introdurre nelle Due Sicilie anche i suoi generi di cui era proibita l’importazione.

Col terzo capitolo il nostro autore dà inizio alla serie dei viceconsoli di Messina della seconda metà del Settecento: uno dei suoi meriti, per averla fissata per primo – lo stesso vale per i viceconsoli di Palermo –. Dal 1754 al 1767 fu viceconsole a Messina Jean-Baptiste de Laire d’Estavigny, ché il consolato di Messina era stato declassato a viceconsolato. "Il viceconsole lamentava gli abusi, i capricci, il disprezzo, le minacce che i francesi subivano dagli addetti alla sanità e alla dogana. […] nel porto di Messina i francesi trovavano sempre eccessivi i rigori della quarantena; continuava a protestare de Laire: non si potevano avere nemmeno i viveri, qualcosa per i bisogni più elementari, se non a suon di denaro" (pp. 37-38).

De Laire lamentava le difficoltà economiche dei viceconsoli: "Negava de Laire che vivessero nel lusso i viceconsoli, come poteva sembrare. Chiedeva pertanto nuovi aiuti al Duca de Praslin" (p. 42). Non solo i viceconsoli non godevano di uno stipendio fisso, ma non erano tutti trattati allo stesso modo ed erano soggetti all’andamento delle vicende commerciali e all’esito delle infinite controversie.

A de Laire successe de Marigny nel 1767, ma fu destituito l’anno successivo per aver lanciato false accuse contro Lallement. Nel 1768 fu nominato viceconsole di Messina Pierre Armény de Bénezet. Fu un uomo esemplare, tanto che a lui ricorrevano non solo i francesi, ma molte volte anche i messinesi, quando si verificava una lite, una contesa. Durante il suo viceconsolato "nessun officiale di spada o di toga, nessun uomo di manforte, nessuna guardia della dogana reale o delle imposte poteva salire a bordo dei bastimenti francesi" (p. 53). Armény conosceva bene sia i francesi che i siciliani: "Non esisteva, ripeteva Armény, un popolo più vanitoso, più orgoglioso di quello siciliano". Secondo lui inoltre, "nelle Sicilie tutto era fatto apposta per inquietare, gabbare e rovinare gli stranieri" (p. 54).

I viceconsoli si ritrovavano anche a dover fare i conti col ministro Tanucci – a lui è dedicato il quinto capitolo –, che del commercio dei francesi in Sicilia aveva un’opinione tutta sua. Egli infatti "considerava bassi i diritti che i francesi pagavano per introdurre i loro drappi; si dovevano dunque aumentare, altro che diminuirli!" (p. 57). Questo perché il Tanucci non voleva incoraggiare l’importazione nelle Due Sicilie delle manifatture francesi, che riteneva "il danno maggiore per le Sicilie". Così, quando in Francia fu emanata una legge che imponeva ai bastimenti stranieri il 10% sui noli, Tanucci pensò di adottare un provvedimento analogo nel regno, tanto più che "i bastimenti stranieri non portavano nelle Sicilie che generi di lusso, di cui si sarebbe potuto fare a meno; anzi sarebbe stato un bene eliminarli", dal momento che essi servivano solo a soddisfare la vanità "delle femmine e dei giovani scioperati" (p. 62). Figuriamoci quale potesse essere la sua opinione sul famoso trattato commerciale voluto dai francesi e mai realizzato! Come leggiamo nei Viceconsoli, "il ministro si teneva alla cappa e faceva orecchi da mercante o rispondeva che non s’intendeva di commercio, che aveva paura di sbagliare" (p. 58).

Il Trattato di Parigi (1763), a seguito della guerra dei Sette Anni, non fece altro che avvantaggiare ancora di più gl’inglesi a scapito dei francesi. E nonostante ciò, il commercio franco-siculo e franco-napoletano continuò, regolarmente o in contrabbando. Trovavano assurdo i francesi che in un regno governato dai Borbone, dove in un certo senso giocavano in casa, fossero trattati peggio dei loro concorrenti. Addirittura, quando nel 1775 fu abolita la quarantena in Sicilia, "a Milazzo e in altre parti della Sicilia […] si continuava a imporla ai bastimenti francesi con tutti i diritti esorbitanti che essa comportava" (p. 71).

Pierre-Louis Gamelin fu viceconsole a Palermo dal 1746 al 1779, anno della sua morte. Come altri viceconsoli, cercava il modo di accrescere il commercio francese in Sicilia e di vincere la concorrenza inglese. Si rendeva conto che i problemi erano non pochi: "il commercio della Sicilia era quasi tutto nelle mani dei genovesi [...]. Dalle loro mani passavano le drapperie inglesi, le tele della Germania, della Slesia e della Svizzera; loro trasportavano una gran quantità di zucchero che facevano venire da Lisbona, cacao, pepe e cannella che ricevevano dall’Olanda, e altre droghe" (p. 83).

Secondo Gamelin, "il siciliano non era portato al commercio, per la sua diffidenza" (p. 82). Molti porti, inoltre, erano inadeguati a ricevere i bastimenti, come a Girgenti: "Questo perché si era voluto risparmiare nell’opera, diceva Gamelin, mentre Tanucci ne aveva lamentato le eccessive e inutili spese: – Gran ruberie! – ripeteva" (p. 80). Che cosa si doveva fare? Molto: bisognava andare incontro ai gusti dei consumatori, ché "badavano all’apparenza i siciliani" (p. 19), si doveva meglio favorire la navigazione, vendere direttamente i prodotti da parte dei francesi.

A Pierre-Louis Gamelin successe nella carica di viceconsole il figlio Pierre, che fu soprattutto impegnato nella battaglia per l’esonero dei francesi dalla tassa per la costruzione e riparazione delle strade, che dovevano servire ad agevolare i collegamenti all’interno dell’isola e tra i porti e l’interno. A tali opere avrebbero dovuto dare il loro contributo anche i negozianti francesi stabiliti in Sicilia, ma non ne volevano sapere. Credevano di fare già abbastanza per l’isola. Così si rivolsero al viceconsole, il quale presentò un’istanza al Presidente del regno. Niente da fare: i negozianti francesi dovevano pagare, dal momento che l’opera "avrebbe arrecato vantaggio anche ai ricorrenti" (p. 90). Così fu deciso, ma Gamelin ottenne, momentaneamente, la sospensione del pagamento.

Nel 1774 il viceconsole di Francia a Messina divenne Lallement. Anche lui costatava la decadenza della città di Messina. La sua gloriosa produzione di seta era ormai in declino e il divieto d’importazione delle manifatture straniere di seta, d’oro e d’argento non bastava a incentivare la produzione messinese. Anzi, il divieto si rivelò dannoso a tutti, anche agl’interessi del re. Poiché i manufatti di seta di Lione erano divenuti un genere di necessità, di cui nessuno poteva fare a meno, se ne introduceva la stessa quantità in contrabbando. Lallement era convinto che l’abrogazione del divieto avrebbe avvantaggiato tutti, i produttori lionesi, il re che avrebbe percepito più diritti d’entrata, i negozianti siciliani che "erano costretti a sborsare di più per introdurre i loro articoli di contrabbando e col rischio di essere rovinati, se fossero stati scoperti" (p. 98). Ma il governo non cambiò atteggiamento.

Lallement visse insieme con i messinesi la terribile esperienza del terremoto del 5 febbraio 1783, che portò la morte nella città: si contarono circa 700 morti. Il governo approvò delle misure straordinarie per la ricostruzione e furono sospesi i dazi sulla tintura e l’estrazione della seta, ancora una volta per incoraggiare la produzione. Ma nonostante queste provvidenze, la maggior parte della popolazione continuava a vivere nella miseria; tutti vivevano nel terrore: le scosse si ripeterono per quasi tutto il 1783.

"La rivoluzione" è il titolo del capitolo che chiude il libro del Messina. Un capitolo da leggere tutto d’un fiato, nel quale l’autore vive e fa rivivere le reazioni dei siciliani di fronte alle notizie che arrivano dalla Francia. L’eco delle "cose di Francia" giungeva insistente in Sicilia, dove i viceconsoli e tutti i francesi residenti nell’isola cominciavano a preoccuparsi seriamente. La presa della Bastiglia, i massacri, le decapitazioni non potevano lasciare indifferente nessuno.

Scrive il Messina: "Impressionati rimasero tutti i siciliani. Né al sicuro potevano considerarsi i francesi in Sicilia; era pericoloso anche parlare delle cose di Francia" (p.172). Ben presto gli effetti della rivoluzione si fecero sentire sui francesi: il governo di Napoli cominciò col revocare loro la sospensione del pagamento della tassa per le strade, che Gamelin era riuscito a ottenere, e col pretendere i donativi. Le tasse sul commercio che i francesi svolgevano nell’isola erano già talmente vessatorie, specie se paragonate ai vantaggi dei commercianti siciliani, che si comprese bene quale fosse la vera ragione di quei provvedimenti. Gli allora viceconsoli di Palermo e Messina, Gamelin e Lallement, dovettero far fronte a una serie di questioni che finirono col pesare sulla già difficile situazione del commercio dei francesi: furono inviati ordini di espulsione a negozianti, ma anche abati e personaggi di spicco dell’aristocrazia; furono ammoniti dal governo di Napoli e accusati di francesismo, tra gli altri, il Principe di Caramanico e il governatore di Messina, Don Giovanni Danero.

D’altra parte gli animi dei siciliani, seppure indignati di fronte ai fatti della rivoluzione, non sempre si rivelarono essere in armonia col governo napoletano; basti sapere che, all’arrivo della notizia della decapitazione di Luigi XVI, "a Napoli era stato deciso il lutto, proibiti gli spettacoli teatrali; a Palermo si faceva festa in casa del viceconsole Gamelin" (p.189).

Non mancavano, naturalmente, gli avversari della repubblica, il cui stemma in Sicilia fu più volte insultato e, fatto di gran lunga più grave, "le porte di diversi negozianti francesi si trovarono segnate con un segno di croce" (p. 189). Ci fu pure chi, sotto il pretesto dell’avversione del governo di Napoli e l’impressione suscitata dai fatti di Francia, voleva innescare una reazione popolare. L’opinione dell’architetto francese Léon Dufourny era che "il popolo, scontento dell’alto costo dei generi di prima necessità, non cercava che un pretesto per dare inizio all’insurrezione e anzi lo aveva trovato nei francesi" (p. 190). Infine, il 7 agosto 1793 giunse notizia in Sicilia della tragica fine di Marat. Successivamente si ebbe la rottura di Napoli con la Francia e fu allora che "tutti i francesi ch’erano in Sicilia, si chiesero quale sarebbe stata la loro sorte" (p. 193).

La sorte del commercio dei francesi, intanto, sembrava segnata da una maledizione. Gamelin stilava tristemente i bilanci poco positivi degli anni della rivoluzione e chiedeva, invano, degli aiuti, ma "il nuovo governo sembrava sordo alle sue richieste" (p. 195). Le parole conclusive del libro ci regalano un’immagine carica di umanità: è quella di un viceconsole sconsolato, che finisce i suoi giorni nella solitudine, in un ricovero dei dintorni di Palermo.

3. Ma era palermitano Cagliostro?

Il libro del Messina offre anche un capitolo molto particolare e per certi aspetti diverso dagli altri, non foss’altro per il personaggio che ne costituisce il soggetto. Sì, si tratta proprio e ancora di lui: il Conte Cagliostro, l’uomo col quale gli studiosi di ieri e di oggi si sono spesso ritrovati a fare i conti. E non solo studiosi di storia, ma anche maghi, avvocati, re, negozianti e gente del popolo. Le vicende di Cagliostro coinvolgono diversi strati della società. Allora come oggi, non ha smesso di stupirci.

Prima del ritrovamento da parte di Messina della relazione dell’avvocato Bivona, contenente l’albero genealogico, l’atto di battesimo, l’atto di matrimonio dei genitori e altri documenti importanti, l’unica certezza riguardo a Cagliostro era il periodo in cui visse, coincidente pressappoco con i regni di Luigi XV e XVI.

Perché parliamo dei re di Francia? Perché la Francia fu una delle sue nazioni. Una, in quanto Cagliostro era solito ripetere che "non era di nessuna epoca e di nessun luogo; che il suo nome era quello della sua funzione e lo sceglieva così come sceglieva la sua funzione, perché era libero" (p. 163). Il capitolo "Ma era palermitano Cagliostro?" svela la verità delle origini del Conte, proprio grazie al ritrovamento del Messina.

Giuseppe Quatriglio, in un articolo apparso sul "Giornale di Sicilia", il 5 luglio 2001, ha scritto che Messina " avrebbe potuto dedicare un intero libro a questa inattesa scoperta" e invece ha scelto di trattare l’argomento in un capitolo del suo libro, ché sempre ha voluto evitare i clamori. In effetti, ci sarebbe ancora tanto da scrivere su Cagliostro, e anche ora che il problema della sua nascita è stato risolto, rimane l’alone di mistero che per secoli ha avvolto il personaggio e che forse non svanirà mai del tutto, se ammettiamo che il mistero è parte integrante del mito e che il mito è magia, e la magia potere, cioè l’altra faccia del divino.

Ho chiesto all’autore, ad alcuni anni ormai dal suo eccezionale ritrovamento della relazione del Bivona, se siano da preferire i piaceri della vita terrena o le ricompense della vita eterna. Mi risponde con un celebre passo di Ovidio: Video meliora proboque: deteriora sequor. La ragione? "Pare che il diavolo attragga di più" – mi dice. Questo spiegherebbe la fascinazione esercitata da Cagliostro, che a distanza di oltre due secoli suscita ancora meraviglia e attrazione. Ma leggiamo quanto, sul momento del ritrovamento dell’incartamento da parte del Messina, riferisce Vincenzo Prestigiacomo, nella pagina dedicata alla scoperta dal giornale "La Sicilia" (21 marzo 2001) – pagine hanno riservato all’avvenimento diversi giornali, fra i quali "L’Ora" (22 aprile 2001) e "La Repubblica" (2 giugno 2001) – : "ci confida: […]‘Una mattina, [...] tra i documenti consegnatimi dagli impiegati, è saltata fuori una memoria giustificativa con allegati autentici sul conte Cagliostro. Non potevo crederci. Mi sono stropicciato più volte gli occhi. Confesso di essermi emozionato ".

Chi fosse realmente Cagliostro e quali fossero i suoi prodigi, potranno i lettori scoprirlo leggendo il prezioso capitolo dei Viceconsoli di Francia in Sicilia. Mi limito a ricordare che aveva fama di guaritore, che le donne portavano la sua immagine al petto come portafortuna, e che avrebbe predetto alla regina Maria Antonietta la disgrazia che l’avrebbe colpita insieme alla sua famiglia, e anche la presa della Bastiglia. Riuscì a entrare nelle grazie del re Luigi XVI, ma poi fu rinchiuso nella Bastiglia e infine espulso dalla Francia; tornò dunque a Londra. Il governo francese incaricò l’avvocato Bivona di effettuare delle ricerche, che potessero svelare la verità sul Conte. E l’avvocato obbedì, andò a trovare un cugino di Giuseppe Balsamo, cercò e trovò le prove che Balsamo e Cagliostro erano la stessa persona. Ma quel dossier il re non volle renderlo pubblico, così rimase sepolto negli Archivi di Parigi, dove il Messina l’ha ritrovato "per caso, cercando altre cose" (p. 171): succede che "a volte subentra il caso e finisce sotto gli occhi ciò che non s’immaginava di potere trovare", ha scritto Silvia Tartamella ("L’Ora", 22 aprile 2001).

Alla domanda "ma era palermitano Cagliostro?" Messina dà una risposta, ma non voglio rovinare ai lettori il piacere della scoperta; nei Viceconsoli di Francia in Sicilia potranno trovare questa e altre risposte.

 

La mafia e i suoi protagonisti nella storia della Sicilia contemporanea. Riflessioni e commenti su I Padrini di Giuseppe Carlo Marino di Gabriella Portalone

Che la mafia sia un tutt’uno con la storia della nostra terra e del nostro popolo, purtroppo è un dato acclarato da tempo che se pur non ci rende certo orgogliosi, aiuta lo storico a comprendere molte particolarità del nostro modo di vivere e delle scelte passate che hanno inciso sui destini della nostra Isola. Le varie opere di Giuseppe Carlo Marino, professore ordinario di Storia contemporanea nell’Ateneo palermitano, dedicate a tale argomento, ci spingono a soffermarci ancor di più su tale dolorosa ma inequivocabile realtà e ci sollecitano tutta una serie di interrogativi, molti dei quali destinati a rimanere senza risposta, relativi all’analisi di una nostra diversità culturale, più che genetica o antropologica, diversità che una parte degli storici, i cosiddetti sicilianisti continuano a negare. Non si può certo biasimare chi, per amor di patria, per orgoglio e forse anche nella speranza di una possibile via d’uscita dall’interminabile tunnel in cui abbiamo vagato per secoli, vorrebbe convincerci a considerare la mafia siciliana, questa cosa spesso indefinibile che negli anni ha anche assunto denominazioni diverse -. Cosa nostra, Onorata Società – come una delle tante forme di violenza organizzata presenti nelle varie parti del mondo, con dei connotati particolari derivati dalle usanze locali. Secondo costoro la nostra mafia non sarebbe diversa da quella russa, cinese, giapponese, marsigliese, americana, ecc. se non per la terminologia e per la ritualità.

Leggendo il libro di Marino ci si rende conto, tuttavia, che il padrino siciliano, quello almeno della vecchia mafia che subisce una svolta radicale negli anni cinquanta dello scorso secolo, è cosa ben diversa dal gangster americano o dai vari boss marsigliesi, ha una sua sacralità che non sta tanto nel rituale esterno, insomma in quel folklore che ormai troppo spesso vediamo immortalato in film e romanzi di grande impatto popolare e di notevole successo commerciale. La sacralità della mafia siciliana concerne il ruolo dei vari padrini che non sono semplici capi di cosche la cui opera sarebbe finalizzata solo al crimine, ma personaggi dotati di particolare carisma, senza il quale sarebbe impossibile ottenere il titolo di don e convinti di essere stati investiti direttamente dal popolo, che li ha riconosciuti come tali, di una speciale missione, costituita da attività di mediazione, di protezione, di sfruttamento di speculazione, di arbitrato, ma anche di poteri giurisdizionali e dunque punitivi, nei confronti di chi calpesta le regole imposte da tale sistema criminoso. Tale complessa missione avrebbe come fine ultimo, non soltanto l’interesse del singolo, ma la conquista del territorio considerato proprio della nazione siciliana. I padrini, uomini fermamente convinti che la Sicilia è dei siciliani, razza perfetta e non perfettibile paragonabile ad una progenie divina, secondo la definizione di Tomasi di Lampedusa, sarebbero i successori di quei baroni che fin dalla fine della dinastia normanna, respinsero ogni intrusione straniera nell’Isola che consideravano esclusivamente propria, (cosa nostra) impedendo che uno stato si formasse e governasse regolarmente. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, i baroni non volevano sostituirsi allo stato, così come la mafia non ha mai voluto rappresentare l’antistato, essi volevano semplicemente annullare la presenza dello stato per assicurarsi poteri e privilegi che nessuna legge umana avrebbe potuto limitare.

La dissennata politica seguita dalla nostra classe dominante fin dal 1300 e forse anche da prima, politica mirante a costituire nell’Isola uno stato di perpetua anarchia, dove i pochi capaci di comandare potessero impunemente soddisfare i propri interessi a discapito delle moltitudini inermi ed inerti, è del tutto speculare al modo di operare, dal 1861 in poi, dei padrini e dell’organizzazione mafiosa in genere.

Chi ha finora definito la politica della classe baronale e poi della cosiddetta mafia buona, come una forma di antistato, lo ha fatto senz’altro per dare a tali comportamenti quasi una copertura e una giustificazione ideologica. Baroni e padrini, cioè, avrebbero sempre operato e lottato per strappare la Sicilia dalle grinfie rapaci di dominatori stranieri impostisi violentemente alla volontà popolare. Ciò spiegherebbe l’appoggio dato dai baroni e dai picciotti all’impresa dei Mille o il sostegno alla rivoluzione del settembre 1866 o all’avventura separatista del secondo dopoguerra. Le cose purtroppo non stanno così: padrini e baroni hanno sempre combattuto per il dominio del territorio, per impedire che un’autorità statale assoluta e valida erga omnes s’imponesse annullando o limitando, con norme, i privilegi dei potenti.

Analizzando la storia del regno borbonico viene spontaneo domandarsi perché quella dinastia che, perché sconfitta e seguendo la sorte di tutti gli sconfitti, è passata alla storia come ineffabile concentrato di perfidie, indolenza e malgoverno, avesse discretamente operato nel napoletano e in genere nel mezzogiorno continentale dove, peraltro, era abbastanza amata, e avesse invece brillato per la sua assenza nei Domini al di là del Faro. Non furono forse i baroni ad impedire ai Borbone, così come avevano fatto con gli spagnoli prima e ancor prima con gli angioini, di ingerirsi nelle faccende di un territorio in cui erano da considerarsi intrusi? Se pensiamo alle vicende del Caracciolo e del Caramanico ce ne convinciamo sempre più. L’immorale classe dominante siciliana, ricattava i detentori del potere centrale servendosi del popolo come strumento per la difesa delle proprie ribalderie; se i vari Re avessero deciso di prestare particolare attenzione alle cose di Sicilia, esautorando anche in parte i baroni, avrebbero dovuto vedersela con le rivolte del popolo, aizzato dagli stessi a ribellarsi al potere costituito nell’illusione di ottenere condizioni meno miserevoli di vita, ma in effetti usato per la difesa di un assetto feudale che non doveva mutare. Queste rivoluzioni conservatrici, dunque, venivano scatenate per far sì che nulla cambiasse sotto l’ardente e spesso impietoso sole della Sicilia. Come si fa a distinguere tale politica ricattatoria dal comportamento mafioso? Politica che riuscì financo a fermare la rivoluzione francese al di là dello Stretto condannando questa infelice terra a recepire i frutti del naturale progresso politico, sociale ed economico che percorreva l’Europa, con decenni di ritardo e attuando sulla stessa quel sequestro culturale di cui così sagacemente dissertò Giovanni Gentile.

Un popolo abituato all’anarchia e al dominio dei più forti, cioè alla prevaricazione e alla prepotenza, viene naturalmente abituato ad accettare supinamente la mentalità mafiosa, l’individualismo, il rifiuto di ogni tipo di sottomissione a poteri legittimi, la negazione dello Stato. Di conseguenza tutti i siciliani, per dirla come Gaetano Falzone, sono mafiosi,- è una questione di percentuale, - o come affermò dopo lunghi e dettagliati studi Franchetti, sono mafiosi per proliferazione genetica.

Se i baroni furono coloro che determinarono la nascita e la diffusione della mentalità mafiosa, una volta instauratosi uno Stato centralizzato che si sottraeva al ricatto degli stessi, delegarono dei loro fiduciari, i padrini appunto, a gestire la nuova situazione, per riuscire a svuotare il guscio dello stato, pur accettandone l’inevitabile esistenza. Per far ciò bisognava servirsi di delinquenti, briganti, banditi, la manovalanza delle varie cosche mafiose, per trattare con i quali era adatto non più l’aristocratico, ma qualcuno che venisse dal basso e che godesse insieme, della fiducia del proprietario della terra e di quell’esercito di disperati pronto a mettersi al servizio di chiunque pur di elevarsi socialmente ed economicamente. Il padrino, dunque, "era nient’altro che uno dei suddetti fiduciari e mediatori o, meglio ancora, era il titolare delle funzioni di ‘governo sociale conferitegli, per un certo ben limitato territorio, dall’intera comunità dei ‘signori della roba. Egli così ascendeva ad una funzione sociale che ne faceva qualcosa di simile ad un aristocratico della criminalità, una specie di ‘barone’ dei criminali. Da qui il titolo di don preposto al suo nome di battesimo". (Marino p. 17).

Ciò che ha sempre distinto, fra l’altro, il mafioso dal brigante, è l’aspetto; a differenza del brigante, generalmente aitante, originale, spavaldo, vestito in modo da non passare mai inosservato, tendente ad ostentare brillanti o preziosi orologi (quest’ultimo elemento differenzia il gangster americano dal padrino siciliano), l’appartenente a Cosa nostra si presenta modestamente vestito, tende a confondersi fra la folla e deve l’ubbidienza dei sottoposti, o meglio degli amici, non tanto all’ostentazione dei muscoli o delle ricchezze, bensì al suo potere di persuasione ovvero di coazione e di minaccia.

Nel presentarci la storia dei più importanti padrini della storia della mafia, di quelli cioè, che lasciarono un’orma indelebile della loro esistenza, di quelli che potremmo chiamare, paradossalmente, quasi dei caposcuola, l’autore distingue tra i capi della vecchia mafia ottocentesca, la mafia del feudo, come don Vito Cascio Ferro, quelli appartenenti ad un periodo di transizione e di trasformazione, cioè il periodo compreso fra le due guerre mondiali e dominato dal fascismo, come don Calò Vizzini, e quelli che rappresenterebbero la nuova mafia, la mafia americanizzata, dimentica delle antiche regole, della cultura della famiglia e dell’onore, insomma della mafia della droga, del contrabbando, della speculazione edilizia, ma anche della violenza sfrenata dei Bontade, dei Liggio, dei Riina.

Marino dimostra come la mafia sia sempre stata al servizio del potere, liberale con Giolitti, fascista con Mussolini, democristiana dal secondo dopoguerra alla crisi del partito di maggioranza relativa. Dimostra, altresì, che la mafia fu sempre indubitabilmente anticomunista, essendo stati i capi del PCI o i sindacalisti della CGL le sue principali vittime negli anni quaranta e negli anni cinquanta, anzi ipotizza, partendo dalla strage di Portella della Ginestra e dall’equivoco comportamento dell’allora ministro degli interni Scelba, una vera e propria alleanza tra padrini, notabili democristiani, servizi segreti americani, in funzione anticomunista e antisovietica.

Io penso che tutto si possa dire della mafia meno che essa sia un’organizzazione motivata ideologicamente. Il mafioso aborrisce qualsivoglia ideologia o programma politico che lo irreggimenterebbe e che lo priverebbe della suprema libertà a cui aspira, libertà di agire nella maniera più opportuna per il conseguimento dei propri interessi e per il dominio del territorio. è vero la mafia fu sempre feroce avversaria dei comunisti, ma sol perché essi non ebbero mai il potere e perché erano portatori di un programma fondato soprattutto sulla soppressione di quel diritto di proprietà, la roba, a cui nessun contadino siciliano, e i padrini non erano altro che contadini arricchiti, astuti gabelloti, rinuncerebbe mai. D’altra parte il maggior impegno della mafia nel secondo dopoguerra fu quello di combattere quella riforma agraria, fatta dalla DC, e non potendo impedire che la legge venisse promulgata, la mafia studiò una sua originale strategia di intervento: entrare nei gangli della macchina burocratica, ottenere per i propri uomini incarichi nello stesso ente che avrebbe dovuto applicare la riforma, l’EAS, incarichi tramite l’intermediazione di politici corrotti o semplicemente impauriti, e operare dall’interno del sistema per renderlo inefficace. D’altronde se veramente la mafia si ponesse per scelta ideologica da una parte politica contro un’altra, non si spiegherebbero le migliaia di voti che essa dirottò verso i radicali o i socialisti, negli anni ottanta, o la percentuale bulgara con cui Orlando venne eletto la prima volta, nel ’95, con grande seguito da registrarsi nei quartieri più mafiosi di Palermo come la Kalsa o Sant’Erasmo. Ciò non vuol certo dire che Pannella, Martelli od Orlando fossero dei punciuti, cioè dei mafiosi, né che lo fosse stato Crispi ai tempi in cui raccolse voti in ambienti non certo raccomandabili, significa solamente che, nel primo caso la mafia fece votare Pannella per dare un avvertimento al partito di maggioranza, nel secondo caso semplicemente si decise di votare Orlando, malgrado egli si fosse presentato come un vero paladino della lotta antimafia, perché egli sarebbe stato l’incontrastato arbitro della vita politica palermitana, colui che a Palermo avrebbe fatto affluire fiumi di finanziamenti di cui i più spregiudicati avrebbero certamente saputo approfittare. La mafia ha sempre avuto uno speciale fiuto nel subodorare da quale parte spirasse il vento del potere e dopo aver fiutato è sempre stata pronta a saltare sul carro del vincitore: di Crispi, di Giolitti, di Vittorio Emanuele Orlando, di Mussolini, di Fanfani, di Rumor, di Andreotti, di Berlusconi e così via.

Una situazione particolare si ebbe con il fascismo, sia perché stranamente i padrini non riuscirono a prevedere il trionfo politico di quel giovane capopopolo di cui, poi, intimamente diffidavano per il suo passato rivoluzionario, sia perché una volta compresa la direzione del vento, si vietò loro di salire sul carro del potere. Lo provano i continui scioglimenti, prima del ’24, delle varie sezioni del PNF nei paesi dell’entroterra palermitano e delle Madonne, per infiltrazioni di elementi mafiosi, come diremmo oggi (Tricoli, Mussolini a Palermo nel 1924, Palermo 1993) e la inarrestabile campagna antimafia condotta dal prefetto Mori, per volere del capo del fascismo, dopo aver constatato il potere di quella criminale organizzazione durante il suo viaggio nell’Isola nel 1924. Non si può certo negare – anche molti storici d’estrazione marxista lo riconoscono – che il fascismo fu l’unico regime che volle combattere la mafia e che la combatté con successo, non tanto per motivi moralistici, quanto perché un regime totalitario non avrebbe mai ammesso l’esistenza di un altro potere in alternativa al proprio e perché, agendo al di fuori delle garanzie costituzionali, possedeva gli strumenti per rompere il muro di omertà che da sempre aveva reso impenetrabili i segreti di tale nefanda associazione a delinquere. è anche possibile che elementi vicini alla mafia come il barone Sgadari, puntando sul loro retaggio nobiliare o su influenti amicizie politiche, riuscissero a riciclarsi come ardenti fascisti della prima ora ed ottenerne riconoscimenti ufficiali, ma si trattò indubbiamente di casi isolati, visto che la quasi totalità dei padrini furono arrestati, o costretti a fuggire o ridotti all’impotenza, salvo ad essere poi riportati al vertice della piramide del potere dalla spregiudicata politica degli invasori americani.

La mafia a noi più vicina, per intenderci quella dei Greco, dei Riina e dei corleonesi in genere, non ha prodotto dei veri padrini, secondo l’antica tradizione, ma soltanto dei sanguinari boss che nulla hanno a che fare, secondo l’autore, con la ieratica sacralità dei vari Cascio Ferro, Vizzini, Genco Russo o Navarra."[... ] di solito rozzi brutali per mentalità e temperamento, scriteriati ed avventurieri, improvvisatori e quasi sempre maldestri nel gestire i rapporti con il mondo politico, esibizionisti di una forza selvaggia insofferente ad ogni controllo, fuorilegge senza scrupoli dediti ad affari di morte, ladri tenaci e rapacissimi e soprattutto, efferati assassini, essi rappresentano una strana versione urbana del vecchio brigantaggio siciliano delle campagne ibridatosi con le "moderne" suggestioni e aspirazioni ad una facile ricchezza. Sono, in breve, rappresentabili come violenti parassiti e razziatori della società urbana, ovvero della cosiddetta " società dei consumi" del secondo dopoguerra". (Marino pp.447-448). Lo status di padrino "era oggettivamente inarrivabile per i Corleonesi che forse neppure ne avvertivano l’istanza e, vincolati com’erano quasi tutti alla loro invincibile natura brigantesca, nient’altro avrebbero potuto aspirare a conseguire per il coronamento delle loro carriere se non una turpe ed elementare autorevolezza da boss, rimessa in gran parte alla capacità di terrorizzare gli avversari con pratiche gangsteristiche all’americana. Nessuno direbbe oggi " don Luciano" per riferirsi a Liggio o "don Giovanni" per riferirsi a Brusca, mentre dire "don Totò" parlando di Riina, pare soprattutto rispondere ad un’implicita istanza di ridicolizzazione del macabro e del mostruoso, un po’, se si vuole, sulla stessa lunghezza d’onda, e con lo stile, dei noti filmini dedicati alle avventure della famiglia Adam’s" (Marino p. 448).

Non possiamo esimerci dal sottolineare la liricità e il gusto del racconto esposto con una prosa ricca di frizzante umorismo e di impeccabile stile, dei capitoli autobiografici riguardanti il nonno e uno zio acquisito dell’autore; li sottoponiamo alla particolare attenzione del lettore perché in essi, seppur per poco, dimentichiamo la tristezza e la crudeltà di questa nostra cupa e insopprimibile realtà che ci circonda e ritroviamo i caldi colori della nostra terra, i sorrisi e le gustose ironie dell’antico mondo contadino, la semplicità del vivere di un tempo, i forti sapori delle nostre campagne e ci accorgiamo d’un tratto che in Sicilia non tutto è mafia, non tutto è tragedia. Esiste anche la gioia della vita quotidiana fatta di rituali ripetuti da secoli e scanditi dall’arguzia insita in ognuno di noi come in don Peppino Russo, piccolo padrino dei Nebrodi che, avido di attuare il salto culturale che il progresso richiedeva, si pregiava anche di poter vantare fra i suoi nipoti, seppure acquisiti, addirittura un comunista: "[...] Volle addirittura dargli a vedere di preferirlo nettamente al potente nipote democristiano. Nella sua casa accettava ospitalità a Palermo ogni volta che vi si recava per le esigenze dei suoi "affari" negli uffici della Regione o dell’Ente di riforma agraria. Le sue visite reiteravano un rito che, se non fosse stato, forse, casualmente rituale, avrebbe sollevato il sospetto di un accurata preparazione: il doppio bacio a sfiorare le guance, cinque o sei minuti di vezzeggiamenti al piccolo pronipote; poi a tavola, dopo il primo piatto, un breve soliloquio a commento della durezza dei tempi; infine, dopo il pranzo, il rapido assestamento su una poltrona e lì, don Peppino sollevava le braccia all’altezza della testa, quasi in segno di resa e diceva con enfasi, rivolto al nipote socialista: ‘Santoddio!!! Saaanto..dio, Carlo.. che dice l’antimafia?!!?’ (Marino p. 335).

NOTA

Ed. Newton & Compton, Roma 2001, pp. 496

 

Il referente d’antico regime della nozione di élite democratica in Alexis De Tocqueville di Massimo Sabbieti

I. Nella grande maggioranza dei casi le società del 2000 hanno assunto la democrazia come principio basilare della convivenza dei popoli e del rispetto dei diritti umani. La democrazia come valore portante degli attuali ordinamenti è stata raggiunta spesso a prezzo di grandi sacrifici umani e di grandi lotte, volte a contemperare la sfera dei diritti dei cittadini con quella dei pubblici poteri.

La complessità degli attuali ordinamenti, condizionata anche dai grandi cambiamenti che stiamo vivendo nella fase della globalizzazione e del multi-etnismo, impone però serie riflessioni sull’evoluzione che ha subìto il concetto stesso di democrazia.

Oggigiorno del termine "liberale", con il quale ogni politico è solito rivendicare la sua vena democratica, si è troppo spesso abusato; ha perso le sue autentiche connotazioni ideali e politiche, è divenuto uno strumento abilmente utilizzato per conquistare il consenso elettorale, specie nei sistemi politici bipolari come il nostro.

Si rende, allora, quanto mai necessario risalire alle vere origini dei concetti di libertà e di democrazia, riscoprendo quegli illustri scrittori e filosofi politici che avevano combattuto in prima persona per l’affermazione di tali valori. Non è un caso se da alcuni anni a questa parte la storiografia stia decisamente riscoprendo e rivalutando la figura di Alexis [Charles Henri Maurice Clérel] de Tocqueville (1805-1859), appartenente ad una famiglia della nobiltà francese, anch’essa quasi interamente sterminata durante la fase giacobina della Rivoluzione. Vicende che dunque si impressero indelebilmente ed inevitabilmente nella sua stessa riflessione politica, inducendolo ad un profondo ripensamento del passato del suo Paese.

Vivendo nel travagliato periodo post-napoleonico, Tocqueville dedica la sua esistenza alla ricerca di una soluzione politica che consentisse il buon funzionamento e la stabilità dei governi, come pure l’armonica composizione delle relazioni sociali. Aspetti quanto mai problematici nella situazione europea dell’800, alla luce sia degli atavici odi e divisioni che avevano caratterizzato la decadenza dei ceti sociali d’antico regime, titolari delle principali funzioni politiche ed amministrative, sia delle risultanze che questi contrasti avevano avuto con la Rivoluzione francese.

Il periodo in cui Tocqueville si forma è uno dei più complessi e significativi del panorama europeo e mondiale. Nella Restaurazione, che ereditava squilibri e problemi dalla Rivoluzione e dall’esperienza napoleonica, ritornano alla ribalta nuovamente gli insoluti quesiti del significato, del valore e dei limiti sia della libertà che della democrazia, entrambi aspetti fondamentali della lotta contro il potere arbitrario.

Nel ripensare questo significato, sollecitato sia dal tipo di educazione ricevuta, relativa all’ambiente ed alla mentalità tradizionalista in cui era stato allevato, sia da quella parte della cultura contemporanea influenzata dai canoni del Romanticismo, Tocqueville considera indispensabile la conoscenza e la difesa del passato e delle tradizioni. Da qui la particolare angolazione con cui egli riflette su quel periodo della storia, francese ed europea, indicato come "ancien régime", ossia sul sistema di governo esistente dalle origini della monarchia franca sino alla Rivoluzione del 1789.

Del resto, tale posizione culturale era antitetica rispetto ai valori propugnati da quella parte dell’Illuminismo europeo, specialmente francese, dove tutto ciò che non poteva essere spiegato in modo razionalistico e con criteri materialisti (pensiamo al barone D’Holbach, al Lamettrie e tanti altri), finiva per esser considerato come sintomo di errore, di arretratezza e di oscurantismo, e quindi come qualcosa da scartare e combattere.

Non miglior sorte era riservata a tutto ciò che avesse attinenza con la spiritualità e l’esaltazione del sentimento religioso, fattori chiave – secondo Tocqueville – per la società, ed invece decisamente avversati da quegli intellettuali illuministi che erano appunto animati da questi sentimenti scettici, atei, o di un vago deismo sconfinante nell’indifferenza.

Da questa prospettiva idelogico-culturale, Tocqueville cerca di comprendere la patologia della democrazia dell’epoca rivoluzionaria e le stesse disfunzioni che caratterizzano la fase della Restaurazione, attraverso un meticoloso ed accurato studio delle vicende e dei costumi della Francia. La sua ricerca si focalizza attorno a quei secoli in cui si sviluppa la società civile con forme di libera rappresentanza e di partecipazione politica, prima cioè che l’ambizione e l’ottusità dei sovrani facessero sprofondare il Paese dapprima nella sottomissione e quindi nell’apatia, nell’indifferenza per la politica.

Tale, in sostanza, è il referente di entrambe le sue opere maggiori: De la démocratie en Amérique, pubblicata in due parti, (rispettivamente nel 1835 e nel 1840)(1) e L’ancien régime et la révolution (del 1856). Quest’ultima rimase incompiuta e forse è meno universalmente famosa, ma non per questo riveste per noi minore importanza. E non soltanto come sintesi grandiosa della cultura d’antico regime e delle sue strutture di potere, ma soprattutto perché intesa a porre come termine di confronto quelle antiche istituzioni, a dimostrazione delle carenze, dei difetti e dei vizi della democrazia giacobina. Quindi un’opera che nelle chiare intenzioni del suo autore doveva fornire "a-contrario" il quadro di quanto rendeva invece della democrazia americana un vero sistema politico repubblicano.

A questo proposito, va anche detto che la riflessione di Tocqueville è condizionata dall’esperienza vissuta personalmente negli Stati Uniti, nel corso di un viaggio intrapreso nel 1831 per conto del suo governo al fine di studiare il sistema penitenziario d’oltreoceano. Qui lo scrittore ha l’opportunità di constatare praticamente i pregi ed i difetti di una democrazia già radicata ed evoluta. Con La démocratie en Amérique, Tocqueville intende effettivamente divulgare la sua esperienza a contatto con la realtà quotidiana americana, ricostruendola alla luce di un’interpretazione filosofica e politica di impronta liberale, destinata a superare sia qualsiasi suggestione radical-democratica, sia gli stessi rigidi canoni del garantismo dottrinario dei liberali francesi della Restaurazione.

Analizzate sotto questa luce, entrambe le sue due grandi opere appaiono del tutto complementari, e la loro decisa rivalutazione da parte della critica in questi ultimi anni costituisce un’eclatante testimonianza di come molte sue affermazioni, esternazioni ed intuizioni riguardo il funzionamento delle società democratiche fossero fondate. A nostra volta, ci sembra estremamente interessante rivolgere l’attenzione a quanto ancor oggi più da vicino riguarda un’esatta definizione delle prerogative della "classe politica", indicate da Tocqueville come pre-requisiti richiesti alla classe preposta al governo, per consentirle di promuovere davvero lo sviluppo di una democrazia solida ed efficiente.

II. In tal senso, le origini nobiliari dello scrittore hanno sicuramente esercitato una forte influenza sulla genesi e sulla maturazione del suo pensiero. La sua stessa concezione di liberté, uno dei motivi ispiratori de L’Ancien régime et la révolution, viene ad assumere una connotazione fortemente connessa con una determinata situazione sociale e storica.

Si può, in effetti, classificarla come una "libertà-potere", ossia un’autonomia in stretta relazione con il possesso di risorse economiche e prerogative sociali. Una libertà che nelle origini storiche si era espressa come risultante della conquista, dell’acquisizione dei beni materiali e del dominio sugli altri uomini, ma che nel prosieguo dello sviluppo storico si era trasformata nel prestigio di funzioni di difesa militare e nell’amministrazione della giustizia, contro le minacce esterne ed interne all’ordine costituito. Nella fase matura dell’epoca feudale, i fattori su cui si incardinava il funzionamento del sistema sociale erano dunque il consenso per le capacità politiche palesate dalla nobiltà, per virtù e doti morali che le attiravano il rispetto e la collaborazione di migliaia di uomini.

Assolvendo queste funzioni, - precisa in sostanza Tocqueville – il nobile palesava il suo spirito di sacrificio, la sua generosità nei confronti dei sudditi, dei suoi gregari e del proprio seguito. Il nobile dimostrava l’impegno a salvaguardare l’incolumità delle terre e dei suoi servitori, ed il coraggio e l’orgoglio profuso nelle sue azioni ricevevano la giusta considerazione in quanto doti altamente stimate presso l’opinione pubblica. Il signore che si dimostrava capace di ottenere in tal modo dai sudditi una conformità sociale ai suoi comandi, non solo ne ricavava vantaggi economici, ma anche "deferenza, affetto e servigi"(2).

È significativo a tal proposito un passo de La democratie en Amérique, che evidenzia come le istituzioni aristocratiche dell’epoca, sebbene fondate su un principio corporativo che distingueva rigidamente gli uomini in ceti, fossero state capaci di creare un legame politico ben solido e un codice morale rispettato dagli individui. "Benché il servo non si interessasse per natura alla sorte dei nobili, non si credeva meno obbligato a sacrificarsi per quello che era il suo capo; e benché il nobile si credesse di una razza diversa da quella dei suoi servi, riteneva tuttavia che il suo dovere e il suo onore lo costringessero a difendere, a rischio della propria vita, coloro che vivevano sulla sua terra"(3).

Infatti, restare fedeli al proprio signore, sacrificarsi se necessario per lui, condividerne la buona o la cattiva sorte, erano le prime prescrizioni dell’onore feudale, le regole basilari di un ordinamento etico che aveva caratterizzato secoli di storia. All’importante tematica dell’onore Tocqueville dedica un apposito capitolo ne La democratie en Amérique, dal significativo titolo L’idea dell’onore negli Stati Uniti e nelle società democratiche in genere.

Qui si sottolinea come il genere umano, da sempre, abbia manifestato bisogni permanenti e generalizzati che hanno portato alla creazione di un sistema di leggi morali alle quali conformarsi, pena il biasimo o l’infamia da parte dell’opinione pubblica. L’autore sottolinea al riguardo che l’ "onore", nella varietà accezioni con le quali è utilizzato, trova la sua migliore definizione nell’insieme delle regole con le quali si può ottenere gloria, stima e considerazione.(4)

Tale concetto rivestiva una fondamentale importanza nell’aristocrazia medioevale, dove la lode o il biasimo dell’opinione pubblica era rivolto non verso il contenuto delle azioni svolte o verso determinati comportamenti, quanto piuttosto verso gli artefici stessi di tali azioni..

Ecco perché il nobile, per godere del prestigio pubblico, non poteva far leva solo sui privilegi politici e sulla posizione sociale, ma doveva mostrare apertamente le proprie virtù ed i propri meriti. " Per conservare questa posizione particolare che costituiva la sua forza, non aveva bisogno soltanto di privilegi politici: le erano necessari virtù e vizi suoi propri".(5)

In tal senso le società aristocratiche prescrivevano l’osservanza di precetti anacronistici per le società democratiche dell’800, se si pensa che ad essere esaltate erano in particolare le doti militari, il coraggio, l’amore per il potere, lo spirito di conquista.

Ma ciò era perfettamente comprensibile e conforme in un contesto di staticità e di gerarchie sociali proprio di quell’epoca, e perciò sarebbe errato tacciare come arbitrarie quelle consuetudini per cui, ad esempio, la vendetta prevaleva sul perdono, la violenza spesso prevaricava la ragione. Per contro, infatti, erano enfatizzate la generosità, la lealtà, il rispetto ed il senso del dovere. D’altronde, la validità di un simile senso dell’onore in ambito politico era testimoniata dal giusto spazio vitale concesso dallo Stato ai cittadini, i quali non erano ad esso strettamente vincolati. Essi promettevano obbedienza e rispetto in particolare a quei soggetti che avevano saputo conquistarsi la loro fiducia e stima.

Era questo senso di fedeltà e di attaccamento al signore feudale l’essenza stessa dell’ordine pubblico. Tocqueville esterna queste sue valutazioni riferendosi chiaramente al caso francese, ma sottolinea che simili considerazioni sono analoghe in qualsiasi società, poiché, sebbene l’onore possa essere oggetto di diverse interpretazioni a seconda del contesto storico, sociale ed economico, esso è comunque un fattore sempre presente in ogni collettività.

Alla luce di tali riflessioni, Tocqueville osserva che la società americana valorizza quelle particolari doti che possano conferire tranquillità sociale e stabilità in un contesto, viceversa, di dinamismo economico che caratterizza appunto il caso americano. È significativo ad esempio che il desiderio di ricchezza, motivo ritenuto tra i più deleteri in Europa per la stabilità di un paese, nella fattispecie statunitense (se non smisurato) viene onorato ed esaltato, in quanto sinonimo di passione, di energia, di impegno a dare il meglio di sé. "In America vengono trattati con una severità sconosciuta in tutto il resto del mondo quei vizi che per natura corrompono la purezza dei costumi e distruggono l’unione coniugale".(6)

Viceversa, sono disprezzate la brama di conquista e lo spirito guerriero che erano i pilastri dell’ideologia feudale medioevale, a conferma che il diverso contesto culturale e storico ha impresso un differente concetto dell’onore negli statunitensi. Qui il lavoro è reputato uno dei cardini alla base del successo individuale, il dinamismo e la passione che animano ogni cittadino costituiscono il migliore antidoto all’ozio ed alla rassegnazione. Ecco perché negli Stati Uniti, pur non vigendo un sistema di classi ben definito, i diversi stimoli e capacità tra individui concorrono a ricreare automaticamente un funzionale sistema di differenze, venendo a rappresentare un’eccezione per quello che sembra essere il futuro delle democrazie, dove l’appiattimento sociale svilisce il senso dell’onore.

È questo l’esempio proposto dalla democrazia francese di fine ‘700, dove la mescolanza tra soggetti una volta appartenenti a classi ben identificabili ha portato a nozioni diverse e spesso contrastanti dell’onore. Di conseguenza il giudizio dell’opinione pubblica è mutevole, non riesce a discernere tra atteggiamenti positivi e negativi.

Tocqueville si mostra timoroso che un’omologazione degli uomini, dei diversi interessi dei quali ognuno di noi deve essere portatore, porti ad attribuire un valore puramente convenzionale alle azioni umane, con una conseguente e deprimente perdita di capacità valutativa. Le differenze e le disuguaglianze tra gli uomini, esaltate dalle società aristocratiche del passato, hanno favorito la genesi dell’onore. Viceversa, le società democratiche attuali, con la loro logica egualizzante, stanno lentamente erodendo la forza del sentimento dell’onore. La scomparsa dei ceti, con la susseguente abolizione dei privilegi, ha provocato lo smantellamento di tutti quei particolarismi che costituivano l’onore. "Nei paesi aristocratici uno stesso tipo d’onore non è riconosciuto che da un certo numero di persone, spesso esiguo e sempre separato dal resto dei loro simili. […] Negli stati democratici, invece, in cui i cittadini sono tutti confusi nella medesima folla […] l’onore sarà sempre meno categorico e meno pressante[…]".(7)

Tornando ad esaminare il pensiero del filosofo sull’antica aristocrazia, Tocqueville non nega che i nobili vantassero spesso privilegi "molesti", ammassando grandi ricchezze non di rado conquistate con l’usurpazione o il raggiro, facoltà alquanto onerose per gli altri. Ma, a fronte di tutto ciò, andava riconosciuto alla nobiltà nel suo complesso il non trascurabile merito di saper mantenere l’ordine pubblico, di assicurare la giustizia, di fare eseguire la legge, di andare in soccorso dei deboli, di reggere gli affari comuni.

Da queste considerazioni si evince come tale libertà di stampo aristocratico non si esprimesse solo nell’attitudine al comando e nel carisma esercitato (doti peraltro necessarie per chi aspira a compiti di responsabilità), ma che – viceversa – avesse un preciso riflesso sul piano sociale e politico, divenendo sinonimo di partecipazione alle sorti della comunità, di passione, di ambizione, di impegno ed entusiasmo nel prendere parte al governo della collettività.

Alla luce di tutto questo, appare come una logica conseguenza che fattori quali il merito, la capacità e l’intraprendenza rivestano per Tocqueville un ruolo chiave nella scelta dei membri di un governo anche negli attuali regimi politici. Proprio queste doti non comuni, patrimonio di pochi individui, devono entrare a far parte dei caratteri della élite di governo. Fra queste qualità spicca certamente quella che più legittima il privilegio del comando, ossia il disinteresse.

Agire in ambito politico disinteressatamente significa muoversi animati da sete di gloria, dalla volontà di dare lustro al proprio gruppo di appartenenza, di compiere gesta che rendano la comunità politica un modello da imitare per i posteri. Il disinteresse si pone in netta antitesi con la ricerca del tornaconto personale o dell’interesse puramente materiale, canoni che invece oggigiorno sembrano essere le prioritarie motivazioni che animano le cosiddette classi politiche.

Certo il referente storico assunto da Tocqueville era molto impegnativo anche nei termini concettuali di una semplice teorizzazione dei caratteri della vera classe politica. Il modello era quello della nobiltà cavalleresca che aveva retto le sorti della Francia fino al 1400-1500, prima cioè dell’imporsi dell’assolutismo monarchico. Una nobiltà ampiamente diversificata al suo interno, ma i cui privilegi (quali la nascita, la ricchezza e la scienza) erano reputati pertinenti solo ad un piccolo numero(8). Questi tre fattori, nonostante differiscano nettamente per la loro natura, trovavano in quella nobiltà un carattere comune: appunto quello dell’esclusività, nel senso del pregiudizio che la superiorità del genio, della virtù e del talento riguardassero solo ed esclusivamente i membri di questa élite, caratterizzandone la superiorità rispetto alle altre classi.

Se da una casta chiusa queste qualità diventassero prerogativa di una classe aperta ai meriti emergenti (al di là delle condizioni di nascita), allora si avrebbe una vera élite politica, forte e qualificata, da porre al servizio della democrazia, capace di sedare i motivi di malcontento, di superare cioè le indebite differenze tra i gruppi e quindi di evitare l’insorgere di conflitti tra le classi.

Secondo lo scrittore francese, era stata invece proprio l’affermazione di un simile spirito "esclusivo" che aveva finito per caratterizzare non solo le pretese prerogative di una ristretta nobiltà "genuina", ma anche la mentalità della borghesia emergente, che con criteri aristocratici aveva considerato la propria ascesa politica e la sua collaborazione con la monarchia, favorendone le tendenze assolutistiche, dispotiche, che poi avevano condotto il Paese al tracollo ed alla sanguinosa rivoluzione(9).

Tocqueville si mostra perfettamente conscio che la ricerca della personale affermazione, del potere e della ricchezza, se non temperata da validi ideali morali e spirituali, si rivela un’arma a doppio taglio, alquanto deleteria anche per chi crede di usarla a suo esclusivo vantaggio. Ma non era stato solo questa sconsiderata ambizione che aveva corrotto le classi sociali, e non solo la nobiltà ma anche la borghesia. Al decadimento cui era andata incontro la nobiltà nel corso dei secoli avevano contribuito l’acredine sempre più manifesta e la rivalità dei sovrani, desiderosi di sottomettere i nobili al loro dominio. Gli aristocratici avevano iniziato ad anteporre la ricerca di potere, di privilegi materiali ai fattori che invece accordano effettivo potere morale, consenso, prestigio. Delle differenze sociali avevano conservato quanto era meno giustificato dalla differenza di funzioni espletate. In questo senso, si esplica la dura accusa mossa ai nobili, i quali "…avevano serbato dell’inuguaglianza ciò che ferisce e non ciò che giova"(10).

Del resto, in questa lotta contro l’assolutismo, la nobiltà aveva finito per soccombere, costretta ad un ruolo subalterno, a farsi cortigiana, per cui aveva progressivamente perduto presso il popolo la stima conquistata nei secoli, quel carisma e quell’onore che viceversa erano e debbono ancora oggi essere i motivi primi ispiratori di chi ambisce a cariche di governo.

III. Il limite delle società aristocratiche, la cui fine è definitivamente sancita dal ciclone rivoluzionario del 1789, per Tocqueville era ravvisabile non nella teorizzazione di una scala di disuguaglianze di capacità che nessuno contestava, ma nella pretesa che una ristretta cerchia detenesse, per via ereditaria, una superiorità politica ed economica tale da escludere qualsiasi verifica meritocratica e qualsiasi apertura ai talenti emergenti dalle altre classi.

Tocqueville, infatti, è fermamente convinto che l’ineguaglianza sia un fattore naturale ed anche positivo, in quanto consente la distinzione delle qualità morali e professionali tra gli individui. Tuttavia è altresì consapevole che tutte le altre disuguaglianze fra i particolari sono nocive alla coesione sociale. Da qui la netta distinzione che l’autore rileva fra privilegi giusti e privilegi immotivati, fra disparità naturali (il cui correlato possono essere differenti posizioni politiche) e disuguaglianze artificiose, basate sull’egoismo economico, sulla ricerca del mero interesse materiale.

È proprio su questa distinzione, punto chiave del pensiero del filosofo francese, che i critici fino a pochi anni fa non hanno prestato sufficiente attenzione, limitandosi a tacciare Tocqueville come un aristocratico nostalgico, troppo legato alla difesa dei privilegi. In realtà, tutta la sua costruzione ideologica si origina dalla premessa che per entrare a far parte di un’élite di governo è necessario attuare una selezione rigorosa, peraltro non discriminante in senso assoluto. Quella di Tocqueville è una concezione di élite "aperta", in quanto non è fondamentale determinare l’estrazione sociale del cittadino, ma piuttosto verificare se questi sia effettivamente animato da senso del dovere, dalla tenacia nel realizzare gli impegni assunti, dalla dedizione al bene pubblico, oltreché da doti peculiari quali la capacità di mediare fra opposti interessi e di realizzare grandi imprese. Al contrario della concezione politica che privilegia la casta chiusa, per Tocqueville il ricambio della classe elitaria è necessario, auspicabile, in quanto rappresenta un incentivo per tutti a dare il meglio di sé.

Ma l’apertura alla necessaria osmosi sociale non implica per Tocqueville una radicale negazione delle posizioni acquisite. In quest’ottica, risulta estremamente coerente in Tocqueville anche la difesa dei privilegi medievali, che invece avevano assunto nel Settecento connotazioni particolarmente insopportabili presso l’opinione pubblica, configurandosi come una delle cause scatenanti l’odio dei francesi contro la nobiltà e, più in generale, contro l’ordinamento d’ancien régime.

Nella riflessione di Tocqueville, il termine stesso di privilegio, se riesaminato in chiave storica, perde quella connotazione faziosa e negativa con la quale era stato sempre etichettato. Nel suo senso originario esso in effetti deriva dall’espressione "privata lege", ossia di qualcosa di conseguito "secondo il diritto privato". Nel Medioevo, nella frammentazione della società civile, la fonte del diritto più importante era diventata la lex privata, che sebbene venisse spesso utilizzata ad uso e consumo delle classi elevate e quindi più agiate, rivestiva un ruolo chiave per l’intera società. Infatti, le stesse corporazioni e tutte le numerose ed articolate istituzioni del tempo ( i Comuni, le Province, i Dipartimenti, le varie assemblee rappresentative locali e provinciali) basavano la loro essenza, il loro funzionamento, su statuti propri, anch’essi "privati", appunto "privilegi".

D’altra parte non si può negare che tali istituzioni costituissero un’emblematica espressione di quella democrazia e di quel pluralismo liberale che avevano caratterizzato la società di corpi soprattutto nel Medioevo maturo. Il decentramento amministrativo, principio fondamentale e mezzo necessario per combattere il rischio di monopolio del potere, era assicurato dalle autonomie di città e di province, che esprimevano le loro istanze attraverso appropriati organi rappresentativi. La stessa separazione imposta dalla gerarchia tra classi, sebbene rigida e talvolta fonte di iniquità, assicurava un regolare svolgimento delle mansioni in un contesto istituzionale e sociale appropriato nel senso della partecipazione e coesione.

La funzione di garanzia della giustizia, inizialmente esercitata dai tribunali feudali, era stata gradualmente acquisita dal complesso apparato dei tredici Parlements, che – nelle principali regioni storiche della Francia unificata dalla monarchia – svolgevano, di concerto con il sovrano, un controllo non solo sulla corretta applicazione delle leggi, ma anche su tutte le questioni di rilevanza interna ed internazionale.

In definitiva, nel corso di tutto il Medioevo, il mondo feudale - per quanto caratterizzato da un’accentuata staticità delle istituzioni, da infrastrutture carenti, da iniquità talvolta eccessive - aveva saputo adattarsi alle esigenze di una pluralistica società di corpi. In tutta Europa, le società medioevali pre-assolutistiche erano basate su una serie di usanze e di costumi, tanto semplici quanto rigorosi, espressi efficacemente (pur con tutti i limiti e le ingiustizie ad esso annesse e riconosciute dallo stesso Tocqueville) da un ordinamento sociale di tipo "corporato" (appunto la società di corpi o "società di ordini", di ceti e classi titolari di specifiche funzioni politiche, espletate nel contesto dei propri interessi privati).

La rigida separazione gerarchica determinata dall’esistenza dei vari ceti (Ordres o États in Francia, Stände nei territori tedeschi, Estados in Spagna, Estates in Inghilterra, Ordini, appunto, in Italia), titolari di specifiche funzioni politiche, costituiva un’efficace garanzia di stabilità e di rispetto dei rispettivi compiti all’interno di una comunità nella quale ogni individuo e corpo sociale ricoprivano un preciso ruolo.

In Francia, il primo degli "ordini" era la Chiesa, a cui spettava la rilevante funzione di guida spirituale dell’intera società, la tutela dell’ortodossia religiosa, la condotta dell’organizzazione ecclesiale, l’evangelizzazione.

Il secondo "ordine" era per tradizione la nobiltà, cui erano affidati i compiti di difesa dello Stato, sia attraverso il servizio militare, sia attraverso la partecipazione all’amministrazione pubblica (specialmente nel campo della giustizia). Nel tempo, questi compiti si erano definiti secondo la specificità che aveva condotto ad una distinzione sempre più marcata fra nobiltà militare, la cosiddetta "noblesse d’epée" (la nobiltà di "spada") e nobiltà giurisdizionale, "noblesse de robe" (la nobiltà di "toga").

Il terzo "ordine", comunemente noto come "Terzo stato" (sarà appunto con tale denominazione il protagonista della rivoluzione del 1789), già nel Medioevo raccoglieva i ceti emergenti dalla massa della popolazione: sia i proprietari borghesi, la cui funzione era il commercio, la finanza, sia i ceti i contadini proprietari.

In questi suoi tratti, una tale struttura sociale appare a Tocqueville come un’eloquente anticipazione dei caratteri distintivi delle migliori democrazie contemporanee. E non solo per la complessità di ceti che in qualche misura partecipavano alla vita politica, ma anche per quel grado di autonomia amministrativa assicurata da una pluralità di centri di potere (appunto i comuni, le province, i dipartimenti). Per Tocqueville l’antefatto della vera democrazia era rappresentato da questi enti territoriali, dotati di complessi apparati di elezione, di rappresentanza delle istanze locali, di difesa delle autonomie, di partecipazione alle assemblee a livello locale o nazionale. Tocqueville sottolineava anche come i suddetti organi potessero vantare una significativa autonomia decisionale ed una serie di diritti, sanciti e regolati al tempo stesso da un sistema di privilegi e di franchigie loro riservati. Tutti elementi che conferivano sia ai vari "corpi" sociali (appunto gli "ordini" ed altre "corporazioni, che in Francia vanno sotto il nome di "maîtrises"), sia alle varie entità territoriali un buon grado di libertà nella partecipazione e di responsabilità nella vita politica della nazione.

In certa misura, un compito di rappresentanza degli interessi collettivi in tal senso era stato svolto per alcuni secoli sia dagli Stati Generali, sia dalle varie assemblee locali, sia – e non ultimo – dalle funzioni di "alta corte di giustizia" svolte dai suddetti 13 parlamenti nelle principali regioni storiche della Francia.

Fra questi, soprattutto il Parlement di Parigi (che dal XIV secolo aveva acquisito il controllo di legittimità e di merito sulla legislazione regia) aveva assunto una funzione di rappresentanza della "volontà nazionale", ponendosi come un valido baluardo allo strapotere dell’assolutismo monarchico. Ma anche gli altri parlements, sebbene maggiormente limitati di quello di Parigi nelle loro funzioni (talvolta semplicemente di tipo consultivo), rivestivano un’importanza vitale, in quanto si configuravano come mezzi di intermediazione e di contatto tra la popolazione e lo Stato.

Ogni aspetto dell’amministrazione francese era strettamente legato all’attività di questi "parlamenti", le questioni più spinose erano di dominio pubblico e le relative decisioni scaturivano solamente dopo aver ascoltato tutte le arringhe favorevoli e contrarie. Per Tocqueville, proprio "siffatte abitudini e forme erano altrettante barriere all’arbitrio del principe"(11).

Lo scrittore normanno d’altronde era un convinto sostenitore della separazione dei poteri, nella teorizzazione recepita da Montesquieu, che giustamente la storiografia reputa il suo primo e vero maestro. Entrambe rite- nevano che la monarchia fosse una forma di governo perfettamente funzionale, se basata su leggi fondamentali che rispecchiavano una società gerarchizzata, strutturata come si è visto su una molteplicità di ordini aventi ognuno uno specifico peso sociale. In sintesi, il sistema monarchico funzionava proprio perché assicurava che al clero (il primo "ordine") spettassero i compiti di sostegno e di divulgazione della religione, alla nobiltà (il secondo "ordine") la difesa dello Stato e la funzione giurisdizionale (specialmente parlamentare), ed al Terzo Stato (o terzo "ordine") le attività economiche e professionali.

In questo contesto, era proprio la diversificazione sociale a garantire sia una reale sfera d’autonomia nei confronti del potere sovrano detenuto dal monarca, sia il funzionamento complessivo di questo sistema di distinzioni ed interazioni fra corpi titolari di specificità funzionali.

Infatti, la monarchia pre-assolutista era fondata sull’esistenza di quei corpi intermedi che, frapponendosi tra i cittadini ed il sovrano, assicuravano all’individuo il godimento della libertà: nobiltà, Chiesa, comuni, province e parlamenti rappresentavano appunto nell’immaginario collettivo l’emblema stesso della libertà. A loro volta, i parlamenti svolgevano, oltre allo specifico ruolo giuridico, il fondamentale compito di assicurare coesione, continuità alla politica e tutela degli interessi dello Stato(12).

Nel ritenere che la vita dei popoli e degli Stati debba svolgersi di pari passo in una sostanziale unità, Tocqueville si mostra perfettamente concorde con il Montesquieu: per entrambi la politica non è costituita dai singoli cittadini ma dalle istituzioni, cioè da unioni di individui che mirano a realizzare gli interessi generali di una collettività. Solo un adeguato sistema di leggi, organico e coordinato, può consentire il conseguimento di tale obiettivo. Ma la delicatezza dei meccanismi istituzionali implica che si debbano evitare i pericoli insiti nella funzione legislativa, che non deve essere devoluta ad un singolo individuo, la cui volontà può essere mutevole e sfociare quindi nell’arbitrio.

Si rende necessario allora affidare tale compito ad un organo mediatorio, il parlement appunto, che agendo da vero e proprio corpo politico può battersi per la salvaguardia delle tradizioni e degli interessi della nazione. Negli auspici di Montesquieu e di Tocqueville, i parlamenti devono divenire gli organi depositari della giustizia e garanti della legalità. E ad assolvere a compiti così elevati e difficili deve provvedere la classe che può vantare le tradizioni più antiche ed il maggiore senso di responsabilità, ovvero la nobiltà.

IV. A motivo di questa complessità del sistema politico-istituzionale, risulta chiaro perché Tocqueville consideri il subitaneo e radicale smantellamento di tutte le tradizioni, le norme, i costumi, le consuetudini ed i privilegi attuato dalla rivoluzione del 1789 come un insano gesto del quale ancora nella metà dell’800 i Francesi pagavano le tragiche conseguenze.

Infatti, la rivoluzione per abbattere l’edificio dell’antico regime dovette "[…] muover guerra, ad un tempo, contro tutti i poteri costituiti, scalzare i predomini ammessi, cancellare le tradizioni, rinnovare i costumi e le consuetudini e svuotare, per così dire, lo spirito umano di tutte le idee su cui s’erano sino allora fondati l’obbedienza e il rispetto. Da ciò la sua natura così anarchica"(13).

Va comunque precisato l’antefatto che di tale analisi è costituito dall’interpretazione fornita sul medesimo tema dall’irlandese Edmund Burke, che per primo – a fonte del radicalismo egalitario ed innovatore della Rivoluzione – aveva rivendicato la difesa delle tradizioni passate e degli stessi privilegi (questi ultimi intesi quali insostituibili strumenti di conservazione della stabilità politica nazionale).

Nella sua opera più famosa, intitolata Reflections on the French revolution, del 1790, Burke aveva osservato come "[…] dalla Magna Charta fino alla Dichiarazione dei Diritti, fosse stata politica uniforme del sistema costituzionale inglese di esigere e asserire le nostre libertà come inalienabile eredità trasmessa a noi dai nostri antenati, e trasmissibile alla nostra posterità, come proprietà appartenente in modo speciale al popolo di questo regno, senza alcun riferimento a qualsiasi altro diritto più generale o antecedente"(14).

In questo modo, - continuava Burke – "la nostra Costituzione preserva l’unità pur nella grande diversità delle sue parti. Abbiamo una corona ereditaria, un aristocrazia ereditaria, ed una Camera dei Comuni ed un popolo eredi di privilegi, franchigie e libertà derivati loro da antichissimi antenati"(15).

Del resto Tocqueville nei suoi scritti non nasconde l’ammirazione nutrita per il modello costituzionale inglese, l’unico forse in ambito europeo in grado di conciliare egregiamente il passaggio da una società d’antico regime ad una più moderna. In tal senso, in Inghilterra la rivoluzione del 1689 era stata una rivoluzione "per la continuità", volta cioè a riprendere gli aspetti positivi del passato ed a sviluppare le istituzioni in una sempre più ampia partecipazione e rappresentanza degli interessi dei vari corpi e ceti.

Dal canto suo, tornando ad esaminare il concetto di libertà, Tocqueville mira a puntualizzare come proprio questo sia stato del tutto travisato dai rivoluzionari francesi, i quali ottusamente avevano cercato di conquistare una chimerica uguaglianza assoluta, tralasciando invece la ricerca di un’effettiva eguaglianza politica (l’unico strumento che avrebbe permesso l’indipendenza dai despoti antichi e recenti).

Qui, ancora una volta, il referente cui Tocqueville "guarda" è quello delle società medioevali pre-assolutistiche, dove il desiderio di libertà era interpretato come un diritto "particolare" a restare indipendenti. Un diritto che ognuno coltivava in proprio, pur nel rispetto delle regole comuni. Una simile forma "elitaria" della libertà aveva precise implicazioni nell’effettiva intenzionalità e nella concreta capacità di acquisirla. Ma proprio per questo carattere di non-immediatezza e di eccezionalità, una tale accezione di libertà poneva i ceti che se ne facevano espressione al di sopra della massa, presentandosi di fronte al popolo come un modello di motivazioni e di comportamento che alla fine produceva risultati straordinari.

Sotto questo profilo, l’esempio indicato dall’autore è quello dei Romani.

La loro classe dirigente nutriva il profondo convincimento di impersonare, tra tutti i popoli del genere umano, l’unico in grado di saper usufruire del bene della libertà politica e dell’indipendenza nazionale. La certezza di questa "esclusività" derivava loro dalla convinzione di aver ricevuto la libertà politica non tanto come un dono dalla natura, come una naturale inclinazione a rifiutare la soggezione, ma appunto come concreta capacità dei Romani di aver saputo "conquistarsi" il diritto politico alla libertà dai tiranni e l’indipendenza da altri popoli.

È questa la fiduciosa aspettativa che l’autore nutre nei riguardi dello stesso popolo francese. Tocqueville ritiene che ogni cittadino debba maturare il convincimento di aver ricevuto dalla natura i mezzi adeguati per affrontare la vita. È comunque doveroso coltivare l’aspirazione a conseguire un diritto, uguale ed imprescrittibile, a vivere autonomamente ed a regolare secondo l’inclinazione nativa il proprio destino. Ogni individuo deve perciò dare un senso politico a questa libertà naturale, traducendola in libertà politica, in una distinzione di meriti tale da permettergli di puntare ad entrare a far parte dell’élite di governo.

A condizione che un simile concetto capacitario della libertà (cioè non naturalistico, non immediatamente istintuale) trovi storicamente le condizioni per nascere e radicarsi nello spirito di un popolo, allora anche il temuto potere assoluto diviene un fenomeno "passeggero", una fase patologica che ha caratterizzato solo un momento dello sviluppo storico, e che può pertanto definitivamente essere sconfitto.

In sostanza, Tocqueville si propone di realizzare l’ardua impresa di restituire agli individui il gusto concreto della responsabilità attiva e del concreto perseguimento del bene comune. All’astrattezza intellettualistica ed all’individualismo materialistico, che sembravano essere il tratto caratterizzante la borghesia insediatasi al potere dopo la Rivoluzione del 1789, Tocqueville contrappone la necessità di ritrovare e conservare un’effettiva sensibilità politica.

Il ceto elitario da ricreare doveva possedere molti requisiti difficilmente riscontrabili nella situazione travagliata che la Francia ottocentesca stava vivendo. Si trattava di una difficoltosa ricerca, a lungo misconosciuta, fraintesa e osteggiata, e quindi rimasta sostanzialmente inappagata. Per ritrovare una tale classe politica era indispensabile una strategia atta ad reintrodurre in un nuovo tessuto sociale quelle motivazioni che avevano caratterizzato la vecchia aristocrazia della Francia pre-assolutista (o comunque anti-assolutista). Si trattava di riprodurre un simile notabilato in forme democratiche.

A tal fine si doveva ripristinare in forme nuove, adeguate alla differente realtà storica, la complessità, la gerarchia dei ruoli, delle motivazioni e delle intelligenze, in contrasto con un mondo che viceversa appariva superficiale e propenso ad azzerare ogni distinzione di ceti e di individui. Un mondo in cui venivano brutalmente svalutate doti quali le virtù morali, il talento e le capacità dei singoli, con il risultato di produrre un sostanziale livellamento verso il basso. Sotto questa angolazione non poteva non apparire profondamente sbagliata, agli occhi di Tocqueville, la veemenza con la quale i suoi concittadini avevano voluto estromettere ed annientare la nobiltà. Un ceto che forse, meglio di ogni altro, aveva svolto ed avrebbe ancora potuto svolgere un’indispensabile funzione di intermediazione tra il popolo e le istituzioni statali, portando a conoscenza del governo l’insieme delle differenziate istanze ed esigenze espresse dai cittadini.

Si sarebbe dovuto seguire anche in questo l’esempio inglese, emblema di una scelta saggia, per la quale era stato possibile - sia pur anche qui per il tramite di una rivoluzione (la Glorious Revolution del 1688-89, comunque meno radicale, meno cruenta e meno foriera di gravi conseguenze) - la realizzazione di sistema che aveva più di un tratto in comune con una "repubblica" (Res publica o Commonwealth), se non di una vera e propria democrazia. Fra l’altro, sarebbe forse stato sufficiente - nella Francia della Rivoluzione e della stessa Restaurazione – che la nobiltà, anziché sradicarla o comunque neutralizzarla politicamente, fosse stata ricondotta ad un ruolo istituzionale. In tal modo se ne sarebbe fatto lo strumento guida necessario ad ogni comunità, e si sarebbe ritrovato un corpo animato da fierezza e dalla volontà di continuare a fornire il proprio insostituibile contributo alla nazione.

V. Ma altrettanto dissennato sembrava a Tocqueville – ne L’Ancien Régime et la Révolution - l’attacco sferrato alla Chiesa e più in generale alla religione, uno dei valori chiave che temprano l’uomo e sono alla base di ogni sistema politico armonicamente ordinato. Nel Settecento si era diffusa l’opinione - profondamente errata - che raffigurava il necessario avvento delle società democratiche come osteggiato ed incompatibile con la religione(16). Sulla base di questa convinzione, sotto la spinta dei movimenti illuministici, la Francia aveva cercato di smantellare ogni forma di legame con il cristianesimo, perdendo quello spirito religioso che deve invece animare ogni popolo.

Del resto, gli stessi Francesi non si erano resi conto che il loro astio verso la Chiesa non era vero furore antireligioso. Ad essere detestata infatti era la Chiesa non in quanto detentrice della funzione di guida etico-religiosa della nazione, dato che le radici millenarie di tale istituzione avevano legittimato il suo ruolo di faro spirituale per tutta la società. Piuttosto, il rancore anti-ecclesiastico si era prodotto e gradualmente accentuato perché nelle fila della Chiesa militavano non solo asceti e probi sacerdoti, ma anche ricchi proprietari, signori feudali, percettori di rendite, ossia delle vere e proprie classi di privilegiati senza più alcun merito sociale. A tal proposito, significativamente, Tocqueville evidenzia come man mano che l’opera distruttrice della rivoluzione andava compiendosi, la sua azione antireligiosa veniva meno(17).

D’altronde, Tocqueville capiva che l’irreligiosità di massa che aveva caratterizzato la fase rivoluzionaria costituiva un’ulteriore conferma del disordine e del caos che avevano investito la sua nazione sin dall’epoca monarchico-assolutistica. L’autore aveva già avuto modo di osservare in occasione del suo viaggio in America quale importanza rivestisse invece la religione per il funzionamento dell’intero apparato sociale. Se negli Stati Uniti la legge consentiva ai cittadini di fare praticamente tutto, il limite implicito al sistema era nel pluralismo delle confessioni cristiane, grazie a cui gli individui stessi trovavano dei freni e delle regole da rispettare. Secondo Tocqueville, il primario compito delle religioni è quello di purificare i costumi, di regolare gli impulsi, di restringere il gusto troppo ardente ed esclusivo del benessere materiale che gli uomini perseguono dietro l’apparenza di ricercare l’eguaglianza politica. Spetta ancor oggi alla religione di riportare nei giusti confini la principale preoccupazione che anima l’uomo medio, appunto la ricerca del benessere personale, sovente concepito in termini puramente materiali ed esclusivi. Perciò la religione per Tocqueville poteva e doveva rivestire non solo una funzione di guida spirituale ma anche il ruolo di un’istituzione politica di primo piano. Questa non era certo la situazione che caratterizzava la Francia, dove dapprima, nell’antico regime, era maturata l’insana commistione tra il potere temporale e spirituale, mentre poi, con la Rivoluzione e la stessa Restaurazione, si era registrata una subordinazione della Chiesa allo Stato e quindi un ulteriore perdita di autonomia per la religione.

Al contrario, in America proprio il distacco esistente dalle istituzioni statali aveva sancito la piena affermazione del fenomeno religioso. L’esperienza politica e civile fornita dalle ex-colonie nord-americane esalta, in tal senso, il ruolo di primo piano rivestito dalla religione e dalla libertà civile e politica. I due fattori, sebbene distinti, lì negli Stati Uniti si amalgamano e si influenzano reciprocamente. Il sentimento della libertà scaturisce da quello religioso, e da questo la religione stessa trae il suo sostentamento. Grazie alla religione il sentimento di libertà si radica negli animi dei credenti, e la libertà garantisce il rispetto delle diverse fedi.

La libertà "vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi, la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come la salvaguardia dei costumi e i costumi come la garanzia delle leggi e come il pegno della sua durata"(18).

La religione, se emancipata dalle strumentalizzazioni tentate dalla politica, viene così nelle società democratiche a costituire un cardine fondamentale dell’ordinamento sociale. Negli Stati Uniti le varie comunità religiose dedicano le loro energie non solo alla spiritualità, ma allo studio ed alla soluzione dei problemi concreti ispirati da tale concezione etica, traducendola in motivo ispiratore della pratica di vita e delle relazioni sociali(19).

Questo impegno "reale" verso i problemi del mondo spiega – secondo Tocqueville - la ragione per la quale si è avuta una così grande diffusione e fortuna della religione in America. Da una simile concezione di tipo etico-pratico (e non esclusivamente trascendente-metafisico) deriva l’eccezionale opera di supporto e coesione fornita dalla religione. La religione traduce l’ideale di vita morale in obiettivi pratici di realizzazione e convivenza civile. Grazie alla religione, la società può prosperare, fornendo a tutti quelle uniche "certezze" che possono essere da tutti accettate.

L’opera positiva delle sette americane è stata quella di infondere un senso di concretezza immediata a tutte le prospettive di salvezza. Tutto il contrario – sottolinea Tocqueville - della Chiesa europea, che si "limitava" ad esaltare la speranza della salvezza e delle virtù teologali, proiettandole in una dimensione senza nesso immediato con la concreta pratica di vita. Ecco le ragioni per le quali la religione è divenuta invece per gli americani una vera e propria regola di vita quotidiana, accettata unanimemente e pertanto mai trasgredita, in un clima di diffusa obbedienza e di sincera conformità. Del resto, questa tipologia di conformismo morale non è negativa, ma anzi viene esaltata dal Tocqueville in quanto fondata su di un patto morale a cui tutti i cittadini aderiscono spontaneamente. Un’adesione non basata su di un astratto contratto sociale, che viceversa non esprimerebbe l’intima partecipazione e l’effettiva volontà dei contraenti. Se i cittadini possono contare sul supporto di una tale concezione, la salvezza non viene più a dipendere da un referente religioso totalmente trascendente (e tanto meno dallo Stato), ma dall’organizzazione pratica dell’ideale religioso, che così concepito concorre a realizzare il benessere collettivo.

La religione, essendo entrata nei costumi degli americani al pari della politica, non può pertanto più essere messa in discussione, giacché oramai è stata privata di qualsivoglia implicazione estranea alla vita sociale. Sulla base di queste valutazioni, secondo Tocqueville, si rende allora necessario riproporre anche nel vecchio continente la riaffermazione di un tale modello di religiosità, necessaria per la formazione di costumi politici ed etici tali da impedire il dilagare di una libertà "sfrenata", avulsa da norme etiche. Ma questo è proprio il tipo di libertà negativa che più risulta irrefrenabile da parte di una legislazione avversa ai valori religiosi, quale appunto quella della Francia della fine del Settecento ed anche della Restaurazione, trascinata alla deriva dell’irreligiosità o, peggio, dell’indifferenza.

VI. Un altro modello da importare nella democrazie europee era sicuramente - afferma Tocqueville nel libro secondo di De la démocratie en Amerique [1840](20) - quello dell’associazionismo, un diffuso fenomeno grazie al quale gli Stati Uniti d’America avevano posto solide basi per la sopravvivenza delle stesse libertà democratiche. A questo riguardo, Tocqueville aveva potuto constatare personalmente la vitalità delle associazioni statunitensi e ne aveva tessuto le lodi definendo tale strumento la "scienza madre" dei Paesi democratici, a motivo della grande funzione educativa che questo assolveva. Lo scrittore riteneva che il progresso di tutte le altre scienze dipendesse proprio dal grado di sviluppo raggiunto dall’associazione, riscontrabile come attiva in ogni contesto sociale e ad ogni livello negli Stati Uniti.

Alla luce di questa "scoperta", Tocqueville rafforza la convinzione che la chiave della libertà politica venga così a trovarsi proprio nell’innato spirito associativo che sembra animare gli americani. Tale spirito viene elogiato in modo particolare in quanto riprodurrebbe una sorta di riflesso di quel genere di libertà "al plurale" che Tocqueville considera ancora presente nell’ancien régime francese, quando cioè la noblesse non era ancora stata soggiogata dall’assolutismo monarchico e quindi si dimostrava pienamente capace di esprimere le istanze di coesione e di aggregazione dell’intera nazione, gerarchicamente ordinata nelle sue diverse componenti e funzioni sociali.

Infatti, nel capitolo quarto del suddetto libro II di De la démocratie en Amérique, dedicato specificamente al fenomeno associativo (intitolato: L’associazione politica negli Stati Uniti) Tocqueville ribadiva proprio questa tesi. "Non c’è paese dove le associazioni sono più necessarie per impedire il dispotismo dei partiti e l’arbitrio del principe, che quelli dove l’assetto sociale è democratico. Nelle nazioni aristocratiche i corpi intermedi formano delle associazioni naturali, che arrestano gli abusi del potere. Nei paesi in cui simili associazioni non esistono affatto, se gli individui non possono creare artificialmente e momentaneamente qualche cosa che rassomigli loro, non vedo nessun argine ad ogni sorta di tirannide"(21).

Si comprende facilmente come l’associazione rivesta una posizione cardine in De la démocratie en Amérique. Limitando il potere centrale, la pluralità di tipologie associative di fatto ricopre la funzione di mediazione analoga a quella svolta dagli antichi corpi, resi coesi e cooperanti dalla nobiltà, capace di arginare i contrasti sociali e di garantire quella funzione di coesione, di "collante" fra i corpi intermedi dell’ancien régime.

 

VII. Nel contesto delle associazioni va poi rilevato come l’esperienza statunitense abbia offerto a Tocqueville anche lo spunto per un’interessante disamina sul crescente fenomeno industriale, che appariva strettamente legato all’affermazione di quello democratico. Lo scrittore sostiene infatti che i gusti e le abitudini che scaturiscono dalla democrazia spingono gli uomini verso il commercio e l’industria, in quanto fonti di guadagno più redditizie ed immediate rispetto all’agricoltura.

L’innata passione degli uomini verso i beni materiali costituisce un irresistibile incentivo per gli individui ad indirizzare le proprie energie verso il terziario, decretando così la proliferazione di piccole e grandi imprese. "Negli Stati Uniti le più grandi intraprese industriali vengono eseguite facilmente perché la popolazione intera si occupa d’industria, e il più povero come il più ricco cittadino uniscono volentieri a questo scopo i loro sforzi".(22)

Da queste valutazioni emerge come la democrazia funga da stimolo allo sviluppo industriale ed accresca continuamente la classe degli imprenditori. Lo scrittore tuttavia rileva che, incredibilmente, negli Stati Uniti si verifica anche il fenomeno inverso, per il quale l’industria genera nuove forme di aristocrazia. La specializzazione e la divisione del lavoro, canoni caratterizzanti la rivoluzione industriale, se da un lato consentono all’operaio di aumentare la produttività, dall’altro spengono la sua creatività ed il suo estro e lo legano sempre più al contesto lavorativo.

L’operaio in tal senso, sebbene fornisca un input maggiore all’industria, diviene più debole e dipendente verso quei soggetti ricchi e privi di scrupolo che si avvantaggiano delle nuove regole di produzione. "A mano a mano che il principio della divisione viene applicato più integralmente, l’operaio diventa più impotente, più limitato, più dipendente. L’arte fa progressi, l’artigiano recede. D’altra parte, a mano a mano che si scopre che i prodotti di una industria sono tanto più perfetti […] si fanno avanti uomini illuminati e facoltosi, per sfruttare le industrie rimaste fino ad allora abbandonate nelle mani di artigiani ignoranti o disagiati."(23)

L’industria riesce al contempo ad elevare la classe dirigente imprenditoriale ed a svilire quella operaia, rinsaldando i vincoli di subordinazione della seconda nei confronti della prima, in un meccanismo continuamente alimentato e rinforzato dalla domanda crescente e dalle severe leggi del mercato.

È questo il paradosso che presenta il modello democratico statunitense, che se da un lato fa convergere la popolazione verso modelli più egualitari dall’altro spinge la classe dei capi d’industria ad assumere connotati decisamente aristocratici. "Il padrone e l’operaio non hanno dunque nulla di simile, e differiscono ogni giorno di più. […] L’uno è in dipendenza continua, stretta e necessaria dell’altro, e sembra nato per obbedire quanto quest’ultimo per comandare. Che cos’è questo se non una forma di aristocrazia?".(24)

Tocqueville tuttavia sembra decisamente condannare questa nuova classe di vertice, innanzitutto perché essa non riveste quel ruolo "glorioso" e "prioritario", quell’"onnipresenza" mostrata, viceversa, dai ceti élitari d’antico regime, ma costituisce un diverso esempio di gerarchizzazione sociale, quasi uno stato a se stante.

Infatti, questa nuova categoria sociale non mostra assolutamente quella comunione spirituale e quel legame di valori e di ideali che caratterizzava i rapporti fra il ricco ed il povero nelle società feudali. "L’aristocrazia, che nasce dal commercio, non si fissa quasi mai in mezzo alla popolazione operaia che essa dirige; il suo scopo non è di governarla, ma di sfruttarla".(25)

Ne consegue che un’aristocrazia di tale stampo non esercita un grande ascendente e non alimenta una grande stima verso i suoi subordinati, contrariamente a quella che la Francia pre-assolutista aveva conosciuto, ossia un’élite pronta a soccorrere i bisognosi ed a proteggerli. Dunque, i nuovi ceti industriali, oltre che acuire le disparità economiche, allargano la frattura ed il divario sociale con le classi lavoratrici.

"L’aristocrazia terriera dei secoli passati era obbligata dalla legge, e si credeva obbligata dalle consuetudini, a prestare aiuto ai servitori e ad alleviarne la miseria. Ma l’aristocrazia manifatturiera dei nostri giorni, dopo aver impoverito ed abbrutito gli uomini di cui si serve, li abbandona, in tempo di crisi, alla carità pubblica per nutrirli"(26).

Ecco perché Tocqueville, se da un lato è conscio che la democrazia deve adeguarsi agli sviluppi del progresso, dall’altro è fermo nel ritener che si prestare molta attenzione ai rischi che esso comporta. L’aristocrazia industriale infatti minaccia di perpetrare una disuguaglianza permanente delle condizioni, svilendo i rapporti personali e deviando dal concetto di associazione che, viceversa, si basa sulla collaborazione e la solidarietà reciproca.

VIII. Nel privilegiare quelle forme di autogoverno che sono l’espressione politica della società civile, Tocqueville riprende concetti comuni alla tradizione rappresentativa della Francia anti-assolutista, ma va oltre la definizione fornita da Montesquieu a metà del Settecento della complessità sociale in chiave di divisione, equilibrio e limitazione dei poteri.

Specialmente dopo la Rivoluzione e la stessa Restaurazione, si stava riproponendo con maggiore evidenza la differenza fra l’attuale regime centralistico, burocratico-amministrativo, che pure sapientemente si basava sulla distinzione dei poteri, ed invece quella molteplicità dei gruppi e degli organismi sociali (dotati ognuno di relativa autonomia, cioè di libertà ma anche di interazione sia con gli altri, sia con la società nel suo complesso, sia con lo Stato) di cui aveva dato prova l’antico regime pre-assolutistico ed ancor più la perfettamente funzionante democrazia nord-americana.

Riguardo a questa pluralità e complessità di fattori, il ruolo di un’élite si rende indispensabile come momento di aggregazione e di direzione politica. Ciò consente da un lato di apprezzare il ruolo che stanno svolgendo le associazioni politiche e civili nella società nord-americana, e dall’altro di comprendere quelle che possono essere le carenze o le inadeguatezze nel senso di una piena affermazione e difesa delle libertà democratiche.

Oggi che lo spauracchio dell’assolutismo monarchico è scomparso, si presenta infatti la concreta minaccia che la società cada vittima di altre forme ugualmente temibili di insocialità, quali il conformismo massificante e, all’altro estremo, l’individualismo sfrenato. La pluralità di associazioni può rappresentare l’antidoto più efficace contro i mali del conformismo e dell’individualismo, che sembrano essere i tratti negativi qualificanti l’uomo democratico.

In un popolo coinvolto mediante le diverse forme di associazione nella vita pubblica, simili eventualità negative possono essere prevenute e contrastate. Del resto, - sottolinea Tocqueville – proprio gli Stati Uniti d’America dimostrano come l’idea ed il desiderio di associarsi siano quotidianamente presenti nella vita di tutti i cittadini. Nella democrazia americana si vede come, anche di fronte a qualche riluttanza nell’agire in comune, prevalga nei cittadini il desiderio di esprimere la loro volontà politica attraverso quella peculiare forma di associazione che è il partito. Ecco la vera novità rispetto all’antico regime della Francia. I partiti rappresentano un nuovo organo per assicurare l’effettiva realizzazione degli interessi dei cittadini in un quadro di compatibilità, ed anzi di convergenza con gli interessi collettivi(27).

Il partito, così concepito, assume i connotati di associazione volontaria finalizzata alla partecipazione politica, che rappresenta un aspetto di primo piano della libera partecipazione dei cittadini alla gestione del potere.

Questo importante tema viene trattato da Tocqueville, oltreché nelle due opere ricordate, anche nelle riflessioni e nell’impegno manifestati dal suo ingresso in politica, sancito dalla creazione di un proprio partito intorno al 1847, la Jeune Gauche. Tuttavia, - come acutamente rileva Matteucci – il tema del partito rappresenta nella riflessione tocquevilliana una costante su cui la storiografica politica non ha sufficientemente riflettuto.

Nel suo viaggio in America nel 1832, l’argomento del partito si sviluppa nella distinzione fra quelli della Francia della Restaurazione (che in qualche misura ereditano i referenti ideologici della Rivoluzione) e quelli degli Stati Uniti. I primi sono fazioni che disputano attorno ad un’ideologia, in un contesto di marcato antagonismo, mentre i secondi sono consorterie che si riconoscono attorno a interessi pratici. Qui, non senza qualche difficoltà argomentativa, Tocqueville anzitutto raffronta la positività o negatività dei partiti alla situazione di maggiore o minore stabilità del sistema politico.

"[…] Aggiungo che non si vedono comparire i grandi partiti politici, le pericolose fazioni che là dove la seconda forma [di instabilità] esiste. La prima genera consorterie, e non partiti, delle discussioni […] e non delle zuffe, del rumore e non la guerra"(28).

Come si vede, qui il partito, e precisamente il grande partito, diviene sinonimo di fazione, di antagonismo, di scontro ideologico fra correnti inconciliabilmente avverse. Più tardi, fra persistenti incertezze ed oscillazioni, Tocqueville, nel Libro I di De la démocratie en Amérique, definisce più esattamente la distinzione fra grandi e piccoli partiti, ravvisando ora in questi ultimi caratteri di faziosità e litigiosità.

Lo sfondo su cui si staglia tale raffronto è ancora caratterizzato da situazioni di stabilità ed instabilità del sistema, adesso meglio definite in una contrapposizione fra diversi periodi storici. Vi sono le epoche "delle grandi rivoluzioni e dei grandi partiti"(29). E subito dopo Tocqueville precisa il significato che in positivo adesso riconosce ai grandi partiti. "[…] Chiamo grandi partiti politici quelli che si rifanno più ai principi che alle loro conseguenze; alle questioni generali e non ai casi particolari; alle idee e non agli uomini. Questi partiti hanno, in genere, tratti più nobili, passioni più generose, convinzioni più salde, un modo più franco ed ardito di altri […]"(30).

Diverso è il caso di epoche in cui "i mutamenti, che s’operano nella costituzione politica e nell’assetto sociale dei popoli, sono tanto lenti ed insensibili, che gli uomini pensano d’essere giunti ad uno stadio finale"(31). In questo seconda tipologia di periodo storico, "è il tempo degli intrighi e dei piccoli partiti"(32). E questi, al confronto dei grandi partiti, appaiono invece privi di fede politica. "Poiché non si sentono nobilitati e sostenuti da grandi obiettivi, il loro carattere è improntato d’un egoismo che si manifesta in ciascuno dei loro atti. Si entusiasmano sempre a freddo; il loro linguaggio è violento, ma la loro azione è timida e incerta. I mezzi che adoperano sono meschini, come gli scopi che si propongono"(33).

La stessa America, ora dominata da piccoli partiti (che pure qui hanno – per Tocqueville, come più avanti vedremo - una loro ragione d’essere ed un’indubbia positività), nel passato "ha avuto grandi partiti", che però "oggi non esistono più", e pertanto "essa ne ha guadagnato molto in felicità, ma non in moralità"(34).

Riguardo al partito si evidenziano – come appunto rileva Matteucci – quelle incertezze argomentative che rendono di difficile lettura il raffronto fra il tipo di associazione politica che Tocqueville ritiene più valida. La linea ideologica portata avanti dall’autore si muove intorno alla costruzione futura di un sistema democratico modellato sull’esperienza americana, ma con un referente implicito alla società di corpi dell’antico regime pre-assolutistico o anti-assolutistico. Del resto, è lo stesso Matteucci che conclusivamente ci fornisce la chiave di lettura per comprendere la complessa trama di referenti e di concetti di Tocqueville a questo proposito. In altre parole, può il partito, il grande partito promotore animato dei nobili ed imperituri ideali, costituire oggi il veicolo per riprodurre una società politica complessa, pluricetuale, multifunzionale, gerarchicamente ordinata? Di una società, cioè, diversa ed opposta rispetto alla democrazia radicale, giacobina, livellante, centralizzatrice, e dunque illiberale malgrado il suo libertarismo?

Certo, lo stesso Tocqueville "maturo" è mosso da quella "continua segreta passione che l’età non ha spento, quell’istinto […] che lo portava a sognare e a vagheggiare i ‘grandi partiti’, perché essi, come aveva scritto quando aveva ventisei anni, hanno ‘dei tratti più nobili, delle passioni più generose, delle convinzioni più reali, un atteggiamento più franco e più ardito"(35). Ma c’è anche l’acquisita "consapevolezza della difficoltà o della impossibilità di paragonare una società nata già democratica, come quella nord-americana, con una società in fase di transizione da un assetto sociale aristocratico a uno democratico, come la Francia […]"(36).

Eppure è proprio questa persistenza di un elemento nobile, élitario, di uno spirito di generosità, di altruismo, una volontà di gloria e di grandezza a rendersi necessaria anche ad una futura élite dirigente, in una democrazia pluralista, fondata su distinzioni e su correlazioni anziché su livellamenti di ogni differenza capacitaria e meritocratica. Indubbiamente, è un’esigenza che Tocqueville stenta a definire in modo chiaro e che comunque si precisa appunto nella suddetta distinzione fra società statiche e società "in transizione". Nella sua riflessione matura, Tocqueville riprende il tema del grande partito proprio "nell’analisi di una società in transizione da un sistema sociale aristocratico a uno democratico"(37). In una società di tale tipo i grandi partiti hanno "una loro specifica funzione, e cioè devono esprimere i princìpi che inevitabilmente esistono in questa società, […] in altre parole il principio aristocratico e quello democratico"(38).

Nondimeno, la possibilità che l’incontro e la mediazione avvengano fra questi due princìpi sussiste solo laddove vi sia, "fra le forze politico-sociali in contrasto, un minimo di consenso sull’assetto istituzionale della società e sulle regole del gioco"(39). In America questo incontro è possibile, a motivo di una stabilità istituzionale che rende positivi i conflitti politici e sociali. In Europa questo incontro fra il principio aristocratico e quello democratico era più difficile, perché qui bisognava ancora "destreggiarsi fra reazione e rivoluzione, al fine di determinare con un’azione paziente e costante, intransigente sui principi ma aperta alle necessità dei tempi, le condizioni minime per la possibilità di un positivo confronto"(40).

IX. D’altro canto, precisato tutto questo, va anche aggiunto che contro ogni pericolo di strapotere che i partiti (grandi o piccoli) potrebbero acquisire in una democrazia come quella americana, Tocqueville indica un efficace freno in quello che sarà definito come il "quarto potere", la stampa, che si delinea come un’altra eminente manifestazione di democrazia, riscontrata dallo scrittore nel nuovo continente.

Il diritto ad una stampa libera è una condizione imprescindibile per il funzionamento di un sistema politico democratico, poiché consente il confronto, la diffusione delle idee, il dibattito politico. Tocqueville rileva che proprio la stampa, oltre a rappresentare un’efficace forma di controllo da parte dell’opinione pubblica nei riguardi della classe dirigente, consente una forma di superamento degli interessi di parte, facendoli convergere intorno ad alcune dottrine di interesse collettivo. Infatti, attraverso la stampa, i partiti "si parlano senza vedersi, si mettono d’accordo senza essersi messi in contatto"(41).

In America, la stampa e le associazioni civili, sottraendo il monopolio della trasmissione della domanda politica ai partiti, impediscono che gli interessi corporativi dei petits partis possano radicarsi nella mentalità popolare. In tal modo viene favorita una nuova forma di democrazia, quella pluralistico-liberale, che Tocqueville ritiene sia sconosciuta agli Europei, culturalmente ancora fermi ad una concezione svalutativa dei piccoli partiti e ad una visione della democrazia troppo idealizzata, astratta, modellata sull’antichità classica, e dunque oggi stereotipata, egalitaria e livellante(42).

X. Sebbene dissentisse decisamente - per i tragici ricordi del radicalismo della Rivoluzione francese e per il suo intimo convincimento liberale - dalla sovranità popolare espressa attraverso una democrazia diretta, Tocqueville si rendeva conto che anche la democrazia rappresentativa degli Stati Uniti mostrava alcuni aspetti che non fornivano scontate garanzie di libertà e di reale rappresentanza della molteplicità dei gruppi.

Infatti, lo scrittore aveva potuto constatare di persona che la libertà politica, se applicata in modo assoluto, produceva effetti perversi che conducono a quella che definiva come la "tirannie de la majorité", una nuova forma di dispotismo incarnata dalla concentrazione dei poteri affidati democraticamente nelle mani della maggioranza(43).

Lo Stato democratico non sfuggiva in maniera automatica al pericolo del potere illimitato di un solo gruppo o ceto di potere. Anzi, la democrazia accentuava inesorabilmente la spinta all’omologazione, che, imponendo una specie di unanimità negli stili di vita, spegneva lo spirito di innovazione e di sperimentazione. Anche la democrazia, come il governo di Robespierre aveva dimostrato, nascondeva la pericolosa tendenza all’autoritarismo, che dunque non era una caratteristica esclusiva dell’assolutismo monarchico o di altri regimi di stampo totalitario.

A Tocqueville appariva indubbio che il motore delle democrazie fosse sempre il popolo, identificato nella maggioranza, alla quale doveva spettare la sovranità politica: principio che non poteva essere posto in discussione, pena la caduta nel dispotismo(44). Altresì, era ugualmente certo che se questo potere popolare non trova davanti a sé "alcun ostacolo che possa fermare il suo cammino e dargli tempo di moderarsi", l’egualitarismo trasforma la democrazia in dittatura(45). Allora, la maggioranza, agendo in piena apparenza di legalità, può mettere a tacere la minoranza ed imporre un conformismo ed una demagogia rovinose per l’indipendenza degli spiriti liberi. La democrazia statunitense, seppure non esente da tali mali, aveva comunque trovato la forza per reagire ed i giusti rimedi per limitare l’eccesso dei poteri. Oltre ai suddetti fattori di riequilibrio, un’altra eminente manifestazione era costituita dalla giuria e, più in generale, dal corpo giudiziario.

L’autorità e l’influenza esercitata nel governo dai giuristi costituisce per l’autore "la più grande barriera contro gli eccessi della democrazia"(46).

Fin dal Medioevo i magistrati giurisdizionali hanno avuto un ruolo attivo nelle società politiche europee, inizialmente attuando in forme legalitarie la politica regia, successivamente, nella fase assolutistica, cercando di contrastare il potere arbitrario degli stessi monarchi. In virtù di questa secolare tradizione, profondendo le loro energie nello studio delle leggi, i giuristi hanno acquisito una spiccata propensione per l’ordine, un accentuato gusto per le forme legali e per la coerenza normativa, rivelandosi di fatto come l’ultimo baluardo contro il disordine e le pulsioni radicali.

"Gli uomini, che si sono particolarmente dedicati allo studio del diritto, hanno tratto da questa disciplina abitudini di ordine, un certo gusto delle forme, una specie di amore istintivo per il concatenamento regolare delle idee, che li rendono naturalmente molto contrari allo spirito rivoluzionario e alle impulsive passioni della democrazia"(47).

La cultura superiore e le specifiche conoscenze derivanti dall’esercizio di tale professione hanno reso i magistrati una classe eccellente, privilegiata tra gli intelletti, in quanto detentori di una conoscenza particolare e deputati a risolvere le dispute tra cittadini. A ben vedere, la comunanza di studi e l’unità dei metodi adottati lega i vari giuristi gli uni agli altri in un corpo organico, che per molte sue caratteristiche è l’unico, vero, erede della tradizione aristocratica francese medievale. Tocqueville ravvisa infatti negli esponenti di tale ceto parte di quei gusti esclusivi e di quelle abitudini che erano retaggio del glorioso passato nobiliare, come l’istintiva passione per l’ordine, un certo disprezzo verso le azioni caotiche ed irrazionali delle masse, il giudizio negativo verso il governo popolare.

Pertanto, lo scrittore è convinto che, sebbene tale mentalità dei giuristi possa essere limitata dall’interesse personale o da situazioni contingenti che possono riguardare anche questa categoria, tuttavia vi è in essa un’inclinazione aristocratica molto pronunciata. Infatti, "tutte le volte che i nobili hanno voluto far condividere ai legisti qualcuno dei loro privilegi, queste due classi hanno trovato grande facilità ad unirsi e si sono, per così dire, ritrovate della stessa famiglia"(48).

Un altro tratto qualificante i magistrati giurisdizionali come gli eredi della grande aristocrazia è senza dubbio l’autorità che emana da tale carica. Da qui il fatto che il loro rispetto della legalità, quale punto qualificante della loro attività professionale, renda il potere giudiziario un elemento inscindibile da una democrazia che cerca la stabilità. Tali i caratteri che sono particolarmente pronunciati sia negli Stati Uniti che in Inghilterra, in virtù di una molteplicità di fattori quali la natura della legislazione, la particolare posizione riconosciuta dagli ordinamenti a questo corpo, il tipo di studio svolto sulle leggi.

Il giurista inglese ed americano riservano una grande attenzione al passato, ai costumi ed alle tradizioni proprie della cultura popolare, sinonimi stessi di regolarità e legalità. L’opinione altrui è considerata con grande attenzione, a differenza del magistrato francese, il quale non valuta altro che le idee che scaturiscano da se stesso. Questo aspetto è particolarmente presente nel caso inglese, dove lo spirito conservatore ed i legami stretti con l’aristocrazia legano indissolubilmente i giuristi alle precedenti leggi, che dall’attività giurisdizionale vengono reinterpretate e sviluppate, ma mai cancellate radicalmente.

"[…] Il legista inglese stima le leggi non tanto perché sono buone quanto perché sono vecchie; e se si vede costretto a modificarle in qualche punto, per adattarle ai cambiamenti che il tempo fa subire alle società, ricorre alle più incredibili sottigliezze, per persuadersi che, aggiungendo qualche cosa all’opera dei suoi padri, non fa che sviluppare il loro pensiero e completare la loro opera"(49).

È alquanto significativo in tal senso (e simile per certi versi) anche il caso americano, dove l’assenza di classi nobiliari eleva immediatamente i legisti ai vertici della società, sia per il loro prestigio sociale che per la loro cultura. Qui, in virtù di questi fattori, anche il corpo giudiziario americano non palesa alcun entusiasmo per le innovazioni radicali e mostra invece uno spiccato spirito conservatore. È proprio la difesa delle tradizioni, estesa al campo delle leggi, a decretare la fortuna del modello americano, capace di frenare le passioni degli individui e gli istinti eversivi che anche in regime democratico si possono manifestare.

D’altronde, il corpo dei magistrati è legittimato in questa sua posizione dalla fiducia e dal consenso accordatigli dalla popolazione, che vede in esso un organo di tutela degli interessi generali. A questo proposito, Tocqueville precisa ulteriormente la sua posizione sostenendo che i giuristi appartengono "[…] al popolo per interesse e per nascita, e all’aristocrazia per abitudini e gusti"(50). Dunque, risulta evidente l’estrema importanza di questa istituzione, capace di combinare in modo naturale e durevole elementi apparentemente inconciliabili come quelli democratici ed aristocratici.

In particolare, grande rilevanza assume anche l’organo della giuria, reputata da Tocqueville come "l’applicazione più potente e diretta del dogma della sovranità del popolo"(51). È, anzi, la trasposizione del popolo stesso che si fa giudice, in quanto tale strumento assume il carattere di un’istituzione politica nella sua funzione di garanzia dei diritti nel processo civile.

In queste sue valutazioni, si palesa quanto Tocqueville fosse rimasto impressionato dalla vastità di poteri di cui godeva il giudice americano. Ma la sua meraviglia era tanto più grande a fronte della situazione francese, dove la situazione si presentava diametralmente opposta. In Francia, il giudice ricopriva un ruolo del tutto marginale rispetto agli altri poteri dello Stato, essendo i suoi compiti limitati ad una mera applicazione della legge positiva emanata dal parlamento (e senza margini di discrezionalità interpretativa). Già Montesquieu aveva colto questa situazione, ed aveva infatti affermato che "i giudici non sono se non la bocca che preannunzia le parole della legge, degli esseri inanimati che non ne possono moderare né la forza né la rigidezza"(52).

Del resto, - come si è visto - per Tocqueville la giustizia in Francia era divenuta un concetto molto ambiguo, in quanto oramai impersonata da una borghesia corrotta, connivente con i sovrani che, in quanto assoluti, detenevano il monopolio della legiferazione e delle decisioni giudiziarie. E i tentativi del Parlement parigino di limitare con la titolarità del "dépôt des lois" (ossia con il controllo esercitato sulla legittimità costituzionale della legislazione regia) questo strapotere del sovrano erano stati debellati nel Seicento da Luigi XIV (l’incarnazione stessa dell’assolutismo), e ancora duramente contrastati nel Settecento con Luigi XV e, successivamente, con Luigi XVI. Sotto questo profilo, la giustizia americana appariva invece al Tocqueville molto più incisiva. Intanto, l’elemento che conferisce il maggiore lustro ed influenza ai giudici americani è la facoltà loro riservata del controllo costituzionale delle leggi(53). Ai sette giudici riuniti nella Suprema Corte Federale, la Costituzione ha accordato l’importante diritto di dichiarare l’eventuale incostituzionalità delle leggi, permettendo loro di intervenire in modo incisivo negli stessi affari politici.

La Corte Suprema si viene così a configurare come il tribunale più importante della nazione, sia per la natura dei suoi diritti che per la specie dei soggetti che rientrano nella sua giurisdizione. Tocqueville, a ragione, la considera la diretta discendente di quei parlements d’antico regime (specie quello parigino), testimoni di un’ideologia legalitaria proprio in virtù del loro ruolo di censori contro i possibili arbìtri delle leggi monarchiche. Non a caso, gli stessi parlements - prima che venissero assoggettati all’assolutismo - si erano potuti fregiare del titolo di corti "sovrane", la cui attività giurisprudenziale si contrapponeva e fungeva da strumento regolatore delle ordinanze regie.

Qualcosa in più, certamente, c’è nell’ordinamento della Corte Suprema statunitense, che nonostante sia interamente di tipo giudiziario, ha fra le sue attribuzioni implicazioni altamente politiche. Infatti, agli importanti compiti di interpretazione delle leggi si affiancano anche quelli di regolare i rapporti non solo tra governo e governati, ma fra il governo federale ed i singoli Stati, sia della stessa federazione che delle nazioni straniere. Non va affatto sottovalutato il significato che la Corte Suprema è investita - a differenza dei tribunali europei davanti ai quali si presentano solo i privati – della grande responsabilità di giudicare anche su cause che hanno ad oggetto il comportamento dei singoli Stati federati.

In questi termini, la Corte Suprema è deputata al mantenimento della pace e della prosperità stessa della federazione, avendo il compito di limitare le possibili ingerenze del legislativo sull’esecutivo (o viceversa), richiamando alla correttezza ed al rispetto delle competenze i singoli Stati e l’Unione stessa, ed in ultima analisi mettendo in campo quel necessario spirito conservatore da contrapporre all’instabilità connessa alla democrazia. Il potere riservato a quest’organo è enorme ma, come sottolinea Tocqueville, è un potere prettamente morale, in quanto vige finché il popolo si mostra conforme alla legge.

Ecco perché i giudici federali non devono solamente dimostrarsi dei cittadini retti ed istruiti, ma anche dei veri uomini di Stato, capaci di applicare con sapiente misura e ponderazione le leggi, al fine di garantire la stabilità dell’Unione. L’ assegnazione di un simile potere al corpo dei magistrati impedisce che la maggioranza possa servirsi delle leggi per sminuire o violare i diritti delle minoranze o di singoli cittadini. Del resto, un tale istituto è coadiuvato da tribunali inferiori, che giudicano sovranamente le cause meno importanti o decidono, in prima istanza, le contestazioni più gravi. Inoltre, sempre al fine di limitare un’eccessiva ingerenza del legislativo, il costituente americano ha - come è noto - optato per la scelta dei membri della Corte Suprema da parte del Presidente (che ricopre anche l’incarico di capo dell’esecutivo), che peraltro li nomina solo dopo aver sentito il parere del Senato.

XI. In conclusione, su questo e su molti altri aspetti, si palesa la grande lungimiranza del Tocqueville, autore capace di comprendere perfettamente quali fossero i limiti ed i pregi del sistema democratico, nonché di prevedere quelli che sarebbero stati i suoi sviluppi. Appare inoltre di particolare rilevo la sua strenua difesa del passato e la capacità di cogliere in esso la positività di molti eventi; ciò indubbiamente è un aspetto degno di considerazione, anche in relazione agli accenti negativi con i quali, ancora oggi, buona parte degli storici etichettano l’ancien régime.

Ancora prima che in America, Tocqueville aveva individuato nella Francia medievale l’esistenza di forme di decentramento (consigli parrocchiali, comunali, provinciali), che sono alla base dello sviluppo dello Stato moderno. Proprio grazie a tali forme di autonomia la società francese d’antico regime, pur separata da rigide distinzioni di ceto ed economiche, trovava una coesione sociale condivisa ed efficace.

Le società democratiche del nostro tempo hanno confermato, sviluppandola compiutamente, l’importanza del riconoscimento di autonomie individuali, professionali, amministrative, capaci di contemperare i diversi interessi della popolazione, distribuita in molteplici ceti e su differenti contesti territoriali.

La nostra stessa Costituzione pone grande rilievo al principio del decentramento e gli dedica appositamente un articolo, il numero 5, in cui si afferma il riconoscimento e la promozione di un’ampia autonomia amministrativa agli enti locali. Alla luce di questo solenne pronunciamento, comuni e province si configurano oggi non solo come strutture amministrative decentrate a composizione elettiva, ma come enti dotati di una vera e propria rappresentatività democratica. Il cittadino ritrova in esse nuove dimensioni di appartenenza in ragione della propria individualità di ceto e di ambito socio- culturale.

L’impegno a promuovere le autonomie locali ed a perseguirne il rafforzamento, sostenuti con forza da Tocqueville, costituisce a tutt’oggi un preciso antefatto concettuale, ponendosi ancora come un criterio guida per lo sviluppo dell’ordinamento statale. Ma altrettanto pertinenti si rivelano poi le sue considerazioni sulle differenze rilevate tra gli uomini ed i diversi contesti culturali. Se è incontestabile e sacrosanto il riconoscimento a tutti gli uomini di una eguale dignità morale e della pienezza dei diritti, a prescindere dalla razza di appartenenza o da credenze religiose, appare altrettanto ragionevole riconoscere l’esistenza e sostenere l’esigenza di una scala gerarchica delle capacità, delle intelligenze e dei meriti. Da sempre le grandi scoperte, invenzioni e creazioni che sono avvenute in ogni campo provengono dall’opera di intelletti superiori, ed è grazie ad essi che il progresso scientifico-tecnologico e etico-politico è potuto prodursi. Sarebbe quindi riduttivo ed ingiusto connotare questo riconoscimento come un apprezzamento "élitario", nel senso svalutativo dell’eguaglianza politica. È nella natura delle cose confrontarsi con individui diversamente dotati di talento e di inventiva.

Ogni individuo nasce con un proprio patrimonio di risorse, variabile tuttavia in maniera sensibile da persona e persona. Del tutto giustificabile, a mio avviso, è battersi per l’applicazione di criteri meritocratici, tanto più in una società come la nostra nella quale il costante abbattimento delle frontiere tecnologiche ha incrementato le possibilità individuali di affermazione professionale. Spetta ad ognuno di noi individuare le attitudini e le doti migliori che si possiedono, e valorizzarle al meglio. Allo stesso tempo, però, è necessario anche disporre di un senso di autocritica che ci faccia comprendere obiettivamente i propri limiti. Né si può prescindere da quelle garanzie di uguagliamento nelle opportunità di partecipazione e di selezione meritocratica, che del resto solo l’autorità pubblica (lo Stato, espressione della molteplicità di istanze della società civile) può garantire in un compiuto sistema di norme, in cui la forma corrisponda alla sostanza di giustizia e di socialità.

La partecipazione, democratica e decentrata, presuppone oggi, dopo la crisi dello Stato nazionale e il crollo delle ideologie moderne, il rispetto delle differenze e delle disuguaglianze nel quadro di una fondamentale eguaglianza morale e sociale. Bisogna infatti prendere le distanze da un’idea di eguaglianza assoluta nelle condizioni economiche e nelle posizioni sociali, che ritengo rappresenterebbe di fatto una violenza all’integrità morale e ontologica dei singoli. Ecco un aspetto che si rivelerà sempre più evidente in quella società multi-etnica e multi-culturale che da più parti si sta realizzando.

Nell’attuale contesto ideologico di egualitarismo integrale può apparire stonato, se non paradossale, sostenere una simile teoria. In realtà, non è insensato riconoscere, oltre alle possibilità di uguagliamento, anche la persistenza di disuguaglianze che fanno capo ad una diversità di opzioni e di capacità. Tutto ciò deve verificarsi in un quadro di pari opportunità, di rispetto di una eguale dignità umana, della coesistenza pacifica tra soggetti (singoli e gruppi), che d’altra parte resteranno pur sempre differenti e diseguali in un medesimo "contesto" di molteplici referenti culturali ed intenzionalità partecipative.

Del resto, se "discrimine" oggi non vuol dire riconoscere un limite oggettivo, ma discriminare ingiustamente, comunque distinguere equivale sostanzialmente all’essere in grado di capire e discernere le distinzioni fondamentali che esistono tra le cose e fra le diverse intenzionalità degli uomini. E in tal senso tutti noi, forse in modo inconscio, operiamo continuamente "discriminazioni", quando operiamo scelte nel campo alimentare, della moda, nella sfera sessuale, dei convincimenti, ed in molti altri ambiti. Pertanto, una giusta distinzione (o, se si vuole, una discriminazione "giusta", non motivata cioè da pregiudizi soggettivi) fornisce un "discrimine" eticamente motivato ed oggettivamente valido. E questo può senz’altro aiutare ad acquisire una conoscenza preliminare necessaria per una corretta azione sociale, responsabile e razionale.

La capacità di distinguere appare una necessaria premessa del rispetto reciproco, ed il migliore strumento per porre in essere una eguaglianza non astratta e, soprattutto, non violenta. Questa diversità tra individui, che nella realtà pratica esiste e si rivela funzionale all’intento etico dell’eguagliamento politico delle differenze, deve coinvolgere non solo le qualità mentali, ma anche quelle doti morali che proprio Tocqueville auspicava divenissero prerogative di una nuova classe politica, capace di prendere di risollevare le sorti di una nazione dall’apatia e dall’omologazione indiscriminata, e pertanto essa stessa discriminante.

Appunto secondo la concezione di élite formulata da Tocqueville sul modello della nobiltà d’antico regime (anti-assolutista, rappresentativa delle funzioni di difesa, anzitutto giuridica, dell’ordine politico in termini di pluralità delle classi, dei corpi, delle funzioni), la condizione principale perché la democrazia possa funzionare, almeno come in America, è che sussista una classe di governo capace di distinguere la complessità dell’esperienza politica e di distinguersi nel suo ruolo e nelle sue funzioni di garante della varietà di distinti modi di essere e di convivere dei diversi gruppi umani, sociali e politici.

XII. Il contrario avviene, invece, nell’epoca contemporanea, laddove la classe di governo sembra formata da uomini assillati da scelte, scadenze e conferme elettorali, e che pertanto fanno leva su una, talvolta spudorata, auto-valorizzazione. Si tende ad esaltare la propria immagine, configurandola sulla base di virtù e capacità evocate al fine di convincere l’elettorato che coloro che lo rappresenteranno siano dotati di una personalità "speciale". Purtroppo la realtà delle cose è ben diversa. La situazione dei partiti oggigiorno non è poi molto differente da quella che Tocqueville aveva osservato e criticato nell’800. Il tramonto delle ideologie ha effettivamente decretato la scomparsa dei "grandi partiti" depositari di grandi idee ed ideali. Le stesse definizioni classiche di partito sono state oggetto di continue reinterpretazioni ed adattamenti. Il partito dovrebbe nascere come raggruppamento volontario di individui uniti da idealità ed interessi comuni. La sua azione dovrebbe altresì essere volta alla determinazione dell’indirizzo politico generale, tramite la conquista del potere in ambito locale e statale. Il ruolo preponderante che il partito ha assunto nel tempo ne ha fatto un elemento essenziale nella gestione del consenso e nella determinazione della politica nazionale. Nel nostro Paese, specie a partire dall’ultimo dopoguerra, il loro potere decisionale ed il loro intervento sono cresciuti esponenzialmente, valicando la sfera politica ed estendendosi a tutti i rami della vita sociale e culturale.

Sotto questa angolazione, se dunque la convinzione di Tocqueville che nel mondo attuale gli individui si sarebbero avvicinati e fatti coinvolgere nella politica si à realizzata, con una grande crescita di aderenti ai movimenti politici, tuttavia questo è coinciso con un aumento a dismisura dei loro apparati, sempre più burocratizzati e specializzati.

Tutto ciò è andato a discapito della libertà nella circolazione delle idee e delle motivazioni etiche dell’attaccamento ad una bandiera politica, a fronte di un’ingerenza sempre maggiore che i partiti esercitano nella "vita" dello Stato sta portando, nel senso di una sorta di espropriazione del ruolo che dovrebbero ricoprire le istituzioni rappresentative. Del resto, la rappresentanza democratica dei cittadini è riposta proprio in quelle istituzioni alle quali la Costituzione ha delegato la sovranità: mi riferisco al Parlamento, alle regioni, alle province, ai comuni. Lo Stato da parte sua, poiché lo status dei partiti è tuttora quello di associazioni non riconosciute e prive di personalità giuridica, sembra aver rinunciato a qualsiasi forma di tutela ed intervento sulla loro attività interna.

Il partito, per ritrovare una dimensione più giusta e proficua per gli interessi della nazione, dovrebbe piuttosto essere considerato come un elemento facente parte di un quadro più ampio, costituito da quelle istituzioni più volte citate che appunto esprimono effettivamente le varie istanze del Paese. Con questo non si intende sostenere che sia necessario privare tale organo di ogni suo potere rappresentativo di opinioni ed istanze differenziate. Sembra giusto però riconfigurare la sua posizione, assegnandogli una collocazione più consona allo svolgimento del suo ruolo di analisi e di elaborazione delle istanze, delle opzioni, delle proposte che provengono dalla collettività.

La situazione attuale purtroppo però non lascia molto spazio alle illusioni. Troppo spesso i partiti considerano i cittadini come vere e proprie pedine da utilizzare al solo fine della conquista dell’obiettivo primario, il voto. L’organizzazione dei partiti, affidata oggigiorno a politici di professione, richiede inoltre ingenti mezzi di finanziamento per essere alimentata. Da qui la necessità di ricorrere al denaro pubblico o privato, non solo attraverso lo strumento dei finanziamenti pubblici, ma anche attraverso lobbies e pratiche che sono causa di molti scandali e di roventi polemiche. Questo complesso di fattori sta conducendo ad un progressivo distacco della gente, ad un nuovo periodo di indifferenza, se non proprio di rifiuto, dei cittadini verso la politica. D’altronde, appare difficile arrestare tale tendenza alla sfiducia, anche perché in Italia si sta riscontrando da anni quella confusione di proposte politiche che Tocqueville aveva ravvisato nei piccoli partiti francesi. Non è affatto raro riscontrare nei programmi elettorali delle diverse formazioni politiche delle proposte alquanto simili tra loro che, con qualche artificio grammaticale o interpretativo, sono state poi spacciate per originali e rivendicate come proprie. Qui si verifica, nel nostro stesso Paese, che spesso opposizione e maggioranza non siano interessate, o quanto meno non siano in grado di promuovere un’efficace dialettica politica, tale da evidenziare la validità delle rispettive piattaforme programmatiche.

I dibattiti politici si risolvono spesso in uno scambio di accuse ed ingiurie reciproche, e si pensa a demonizzare l’avversario più che a sostenere un serio contraddittorio che, in un sistema democratico ormai bipolare, costituisce l’essenza stessa del buon funzionamento di un governo.

Ma anche sotto un altro riguardo il pensiero di Tocqueville si rivela connotato con accenti profetici. Anche il tema della religione, che emerge prepotentemente nelle due principali opere dell’autore, torna ai giorni nostri quanto mai attuale, in quest’epoca in cui la "scienza" sembra dominare la morale e la coscienza. I continui appelli del Pontefice a riabbracciare i valori della religione sono lo specchio di una preoccupante situazione di crisi morale che sta vivendo, in particolare, la nostra generazione. È quanto lo stesso Tocqueville riconosceva, indicando invece il merito della democrazia americana nella sua capacità di difendere i valori religiosi, il solo strumento attraverso i quali una società può imporre dei limiti all’arbitrio ed alimentare il sentimento di giustizia, consentendo alle coscienze di distinguere fra forma e sostanza delle stesse leggi positive. Per cui, osservava, quando la religione "perde il suo dominio nelle anime, il confine più visibile che divideva il bene dal male è rovesciato: tutto sembra dubbio e incerto nel mondo morale".(54)

Ebbene, nostro malgrado possiamo constatare quotidianamente quanto fossero valide le indicazioni forniteci da Tocqueville e fondati i suoi timori: il fenomeno del disagio giovanile offre una sconcertante testimonianza in tal senso. La famiglia quale punto di riferimento focale per i ragazzi ha perso il suo ruolo di guida; le cronache sono un susseguirsi di episodi incresciosi, di ragazzi che uccidono i propri genitori ed amici per motivi veramente futili. Al giorno d’oggi i giovani possono godere di tutto, vivendo in un’epoca di relativa tranquillità, tale da consentire di apprezzare le migliorie del progresso. Eppure intimamente le nuove generazioni si dimostrano profondamente insoddisfatte ed inquiete, esposte e disposte ad ogni novità in quanto tale.

Anche sotto questo profilo Tocqueville si è rivelato profetico e lungimirante, in quanto aveva compreso che una ricerca sfrenata del benessere e del soddisfacimento delle proprie pulsioni, se non conciliata ed accompagnata da una solida base morale avrebbe condotto qualsiasi individuo o società allo sbando. Al di là di specifici referenti religiosi, l’intensa spiritualità che promana dagli scritti di Tocqueville indica con chiarezza i termini attuali e perenni per percepire i confini del giusto e dell’ingiusto. Il suo richiamo ad una morale non meramente edonista e materialista risulta ancor oggi una valida ancora di salvezza contro i rischi cui va incontro un’umanità totalmente emancipata da qualsiasi legame e limite. La libertà "assoluta" reclamata al giorno d’oggi come un diritto irrinunciabile non si è effettivamente rivelata sinonimo di agio e di felicità collettiva. Anzi, ha condotto ad un’ "anarchia" degli spiriti che è molto prossima a quell’anarchia popolare che Tocqueville paventava, quale minaccia del tramonto irreversibile del ruolo delle leggi, dei valori dell’etica, del senso della misura.

NOTE

1 Su questa partizione Matteucci chiarisce che si tratta di distinguere rispettivamente nell’edizione del 1835 il Libro I (diviso in due parti), ed in quella del 1840 il Libro II (diviso in quattro parti):

Nicola MATTEUCCI, Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura. Bologna, Il Mulino, 1990, p. 182n. I due libri, sono tradotti a cura dello stesso Matteucci, in: Alexis de TOCQUEVILLE, Scritti politici, II. La democrazia in America, Torino, Utet, 1968.

2 ID., La democrazia in America, cit., lib.2, p. 679.

3 Ibidem, p. 679.

4 Ibidem, p. 723.

5 Ibidem, p. 725.

6 Ibidem, p. 730.

7 Ibidem, p. 734.

8 ID., L’assetto sociale e politico della Francia prima e dopo il 1789 in: ID., Scritti politici, I. La rivoluzione democratica in Francia. A cura di N. Matteucci. Torino, Utet, 1969, pp. 204-205.

9 Ibidem, p. 205.

10 Ibidem, p. 200.

11 ID., L’antico regime e la rivoluzione, in: ID., Scritti politici. I., cit., p. 711.

12 Mario D’ADDIO, Storia delle dottrine politiche. II, Genova, Ed.Culturali Internazionali Genova, 1994, pp. 8, 15-16.

13 A. de TOCQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione, cit., p. 615.

14 Edmund BURKE, Riflessioni sulla rivoluzione francese in: ID, Scritti politici. A cura di Anna Martelloni, Torino, U.T.E.T., 1963, p. 155.

15 Ibidem, l.c.

16 A. de TOCQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione, cit., pp. 612-616.

17 Ibidem, p. 613.

18 ID., La democrazia in America, cit., lib. 1, pp. 62-63.

19 Mauro SESTI - Paolo RAMACCIONI, Secolarizzazione, industrializzazione e benessere in Tocqueville, Camerino, Università degli Studi di Camerino, s.d., p. 247.

20 Si veda la distinzione proposta da Matteucci, qui ricordata nella nota 1.

21 A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, pp. 230-231.

22 ID., La democrazia in America, cit., lib. II, p. 647.

23 Ibidem, p. 650

24 Ibidem, p. 650

25 Ibidem, p. 652

26 Ibidem, p. 652.

27 Ibidem, lib. 2, p. 606.

28 Riprendo la citazione (relativa a: TOCQUEVILLE, Voyage en Sicilie et aux États-Unis, in: ID,Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1957, pp. 292-293) da N. MATTEUCCI, Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura, cit., p. 133.

29 A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, p. 209.

30 Ibidem, p. 210.

31 Ibidem, l.c.

32 Ibidem, l.c.

33 Ibidem, l.c.

34 Ibidem, l.c.

35 TOCQUEVILLE, Voyage…, cit., p. 260.

36 N. MATTEUCCI, Il problema del partito politico nelle riflessioni d’Alexis de Tocqueville, cit ,p. 179.

37 Ibidem, p. 180.

38 Ibidem, l.c.

39 Ibidem, l.c.

40 Ibidem, l.c.

41 TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, p. 191.

42 N. MATTEUCCI, Il problema del partito politico nelle riflessioni d’Alexis de Tocqueville, cit , p. 59.

43 Ibidem, pp. 109-121.

44 N. BOBBIO - C. OFFE - S. LOMBARDINI, Democrazia, Maggioranza e Minoranze, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 26.

45 A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, p. 297.

46 Ibidem, p. 311.

47 Ibidem, p. 311.

48 Ibidem, p. 313.

49 Ibidem, p. 316.

50 Ibidem, p. 314.

51 Ibidem, p. 142.

52 Charles Louis [de Sécondat de la Brède de] MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, a cura di Sergio Cotta, vol. II, Torino, U.T.E.T., 1973, pp. 286-287.

53 A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, cit., lib. 1, p. 124.

54 Ibidem, p. 363.

 

THEODORUS LAELIUS EPISCOPUS TARVISINUS Romanae Ecclesiae Iura in Regno Siciliae di Roberto Patricolo

In due volumi miscellanei alle segnature Qq. D. 64 e Qq. B. 6 del Fondo Manoscritti della Biblioteca Senatoria di Palermo (Fondo notoriamente prezioso perchè i documenti che custodisce, nonostante siano in gran parte copie, sono prevalentemente copie di documenti scomparsi che, fino ad ora, nessuno ha potuto inficiare di falso), l’attenzione di chi scrive è stata attirata da tre documenti riguardanti la successione di Alfonso I (V) a Giovanna II d’Angiò sul trono della Sicilia peninsulare e, dopo la di lui morte, la conseguente devoluzione del Regno peninsulare medesimo al ramo bastardo della Casa d’Aragona con Ferrante I, mentre la posizione di pretensione di Renato d’Angiò continua ad essere disattesa.

Più precisamente. Il volume Qq. D. 64, miscellaneo, già di proprietà di Michele Schiavo contiene al n° 10, sotto il titolo Romanae Ecclesiae Iura in Regno Siciliae, la successione nei feudi normanni nell’Italia Meridionale assieme all’annotazione delle investiture da parte dei Romani Pontefici che concretano lo jus eminente della Chiesa Romana sui feudi sopradetti e soprattutto sul Ducato di Puglia e sul Principato di Capua la cui storia, sia pure per sommi capi, viene seguita fino alla formazione di quello Stato che sarà denominato Regnum Siciliae Apuliae Ducatus et Capuae Principatus. Il tratto notevole della narrazione che si avvicina molto a quella delle genealogie è costituito dall’ostentata ignoranza della Sicilia come centro generatore del Regno meridionale e, nonostante ciò, dall’emergere della locuzione Sicilia citra et ultra Farum; dal mettere in rilievo gli sforzi dei Pontefici di ridurre il Regno in liberam Romanae Ecclesiae potestatem e tuttavia una valutazione neutra del Vespro, nonchè l’accessione alla Dinastia aragonese presentata come frutto della necessità (cum absque rege Siculi esse non possunt), ma anche dell’asserito diritto dinastico; comunque, l’investitura pontificale, espressione della sovranità eminente viene data successivamente ai Dinasti angioini, mentre il possesso aragonese della Sicilia ultra viene motivato dal diritto di guerra, dalla debellatio.

Del resto, l’opuscolo percorre le vicende del Regno (quello angioino) fino a Giovanna II, all’adozione di Alfonso d’Aragona dichiarato figlio, erede vicario e successore (20 luglio 1421) dopo che l’undici settembre del precedente anno era stato investito per procura del Ducato di Calabria e, infine, ai tentennamenti della Regina che portano alla ribalta gli Angiò ultrageniti. Si ha quindi l’intervento diretto della Chiesa Romana che si presenta non soltanto come titolare della sovranità eminente, ma anche come interprete della volontà dei Grandi del Regno. Da quì l’investitura ad Alfonso d’Aragona e la legittimazione alla successione di Ferrante e dei suoi discendenti.

L’interessante opuscolo che, come si è detto, proviene dalla biblioteca di Michele Schiavo, è adespota; tuttavia, è la premessa logica all’orazione che Teodoro Lelio, allora vescovo di Feltre, pronunzia alla presenza di Luigi XI re di Francia nella sua qualità di oratore apostolico o, piuttosto, di legato pontificio inviato da Pio II, per giustificare l’investitura del Regno di Sicilia a Ferrante d’Aragona; ma non è neanche estraneo allo stile del Vescovo di Feltre. L’orazione del Legato pontificio si legge nel Ms. Qq. B. 6. della Biblioteca Senatoria di Palermo, miscellaneo, al n° 1, sotto il titolo Theodori Lelii episcopi feltrensis oratoris apostolici ad Serenissimum regem Francorum beatissimi Pii pontificis maximi oratio in qua iustitia investiturae Siciliae regni defenditur et regi male suggesta purgatur.

Lo scritto del Lelio non è interessante soltanto per il fatto contingente, ma anche per la fonte da cui proviene che è connotata da una potestà proveniente da Dio e, di conseguenza, soluta dalle leggi umane, caratteristica che si dispiega attraverso un metodo in cui la storia sacra sottende quella profana che da essa viene assorbita. In questa sede, non si dirà altro, rimandando ad altra sede l’analisi dello scritto.

Testimonianza di quanto il sacro possa mescolarsi al profano e di quanto gli interessi particolari possano essere stati veicolati, nei secoli passati dagli interessi generali della Chiesa è il terzo scritto dal titolo Theodori Lelii episcopi Tarvisini ad Ferdinandum Siciliae regem [epistola]; infatti, il Lelio che, frattanto, è stato traslato dalla sede di Feltre a quella di Treviso, compiuta la delicata missione presso Luigi XI, ne riferisce a una delle parti in causa, a Ferrante d’Aragona, vantando le sue scaturigini teramane (e, dunque, del Regno di Sicilia peninsulare) con l’evidente intenzione di farsene un merito.

Il Lelio chiarisce al Sovrano aragonese di Napoli che, nonostante la sua modestia, Antonio Ciccinello, ambasciatore di Ferrante al Duca di Savoia, incontrato lungo l’itinerario del ritorno, gli aveva consigliato di trasmettere allo stesso Ferrante un esemplare dell’orazione rivolta al re di Francia; egli era stato persuaso dalle argomentazioni del Ciccinello e l’aveva inviata al Sovrano per mezzo di Antonio Caraffa. Ferrante d’Aragona - scrive con affettata modestia il Lelio - leggerà una orazione quidem incultam sed magna fide et animi sinceritate depromptam.

Ma chi è questo diplomatico al servizio della Santa Sede assai poco noto anche nei lavori specialistici? Val la pena di scriverne, sia pure sommariamente.

Alla morte di Francesco Legnamine (11 gennaio 1462), le diocesi di Belluno e Feltre, suffraganee di Aquileia vengono separate Theodorus Lelli canonico di Treviso e di Verona, Uditore delle cause del Sacro Palazzo Apostolico, utriusque iuris doctor, il 15 febbraio 1462, viene eletto a Feltre (Eubel, II, p.153). Il nuovo vescovo di Feltre, nobile di Fermo, era nato l’anno 1427 figlio di Simone giurisperito al Concilio di Pisa e a quello di Costanza.

Valente giurisperito anch’egli, diviene Uditore della Sacra Romana Rota e, quindi, dopo vari incarichi diplomatici, eletto da Pio II vescovo di Feltre (1452).

Nel biennio del suo episcopato feltrino, gli incarichi diplomatici lo tennero lontano dalla Diocesi che governò per mezzo di vicarii che, in successione, furono Leonardo de Lelli da Terni, il dottor Giovanni Nicolò Serravalle di Feltre, Francesco de’ Mezzanotte di Verona e Bartolomeo de’ Conti di Cesana feltrino, tutti canonici di Feltre.

Il 15 agosto 1464, si ha la morte di Pio II in Ancona e la successiva elezione di Paolo II dal quale il de Lellis viene traslato da Feltre a Treviso nella cui sede succede a Marco Barbo, nipote del Pontefice, il 17 settembre 1464 (Eubel,II, 249). La strada di Teodoro de Lellis è destinata, certamente in circostanze non felici, a incrociare quella di Bartolomeo Sacchi detto il Platina (Piadena, 1421 - Roma 21 settembre 1481), il noto umanista, imbreviatore e, negli ultimi suoi anni, custode della Biblioteca Apostolica Vaticana; il Platina, che già era stato precettore dei figli del marchese Ludovico Gonzaga, l’anno 1462 segue a Roma il fratello del Marchese, Francesco Gonzaga creato da Pio II cardinale diacono di Santa Maria Nuova (Eubel, II, p.14). Per i buoni uffici del neo cardinale suo protettore, Pio II lo ammette nel Collegio degli Abbreviatori, organo della Cancelleria Apostolica. L’anno seguente, il nuovo Papa sopprime il Collegio degli Abbreviatori senza alcun compenso per i membri di esso e dà una nuova organizzazione agli estensori delle Notae. Il Platina dà sfogo al suo rancore con una lettera indirizzata al Pontefice cui prospetta la minaccia del Concilio. Immediatamente messo in ceppi, la cognizione dei reati da lui commessi viene affidata al vescovo di Treviso. Lo stesso Platina racconta, nel Liber de vita Christi, che formatosi il processo, viene ritenuto colpevole di crimen lesae; tuttavia, la sua prigionia dura soltanto quattro mesi perchè la potente intercessione del suo antico protettore, il Cardinale di Santa Maria Nuova, gli procura la grazia e la libertà.

Il 17 settembre 1464, il De Lellis era stato traslato a Treviso, ma si era trattato di una traslazione meramente nominale perchè egli non raggiunse mai la sua nuova sede perchè, come era successo con Feltre, era rimasto al servizio della diplomazia pontificia. Risiedendo in Roma, si ammala gravemente e, visitandolo, il Papa gli da notizia dell’intenzione di crearlo cardinale; ma il De Lellis muore all’età di trentotto anni, correndo l’anno 1465, il 31 marzo. Sepolto in Santa Maria Nuova, diaconia del suo protettore Gonzaga, alla sua tomba viene apposto il seguente epitaffio

Theodoro Lelio Tarvisano Episcopo

Divini Humanique Iuris Consultissimo

ac Pauli II Pontificis Maximi

Referendario

Qui vixit Annos XXXVII Menses XI Dies XXII

Gaspar Lelius faciendum curavit MCDLXVI

Comunque siano andate le cose riguardo al cardinalato del De Lellis, si legge in Eubel: Domini S. R. E. Cardinales sine titulis sive quia morte praeventi vel alia causa impediebantur, quominus ad Curiam Romanam ad eos recipiendos venirent, sine quia de eorum promotione dubitandum est. Iacobus de Cardona episcopus Urgellensis Ioannes Vitez episcopus Strigoniensis Theodorus Lelli episcopus Tarvisinus Ioannes orator ducis Saxoniae Petrus Ciere Venetus (Eubel, II, 68)

E ancora:

Nota bene: Anno 1471 a Paulo II quatuor alii cardinales creati sunt scilicet Ioannes Vitez episcopus strigoniensis, Petrus Foscari Venetus, Ioannes Baptista Sevellus Romanus, Ferricus de Cluniaco Burgundus. Qui quidem rite publicati non essent, a Sisto IV ipsius Pauli successore non recepti sunt.

Attamen Sistus IV in suis promotionibus annis 1477 et 1480 habitis eosdem, excepto episcopo Strigoniense interim defuncto, in S. R. E. de novo creavit. Vide infra. Iam exeunte anno 1464 vel ineunte anno 1465 a Paolo II Theodorus Lelli episcopus Tarvisinus et Ioannes Berosti patritius venetus in S. R. E. cardinales creati esse dicuntur, qui quidem priusquam publicati sunt, obierunt; ille anno 1466, hic anno 1466. (Ibidem, p. 15, n. 6).

Il cardinale Iacopo Ammannati Piccolomini condolendosi con il cardinale Bessarione Trapezuntino del titolo dei Santi XII Apostoli tesse il panegirico di Teodoro de Lellis che qui si riporta:

Miseri quid sumus, Nicene? Aut quo recidunt conatus nostri? Vapori est simile, quod vivimus. Floremus mane et transimus; vespere decidimus atque arescimus. Vidisti quanto in honore esset nuper apud Pontificem praesul Tarvisinus, quantumque illi haberetur secretorum omnium fides, nulla epistola, nullum decretum, quod modo momenti esset subscribebatur, quod illius non esset opus. Quidquid cum gloria Romanae Sedis ubique per nationes et regna est lectum ex officina ejus id fuit. Facile inveniebat quod diceret. Dicebat graviter quod adinvenerat. Ubertas orationis tanta affluebat ut obruerentur saepe vel legentium vel audentium animi. Adducere ex sacris libris egregios locos sive jus pontificium, sive scripta veterum et novorum requiras non plus in labore erat quam in quotidianis sermonibus agere. Tenax ingensque memoria subministrabat afflatim quod erat necesse. Admirabamur omnes hominis linguam et pectus. Laudabamus, et dignum summis honoribus judicabamus. Ecce quomodo brevi momento ceciderunt omnia, et studia tot angustiis conquisita una morte abierunt. Grandem jacturam sors nostra hujus obitu fecit; nec est redemptura quod perdidit. Invenire est qui doctrina tantum excellant, et qui eloquentia, et qui usu rerum, et qui sola integritate vitae, at vero qui omnibus clareat hisce, et operosum, et rarum. Accedebat in Tarvisino summa religio, summa charitas, summus zelus, summa humanitas, faciles ad eum tot in curis accessus erant, benigna responsa. Adeuntium desideria sic excipiebat, ut prope modum sua facere illa videretur. Testimonium hominis ubique erat laudabile, ubique praedicabile. Vacans a pubblicis, vel lectioni, vel divinae rei operam dabat. Ea erat refrigeria sua et occupationes mentis levamina. Nec vagabatur, nec otiosus errabat, vel cella, vel pontificis aula vicissim erant curriculum. Utrobique fidelis inventus est minister. Diligebat illum summo affectu Paulus, et virtuti suae omnia tribuebat. Mecum de eo aliquando sermonem habens interiora quaedam bonae mentis testimonia protulit ante mihi ignota. Est, inquiens, miri ardoris ad tuendum dignitatem Ecclesiae. Consilia ejus intrepida sunt, non respiciunt in potentium facies, nec propter minas languescunt. Quae Veneti nostro imperio coacti sunt emendare, quia hic episcopus dictat incitationi suae adscribunt, et dure in eum aliquando loquuntur. Ipse tamen haec non ignorans nihilo ad bonum opus remissior redditur, novissime quoque cum renuntiatum esset ei remedia undique conquisita egritudini conceptae non subvenire dolens suspiransque moribus ait praesul insignis, praesul perfectus, quales esse reliquos oportet. Erat in eo non ingenium modo, et literae, et mens, et eloquium, sed prudentia et timor Domini et conscientia recta. Rara sane tot tantorumque bonorum conjunctio. Si ergo Romanus Pontifex, qui experimentis quotidianis hominem totum versavit, tanta illius virtutibus tribuit, quot a nobis convenit tribui, qui sola extrinseca intuentes, uno omnium judicio illustria putabamus? Quadragesimum adhuc non attigerat annum, et tanta apparebat bonorum operum fecunditas. Vix Pontificatum inierat Paulus, et tot jam ministerii sui monimenta extabant. Flendus, flendus est hic casus ejus non propter eum, qui hoc carcere exutus meliorem vitam sortitus est, sed propter nos qui tantum lumen amisimus. Insigne talentum quod ad lucrum conferri longo tempore poterat, cum possessore suo sublatum est, et cui ultima optanda erat canities, Nestorisque ac Mathusalem anni, prima ac melior vitae pars est intercepta. O fragilem conditionem vitae humanae quae ante desinit, quam ineretur, et ante nos doloribus oprimit, quam gaudii initium sentiamus. Non parcitur ulli hominum generi, non meritis ullis, simul dives et pauper, inscipiens et sapiens periit. Omnium versatur urna (inquit Flaccus), secus ocyus; sors exitura, et nos in aeternum exilium impositura cynibae. Nescio autem quo pacto procedunt semper meliora, relictis pejoribus stupei, et plumbei, et inertes quorum vita oneri longissimam vivunt vitam. Qui vero nati ad salutem sunt primo ipso laudis aditu tolluntur e medio. Gustata dona non sinuntur diu esse nobiscum, sed in ipso gustu non deserunt. Ergo Nicene conjunctione tanti Praesulis destitutus maximum amisi vitae meae solamen. Diligebamus nos invicem, quam diligi maxime poterat. Amor noster Pii temporibus incoatus officiis continuis ex illo initio creverat merita in me sua, quae non vulgaria erant, commemorabam ego illi saepe, ille vicissim mea in se. Consolationem capiebat a me in laboribus, qui ei ex Pauli Pontificatu erant, ab illo ego in adversis meis. Omnis nostra animi aegritudo invicem communicata alterius obsequiis statim levior flebat. Desiderio immenso desiderabam, ut aliquando virtutis suae digna ratio haberetur, et nobiscum sederet ad Romanae sedis consilium. Debitus enim gradus honorque ei erat futurus aliquando si mors non praevenisset. Magno autem Senatui nostro fuisset facta accessio, sive actionem quaeras, sive consilium. Praeteritae, praesentesque administrationes suae hoc de illo nobis spondebant. Ad Tribunal Rotae, quod est in Ecclesia maximum, sic annos complures sedit, ut documenta futurae laudis notissima omnibus daret, et inditium illum a se judicatum, ullo provocationis inditio damnaretur. Sententiae ejus veritatis et justitiae lex putabatur. Consulente aliquando beatae memoriae Pio magnis de rebus et gravibus judices collegii sui huic semper conficiendi et scribendi consilii cura demandabatur. Raro ad ea, quae invenerat additum aliquid est vel diminutum. Ut attulerat sic omnium juditio probabantur, nec minus cum recitabantur Pontificii ejus sensui congruebant. In Galliam ab Ostiensi Episcopo ductus qui per ea tempora legationem gerebat tanta virtute ejus onera pertulit, ut quod juste, quod integre, quod diligenter est factum hujus industriae putaretur. Idem, quem dico, Ostiensis mecum de homine loquens idipsum saepe asseruit et addidit, quod ex eo tempore illum semper dilexerit, illam legationem causam fuisse. Missus a Pio annis sequentibus Venetos orator, causam, quae adversus Sigismundum ex princibus Austriae agebatur magno ingenio magnisque contentionibus tutatus est. Impietatem ejus detexit et necessitatem juditii protulit, quod in illum est factum. Reverso autem habitae a Pio gratiae sunt et fides ejus laudata. Iterum ad Ludovicum Francorum regem jussu proficisci ad mandata, quae cum collega ei erant communia privata quaedam magni adhibita seorsum sunt, quae ante eam diem nulli fuerant credita. Elegit videlicet fidem hominis Pius, ubi tantum esset virtutis, putans pubblicis damnis errari non posse Ad Regem vero perveniens duabus orationibus causas necessarias duas pro Pontifice egit, quarum altera regni Napoletani corona Ferdinando data defensa est, et calumniae purgatae quae Pio erant impositae. Altera in haeresim Huscitarum et in Georgium Bohemiae regem illius assertorem invectus est, anathemaque in Sigismundum quem dixi, et Palatinum Rheni iustum monstravit, quod ille deceptus mendacius iniquum putabat. Habuit et tertiam, qua ad contribuenda in Turcos suffragia eum regem hortatus est. Factum vero his studiis vidimus et omnia apud Ludovicum pacatiora nobis quam ante et meliora sint reddita. Transiens inde ad Philippum Burgundiae ducem argumentis exemplisque innumeris ad reddendum Domino votum quod voverat quarta actione incitavit. Ubique et animi magni et summae sapientiae praesul est habitus, priusque non gallicanis auribus sed sedis officio inservivit libertatem loquendi monendique a spiritu sumens. Reversus ad Pium, cum horas amplius duas in referendis quae egerat assumpsisset, tanta tamen suavitate et splendore orationis est usus, ut fine facto nobis qui circumstabamus testatus sit Pontifex propter elegantiam ejus nec sentisse se tempus nec studium. Idipsum contigit et nobis, cum legationis quoque nostrae seorsum injunctae rationem pluribus explicasset. Hunc unum ab illo tempore ex Praesulum numero dilexit Pius et tunc laudavit, gratulansque idem Cytharam appellabat suam, quod videlicet ille esset usurus si quando vel alliciendi, vel monendi, vel refellendi principes essent. Plura hujusmodi de Tarvisino possent referri, sed et longum esset et crescente oratione crescit pariter dolor. Praestemus, Nicene, defuncto quod possumus. Colamus memoriam ejus et benedicamus spiritui recto unde in nobis charitatem spirabat: piis quoque suffragiis fidelem animam adjuvemus. Quamquam remettens ego ante actam vitam ejus et nunc mortem considerans, facile adducor: ut credam liberum redditum patuisse illi in coelum interque sanctos Dei ipsum nunc agere. Vixit innocenter et operatus est justitiam et incidens in languorem patienter tulit omnia. Domino quoque se credidit, ita affectus redigens suos, ut quicumque sequeretur cassus benediceret illi et voluntatis suae opus agnosceret. Infirmanti et mortuo pietatis omnia sunt persolata officia. Adjutus a suis et ab amicis non derelictus. Pontifex etiam Paulus cui ad naturam misericordem accedebat amor in Tarvisinos paternus dignatus est ad eum accedere, pauperis episcopi intrare cubiculum, assistere aegroto et suis adhortationibus ingentem vim mali levare. Mortuum quoque amare flevit et benedictionibus est prosequutus. Suus ille vitae terminus hic fuit; manet nunc noster; nos sequuturi illum sumus post paulo ac reddituri unde processimus. Oremus Deum, pater Nicene, ut in pace sit transitus noster, et spatium accipiamus parandae nobis in aeternum salutis.

Si ricorda che del ricchissimo epistolario di Iacopo Ammanati Piccolomini sono state pubblicate soltanto 782 Lettere dal 1462 al 1479, editore G. Gherardi, Milano, 1506 e Francoforte 1614; molte altre giacciono inedite nell’Archivio Vaticano (Arm. XXXIX, t.x. Su Iacopo Ammannati Piccolomini (1422-1479) è sempre utile la consultazione del Dictionnaire d’histoire et géographie ecclésiastique, a cura di A. de Mejer, Parigi 1912 ss.

Romanae Ecclesiae Iura in Regno Siciliae (Ms. Qq. D. 64 della B. C. Pa)

Romanum imperium Constantinopolim translatum adeo debilitatum erat ut provincias Constantinopolim propinquas romani imperatores aegre tuerentur et Longobardi, natione germani qui, anno salutis quingentesimo sexagesimo octavo, Italiam invaserant tanta potentia aucti erant in minori parte Italiae in potestate imperatoris relicta ut pontifici ac Romanis magno saepe terrori fuerint nec videbatur urbs Roma Longobardorum dominatum evasura nisi Pipinus et Carolus Francorum reges Germaniaque oriundi afflictis Romanorum rebus opem attulissent et cum datam a regibus Francie semel atque iterum pacem Longobardi violassent, Caroı lus, Pipinus filius eius, gentis regnum delevit, Desiderio ultimo Longobardorum rege … relegato, terra Italiae quam Longobardi tenuerant partim sibi retenta, partim romano Pontifici concessa; cumque imperator qui Constantinopolim residebat omnem tuendae urbis curam abiiecisset, Leo tertius pontifex romanus legem tulit qua populus romanus Carolum imperatorem acclamavit, anno salutis octingentesimo. Habebat Roma imperatorem Occidentis Carolum tam multis contra ferocissimas gentes auctum victoriis ut Imperatori constantinopolitano non satis tutta viderentur ea quae adhuc Greci de Italia possidebant tantum vero abfuit ut Carolus quicquid de constantinopolitanoı Imperio occupando studuerit quam, missis Constantinopolim legatis pacem cum imperatore Niceforo firmavit et quicquid a Neapoli usque Sipontum nunc Manfredoniam infero superoque ablentur mari cum ipsa Sicilia in ditione constantinopolitani Imperatoris remansit et ita clarum est eam partem Italiae que Regnum Neapolitanum appellatur Siciliamque insulam neque Imperatoribus Occidentis neque Romanae Ecclesiae iure belli vel pacis usque ad ea tempora contigisse. Fortuna autem res humanas semper variante factum est ut intra centesimum annum imperatoria maiestas in familia defecerit Caroli, neque interea res Imperatoris occidentalis continue bene gestas esse, nam ipsisı [filiis] Caroli inter se de imperio interdum dimicantibus illa fundamenta que reparando imperio iecerat Carolus magnus ruere caeperunt factumque est Ranulphi apud Francos imperantis ignavia et italicorum Principum discordia ut [a] Saracenis ferocissimis nationibus et aliquando tum Italia per sexaginta annos vastata tum Romana Ecclesia a scelleratissimis pontificibus lacerata fuerit quousque Agapitus secundus pontifex romanus Ottonem in Germania designatum ad Italiae Ecclesiaeque auxilium invocavit.

Per cuius tempora vastitatis et per imperia Othonum, qui tres continua serie regnaverunt, variae gentes venerunt in Italiam et imperante apud Occidentales Ottone tertio, apud vero Orientales Michaele Cathalano(a), Sergio quarto pontifice romano ad annum salutis millesimum secundum possidebat illam regionem Italiae que prius Emilia postea vero Romandiola dicta est Gulielmus Ferabach(b) normanus multorum fratrum in re militari strenuorum caterva stipatus(c).

Sic magni vir animi ofensus excurtionibus quas Saraceni ex Africa Siciliam Italiamque faciebant cum salernitano et capuano principibus tam diu instituit ut tres pariter ad Malochum(d) virum graecum res italicas pro imperatore constantinopolitano (In calce: Tancredus normannus eiusque filii Roberto…Rogerio, Tristano, Cistello et ceteri) administrantem iniverint cum eoque societatem iniverunt Sarracenos ex Sicilia disturbandi gratia, pacti inter se ut preda in quatuor equales partes divisa spoliisı hostium potirientur coactoque exercitu cum Sarracenos Sicilia expulissent. Malochus predam ut promiserat quadripartitam divisit; Siciliam vero imperatori suo adiudicavit; eam rem aegre tulit Gulielmus Melphimque civitatem imperatoris greci ocupavit et fugato Malocho qui cum exercitu recuperaturus Melphim advenerat Apuliae partem occupavit maiora gesturus nisi fortis viri conatus mors interupisset.

In administranda vero re normana successit Gulielmo frater Drogo. Is postea moriens successorem habuit Hunfredum fratrem; cui defuncto substitutus est frater Gotfredus cui decedenti cum non aliquis de fratribus, sed Bagalardus(e) filius surrogatus foret, Robertus defunctorum frater, cognomineı Guiscardus, Bagalardum principatu armis eiecit remque normanam dum vixit fortiter administravit.

Prius tamen quam summa rerum Robertus Guiscardus potiretur Normani et Greci, inter Aufidum amnem et … oppidum acerrimo prelio congressi sunt fuitque victoria Normanorum, cum Graecis imperaret Michael et Herriacus Romanis vero Conradus suevus, Ioanne decimo octavo romanum pontificatum tenente. Ex qua victoria tantum animorum sumpsere Normani ut Beneventum civitatem romano pontifici pariter tempore sint ausi cumque in eos Leo nonus pontifex maximus copias ab Henrico imperatore secundo datas duxisse proelio victus captusque est a Normanis. Sed gens astuta querendaque in Italia benevolentia intenta honoratum summopere romanum episcopum [a] beneventano clero Romam deduci iussit; sed maiora animo agitans Robertus cum ad pristinas vires Normanorum Troyam Apuliae urbem addisse multaque preter ius et phas sequentibus bellis, in Apulia et Calabria perpetrata fuissent, magnis precibus a Nicolao pontifice romano impetravit et multa in ea regione emendaturus Calabriam petteret, nec gravate pontifex accessit tum ut declinaret insidias Romanorum, tum ut victricem nationem sibi conciliaretur absoluturumque ab excommunicatione Robertum qui Troyam ecclesiastici iuris occupaverat Calabriae et Apuliae ducem decrevit eumque se sponıte dedentem per vassallum ligiumque Romanae Ecclesiae acepit, redditis primum pontifici ecclesiasticis terris et pacto apposito ut quando cumque pontifex iuberet Robertus cum omnibus copiis pontifici auxilii foret. Idque tam diligenter servatum est ut primores territorii romani qui capitanei dicebantur bello a Normanis agitati ad pontificis oboedientiam sint compulsi.

Credo Robertum singulari prudentia virum ex pontificis privilegio viam ad augendum imperium sibi apperruisse, sed neque Nicolaus pontifex insulse egit qui terras, alieno labore partas, in subiectione ecclesie tam parvo momento traduxit et hoc est primum ius et antiquissimum quod romani pontifices in neaı politano regno habuerunt.

Obiit paulo post Nicolaus pontifex, sed non cum pontifice estinta est ambitio Roberti, nam Tarentum et … ab imperatore greco defficientes in deditione accepit et multa de Apulis et Sicilia armis subegit, cum esset Grecorum imperator Romanus cognomento Diogenes et Latinorum Henricus tertius et Petri cathedram Alexander secundus obtineret.

Sed ut sunt hominis ingenia maioris sempre imperii avida, Robertus Guiscardus romanum pontificem dominum suum non veritus picenum agrum qui nunc marcha anchonitana tunc Firma appellabatur invadens a Gregorio septimo cum gente normana excomunicatus fuit. Verum cum imperium orientale intesı tinis discordiis magis in dies laceretur, Robertus Guiscardus rem romanam tanto tempore auxit ut illum Pontifex sibi conciliare optaverit eumque rursus in ligium Ecclesie hoc est omnino subiectum accepit et vexillo beati Petri cum quo Michaelem Dio[genem] imperio constantinopolitano eiectum reduceret donavitque.

Atque hic secundus locus iuris quod habent in neapolitano Regno Romani pontifices.

Fuit autem eius virtutis Robertus ut Dyrachium imperatori recuperaverit, maiora statim gesturus nisi eum Gregorii pontificis necessitas revocasset; nam eum Henricus tertius scelera tum quemdam in papam prophanasset, Gregorium in arce Sancti Angeli se recepit ubi cumı acriter ab imperatore obsideretur, supervenit cum exercitu Robertus qui, soluta obsidione, Gregorium perduxit Salernum; non enim Papa audebat morari Rome propter inimicos Romanorum erga imperatorem fautores. Nec destitit a bello constantinopolitano Robertus sed revertens Michaelem, grecam et venetam classem superavit et renovatam itterum Grecorum et Venetorum classem delevit, restituturus omnino in patriam Michaelem nisi ad Canopum insulam naturaliter concessisset. Superstites fuere Roberto duo insignes filii Bohemundus ac Rogerius diversis matribus geniti; Bohemundo mater fuerat prima uxor nomine Aborada et Rogerium peperat Gisulı fi Principis tarentini ex fratre neptis Giglagarda(a) et cum Roberto adhuc vivo totam rem militarem Bohemundus administraret nihil tamen de paterno dominatu ei relictum est sed omnes Rogerio paruerunt. Obque rebus dalmaticis derelictis, continuo in Italiam delaturus, Bohemundus germanicum bellum agitavit et intervenientibus paternis amicis pax his legibus firmata est ut parte Apulie Bohemundo dimissa Rogerius titulum ducatus et cetera que pater possiderat obtineret. Pacta inter germanos pace Rogerius Melphim ad Urbanum secundum accessit ligiumque et vassallum romane se faciens ecclesie ducatus et paterı ne successionis confirmationem obtinuit et tertia est hec annum per temporales principes de neapolitano regno facta subiectio anno salutis millesimo nonagesimo quarto.

Excedens vita, Rogerius duos habuit successores alterum Rogerium ex fratre nepotem et Gulielmum filium; sed historici Rogerium comitatu Sicilie totoque dominio potitum, aiunt misisse ad Pascalem secundum pontificem maximum oratores, anno salutis millesimo centesimo primo et facta obedientiae promissione mille uncias auri dono dedisset quibus papa usus est ad expugnandum Albam Marsorum per qua se continebat antipapa et ea est de rebus apulis prestita romano pontiı fici quarta oboedientia et anno salutis millesimo centesimo decimo nono scribunt Gulielmum Apulie ducem Rogerio priore gentium venisse ad Gelasium secundum pontificem seque novo fidelitatis obligasset iuramento. Que facta, de rebus apulis quinta romano pontifici prestita obedientia. Ea que secuntur fiuntur ut credam Gulielmum hunc fuisse pupillum. Cum Rogerius pater moreretur et propterea totum dominatum minori Rogerio cessisse paucis ad modum Gulielmo concessit. Veniens autem ad Calixtum qui Gelasio successerat Gulielmus dux Apulie et prisca subiectione et ducatum est confirmatus et tamen sextum apularum rerum habetur iuramentum.

Confirmatus [a] Calixto in beneficio Gulielmus Constantinopolim ad desponsandam Alexii imperatoris filiam accessurus ducatum Pontifici commendavit, sed Rogerius siculus absente consobrino insidiatus Pontificis tutelam ducatum Apulie occupavit, Gulielmusque sine liberis Salerni obiit. Rogerius autem deposito comitatus ac ducatus titulo, se Italie regem appellavit. Rogerii se regem appellantis insolentiam tum Calixtus et qui successerat Honorius secundus indigne tulissent propter vite brevitatem nullis incommodis afficierunt. Sed Innocentius secundus ad tirannidis vindictam festinandum ratus tumultuario exercitu in eum duxit et nihil tale expretantem primo impetu fugatum in Galutio castro obsedit, sedı Gulielmus, Rogerii filii Calabrie dux, cum exercitu superveniens et obsidionem solvit et pontificem cum cardinalibus cepit. Cuius victoriae gloriam magna modestia superavit, papa cum cardinalibus in libertatem restituto et quicquid voluerat praeter titulum regni a magnanimo presule impetrato anno salutis millesimo centesimo trigesimo.

Liberati pontificis gloriam Rogerius cupiditate regii nominis inquinavit cum eum nonnulli ex Romanis facinorosi audita Innocentii clade antipapam erexissent nec Innocentius urbi se credere auderet eo ambitiones propalaptus est Rogerius ut falsum illum antistitem tamquam Christi vicarium adoraret quia ab illo rex Siciliae fuerat appelı latus. Cuius criminis non multo post penas luit; Innocentio enim obsecrante, Lotharius imperator non prius cessavit illum bello prersequi quam tota Italia eiectum in Siciliam fugere compulit et ne de iam acquisito iure aliquid amitteret in terris italicis a Rogerio olim possessis constituit papa ducem Rainonem germanicum Lotharii imperatoris expeditione exequutum.(a) Est hic septimus actus continuatus per ecclesiam in illa terra possessionis, anno salutis millesimo centesimo quadragesimo tertio.

Si Celestinus secundus et Lucius tertius animo Innocentii respondissent non attigisset ultra Italiam Rogerius sed dum omnia frigide agunt elato vir animo quicı quid de Italia amiserat armis recuperavit, cum exercitu ex Italia in Affricam deportatu Tunetis regem sibi tributarium fecit et valida classe Egeum pervagatus Corcyram Corinthum Euboiam et Thebas in potestatem redegit et rebus Christianorum assiaticis quam poterat opem ferens, classis Saracenorum que Ludovicum Franciae regem interceperat occurrit regemque de hostium manibus liberavit.

Tantum hic vir nulla cum ecclesia facta reconciliatione decessit ad annum salutis millesimum centesimum quadragesimum quartum, Hadriano quarto pontifice.

Rogerio primo regi Sicilie successit Gulielmus filius qui rudimenta regni posuit in invadendis ecclesie terris; qua de causa a (b) Hadriano pontifice a fidelium comunione abicitus est et populi qui patri paruerant iuramento fidelitatis absoluti parumque temporis intercessit cum apuli et calabri proceres Romam venientes [ad] pontificem ad repetendas Ecclesie provincias sunt hortati astrinxeruntque se erga romanam ecclesiam fidelitatis iuramento.

Eo terrore motus, Gulielmus pacem per oratores suppliciter petitam cum impetrare nequisset, contracto valido exercitu Grecorum Apulorumque copias cum pontifice sentientes profligavit et ea victoria moti qui se pontifici dederant ad Gulielmum quibus potuere conditionibus inclinarunt. Tunc pontifex spretis belli suasoı ribus Gulielmum sibi ad pedes provolutum regem utriusque Sicilie appellavit et ab illo servandae fidei iuramentum accepit. Paulo postque Rogerius(a) diem obiit iamque septies Normani de servanda pontifici subiectione iuramentum prestiterunt cum a numerato ducatu Rainonis octavam sit continuata possessio. Ab hoc nihil regittur factum memoratu dignum nisi quod redeunti ex Gallis Alexandro tertio datis quatuor triremibus auxilio fuit. Mortusque fuit Panormi anno millesimo centesimo sexagesimo sexto, Gulielmo successit filius Gulielmus. Obsessum a Friderico svevo Alexandrum tertium Romam navigio pecuniaque venit belloque et pace cum Alexandro societatem tenuit mareque secatum dum Christiani gerunt assiaticum bellum rediit et tamquam opere implevit ut fidem pontifici impleverit,(b) servaverit nusquam iurasse aut regni titulum accepisse legitur. Mortuus est autem Panormi nullo ex se herede relicto, ad annum salutis millesimum centesimum octuagesimum.

Siciliam citra et ultra farum rege destitutam conatus est Clemens tertius in liberam romane ecclesie potestatem transferre sed magnates regni Tancredum [a] rege Rogerio ex concubina ortum sibi regem instituere abusuri eius secundia quae tanta erat ut Gulielmus rex numquam sit dignatus illum vel spurium fratrem appellare. Et cum defuncto Clemente Celestinus tertius investisset ad exturbandum Tancredum Constantiam virginemı Deo sacram [a] normanno rege genitam a panormitano monasterio clam subtraxit licetque grandiorem natu quamque concipere posse videretur in coniugem dedit Henrico svevo Romanorum regi Frederici in Armenia defuncti filio eumque romani Imperi corona insignivit apposita conditione ut imperator sumptibus suis Siciliae regnum recuperaret et censum annuum ecclesie solveret terrasque ecclesiastici iuris pontifici redderet. Natusque ex eo matrimonio in Germania est Federicus secundus qui quadrimus a parentibus Romam delatus eam fortunam habuit ut parentes Trinacriam invasuri nullum adierint periculum si quidem Tancredus rex cum Rogerio filio infante obiisse nuntiatum esset nulloque labore opuı lentum illud obtinuit regnum maximo reperto thesauro quam clandestine in Germaniam misit.

Obiit tamen Panormi ad annum salutis millesimum ducentesimum filium et uxorem Innocentio tertio commendatus et hec est nova continuatio dominii ecclesiastici in siculo regno.

Henrico successit Federicus secundus ob cuius puerilem aetatem Constantia mater regnum gubernavit. Usque ad viginti etatis annos pervenerat, cum deposito Othone quinto(a) imperatore Romanorum ab electoribus rex est Romanorum designatus et quam vis iussu pontificis fuerit Aquisgranae coronatus nullum tamen iuramentum de regno Sicilie prestitisse legitur, sed cum agens vigesimumı octavum annum ab Honorio tertio imperatoria corona fuerit insignitus procul dubio etiam de regno Sicilie fidelitatem fecisse putandum est.

Hic matre defuncta in vitys prolapsus cum in Cyprum tamquam in Saracenos ducturus navigasset secreta cum sodano foedera inisse deprehensus est obque id imperio regnisque privatus est et bello pontificis agitatus quicquid intra Romam et Capuam possidebat amisit. Sed reversus in Italiam a Gregorio IX pontifice pacem impetravit, Centum et viginti millibus unciarum auri papae exolutis isque rursus appellatus imperator et utriusque Sicilie infeudationem accepit. Quae est decima confirmatio in siculo regno ecclesiastici iuris. Nec tamen pax Friderici cum Ecclesia duravit sed exı comunicatus a Gregorio eodem ad urbem cum exercitu venit unde a crucesignatis repulsus [est].

Postea ab Innocentio quarto imperii titulo privatus Romanam Ecclesiam diuturno bello fatigavit, sed ad Parmam superatus Panormi decessit, ad annum salutis millesimum dugentesimum quadragesimum octavum. Hic imperator ut suarum partium fautores ab ecclesiasticis discerneret eos qui imperatori favebant Gibellinos qui autem pontifici guelfos appellavit: quae partes hoc anno in populos Lombardie renovatae magnum ut opinor Italie malum dabunt.

Fridericus secundus duos reliquit filios Conradum quem vivens regem Romanorum crea verat ex legiptimo matrimonio et Manfredum quem instituerat principem tarentinum ex concubina ortus; sed quo tempore imperator obierat, Conradus erat in Germania, Manfredus vero in Italia agens cunctas regni civitates tamquam regis germano sibi parere coegit. Soli neapolitani ambitionem veriti portas Manfredo clauserunt legiptimum regem Conradum expectantes.

Adfuit non multo post Conradus qui avaritia ductus neapolitanos tamquam rebelles obsedit nec eorum oratores honestas exclusi Manfredi causas allegantes audivit et civitatem post octavum mensem ad deditionem compulsa eam muro spoliavit aedesque nobilium evertit. Idem contraı Capuam egit, Aquinum vero incendit. Cum autem multa ferociter faciens videretur secundo postquam advenerat anno veneno, ut creditur Manfredi opera, inopinato obiit; prius tamen quam decederet testamento sibi instituit [heredem] Conradinum ex Henrici fratre nepotem quem Fridericus pater olim in carcere peremerat. Ab hoc nullam romano pontifici hobedientiam(a) exhibitam invenimus.

Sub Conradi morte, si fuisset in Italia Conradinus ut legitimus heres extemplo toto regno potiturus erat, sed pro absentis Conradini opportunitate Innocentius quartus, avitus hostis qui novem in Gallia annos fuerat commoratus, raptim [a] Lugduno solvens [ancores] Genuam delatus Perusium accessit validoque coacto instigantibus neapolitani regniı proceribus non prius ab itinere destitit quam Neapolim veniens ea per deditionem potitus est.

Convenerunt illico ad pontificem omnes regni proceres atque ipse Manfredus imperata quaecumque facturi tam etsi Manfredus sublato fratre consciusque testamenti recautus omnia affectati regni signa prebuisset nullique dubium erat quin regnum brevi in Romanae Ecclesiae potestatem venire; sed adversa pontificum opibus fortuna incursu rerum Innocentium Neapoli peremit, anno salutis millesimo dugentesimo quinquagesimo quarto.

Substituerunt cardinales defunto pontifici Alexandrum quartum nequaquam Innocentio animi patientia cardinalibus conclavem ingressis cum Manfredus ad Fogiam apulamı urbem copias Ecclesie delevisset et tutorio Conradini nepotis nomine quascumque adhibat terras reciperet, creato sedis apostolice legato Octaviano Ubaldino cardinale Neapolique dimisso ipse Ananiam(b) petiit, Manfredum excomunicavit.

Erat eleganti forma magnoque ingenio preditus Manfredus adulescens et maiori animo quam qui execrationibus posset deterreri coactisque itaque maximis copiis Octavianum Neapoli legatum obsedit et subornatis qui se ex Germania venire dicerent legatis magno gemitu Conradinum nepotem obiisse vulgavit atque sumpto paludamento mortem eius deflevit seque regem appellari coronarique obtinuit. Non multo post totoı regno ipsaque Neapoli potitus cum Octavianus legatus expeditione deserta ad pontificem Vitibo agentem se receperit… Fuere Manfredi res gestae non mediocres; nam Ezellino de Romano et Oberto Pallavicino in Lombardia foederatus sociorum bello civitatum damna auxit et in Hatacria Guelfos delevit, marcham quoque anchonitanam bello subegit, Latium vero Romane Ecclesie provinciarum immissis Sarracenis infestavit et patrimonium beati Petri in Tuscia cladibus afflixit. Tum e vita sublatus erat Alexander quartus et cardinales creaverant Urbanum quartum natione gallicum magno animo virum qui tantis Manfridi viribus se imparem cernens misso in Gallias legato premissisqueı … vite propositis validum cruce signatorum exercitum opposuit se quidem in Lombardia pro Manfrido rege Albertus Pallavicino cruce signati sed praevalentes Galli in Latium devenerunt et Sarracenos trans Lirim fugere coegerunt. Non tamen satis habuit viaticus pontifex Manfredi hostis vires repressisse sed de illius excidio cogitans cum Ludovico rege Francorum egit ut Carolus ipsius Ludovici consobrinus et genere Andegaviae Provintieque comes utriusque Sicilie a pontifice rex appellatus Manfredum regno deiceret. Sed Urbanus priusque insite a se arboris poma legeret viam universam carnis ingressus successorem habuit Clementem quartum natione gallum quiı sicut patria ita animo Urbano simillimum fregescentem ex Urbani morte Caroli andegavensis expeditionem renovavit Carolumque urbis Romae senatorem creavit Dum ex Gallia copias expectat Carolus annum integrum gessit magistratum, quo tempore missis a pontifice cardinalibus Hierusalem et Sicilie coronam Carolus accepit duabus insignis conditionibus additis, ut quot annis nomine feudi Romanae Ecclesiae solveret octo et quatraginta aureorum millia, neve uno tempore ipse aut de heredibus quisquam romanum sumere posset imperium etiam si ab electoribus foret demandatum.

His solemni pompa peractis Rome adfuerunt ex Gallia copiae quibus florentini exules guelfi appellati se comites addiderunt et per Cassinumı montem regnum ingressi expectantem in campis beneventanis Manfredum invenerunt: pugnatum est acriter et aliquantum pervariata victoria Manfredus dimicans occubuit nulloque resistente quicquid de Italia Siciliaque possiderat Manfredus in Caroli dictionem concessit.

Factam Carolo per Urbanum infeudationem nescio decimam an undecimam appellamus iuris ecclesiastici in regno continuationem; nam si acceptum a primatibus regni sub Innocentio quarto fidelitatis iuramentum obtentaque Neapolis possessio iuris ecclesiastici continuatio fuit; profecto subiectionem quam Carolus fecit duodecimam continuationem ecclesiastici iuris appellabimus et ab ea imposterum ceteras seriatim numerabimus.ı Tanta victoria letitia nequaque Carolo diuturna fuit nam Conradinus quem defunctum Manfredus simulaverat contractis ingentibus copiis in Italiam descendere festinavit delatusque in esturiam Pisanorum navigio cum supremo Caroli copiarum prefecto ad Aretium victor conflixit; tum ad dexteram flectens cum Viturbio interfuerat pompa a romano populo imperatoribus exiberi solita susceptus est et Romanis iterum duces se prebentibus per Mavos et Pelignos copias ducens Carolum obvium obheit a quo non virtute militum sed extu superatus cum altero adolescente austride duce fugam arripuit.

Postmodum cum ambo principes aetate pares ob regiam indolem a rusticis coniecti fuissentı ex fuga rectrati ad ferocientem tanta victoria Carolum sunt producti ut non modo nullam apud superbum victorem clementiam reperit Conradinus sed quod numquam fando auditum fuerat dati fuerint a Carolo iudices qui Conradinum regem ex tot regum imperatorumque progenie tamquam itinerum scelerumque machinatorem capitali supplitio una cum austriaco duce affecerunt; eumque finem ad Gallorum crudelitatem habuerunt Siciliae reges imperatores svevi, anno salutis millesimo dugentesimo sessagesimo octavo.

Ostensam in regio germanorum sanguine sevitiam continuavit in subiectos populos Carolus, nec erant in novo regno mitioı res Galli quam sint hoc tempore in ducatu mediolanensi; eam sevitiam cum nimis diu Siculi tollerassent illam inter se conspirarunt ut eodem die ad horam vespertinam quotquot erant in Sicilia Galli trucidarentur quod cum factum foret venit in italicum proverbium ut cum de aliquo insigni facinore trattaretur sicularum fiat mentio vesperarum; sed cum absque rege Siculi esse non possunt iam antea convenerant cum Petro Aragonum rege ut Siciliae regnum acciperet; praeter virtutes autemque in Petro aragoneo fuerunt ad regnum ei demandandum Siculos invitavit affinitas Manfredi cuius filiam Constantiam Petrus duxerat in uxorem. Decesserat quidem illo tempore Clemensı quartus natione gallus germanici in Sicilia eversor regni, successerat Martinus quartus natione item gallus qui tanto molestius erat rem gallicam in Italia minui quanto indignius est opes iam partas non conservare. Is cardinalem legatum in regnum favores Carolo daturum misit; sed, cum regis Caroli filius primogenitus Carolus, invito legato, cum hostili classe decertasset captus est in Aragonamque perductus. Cumque Gallorum Siciliae regnum afflictis rebus nullam aliam opem Martinus Pontifex afferre posset Petrum aragoneum et Constantiam uxorem filiosque Fernandum(a) et Iacobum excommunicavit.

Quibus malis involutus Petrus e vita migravit, non tamenı carcere Carolus effugit; nam rex in Italia appellatus cum genitor Carolus febre corruptus diem obiisset, pacta tamen inter Aragonios Carolumque sunt inita ut carcere admissus confirmationem regni Siciliae sumptibus suis Aragoneis impetraret; quod nisi triennio peregisset ad carcerem unde dimittebatur rediret eiusque promissionis servande duos filios obsides dedit; sed Nicolaus quartus qui Martino Honorioque successerat ea pacta rata non habuit Carolumque secundum utriusque Sicilie regem appellatum coronavit.

Quod tam aegre tulit Iacobus aragoneus Petri filius qui Siciliae rex a patre fuerat institutus ut comparata ingenti classe Caietam obsideret quo metu papa perı culsus auctor fuit servande pacis inter desidentes reges pridem constitutae. Quae tamen diuturna non fuit, nam mortuo Iacobo aragonio Sicilie rege, Robertus Caroli filius Cathanam Sicilie urbem occupavit, sed bis victi navali pugna Galli Siciliam Aragoneis usque in hanc diem possidendam reliquerunt. Quo tempore Carolus secundus rex neapolitanus diem clausit extremum, anno salutis millesimo tricentesimo octavo. Atque hoc modo in secundo Carolo apparet tertius decimus continuatae per Ecclesiam possessionis in regno neapolitano actus.

Erat eo tempore romana curia in Franciae regno maximo christianorum malo translata. Cumque apud Clementem quintum, natione gallicum, Robertus defuncti Caroli filius moraretur paterni regni confirmationem obtinuit nam frater mayor natu Carolus Marcellus(a) materne haereditatis Hungarie regnum obtinerat. Isque Robertus, singulari prudentia ornatus, cum recuperande Sicilie abyecisset ad augendas in Italia vires animum adiecit sed venientis ad accipiendam imperii coronam Henrici septimi imperatoris nuncio turbatus incruente tantae tempestati resistere cogitavit.

At Henricus magno omnium Italorum favore susceptus cum Pisas pervenisset Robertum tertio a dicto citatum regno neapolitano privatum pronunciavit.

Fuit autem apud Italos tanta auctori(b)_ tanta Henrici auctoritas et potentia ut Robertus nihil minus quam de retinendo regno speraret cum immatura morte estinctus ad Bonconventum imperator amplissime Roberti fortunam viam apperuit. Si quidem vexantibus Italie factionibus, cum guelfi florentini genuensesque non satis adversariis resistere possent Robertum in Florentiae ac Genuae dominium acceperunt; non eum tamen usque ad supremum diem fortuna dilexit sed Carolo filio immature mortuo regnum tantis laboribus servatum alteri neptium que ex Carolo nate erant possidendum tradidit.

Narratum est superius quemadmodum germanus Roberti Carolus Martellus factus fueratı rex Hungarie. Huic Carolo Martello Hungaria tenente natus erat filius nomine Carolus sicut et Roberto neapolitano regi alter Carolus; quemadmodum vero Roberti Carolus immatura morte extinctus fuerat, ita etiam vivente Carolo Martello alter Carolus hungaricus obierat sed erat in hoc amborum regum dissimiles fortune quod Carolo Roberti superstites fuerant due filie Carolo autem Caroli Martelli duo filii supervixerant Ludovicus et Andreas. Condito igitur testamento quo mayor nepotis Ioanna iussa est Andream in maritum accipere, excessit vita Robertus anno salutis millesimo tricentesimo quatragesimo septimo.

Continuate per Ecclesiam in neapolitano regno possessionis actum inspicimus.

Andreas hungaricus ad neapolitanum regnum per sponsalitia vocatus usque adeo reginae displicuit ut eum impotens mulier in adversana arce strangulare fecerit, accepto in virum Ludovico principe tarentino qui ex Philippo Roberti germano ortus fuerat.

Non invenitur aliqua Andreae coronatio quia, ut puto, romana curia Gallias incolenti prius impudica femina regem necavit quam de obtinenda confirmatione necare potuerit.

Ad ulciscendam Andreae necem confestim ex Hungaria Ludovicus germanicus descendit sed scelerata foemina cum incesto Ludovico tarentino Galliam petens furentis regis manus evasit dum vero dirachinus reginae consobriı nus iuste ultionis repugnari ausus captus et capitali supplitio afflictus est.

Pestilentia tamen que Italiam depascebat[ur] territus, relictis qui regnum tuerentur Hungaris, Ludovicus nequaquam rediturus abscesit; curante postmodum Clemente pontifice pax inter Lodovicum hungaricum Ioannamque reginam, his conditionibus firmata est: ne Ioanna regina appellaretur regnumque a Ludovico hungaro reditum possideret; Ludovicus vero sive maritus sive adulter principatus titulum apud reginam possideretur. Cum tamen brevi pax ita sic renovata ut Ludovicus ille adulter regni Neapolis sit coronatus pro qua consequenda Ioanna regina insignem urbem Galliae Avinionem quam ereditario iure possidebat pontifici romanaeque Ecclesiae subiecit quin finem hic adulter habuı erit non satis scio cum in creatione Urbani sexti quae facta est anno salutis millesimo tricentesimo octogesimo quarto, nulla de Ludovico multa autem de regina Ioanna mentio fiat. Eius autem coronatio per Clementem facta decem(a) et quinta est continuatio ecclesiastici iuris in regno neapolitano.

Empta a romano antistite sceleris impunitas servavit sceleratam reginam usque ad ultimum incolumen; nam cum gallicos cardinales peniteret Urbanum sextum qui italus erat pontificem creasse, eis intra regni fines admissi creandi antipapam facultatem Ioanna dedit.

Quam iniuriam vindicaturus Urbanus Ludovicum hungaricum ad renovandum contra Ioannam bellum istigavit prefectusque est ei bello Carolus Andreae ut opinor neı cati filius qui mira celeritate usque reductaque in castellum novum regina regnum obtinuit sed cum pontifici non penitus obsequeretur premisso legiptimo processu regno privatus fuit. Memoris tamen rex fuit pontificis privationem in quo animo instituit quam adventantes Ludovici andegavensis copias, missus enim a Clemente antipapa Ludovicus andegavensis ingentem in Italia traxit exercitum, et liberaturus Ioannam et urbem Romam antipapae traditurus.

Sed cum ex morbo Ludovicus periisset exercitus ille dissipatus est, nec tamen Carolo letitia solita fuit nam defuncto patruo ad Hungarie regnum vocatus insidiis reginae in conventu principum trucidatus occubuit, anno salutis millesimo trecentesimo octogesimo sexto.ı Haec privatio Caroli per Urbanum facta quae ostendit precessisse coronationem sexta et decima est continuatio in illo regno ecclesiastici iuris.

In regno seditionem favendo non defuere turbatores insidiatoresque pupilorum quos reliquerat Carolus Ladislaum et Ioannam nihilque pretermisit Urbanus ut eos converteret regno sed uti magna fide Caietam pueros usque ad pubertatem servatos ad tempora Bonifacii noni perduxerunt quod per tempora scismatis pontifex creatus, anno salutis 1400 primo, legato cardinale florentino Ladislaum coronavit, abrogata quam Urbanus pontifex fecerat privatione. Estque decima septima continuatio ecclesiastici iuris in neapolitano regno.

Carolo tertio Hungariam petente reı manserunt in Italia duo filii Ladislaus et Ioanna cumque in regno seditionibus reperto non deessent insidiatores pupillorum Urbanus pontifex sextus qui Carolo regnum privato declaraverat pueros regno exturbare parebat; sed cum superstitibus pueris id non satis commodo fieri posset Caietani magna fide uti ambos conservassent irati pontificis menam in sassum ceciderunt et cum defuncto Urbano successisset Bonifacius nonus abrogata est a prudenti pontifice facta per Urbanum Caroli privatio missoque in regno florentino cardinale legato Ladislaus puer iussu pontificis coronatus parvo tempore totius regni possessionem obtinuit. Vix autem confirmaverat rex adolescens regnum cum Hungariam vocatus hadriaticum mare trayecitı illique Sadre commoranti nunciatum est magnos in neapolitano regno concitare tumultus ad quos sedandos celerrime reversus nullius civititatis aut oppidi dominatum alicui de proceribus qui insidias regni instruxerant reliquit, familiam Sanseverinorum pene ad interrutionem delevit et dominio urbes totiusque Hetrurie preter Florentiam potius nondum transacta inventa veneno florentinorum et creditur artibus… periit nullo de se filio relicto.

Et in coronatione Ladislai iam decima nona continuata est ecclesiastici possessio iuris neapolitani.

Florentes virtute Ladislai opes hereditario iure regendas accepit Ioanna soror priori Ioanne impudicitiis facinoribus anteponenda. Et cum in formosi adulescenı tis amorem incidisset ad declinandam infamiam ex stirpe Francorum regum maritum nomine Iacobum Marche comitem sumpsit, pacta ut comitatus antiqui seu principatus tarentini titulo contentus ne regis sed mariti partes Iacobus ageret regnumque in administrationem mulieris remaneret; sed instigantibus regina inimicis non multo post amatus adulescens Pandufus supplitio capitale a Iacobo affectus est, Ioanna arcem castelli novi exire prohibita.

Eam vero iniuriam tam dissimulante regina tulit ut tractis in suspicionem Iacobi se regem appellantis his quos ipsa maxime aderat et illi capitis poenas luerint et liberata regina non multo post credulum maritum in carcerem detruserit; sed cum liberatum Martiniı quinti pontificis maximi interventu cum esse renovatum foedus nequicquam regine dignitas attigerat, agestabat gustata semel regnandi dulcedo. Inita recuperandi regni consilia retecta, conspiciens premio Tarentum mox in Gallias vitamque anachoreticam egit at regina, per stuprorum consuetudinem audentior facta et in voluptatum pelagus demersa, nequaquam incontinentiam premium tulit sed Brachio incontinenti Perusie tiranno multa in ecclesia moliente, Martinus Ioannae opem imploravit et magno italici equitatus a regina accepto auxilio eam neapolitanorum reginam coronavit sed cum missi a regina equitatus prefecti et Ecclesiae vexillifer Sfortia, suasum adulteri quem regina adamaı bat promisso stipendio fraudarentur, pontifex reginam regno privatam declaravit et Sfortia ad vertendum regine statum commisit, pace quibus potuit conditionibus cum Brachio firmata quod tantum terroris impotenti mulieris intulit ut ea confestim adoptaverit in filium Alfonsum regem Aragonum gestarum rerum gloria iam clarum; sed instabilis mulier, abrogata post modum adoptione Alfonsi, Ludovicum andegavensem adoptavit.

Hic Ludovicus neque coronatus neque confirmatus obiit eodem quo regina anno Eugenio quarto pontifice maximo et cum Neapolitani scripto falso Ioannae regimine testamento vocassent in regno Ludovici andegavensis fratrem Renatum qui in carcere ducis Burı gundiae servabatur. Non potuit Eugenius papa ad Ecclesiae oboedientiam regnum reducere, sed variantibus in Italia bellis cum omnes fere provincias Ecclesiae papa amisisset easque propria virtute et sumptibus recuperasset, Alfonsus aragoneus quem cuncti proceres regni et capuana civitas ad regimen flagitabat, illum Eugenius pontifex regni investivit neapolitani regem et in privilegio ordinavit ut Alfonsi filius Ferdinandus licet non legitimus, rex iustus, Alfonso succederet; quam ordinationem, Eugenii, Nicolaus quartus, successor confirmavit et cum per tempora Calixti tertii qui Nicolao successit Alfonsus diem obiisset, Calixtus regnum neapolitanum non ad Andegavenses qui nihil iurisı habebant sed ad Ecclesiam devolutum esse pronunciavit.

Qui statim successit Pius secundus [qui], supplicante Ferdinando, causam discuti rursus mandavit et de consilio et consensu cardinalium abrogationem factam a Calixto initam esse declaravit et confirmata duorum pontificum de Ferdinando ordinatione, misso cardinale legato ipsum Ferdinandum investivit et coronavit quam mox Sixtus quartus et Innocentius octavus pontifices approbarunt. Moriente Ferdinando Alfonsum eius filium legitimum Alexander sextus eum instituit et coronavit.

Quo brevi mortuo, cum Ferdinandus filius successisset investituram et confirmationem paterni regni obtinuit coronatione tamen caruit intra paucos menses vita orbatus et interim Francorum bellis agitatis sed qui illico successit Federicus Alfonsi secundi germanus ab Alexandro sexto investitus coronatusque fuit.

Ex premissis dico colleguntur et neapolitanum regnum per antiquam continuatamque possessionem item factum esse iuris ecclesiastici quod regum institutio ad solos romanos pontifices pertineat et reges aragoneos optimo iure ipsum regnum possidere, licet enim andegavenses duces bellum aliquando prioris regis Francorum stirpe oriundis et postea Aragonensibus intulerint non tamen romani pontificis decreto fuerunt coronati nisi fortasse allegatur quoddam privilegium quod dicitur ab Eugenio quarto fuisse Renato andegavensi consensum sed ferunt in illo privilegio appositas fuisse certas conditiones quas, postea cum Renatus minime servasset, Eugenius Alfonsum a proceribus regni petitum et premissum est investivit ac coronavit.

Cuius investiturae et coronationis Romana Ecclesia praemium tulit quod amissas provincias virtute Alfonsi recepit.

NOTE

a Così è nel testo, ma Michele detto Calafato, imperatore romano d’Oriente, quinto di questo nome (dicembre 1041 – aprile 1042).

b Così è nel testo, ma Braccio di Ferro.

c Evidentemente si confonde l’Emilia con la Puglia.

d Così è nel testo, ma Maniace.

e Così è nel testo, ma Abelardus.

a Sikelgaita sorella e non nipote di Gisulfo principe di Salerno.

a Al margine sinistro: legitimus altus feudi

a Così è nel testo; ma, Gulielmus.

b La parola è cassata.

a Così è nel testo, ma quarto.

a Così è nel testo.

b Così è nel testo, ma Anagniam.

a Così è nel testo, ma Pietro e Costanza non hanno un figlio di questo nome; si tratta, quindi, di Alfonso o, più probabilmente, di Federico, maggiormente coinvolto, quest’ultimo, nelle vicende del post Vespro.

a Così è nel testo, ma Martellus.

b In calce: tate richiamo alla pagina seguente dove, però non si ritrova, mentre il concetto viene ripreso con diverso costrutto sintattico.

a Così è nel testo.

Theodori Lelii episcopi feltrensis oratoris apostolici ad serenissimum regem Francorum beatissimi Pii pontificis maximi oratio in qua iustitia investiturae Siciliae regni defenditur et regi male suggesta purgatur. (Ms. Qq. B. 6, n.1 della B. C. Pa)

Exposituri apud pietatem tuam christianissime regum beatissimi Pii pontificis maximi amantissimi patris tui sacrique senatus sancte ecclesie romane mandata qui nobis nunciis suis vicem eorum presenti ac pro negociis qualitate dederunt pium et misericordissimum Deum qui auctor pacis habitare facit unanimes in domo supplices deprecamur ut religiose menti tue spiritum vere charitatis infundat quatenus iniquae suggestionis abstersa rubigine agnita veritate reconciliatoque animo his quae pro pacis reipublicae christiane pro iustitia apostolici culminis pro defensione catholice fidei suggesturi sumus studium ac mentem adhibeası deprecatio nemque sanctae matris ecclesiae actentis ac benignis auribus sicut princeps vere christianus accipias.

Nos enim persuasibilibus humanae sapientiae verbis innitimur, neque in blando aut palpanti sermone confidimus, sed in illo speramus qui humanorum conscius secretorum cum summa veritas sit, non sinat verba praevalere mendacii.

Speramus inquam in illo in cuius manu, testante sciptura, est cor regis qui ubi et quo voluerit potest inflectere.

Erigit nos pietas tua quae in honore Dei religiosissime ecclesiasticam diligit unitatem: scientes quantum Creator omnium Deus et rex universi muniminis fidei suae quantum praesidiis ecclesiae in tua clementia constituerit proinde nec illos imitabimur qui apud te vel alios reges loquuntur in regni gloriam, gentis opes natalium et excellentiam et eorum quos quaerunt illicere res gestas et fortia facta depromunt.

Hos enim nihil tute, vel mirandum vel magnopere extollendum putamus in regibus quod inter aeterna proveniens bonis et malis, iustis etı impiis humana plerumque est sorte commune regnumque nam terrenum ut beatus inquit Augustinus piis et impiis sicut ei placet ille dispensat, cui nihil iniuste placet.

Qui enim Hilario principatum reipublicae dedit ipse C. Caesari qui Augusto ipse Neroni impiissimo, qui Vespasianis patri et filio suavissimis imperatoribus ipse et Domitiano crudelissimo. Qui magno Constantino christiano et religioso ipse et Iuliano apostatae atque sacrilego.

Haec plane unus Deus iustus et verus secundum temporum vices meritaque disponit ut placet, et si aliquando occultis causis non tamen iniustis.

Quid est ergo quod laudandum aut efferendum putamus in regibus.

Illas certe regias principales virtutes quae reges ipsos et regna felicitant fidem et religionis iustitiam, pietatem quas tunc vere colunt si inter linguas hominum blandientium potentiam quoque et obsequia femulantium se homines esse meminerint si potestatemı divinitus acceptam ad Dei cultum maxime dilatandum ad fidem eius propagandam atque tuendam ad ecclesiasticam pacem unitatemque servandam dedicent atque devoveant.

Nihil est inquit Iustinianus lex quod lumine clariore praefulgeat quam recta fide in principe.

Nihil quod ita nequeat casui subiacere vera religio.

Namque cum auctorem iuris utraque respiciat recte tenebras respuunt et nesciunt subiacere defectui.

Proinde audi piissime rex quid in progenitoribus tuis vir per omnia sanctissimus Gregorius doctor illustris Spiritu sancto plenus extulerit ut si priscorum est genere gloriandum non tam origine sanguinis aut regni haereditate quam imitatione religionis et fidei in Domino glorieris.

Is itaque scribens decessori tuo Childeberto regi Francorum talibus cum verbis affatur : - Quanto – inquit – caeteros homines regia dignitas antecedit, tanto caeterarum gentium regna regni vestri culmen excellit.

Esse enim regem quia sunt et alii quid mirum est sed esse vere catholicum quod alii non moerentur hoc summum est.

Sic enim magnae lampadis splendor in tetrae noctis obscuritate luminis sui claritate fulgescit, ita fidei vestrae claritas inter aliarum gentium obscuram perfidiam rutilat ac coruscat.

Quicquid autem habere se reges ceteri gloriantur habetis, sed ipsi in hac re vehementius superantur quam hoc principale bonum non habent quod habetis.

Idem quoque scribens Brimichilde regina Francorum in similia verba consentit : Non immerito – inquit – contigit ut regnum vestrum cuncta gentium regna praecellere, quippe quod earumdem gentium conditorem et pure colit et veraciter confitetur.

Sed ne illis de laude humana elati vita surrepat protinus verba admonitionis adiunxit inqutens, sed ut laudabilius in eo fides cum operibus enitescat curandum est ut sic sublimem filium vestrum inter homines potentia regalis ostendit.

Ita ante Deum magnum faciat bonitas actionis.

Unde et alibi Theodoricumı et Childibertum Francorum regem simili admonitione convenit cum regni vestri, inquit, vestri nomen inter caetera gloria christianae religionis effulserit valde audendum est ut unde gloriores caeteris regibus eminentis inde omnipotenti Deo qui dat salutem regibus perfectius placeatis ut fidem quem colimus adiutricem in omnibus habeatis, dices fortasse clementissime rex quartum haec tam longo repetito principio, nempe ut intelligas nec debere, nec velle Christi sacerdotem atque pontificem regiis auribus assentari nec palpans aliquid adulatoriumve proferre qui regnorum communes casus vicissitudinesque protulimus qui non sublimitatum terreni regni, sed gloriam religionis et fidei in regibus tantum censuerimus commendandam neque propterea te felicem dicere nec praedicare quia maximum atque amplissimum regnum inter christianos obtineas quia hostes saepeı magna virtute domueris, quod adhuc puer rei militaris effulseris, quod domesticas insidias hostesque intestinos adversus te odio laborantes magno ac forti animo superaveris.

Sed ob id solum quod priscos tui generis reges fide et pietate aequaveris, aliorum vero regnorum omnes facile superaveris, quod te ad defensionem catholicae fidei devotus obtuleris, quod Spiritu Sancto docente, didiceris illi quae omnia potestatem tuam subyceri cuius munere et protectione dominaris; qua religione ac pietate freti, apostolica quantum Dominus permiserit executuri mandata ad omnem iniquae suggestionis caliginem elimandam prout mutui amoris causas inter apostolicam sedem et Francorum reges inviolabilemque necessitudinem explicabimus dehinc male et perperam tuae pietati suggesta purgabimus cum vere pontificis maximi eiusque senatus pro communis fidei salutisque periculo supplicationem piissimam annectimus.ı Quamvis sancta et apostolica romana sedes pro credita sancti dominici gregis aeterna et incommutabili dispositione pastura omnibus regnis ac gentibus curam gessit sollicitudinis pastoralis impenderit ac verbum salutis ac fidei erigitur in populis seminaverit nullius tantum gentis ac regni specialius curam gessit quam gentis regnique Francorum quos tamquam peculiares filios primum regeneratos in Christo sacris monitis semper erudiens qui omnem enutrivit aetatem.

Nam evangelium Christi ac Petri sedes primum Gallis nunciatum deinde per fideles ministros ab apostolicis viris emissos propagatum et auctum et veterum declarant annalia et beati pontificis ac martyris Innocentii decretalis testatur epistola.

Ita enim inquit in canone : - Manifestum est omnibus per omnem Italiam Gallias, Hispaniam et Africam nullum instituisse ecclesias nisi eos quos venerabilis Petrus apostolus aut successores eius constitueruntı sacerdotes neque enim in his provinciis alius apostolus invenitur aut legitur docuisse ab ea; namque sede illustres et beatissimi martires Dionisius, Rusticus et Eleuterius ad Parisiorum civitatem, Paulus Narbonam, Fotinus et Hireneus Lugdunum, Marsilis Leomonicas Aquitanae, Eutropius Sanctones, Vositinus Beturices et alii ad alias directi sunt urbes qui verba vitae in populis cum lachrimis seminantes multiplicatam segetem cum exultatione messuerunt.

Praedicationem namque suam sanguine confirmantes qui electa grana in terra in terra vestra cadentia fructum uberrimum reddiderunt. Et de illis praeiactatis seminibus cum pulcra seges ecclesia pullulavit atque illi sedi parum fuit fidei fundamenta iecisse verbumque seminasse salutis, nisi etiam irrigatione continua et multiplicem redderet et incorruptum inviolatumque servaret licet enim pro cunctis ecclesiis que ad unum Christi thalamum referuntur pia materı inpigro semper vigilaris effectu et iuxta sancti verbi rectoris quotidiana instantia et omnium ecclesiarum eam sollicitudo decoxerit in maiorem tamen pro Galliarum ecclesiis curam sollicitudinemque substinuit, ne qua illas labes persiana macularet si quando causas pestis heretica inficere tentavisset vel aliqua doctrinae perversitas contigisset continui sentiens mater sua membra lacerari filiorumque flagrans incendio catholicae fidei saneque doctrinae medicamenta praestabat et namque solertius alumnis suis impendebat opem quo maiore pro illis sollicitudine torquebatur quos per evangelium ipsa genuerat talique solertia protegente Deo alma mater filiam quam virginem uni viro responderat Christo domino inviolatam incorruptamque servavit et inde effectum est ut gallicana ecclesia Petri magisterio imbuta et ab eius successoribus erudita post suscepta verba salutis neque haereticae pravitati nec perfidiae paganae succumbere.

Ipsos vero Galliarum reges tamquam propria viscera apostolica sedes dilexitı et fuit quorum salutem sollicitudine pastorali curavit eos siquidem salutaribus monitis instruere et sacris disciplinis ad religionem, iustitiam et pietatem monere et erudire non destitit sicut beatissimi Gregorii ad Childebertum ac Theodoricum atque aliorum ad alios apostolicorum frequentes patrum testantur epistolae, procedente vero tempore cum per segnitiem sobolis degenerasset a patribus in novam illustrioremque progeniem Francorum regnum innovavit.

Pipinum namque cuius generi et sanguine olim regia Francorum domus effulsit, amoto inutili rege atque degeneri quo solo nomine praesidebat ex praeposito regiae aulae apostolica sedes ad regiam sustulit dignitatem omnemque posteritatem ipsius benedicens ad ius ac successionem regni provexit. Nec isto contenta mater de filiorum honore sollicita an destitit quam imperii gloria quae obnigratis Graecis ademerat Francorum reges illustraret.

Carolum nempe Pipini filium Leo eius nominis tertius imperii titulo ac diademate insignivit.

Quo factum est ut Francorum reges Gallis, Germanis multisque provinciis dominantes per multa temporum curricula imperium feliciter gubernarent. Talibus in priscos reges sancta romana ecclesia exorsa muneribus etiam in posteriores beneficentiam prosecuta est quoties enim Francorum reges aut regnum intestina aliqua clades vel externa pulsasset omne studium reparandae pacis adhibuit nec prius destitit quam per se ipsam aut suis legatis pacem tranquillitatemque curaret.

Hac quidem et alia pleraque quae numerare difficile foret extant in filios matris officia historicorum litteris monumentisque publicis comendata.

Quibus profecto beneficiis generosi filii erga matrem non fuerunt ingrati quin imo saepe numero vices uberrimas retulere.

Mirabilis enim fuit erga sedis apostolicae reverentiam antecessorum tuorum amor et studium quam magnis muneribus extulerunt beneficiisı ampliarunt eam aliquando diutina Longobardorum tirannide oppressam liberarunt pontifices gravissimis persecutionibus ac scismatibus laborantes iuverunt atque foverunt eius votis annuerunt instituta atque decreta perficienda mandarunt legibus quoque publice promulgatis ipsius fidem doctrinamque servandam decreverunt in quo genere devotionis atque oboedientiae salutares.

Tu clementissime rex omnes decessores aequasti aut si vera eloqui volumus superasti.

Nam cum causantibus scismatibus ecclesiasticisque dissidiis dilecta filia maternum uterum quibus ablactata fuerat in Christo aliquanto videretur oblita.

Ac propterea ab integritate verae oboedientiae matri debitae paululum decidisset decreta quaedam illius sublimissimae sedis dignitatem deprimentia suscepisset tu mox regnum adeptus pristinam dignitatem ac preheminentiam sanctae apostolicae sedi integre reddidisti piissimeque decreto constitutionem illam quam pragmaticam nuncupabant abrogandam libereı censuisti.

Pro qua re quanto gaudio de amantissimi filii devotione ac pietate alma mater exultavit in Domino vix humana posset lingua narrare.

Nemo enim fuit apud ullam sedem existens qui tantae fidei devotionem pietatemque collatam in matrem summis laudibus et praeconiis non extulerit omnes uno ore melius tibi quam Iustiniano Augusto illud praeconium deferebant quam in comendationem similis pietatis Ioannes papa deprompserat. Inter claras – inquit – tuae sapientiae et mansuetudinis laudes christianissime principum nichil est quod puriori luce tamquam aliquod sidus irradiet quam quod amore fidei et studio charitatis edoctus ac ecclesiasticis disciplinis imbutus romane sedi pristinam reverentiam restituens et ei cuncta subieceris et ad illius reduxeris unitatem ad cuius auctorem hoc est apostolorum principem Domino loquente praeceptum est: pasce oves meas; quam esse ecclesiarum caput et patrum regula et canonica iustituta declarant et clementiae tuae piissimi testantur affectus.

Impossibile esset spiritualem iucunditatem et laetitiam amantissimi presentis tui pii pontificis maximi sacrique senatus ecclesie de fidei tuae perspecta sinceritate referre cum sancta romana ecclesia iuxta Isaiam germinas germinaret et exultaret laetabunda et laudans ac decernente pontifice pro te pia vota dependens illud propheticum Domino concinnebat: Tibi abundet coelum desuper effundant montes iucunditatem et colles laetitia exultent. Pro his meritis pro devotione pietateque tua pro fidei puritate pro reddita sibi debita honorificentia spiritualia suffragia et acceptissima Deo sacrificia quoti die devota mente rependit.

Licet enim pro omnibus qui in sublimitate sint positi iuxta apostolicum praeceptum sacrosancta romana ecclesia assiduas preces effundat pro te tanto specialius obsecratio nec et gratiarum actiones excoluitı quotidianis sacrificiis exorans Dei nostri clementiam ut longevis et pacificis te dignetur custodire temporibus et in hac vera religione ecclesiastica unitate et apostolicae sedis veneratione conservet.

Iam igitur accepisti piissime rex quanta cum apostolica sede fuerit et semper Deo propitio futura sit vel tua vel progenitorum tuorum vel totius gallicae gentis necessitudo quam et Christi regeneratio et praedicator evangelii et beneficiorum collatorum vicissitudo ita devinxit ut non solum regibus sed omnibus Francis veluti fidei suae alumnis sancta romana glorietur ecclesia vos illi corona ut apostolus ait vos gaudium sitis in Domino.

Pro quibus cum fiducia quotidie Dominum interpellat ac dicit: Pater sancte conserva eos in nomine tuo quos dedisti mihi huic necessitudini Christi glutino copulatos quam poterit unquam humana cognatio comparari.

Novimus enim vincula spirituumı arctiora esse quam corporum et maiorem animarum cognationem esse quam sanguinum.

Quis ergo nisi demens et impius individuam charitatem tentet infringere matrem a filiis nutrices ab alumnis filios a parentibus separare. Cum non possit mater testante scriptura filios oblivisci verum invidiae sator et odii umani generis inimicus ubi malora cernit charitatis vincula illic potis imum satagit zizaniae germina seminare quaerit amantissimi filii erga parentem disiungere charitatem modo parens odio, modo sanguinis iniuriam suggerendo sed frustra sortiti frustra moliti soliditas animi atque constantia regis animi supra firmam petram eradicata ventis atque turbinibus quati non potest.

Suggerit inquam per iniquos susurronesque ministros… pontifici summo non modo pietatem tuam sed universum Francorum genus invisum. O invidia et rabies hominum iniquorum quis hoc credat? Patres peculiares filios quos romana ecclesia parturivit in Christoı odio prosequi posse? Quis optinetur nisi ab iniquo animo et pharisaica perfidia mala pro bonis odium pro dilectione posse retribui? Qua ratio qua causa ad id rectum et moderatum animum posset inducere? Si non vera verisimilia saltem confringere mendaces solent ut causis propositis simulatum detrahendi aditum inveniant. Sed hillic nullus calor veri potest adesse mendacio odit inquit et contemptu habet pius pontifex maximus gallicum nomen regnique Francorum. At illum omnis gens omnis lingua et natio quae ex adversis orbis partibus apud apostolicam sedem et commoratur et convenit concionantem adivit quanto pro delata provectione tua abrogataque pragmatica publice gratulationis ferias cum celebri sacrorum pompa supplicationesque decerneret.

Te ac regnum tuum tantis laudibus extollentem ut incertum sit an audientes ad amorem tui nominis vel potius ad quantam admirationem induxerit licet enim tuae virtuti par et condigna esset oratio gloriosumı tamen fuit cuique vel maximo ac optimo regi tanti pontificis ore velut divino oraculo celebrari unde nemo in frequentissimo illo conventu fuit qui hoc et gloriae et felicitati tuae esse non duceret ut Nestor aiebat a probatissimo laudatissimoque laudari multo dignius tibi Pii pontificis quam Achillus Homeri praeconium inveneras.

Hoc tamen cumulatum tam exuberans amoris testimonium si quis calumnietur ac dicat non ex corde processisse continuo audiet Salvatorem in evangelis protestantem.

Bonus homo de thesauro cordis sui profert bonum et ex abundantia cordis os loquitur verum aliud ea summe caput intendunt in iniuriam tuam atque contemptum pro hoste generis tui contra consanguineum pro Ferdinando rege arma suscepta.

Adesto nunc piissime Iesu veritatis et agnitor adesto inquamı rerum scrutator et cordium et innocentiam tuere pontificis tui adversus eos qui cogitaverunt supplantare gressus eius et sermonibus circumdederunt eum.

Adesto rex regum in cuius manu sunt corda regnantium et quae pro iustitia sedis apostolicae dicturi sumus regiae menti nutu tuae aspirationes infunde quia incassum terram cordis vomere nostrae linguae prescinditur nisi celestis raris aspersiones intrinsecus infeudatur.

Tu vero clementissime rex paulisper obsecro aequanimitatem tuam et nationem exerce sepone interim amorem necessitudinis iram atque amicitiam quae humanum pervertere consuevecre iudicium.

Isthic obtestor te facilem et aequum iudicem praebe amatoris enim iusticiae indicium est non tamen veritatem patienter audere sed ipsam velle modis omnibus invenire sed in primis mansuetudinem Pii pontificis animadvertere tene ut nosti eum Loctim in terris ab hominibus exigi et iudicari non debeat nec alicui mortalium obnoxius est sui facti vel consilii reddereı rationem nempe ut beatus Simanchus ait aliorum hominum causas Deus voluit per homines terminare sed sedis ipsius praesulem suo sine questione reservaevit arbitrio.

Voluit beati Petri successores ecclesie enim debere innocentiam et subtilissimi discussoris indagini reservavit.

Hic tamen nullius subiectus esamini apud pietatem tuam sui facti non recusat reddere rationem.

Damasi beati pontificis humilitatem imitatur qui non renitit coram omnibus ecclesia de his quibus indigne criminabatur suam innocentiam expurgare. Sixtum insequitur qui Valentiniano augusto Simanchum qui Theodorico regi de calumniis quae inpongebantur nullo quidem debito ac ut ipsi in canonibus ..tiori prescribentes legem caeteris ut id in futurum cogerentur facere sola humilitate satisfacere voluerunt non isthic nos narrationes ordinem prosequemur callidis oratoribus ista relinquimus brevem narrationem cautamque proponere et inde loca ad conformandum vel refutandum artificiosa requirere.

Non eget veritas lenocinio huiusmodiı fucoque sermonis unde et dispositiones oratorio ordine premissis solum quae unicuique rei necessario inciderit suo loco narrabimus.

Insuper non est nostri propositi priorum pontificum concessiones et facta discutere vel eorum iustificare decreta set nobis erit Pium modernum pontificem qui veluti primus auctor iniuriae criminatur a calumnia et detractione purgari eum.

Vero ut ad rem veniamus quare in Pium pontificem alienum factum intenditur quare de alterius vel facto vel incuria criminatur.

Eugenius 4s pontifex maximus Alfonso Aragonum regni Siciliae titulum investituramque concessit nec solum investivit illum sed ius quoque Renati regis cassavit et substulit Ferdinandum naturalem filium ad successionem regni legitimavit.

Haec si solus fecisset Eugenius non debuisset forti unius facti exemplo transire verum hoc et Nicolaus Vs ex certa scientia confirmavit atque certum velut pignus de regni successione Ferdinando daretur foedus eius decreto atqueı consensu urgente metu Turcorum initum est quo omnis Italiae potentatus sub iuris iurandi sponsione comprehensi sunt et romanus pontifex foederis caput conservatorque designatus extitit in quo quidem non solum Ferdinandi Alfonsi filius comprehensus est, sed regni successor cunctis annuentibus opemque spondentibus decretum fuit.

Hoc inquam foedus et Calixtus IIIs qui Nicolao successit apostolicis litteris confirmavit.

Non nos ista confingimus sed quae toti Italiae notoria sunt dicimus quae facile possunt publicis monumentis ostendere.

Rebus ita formatis et publico Italiae consensu decretis cum ut premisimus Eugenius investisset Alfonsum Ferdinandum non solum legitimasset sed decrevisset heredem Nicolaus et Calixtus confirmassent et se et successores foedere contraxissent.

Pius pontifex sicut Domino placuit in apostolato successit quo mox assumpto Italiae principatus Venetorum senatus Insubrium dux florentinaı comunitas et reliqui foedere comprehensi se pro Ferdinando continuo declararunt servare foedere investiri Ferdinandum exposcentes quorum aliqui etiam ante concessam investituram legatos ad Ferdinandum qui iam homagium parente defuncto a regni proceribus et fidelitatis iuramenta susceperat et regni possessionem obtinebat tamquam ad regem honorandum salutandumque miserunt.

Dic obsecro clementissime rex quid facere poterat aut debebat post decessorum facta successor.

Nun quid poterat aut debebat predecessorum suorum statuta convellere foedera totius Italiae disiungere iusiurandum successorum quoque nomine praestitum violare.

At certe legerat Pius pontifex pridem in canone iustitiae ac rationis ordinem suadere ut qui ei successoribus desiderant sua mente servari decessorum suorum procul dubio voluntatem et mandata custodiant.

Quod si dicant eum debuisseı priorum potius decreta et statuta mutare continuo illud beati Gregorii de registro proferetur: - Si ea destruxerim quae antecessores nostri statuerunt non constructor sed accessor esse iuste probarer testante veritatis voce quae ait regnum in seipsum divisum non stabit et omnis scientia et lex adversum se divisa destrueretur.

Quod si insistant non debuisse tam facile prosilire sed omnia prius examinari et matura ac diligenti ad rem tantam consultatione procedi.

Audiant et intelligant omnia iuste discussa non solum priorum pontificum concessiones et foederum in medium deducta.

Sed temporis quoque instantisque periculi habitam rationem quam solet et debet in ancipiti consultatione versari.

Mortuo Calisto Iacobus Picinenus relicto bello quod adversus Sigismundum Malatestam primo pro Alfonso deinde pro Ferdinando gerebat hostem se ostendens ecclesie ascissum urbem insignem Gualdum oppidum illiusque arcem munitissimam ac Nuceriam occupat civitatem qua subita irrutione caeterae urbes dictionis ecclesiae metu periculosae erant praesertim cum aliae quoque munitiores arces a Catalanis tenerentur interrogati oratores regis Renati qui aderant si quam opem in tanto rerum periculo spondere possent nihil respondere potuerunt quod spem opportuni praesidii videretur afferre contra Ferdinandum Picininum tum suum ducem cohibere ipsumque ad arma deponendo et ablata reddenda compellere promittebat erat sane causa probabilis cum alter rebus afflictis succurrere detractare in altero esset spes certa praesidii illi potius gratificandi per quem ab imminenti exitio relevari posset ecclesia.

Haec olim causa inter ceteras imperium Graecis ademit et in Carolum unde antecessores tui originem duxere iure optimo transtulit cum illi oppressae ecclesiae Longobardis qui ipsius terras invaserant ferre opem interpellati negligerent alterutri praestaretı declaraverat pridem Calistus Alfonso rege defuncto regnum ad ecclesiam libere devolutum propter quod illi vis erat pro suo nutu disponere.

Consultabatur quid de feudo devoluto sine alterius iniuria immo cum reservatione alieni iuris si quod in futurum quispiam sibi competere declararet pro rerum et temporum qualitate factura esset ecclesia.

Ferdinandus investituram patris cassativam iuris Renati suam legitimationem ad regnum foedus Italiae quo fuerat successor ipse decretus afferebat in medium praesidum afflictis rebus ecclesie per quod tirannus vel invictus reddere compelleretur ablata spondebat commemorabatur patris merita qui personaliter pro ecclesia militans provinciam Marchiae praecipuum peculium ecclesiae sua industria ac propriis impensis ex manibus occupantis ereptam ipsi ecclesiae restituerat.

Ad haec instabant legationes Italiae… quiaı enixius exposcebant ipse Ferdinandus iam omnium consensu tamquam patris successor a proceribus regni susceptus erat in regem relata sunt haec inter patres qui senatum ecclesiae representant omnibus gravibus diligentissimeque discussis omnium fuit una sententia Ferdinando investituram deberi ac sine iniuria cuiusque posse concedi a qua nec unus quidam a sacro illo ordine discrepavit si vera fateri voluerint.

Nec enim quicquam adversari videbatur illi sententiae in qua honestum tutum utile concurrebant reservatum est tamen ut prediximus in concessione Ferdinandi ius Renati regis illesum si quod sibi in futurum competere demonstraret quo nihil equius poterat fieri atque benignius. Missus est igitur cardinalis de Ursinis qui decreta pontificis senatusque consulto Ferdinando regni diademateı coronaret suscepto homagio quo et vassallus domino et dominus vassallo lege feudali invicem constriguntur.

Interea Pius pontifex studio defendente religionis et fidei in maximo periculo constitutae invalido licet et pene confecto corpore Mantuam profectus conventum principum celebrabat.

Cumque spes optima foret pacata Italia contra Turcos maximam atque potentissimam expeditionem preparando ecce subito rex Renatus interceptus triremibus quas cardinalis… legatus ex decimis atque oblationibus fidelium ad defensionem fidei in Rodano fabricaverat et armamentis instruxerat per illustrem filium primogenitum suum armis regnum invadit et pacem totius perturbat Italiae.

Quo effectum est ut omnes tractatus pro fidei causa habiti frustrarentur in cassum quae procederent.

Pontifex indigne ferens se spreto atque contemptoı ac repudiata via iuris quam ipse in mantuano conventu inclite memoriae pactis tui atque ipsius Renati legatis abtulerat viam facti fuisse pereptam per archiepiscopum ravenatensem tum tituli Sancti Clementis cardinalem ducem Ioannem orat et monet ut vel ad tempus arma deponet quoad de iustitia vel pace tractetur illi se ad bellum non ad pacem tractandam emissum dicens non modo inducias sed salvum conductum illi negavit Ferdinandus quidem investitus et regni possessionem pacificam adeptus videns se non tamen in pene turbari sed vi armisque retrudi requirit feudi dominum ut vicissitudinem ad quam lege feudali tenetur prestet officium requirit tamquam vassallus quorum ac inter concedentes iudicem et cognitorem videlicet iudicio sesti euandetı viamque facti prohibeat.

Hic obsecro clementissime paulisper aequas aures accomoda non ego istihic dicam quod omnibus natura infinitum est opus suum diligere atque tueri et fictoris figmentum ne violetur velle servare idque exemplo licere illius omnium plasmatoris qui creaturam quam condidit et summa providentia regit et infinita bonitate conservat. missa haec facio ad quae animus naturaliter inclinatus sed persequitur illa communia quae et iure gentium iuxta ligamina quae dicuntur est certae boni et ac aequi iudicis viam facti interdicere arma prohibere et lites dirimere et litigantes vel inuctos ne rixae vel scandala concitentur ad pacem transactionemque compellere id docet pontificem convenitque curare inter omnes sed in re feudali magis licet ne res ecclesiae armis belloque vastentur.

Rursus omnes leges omnesque legittime sanctiones possessores tuereturı et fuerunt vetantes eos facto detrudi propterea eis interdicta concedunt quibus et vim turbativam arceant et possessionem spoliati recuperent at ubi possessoris ius maius intenditur boni et aequi principis est manum apponere et si imperio nequeat eum vi repellere hoc in tuo regno novimus observare non modo in prophanis atque secularibus rebus sed etiam ecclesiasticis et spiritualibus ut regii magistratus viam facti cohibeant arma interdicant possessores tueantur unde etiam cognitionem possessoris sibi veteri more vindicarunt quod si inferiores magistratus id iure faciunt inter privatos quid principem et dominum feudi facere convenit inter eos qui de feudo contendunt. Quid tui iustissime rex inter duos duces aut principes facturus esses de principatu coronae tuae subdito de feudo ab oste dipendente certantes et alter alterum possidentemı armis invaderet et te viam iuris offerentes mandante atque denunciante non solum arma deponere sed vel breves inducias concedere recusaret excute moderatissimi animi tui aequitatem hoc est enim naturae lex verbo veritatis in evangelio comendata quacumque vult et faciant vobis homines facite illis et dignum est iam lege in alterius principatu eam legem et alterius principatu non improbare quam in suo regno velit quisque servare accedebat quoque in pontifice necessitas tuendi vassallum ne ille servitium exhibere et censum solvere legitime recusaret et ipse iure vassallagii privaretur non nostro sensu ista proferimus audiat maiestas tua quid lex dectet in feudis quam inquit non sufficit obtinere a malo nisi fiat quod bonum est restat ut et consilium et auxilium domino suo fidelis prestet si beneficio dignus videri vult et salvus esse de fidelitate quam iuravitı atque post subditur dominus quoque fideli suo in his omnibus vicem reddere debet quod si non feceret merito censebitur male fidus sicut ille qui in eorum prevaricatione vel faciendo vel censendo deprehensus fuerit perfidus et periurus.

Quis ergo Pium pontificem arguit? Quis iure condemnet quod ad vim reprimendam ad possessorem tuendum ad fidem mutuam vicissitudinumque vassallo prestandam perfiduo Ferdinando transmiserit qui si interpellatus non prestasset nec equi iudicis nec veri domini functus fuisset efficio et fedifragus ac male fidus regali canonicaque sententia merito reputari potuisset intellexisti iam ut arbitror sapientissime rex pontificem maximum iustissimis causis fuisse permotum opem ferre Ferdinando non ut detractores aut maledici suggerunt iniuriam tuamı arma suscepta quomodo enim in tuam iniuriam id fecisset qui priusquam proveheres ad regnum immo quando domestica invidia extorerat e regno ille pacis ac induciis frustra tentatis defensionibus a se instituti regis te non improbante suscepit quod vero te ad regnum evecto litteris tuis morem non gesserit nihil se putavit iniuriam fuere quandoquidem et fides italici foederis et obligatio iniuriae et defensio debita vassallo quod prosequi coeperit compellebat emotalion tuam mansuetudinem talem clementiam animi aequitatem reputavit et reputat uti nusquam illum aliquod facere contra fidem prestitam contra iustitiae debitum contra decus apostolicae sedis astringere eum non modo inter patrem et filium apud christianos sed etiam inter pares apud gentiles haec prima lex in amicitiaı sanciatur ut ab amicis honesta petamus amicorum causa honesta faciamus verum qui moderatissimum animum tuum contra pastorem et patrem animae tuae provocare conantur eum revincere nequeant quia praediximus alio divertuntur concitantes invidiam atque dicentes saltem expetitas treguas ac inducias negari neque non debuisse hic neminem alium testem nisi tuum mansuetissimum pectus tuam sincerissimam conscientiam Pius pontifex appellat et invocat.

Tu inquam benignissime rex locuples testis es eum nec in prosperis nec in adversis regis Renati rebus inducias habuisse noni cum tui legati initio tuae provectionis emissi quo tempore aeque pene marte contendentis de regno certabant potuissent praesidia ecclesiae revocari et pontifex diceret se id sine transgressione fidei publicoque dedecore facere non posseı obtulit tantum pro humanitate treguas induere quibus pendentibus de iustitua vel concordia tractaretur quas si Ferdinandus annueret ipse suas copias ac praesidia revocare eius oblatione probe meminisse debet pietas tua siquidem eius rei cedula fuit una confecta et tuis oratoribus tradita serenitati tuae exhibendam et hac secunda fuit treguarum oblatis eum pridem fuissent ut supra rettulimus a duce Ioanne initio belli petiti et propter spem quem conceperat celeriter potiundi regni refutata postque missos ferrariensis episcopus mentem pontificis circa expeditionem in Turcos secreto tuae pietati denunciares praesidiaque pro fidei causa requirens eadem de treguis oblata repetiit cui celsitudo tua promisit se legatos emissuram qui apud pontificem de veroque tractarent advenere tandem diutissime expectati legati sperantes forsitan inter moras temporumı certam victoriam Renati partibus successuram.

Sed cum res preter spem evenissent ut profligato exercitu Picininii acceptaque ingenti clade apud Troiam Apuliae res Renati afflicte Ferdinandi multo superiores effectae fuissent mutata rerum conditione mens non fuit immutata pontificis et licet Ferdinandi legati supplices tum lachrimis obtestarentur ne certam victoriam intermictere per inducias cogeretur praestitit tantum immobilis pontificis animus dicens se promissa velle servare et treguas indicere quas nisi amplecteret praesidia ecclesiae sibi nosceret de futura pro inde eligeret quid rebus suis magis conducere arbitraret vel induciis annuere vel praesidi suo omnino destitui.

Tali eo in sententie persistente… est tandem Tuderti ubi pontifex peste urgente secesserat ad treguarum tractatus.

Nam auxiliis contra Turcosı legati nichil se in mandatis habere dixerunt quod animum pontificis maximi contristavit prima igitur esse de tempore orta difficultas; nam pontifex tales necessarias putabat inducias per quas causae fidei consuli posset ad quod dicebat triennales minime sufficere et vix quinquennales suffecturas quibus ad tantam belli molem exercitus cogi pecuniae exequiri auxilia arcessiri et immanissimi hostis potentia contiri posset.

Contra vero Renati oratores nec annuales indulgere volebant quae nec causae fidei nec paci tractandae quomodolibet profuissent neuter enim contendentium pro tam brevi tempore vel exercitum dimittere vel arma deponere voluisset fuisset gravius expectatum interea quam illatum bellum tandem ut pontifex ut Deum et homines testari posset per se non defecisse etiam in quadrimestres inducias concessisset ad finemı et interea longiores tractarentur nisi alea perniciosissima et fidelibus animis execranda difficultas fuisset aborta agebatur de treguis ineundis inter contendentes de regno subditos atque obedientes utriusque de auxiliaribus quoque copiis revocandis si partes conventa pontificis non observassent et ecce sator zizaniae diabolus suo membro prospiciens Sigismundum Malatesta romanae ecclesiae productorem heresis publice condemnatum foedere volebat includi.

Exorruit sane pontifex perfidissimum hominem hostem fidei christianae religionis apostatam de heresi damnatum filium Belial foedere quod cum christianissima Francorum domo tractabatur vel treguis quae inirentur includi.

Quae enim partecipatio est ut inquit apostolus iustitiae cum iniquitate. Quae societas lucis ad tenebras. Quae autem conventio Christi ad Belial aut quae pars fidelisı cum infideli.

Quomodo enim poterat princeps fidei vel treguis fidei eximie coniungi eum [si] Dominum audiret in Deuteronomio terribiliter comminantem: Non inibis cun eis foedus neque misereberis eorum sed percoties eos usque ad internicionem. Reges universique princeps adversus hereticos et scismaticos adversus apostatas e fide tenentur exurgere et gladium quem ad vindictam malefactorum laudem vero bonorum portant exercere et cervicibus superborum imponere vero illi pacem hereti codare vindictam remicti pro qua finires et Eleazarus glorificat sacerdotes.

Immo et foedus cum eo adstringi petebant.

Quomodo communicare papa potuisset in treguis heretico quem quotidie ecclesia anathematizat in canone communicasset utique quando quidem treguae ipsius nomine atque decreto firmandae atque indicendae erant.

Quomodo audisset vocem discipulus magistri hereticum hominem post primam et secundamı correctionem devicta quia subversus est huiusmodi et perenniter peccat in seipso damnatus prisci illi sanctique pontifices a mundi regibus atque tirannis minis et terroribus impulsum quam nec una communione haereticorum coinquinati ustuerunt quin potius exilia mortes omniaque martiria pertulerunt nec quomodo libet parteciparent hereticis.

Liberius et Felix ob hoc in exilium acti a Constantino Silverius atque Vigilius squalorem carceris caedes ac penales erumnas vitare potuissent et si parcere et restituere voluisset Artemium Martinus romanae ecclesiae pontifex et martyr insignis exilium proscriptionemque durissimam evitasset si iubente imperatore vel typo consentire vel Paulo constantinopolitano haeretico una partecipatione communicare voluisset.

Sed maluerunt viri sanctissimi omnia potius perpeti quam damnatis haereticis quomodo libet commisceri debebat.

Qui Pius hereticum impenitentemı in foedus accipere apostolorum heres et priscorum pontificum non tam honoris quam fidei constantiaeque honoris quam fidei constantiaeque successor intelligis fidelissime rex sancte et benigne accusatum fuisse ut infidelis fidelibus iungeretur.

Credit namque pontifex maximus numquam tibi ortodoxo et christianissimo regi suggeri posse ut aliquis tui sanguinis foedere heretico coniugati.

Iam igitur circa treguarum articulum intelligit mansuetudo tua verissime ut caeteres refutatam esse calumniam et numquam treguas vel inducias belli a pontifice fuisse negatas quin potius ipsius belli initio cum fidei causa tractaretur magno studio fuisse petitas.

Sed quia tunc multo superiores Renati partes videbantur fuisse repudiatas audisti oratoribus qui tuam provectionem… obvenerantı cum aequo marte utriumque pugnari videretur ultro oblatas intellexisti immutatis rebus inclinataque Renati parte licet Ferdinando preiudiciales atque officiosissime viderentur eo etiam renitente promissas. Sed haereticus proditor atque damnatus includi patenter iuxto consilio declinates idem ergo et in prosperis et in adversis Renati rebus fuit Pii pontificis animus constans immobilis inquirens pacem et prosequens eam. Et ecce iam Deum et sanctos angelos contestatur neque belli initio neque medio neque fine nec aequo nec iniquo morte per illum pacem aut inducias defuisse nec defuturas si Renatus rex illas et nunc voluerit complecti ecce in quantum quam pridem tractatus concordiae signa interventu tuae mansuetudines perfici potest in presenti non annuit.

Sed omne studiumı cum celsitudine tua pariter adhibebis quod si concordia sequi aut separari non possit eo quod humana sorte omnis potestas impatiens videatur esse consortes.

Viam tum in regiam quam semper proposuit nunc quoque offert iuris ac iustitia in qua fidem ad omnem calumniam confutandam talem iudiciis formam faciemque proponit ut nulla a quavis partium supplicio possit impingi atque spe huiusmodi vel concordiae vel iudiciis sequuturi quas semper obtulit easdem etiam aequioribus conditionibus offert inducias in qua re non putet sanctitas tua me tantum verba pretendere quam haec ipsa sine culla mora operibus exibebimus cum ad firmandum conditiones quas nullus digne improbare poterit si opportune hoc tempore videantur mandatum plenum ego pontificis legatione fungens attulerim quod et nunc coramı Deo vivente et in extremo illo iudicio ante eius tribunal proferemus ubi patebunt abscondita cordium pandetur qua mente quis vixerit intelligetur per quos pax christiana deficerit et quos calumnias sevunt et alios iniquo iudicaret iudicabuntur coacti sumus paulo altius exordiri dum mansuetissimum animum tuum quotidianis vel querulis vel criminationibus pulsatum ad solitam aequanimitatem et filialem affectum reducere studemus.

Ea enim postrema nobis causa videbitur agenda quam necessitudo sanguinis perurgebat.

Reliqua vero tum pietatis litteris Tolosae datis non tuo nutu ut opinamur, sed aliorum suggestione pontifici scripta atque imposita ut levia sunt vel alios contingerit et ea quidem altiori indagine perscrutanda in quibus etiam dicta tua clementia satisfiet ut te ecclesiasticamı distructionem probaturum non dubitemus illud enim de legionensi episcopo tuae pietati suggestum quam vanum sit quamque ridiculum omnes intelligunt vel pontificum existimare tam insanum vel pium arbitrari tam impium et crediderit vel voluerit pacem in tanto fidei discrimine tam utilem tam necessariam intervertere quomodo separasset duo potentissima regna quorum reges ante hominum memoriam foederati fuere posse disiungere quomodo is qui et iure ordinis et officii auctoritate curator est pacis in tanta necessitate christianae religionis voluisset foedera pacis infringere pro qua conficta corpore et ante hominem suum eam… premorta per obrupta montium per algores nimium mortuam expetivit ut precem inter christianos principes insurgeret sine qua laborantur. Fidei intelligit subvenire non posse rursus quomodo illam pacem impediri voluissetı pro qua perficienda atque tractanda legatum de latere bonae memoriae Alexandrum cardinalem Sanctae Susannae virum suae aetatis religione et integritate insignem eruditione clarissimum designaverat; qui praecinctus ad iter continuum ob eam causam Hispanias petiturus erat nisi confectae iam pacis fama celerius pervenisset.

Quis autem nisi amens id impediret faciendum quod omni studio curaret impleri. Absit a piissima mente tua ista suspicio.

Ecce Christi summus sacerdos vicem aeterni Dei gerens in terris cuius verbum teste Bernardo vel sacrum si verum vel si mendax fuerit continuo efficitur sacrilegium coram Deo qui iudicaturus est vivos et mortuos in verbo apostolico contestatur nihil tale nec scivisse neque mandasse.

Non decet pietatem tuam difidi verbi apostolici dubitari nihil est tam arduum tam greveı tam dubium quod si maiestas tua in verbo regio testaretur ipse non crederet ipse non pariter affirmaret.

O nimis laudanda et omnibus praeconiis offerendam priscorum regum pietatem ; o fidem et sinceritatem merito praedicandam Valentiniani augusti Sistus papa de gravissima impetitus uno verbo satisfecit Theodoricus Gothorum rex licet arianorum fautor et particeps cum audisset a sinodo apostolicam sedem antistitum inferiorum non subiaceri iudicio.

Mox omnem defensionem in Simachi pontificis conscientiam fidemque remisit.

Pelagius criminatus de exilio sui decessoris et more Vigilii uno verbo toti clero et populo satisfecit et tuae maiestati suggeritur dicenti scribenti Deum contestato pontifici non esse credendum; iam igitur si Christo vicario si Dei vices agenti non creditur fiat discussio fiat diligens investigatio innocentia aliquando patebit veritas aliquamdiu tegi sed omnino occultari non potest pena digna probabit innocentiam si episcopus reus compertus fuerit in suum culpa reflectitur auctorem.

Invero clementissime rex homines huiusmodi detractores tamquam sicarios et homicidas eccita memor sententiae Salomonis dicentis ac detractaribus ne commiscearis quoniam veniet eorum repente proditio hi sunt qui lingua sua concinant dolos quorum os venenum est aspidum insanabile dentes eorum arma et sagittae lingua eorum gladius acutos ab his se erigi a talibus tamquam a sitientibus sanguinem redimi profeta orabat in psalmo: Redime – inquit - me a calumniis hominum ut custodiam mandata tua.

Tales iure canon homicidas appellat. Nam qui occidit et qui occidit et odit fratrem suum et qui ei detrahit homicida pariter demonstratur quod si illi sunt homicidae qui sedentes loquuntur adversus fratrem suum quod illi existimandi erunt qui contra Christi vicariumı patrem omnium pastorem animarum suarum ponunt scandalum in eos profecto illa apostolica sententia retorquebitur quam in ordinatione Clementis protulit claviger regni coelestis inquens: Cuicumque contristaverit detractorem veritatis peccat in Christum et patrem omnium exercebat Deum propter quod et vita carebit nam ut invidiam magis augerent pro eo etiam quod scismaticus atque hereticos alios omnino a fide apostatantes alios raptores ecclesiarum atque sacrilegos monitos et diutius expectatas nec correctis cum apostolo crediderit Satanae in interitum carnis ut salvus fiere ipse damnant calumniant et accusant.

O nefanda rabies detractorum qui damnant quod laudare deberant vaeh talibus cui appendunt stateras dolosas et pro arbitrio aliud grave aliud leve deiudicant vaeh inquam illis qui dicunt bonum malum et malum bonum ponentes lucem tenebrası et tenebras lucem.

Sed attende clementissime rex pontificis mansuetudinem non renuit etiam de tuis quae mere spiritualia sunt et ecclesiasticas censuras attingunt solum ad calumniam confutandam gestorum quorum reddere rationem si aliud tempus commodius ad explicandum indulgeri et nos patienter audire dignaberis spera enim pro innata religione te accipere ratione secum ad persecutionem gusmaticorum atque hereticorum concursum quando quidem catholici reges semper in talibus auxilium ecclesiae ferre consuevarant et ad id eos teneri omnium sanctorum patrum praedicant instituta ostendimus piissime princeps nullam esse in pontifice culpam quam suggerit invidiosa detractati nullam sibi cum pietate tua causam esse dissidii.

Verum si quid pontifex de suo feudo severius vel inhumanius statuisset contra consortem generis vel sanguinis tui si in temporali aliquo negotio a tuaı sententia discrepasset non tamen oporteret religiosissimum principem a piae matris uberibus separare nec propterea deceret patrum omnium et animae suae pastorem odisse subeat quaeso mentem tuam illud magni imperatoris regisque Francorum Carolum memorandum eulogium in memoriam inquit beati Petri apostoli honoremus sanctam romanam ecclesiam et apostolicam sedem ut qui nobis sacerdotalis dignitatis est mater ne etiam ecclesiasticae magistrationis quare serranda esse cum mansuetudine et humilitate illi reverentia et licet viae ferendum ab illa sancta sede nobis imponat iugum tamen feramus et pia devozione tolleremus humilis suni et religiosissimo principe digna sententia quam convenit tuam mansuetudinem imitari ad quem haereditas gloriae una cum regno et sanctorum imitatio pertinet.

Age sic evi debeatur regno Siciliae quis potius iuvandus quis fovendus fuerint qualiscumque dissensio an non potest de… de feudo ecclesiae sine acerbitate animorum sine offensione mutuae charitatis sine scissura specialis vinculi esse contentio.

At certe nos legimus etiam apud et vicos existere plerumque in republica sine pernicie contentiones dum unusquisque suo nutu regi rempublicam vult qualis fuit Ciceroni ac inter publicum Scipionem et Lucium Metellum sine acerbitate contenti.

Sed quid ethnicos ac temporalia profero?

Cum nobis etiam sanctorum apostolorum exempla suppeditent Petrus et Paulus ecclesiae principes quos Spiritus Sanctus adiunxerat de circumcisione dissentiunt dum uterque pari zelo sed dispari ritu alliciendus putaret eos qui ex circumcisione crediderant Paulus et Barnaba divino oracolo pariter in fortem praedicationis emissi propter Ioannem qui cognominatusı est Marcus ab invicem segregarentur.

Fuit tamen corporum magis quam animorum illa secessio Hieronimus ab Augustino disserti sua observatione legaleum et mutuas interesse altercantis epistolis qui individua Christi claritate flagrabat longum esset singulos narrare qui integris animis Alfonsus affectibus dissenserunt. Talis inter parentes et filios fratres et necessarios atque coniunctos animi motus intercidunt quos sanguinis charitas exagerari non finit.

Fiuntque ut comicus ait ira inter amantes reintegratio amoris queritur plerumque pater de inofficioso filio quesitus est filius de duropatu nec tamen honorificentia patri subtrahitur nec filiorum charitas imminnetur quod si hoc post carnis agnatio quid posse debet spiritualis annexio inter eos qui non ex sanguinibus neque ex voluntate carnis sed Spiritus Sancti gratia regenerantur in Christo. Noli ergo existimare piissime rex patrem odisse posse filios quos per evangelium generavit.

Noli opinari matrem tuam romanam ecclesiam minus diligere quos per charitatemı quotidie parturit in Christo.

Nec arbitretur pietas tua quod quisquam magis sincera mente te diligat qui pacem cum Deo vult habere perpetuam quod quibus pro felicitate regni tui sine intermissione preces effundit.

Tua enim pax apostolicae sedis tranquillitas est, tua felicitas ipsius laetitia, tua praesertim in fidei hostes victoria est ecclesiae romanae securitas. Noli ergo ei fiduciam pro te minore supplicandi abscendat ira placetur animus et filialis ille resurgat affectus.

Suadet et requirit hoc temporalis ratio nam si ullo unquam tempore deponi simultates oportuit hoc certi maximi quo periclitatur christiana religio omnes animi rancores oportet auferri.

Marium et Cinnam legimus et quamplures alios civilibus et intestinis odiis laborantes aliquando periclitante republica privatas inimicitias deposuisse et in gratiam ipsius reipublicae causa redisse ; quid christianos principes facere convenit pro communi fide pro communi salute pro religione tuenda atque servanda ad quamı post purgatum omni calumnia et criminatione pontificem post revocatum ut speramus ad pristinam charitatem et filialem effectum tuae mansuetudinis animum iuxta institutum ordinem omnis iam nostra convertenda esset oratio.

Sed ne pietatis tuae fatigetur auditus, hodierno sermone adhibendus est modus ut quae pro fidei causa exposituri sumus in alium diem reserventur.

Aderit, ut speramus, gratia Dei quae faciat nos instituta complere aderit quoque serenitas tuae felicitas atque benignitas quae diem ac tempus constituere dignabitur quo illud quod omnium mandatorum praecipuum ac maxime necessarium est divino auxilio persolvamus.

Deo laus.

Theodori Lelii episcopi Tarvisini ad Ferdinandum Siciliae regem. (Ms. Qq. B. 6, n.2 della B. C. Pa.

Serenissimo domino Ferdinando Siciliae regi.

Serenissime princeps et invictissime rex post humilem et devotam comendationem. Inter coetera pietatis officia quae foelicis ac recolendae memoriae Pius pontifex maximus erga celsitudinem tuam dum viveret semper exhibuit illud vel maximum esse reor quod iustitiam tuae provectionis ad regnum tum litteris tum publicis legationibus omnibus populis et nationibus pratefecerat.

Parum enim illi erat te ad patrium regnum evexisse nisi etiam iustum et legitimum te regni possessorem ostenderet.

Maxime autem illi vera fuit obrectantibus Gallis si quoquo modo potuisset satisfacere vel si minus posset iudicii sui atque decreti palam rationem ostendere propter quod superiore anno cum litterae Francorum regis super ea re acriores ei directae fuissent me tunc feltrensem episcopum legavit in Gallias ut coram rege universisque proceribus iustitiam tuam causamque tuerer quod quidem munus et oboedientiae iure et debito eius necessitudinis qua tuae maiestati devincor libenter recepi.

Memineram quippe me ex apprutina provincia et civitate Terramo _ pater nam originem ducere quae licet ad Venetorum urbem propellentibus intestinis factionibus translata fuisset paternae tamen et avitae necessitudinis iure non amiseram.

Profectus itaque summi pontificis iussu ad Francorum regem ubi in publica contione et frequenti procerum conspectu apostolici iudicii rationem reddidi.

Iustitiam investiturae tibi concessae ita defendi tantisque divini et humani iuris sententiis ac testimoniis roboravi et omnes qui aderant mirarentur tam apertam solidamque iustitiam suae genti prius non anno fuisse ipse quoque rex qui antea frequenti sermone pontificis damnare et sui generis iniuriam quaeri consueverat non solum nihil obiicere potuit sed ex iracundia ad aequitatem lenitatemque conversus in ipso coetu multa de presentis tui sapientia et gloria multa de tua virtute protulerit et quia obtrectatores palam maledixerant et multorum aures infecerant palam respondendum fuit et quod verbo insinuari omnibus non potuerat scripto erat intrimandum idcirco qua in regio consilio publice dixeram actis notario scriptis aedidi et per Gallias maxime in Parisiorum civitate exemplaria multa dispersi.

Cum autem ex Digione reverterem Mediolani iter faciens insignis et praestantissimus eques Antonius Cincinelus apud Insubrium ducem legatus tuus ad quem concionis habitae fama pervenerat magno _ studio sibi edi quae dixeram postulavit et cum legisset maiorem immodum hortatus est ut exemplar tuae serenitati transmitterem.

Cumque ergo verecunde negarem ac dicerem rudem ac indigestam molem tuae celsitudini quae a teneris annis optmis studiis et liberalibus disciplinis erudita fuerit offerri non debere praestitit illa dicens non tamen rem ipsam insinuandam esse quam fidem in eam devotionemque hoc exemplo mostrandam.

Quibus verbis persuasus statueram pridem qualescumque nugas meas tuae maiestati transmittere sed multa interciderunt peregrinationum et aegritudinum impedimenta.

At dum proxime ad salutandum adorandumque novum pontificem ex more tui legati venissent opportunum mihi tempus visum est exequi quod ante conceperam sermone.

Itaque habito cum spectatissimo milite Antonio Carraffa oratore tuo cui prius mandavi ut me nuper in pontificis clientelam et familiaritatem assumptum tuae serenitatis usibus obsequiisque dicaret rogavi ut libellum ipsius orationis in Galliis habitae tuae maiestati mitteret vel certe ipse perferret.

Leget igitur tuae maiestatis dignati orationem quidem incultam sed magna fide et animi sinceritate depromptam veniam daturis ruditioris incultiorisque sermonis quem quidem oportuit pro ingenio audientium coepere et verborum ordinationem pro gentis illius capacitatis dirigere.

Serenitatem tuam foelicem atque incolumem longevo Divinitas sancta custodiat clementissime ac gloriosissime rex.

Romae ex palatio apostolico X octobris 1464.

Serenissimae maiestatis tuae devotissimus et obsequientissimus servulus Theodorus episcopus tarvisinus referendarius apostolicus.

 

VOCE NOSTRA UN SETTIMANALE DI PALERMO NATO NEGLI ANNI DELLA CONTESTAZIONE STUDENTESCA E DEL DISSENSO CATTOLICO di Giuseppe Palmeri

Nel Novecento, la Chiesa e la comunità cattolica palermitane hanno espresso il proprio pensiero, per oltre un sessantennio, attraverso una serie di giornali, succedutisi con testate diverse ma facenti parte di un unico disegno informativo(1). Nel 1918 uscì infatti l’Eco giovanile che, nell’anno successivo, assunse il nome di Primavera siciliana e che fu pubblicato fino al 1939. Nel ‘39 il giornale ebbe come testata Voce Cattolica, settimanale che fu pubblicato fino al 1967 con qualche interruzione nel periodo bellico ed immediatamente postbellico (tra il 1942 ed il 1944 e poi tra il 1945 ed il 1946). Il giornale cattolico riapparve nelle edicole (e, la domenica, nei sagrati delle chiese) sotto la testata Voce Nostra, nel 1968.

Sebbene sussistesse il detto unico filo conduttore, ad ogni cambio di testata il settimanale cambiava volto sentendo di dover corrispondere al mutare delle fasi storiche della comunità cattolica cui si rivolgeva. La storia di Voce Nostra può perciò essere considerata distintamente da quelle delle testate precedenti.

Il 1968, oltre ad essere stato l’anno in cui esplose in Europa e si sviluppò in quasi tutto il territorio del nostro Paese la "contestazione studentesca", fu anche l’anno di straordinari fermenti nella Chiesa cattolica e particolarmente in quella italiana, che portarono all’elaborazione di un vero e dichiarato "dissenso" da parte di movimenti interni alla stessa Chiesa nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche.

Il dissenso cattolico derivava probabilmente da una interpretazione estensiva, e fino alle estreme conseguenze, dei documenti del Concilio ecumenico Vaticano II, svoltosi tra il 1962 ed il 1965, ed era stato alimentato dal clima generale di ribellione sviluppatosi nelle sedi della contestazione studentesca, tra le quali fu la stessa Università cattolica di Milano, ove, nel corso delle occupazioni studentesche, erano stati posti non solo problemi riguardanti la condizione degli studenti, ma anche quelli di una revisione critica della stessa posizione dei credenti all’interno della Chiesa.

Il 14 settembre 1968 un gruppo di cattolici del dissenso che avrebbe voluto vedere la Chiesa apertamente schierata dalla parte dei più deboli, anche sul piano dei rapporti con la classe politica italiana, occupò il Duomo di Parma ed il 31 ottobre un’assemblea all’Isolotto di Firenze, alla quale parteciparono migliaia di persone, espresse solidarietà al parroco Don Mazzi che, nei giorni precedenti, era stato duramente criticato dall’arcivescovo di Firenze, Cardinale Florit, per la sua posizione, assunta in maniera polemica, nei predetti termini. Migliaia di persone avrebbero partecipato, il 4 dicembre, davanti alla curia di Firenze ad una manifestazione di solidarietà con lo stesso Don Mazzi, ormai destituito da parroco. Altri due parroci abbandonarono per lo stesso motivo le loro parrocchie.

Ciò che si contestava era che la Chiesa, nei suoi impegni temporali (e particolarmente in Italia, ove l’appoggio al partito della Democrazia cristiana, da due decenni ormai al governo del Paese, era evidente), chiedeva al clero sostanzialmente un’obbedienza che lo portava spesso a dover trascurare proprio le esigenze più profonde dell’evangelizzazione del prossimo; esigenze che avrebbero comportato anche la comprensione e la cura dei problemi dei più deboli fin dalle radici delle scelte politiche che avrebbero potuto favorire l’esercizio della carità. Il dissenso da una Chiesa ritenuta alleata del capitalismo porterà, nel marzo dell’anno seguente, gruppi di cattolici a tentare di contestare in piazza S. Pietro l’incontro del Papa Paolo VI con il presidente degli U.S.A., Nixon.

Ma lo spirito di riconsiderazione della propria posizione "politica" pervadeva la stessa Chiesa postconciliare e il 22 agosto del 1968, appunto, Paolo VI, aprendo i lavori del congresso eucaristico mondiale in Bolivia, aveva manifestato la preoccupazione della Chiesa per le ingiustizie sociali dei paesi dell’America latina, sebbene abbia poi denunciato come una corruzione del pensiero cattolico le tesi della c.d. "teologia della liberazione".

Tra i cattolici impegnati nella politica, ed in particolare dalla parte della Democrazia cristiana, sembrò addirittura divenire realistico quello che sarebbe successo circa un decennio più tardi, ossia la revisione del ruolo dei credenti nella vita sociale e quindi, dopo un altro decennio, la fine dell’unità politica dei cattolici. Livio Labor, presidente nazionale delle ACLI, proclamò ufficialmente, nel 1969, la fine del "collateralismo" con il partito dei cattolici e Carlo Donat Cattin, rappresentante della sinistra democristiana, si dichiarò disponibile per una ipotesi di fondazione di un secondo partito cattolico, che avrebbe avuto i caratteri di partito dei lavoratori e sarebbe stato quindi schierato a sinistra.

In Sicilia, comunque, la Chiesa non aveva assunto ancora una posizione ferma e visibile sul problema dei rapporti tra l’effettiva azione politica ed amministrativa espressa ed il dovuto impegno dei cristiani investiti di cariche pubbliche né tanto meno sulle permeazioni in tali azioni di interessi illegali e specialmente di quelli che si sospettava provenienti addirittura da ambienti della mafia. In quegli anni, come nota Alongi, storico della presenza dei cattolici nelle vicende politiche di Palermo(2), "la Chiesa siciliana si era lasciata sopravanzare su questo tema dal mondo laico, restando scandalosamente assente dal dibattito, dalla lotta e indenne pertanto dalle ritorsioni, anche cruente, della mafia". Ma presto (fine degli anni Settanta) che ciò sia potuto accadere "sarà per la coscienza dei credenti motivo di grande turbamento". E ciò sebbene una tale situazione fosse spiegabile storicamente sulla base di vari presupposti e condizionamenti d’ordine anche internazionale ritenuti di primaria importanza, quali erano la presenza minacciosa dell’Unione sovietica e le garanzie di libertà offerte viceversa dagli USA.

Richiamando comunque, in una visione più generale, il momento storico in cui il settimanale Voce Nostra vide la luce, va detto che in Sicilia il 1968 si aprì con il terremoto della Valle del Belice che provocò tra Gibellina, Montevago e Poggioreale oltre trecento morti, migliaia di feriti e la distruzione di interi paesi. La Regione era governata da Vincenzo Carollo, democratico cristiano, saggio moderatore degli equilibri tra i partiti della coalizione di centrosinistra e di quelli interni al suo partito, guidato, a sua volta, in una sapiente spartizione dei relativi poteri, dai deputati Gullotti, Gioia, Lima e Drago; mentre l’ascesa folgorante di Salvo Lima, che era già stato sindaco di Palermo dal 1958 al 1963 e dal ’65 al ’66, si avvertiva con il suo successo strepitoso, in numero di preferenze, alle elezioni per il Parlamento nazionale svoltesi il 19 maggio del 1968(3). Ad Avola, durante lo sciopero dei braccianti agricoli in lotta per ottenere parità retributiva in tutta la provincia di Siracusa, la polizia sparò uccidendo due braccianti e ferendone una cinquantina. In Sicilia fu proclamato lo sciopero generale, cui seguirono manifestazioni in tutta Italia. Nel mondo, l’opinione pubblica era profondamente divisa circa la giustezza della guerra combattuta dagli USA nel Viet-Nam.

Nel momento storico di cui abbiamo dato alcuni tratti evocativi, Voce Nostra usciva col n. 1 la domenica 7 gennaio del 1968, con l’indicazione implicita di appartenere continuativamente all’unico processo pubblicistico iniziato, come si è visto, con l’Eco Giovanile nel 1918. Recava infatti come serie di anno di pubblicazione il cinquantunesimo(4).

L’editoriale di presentazione, dopo aver spiegato le ragioni della rinnovata veste editoriale e della mutata testata, enunciava che il giornale "secondo le linee pastorali di rinnovamento (…) vuole essere voce della Chiesa con tutti i suoi grandi problemi ed avvenimenti nel mondo cattolico; voce della comunità diocesana e parrocchiale con i problemi religiosi, morali e sociali delle varie organizzazioni operanti; voce del Pastore con le sue direttive per una pastorale moderna e dinamica". Quindi recava l’augurio del Cardinale arcivescovo di Palermo, Francesco Carpino, nonché quello di Bernardo Mattarella, esponente di spicco della Democrazia cristiana che per qualche tempo era stato direttore di Voce Cattolica.

Il dibattito su questi temi fu affrontato da una serie di firme che rappresentavano ampiamente la cultura cattolica di Palermo e, soprattutto, quella che in quel periodo era impegnata esplicitamente a fianco del Vescovo ovvero in opere di volontariato nelle parrocchie ed in associazioni(5). Si trattava della rivalutazione del ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, intendendo per laici non più soltanto quelli ufficialmente inquadrati nelle organizzazioni diocesane o parrocchiali, ma tutti i fedeli, resi partecipi, proprio nel loro stato, dell’ufficio sacerdotale e profetico di Cristo e della rivalutazione della dignità di ogni uomo. E ciò nel confronto quotidiano con la realtà in divenire dei quartieri, della città e dell’intera collettività nazionale.

Interessante è, già nel primo numero, il rapporto con i fatti del segmento di storia in cui il giornale andava ad inserirsi e, nello stesso tempo, con la meno recente storia dei poteri temporali della Chiesa. Il titolo centrale, a grandi caratteri, diceva: "Alt alla strage nel Viet-Nam" ed il sottostante articolo(6) si soffermava a spiegare la profondità della visione religiosa e cristiana dei fatti del mondo, visione certamente non valutabile alla stregua degli interessi comuni, per cui occorreva chiarire che cosa significasse per i cristiani "la conquista della pace, che non vuol dire rinuncia, smobilitazione, cedimento, ma conquista. E conquista dello spirito, anche se non tutti vogliono rendersi conto di questa semplice verità, qui da noi, in Italia ove nell’anno 1968 l’unica pattuglia laicistica rimasta a presidiare la benedetta breccia di Porta Pia si attarda ad insinuare che il pacifismo dei cattolici impegnati nel mondo nient’altro sarebbe che un servizio reso ad una pretesa politica internazionale vaticana, come se l’ecumenismo possa mai rivestirsi di un significato temporale! Come se niente abbiano significato le visite dei romani pontefici in Quirinale, come se Giovanni XXIII non abbia reso grazie alla Provvidenza per avere eliminato il regno temporale del papato".

Ma l’occhio del giornale fu subito rivolto soprattutto alla comunità civile palermitana e quindi all’istituzione che prima di tutte la rappresentava: il Comune.

La cronaca riferiva di continui scioperi degli autisti degli autobus, dei dipendenti dei servizi di nettezza urbana, dei vigili urbani, degli addetti agli sportelli comunali ecc., fatti tutti che indignavano la generalità dei cittadini costretti a vivere in una città caotica, lenta nella produttività ed igienicamente inadeguata. Occorreva però che l’indignazione e le proteste dei cittadini contro i lavoratori comunali eternamente in agitazione si aprissero ad una riflessione responsabile sui veri motivi di una tale intollerabile situazione, domandandosi i palermitani, prima d’ogni reazione emotiva, che cosa sapessero veramente del Comune: "Sì e no che è pieno di debiti, che ogni tanto un ufficiale giudiziario sequestra una bottega di proprietà del Municipio, una di quelle non ancora vendute all’asta".

Occorreva che si sapesse che i 3493 dipendenti del Comune (meno dei 4188, previsti dalla pianta organica) restavano spesso per diversi mesi senza stipendio. E non tutti erano assunti per favoritismo o clientelismo: ce n’erano certo d’imboscati nelle segreterie politiche o a fare i galoppini ad uomini politici ed era uno scandalo. Ciò malgrado però i conti del Comune era facile farli: 14 miliardi di entrate, 56 miliardi di uscite, con un disavanzo effettivo nel bilancio di 41 miliardi ed un complesso di passività onerose di molte centinaia di miliardi.

Il settimanale, dunque, avrebbe continuato nei numeri successivi con una approfondita inchiesta sul Comune, così come avrebbe martellato incessantemente sulla piaga del mancato avvio, dopo oltre vent’anni dalla fine della guerra, del risanamento del centro storico della città, ancora pieno di macerie della guerra, evidenziando soprattutto i problemi umani e sociali d’una comunità che dai vecchi mandamenti andava disperdendosi e che andava perdendo la propria individualità e i suoi tradizionali valori culturali, professionali e morali. E avrebbe parlato spesso ed in maniera martellante della disoccupazione e degli scioperi di dipendenti di imprese e pubbliche amministrazioni, spesso originati dal mancato regolare pagamento degli stipendi: "Quanti sono i palermitani che ricevono ancora regolarmente lo stipendio o il salario a fine mese? Mai la situazione dell’economia della maggiore città dell’Isola aveva vissuto momenti tanto tristi".

Il 21 marzo del 1971, per la firma di Enzo Sigillò, si informava che L’AMAT muore: il deficit dell’azienda municipale dei trasporti di Palermo era, infatti, quell’anno di ben 9 miliardi di lire.

Ma Palermo, ove si assisteva a ciniche contese spartitorie di lembi di potere tra partiti, correnti e sottocorrenti, aveva bisogno, oltre che di risorse finanziarie, anche di progetti e di piani di sviluppo; per cui, considerandosi il forte incremento della popolazione nel dopoguerra (e senza fare i conti con la incombente diffusione delle pratiche di controllo delle nascite!), si prevedeva che nel 1980 i palermitani sarebbero stati 900.000 (oggi nel 2002, non arrivano a 700.000) e, conseguentemente, che Palermo avrebbe avuto bisogno di un governo unitario dell’ampio territorio dell’area metropolitana che da Bagheria va fino a Monreale e a Carini. Contemporaneamente si seguiva, con il senso di frustrazione che ha sempre accompagnato i palermitani di fronte a questo argomento, ogni dato amministrativo che avrebbe potuto aprire finalmente la stagione del risanamento del centro storico in cui, in un decennio, l’abbandono da parte del tradizionale tessuto umano aveva determinato queste cifre: 128.574 abitanti nel 1960; 78.229 abitanti del 1969(7).

La preoccupazione rivendicatoria per i diritti dei più deboli si mostrò presto anche in occasione del drammatico terremoto della Valle del Belice. Il n. 3 (21 gennaio 1968) fu dedicato interamente alla cronaca ed ai messaggi di solidarietà per quelle popolazioni. In quell’occasione il giornale uscì in formato ridotto e ad un solo colore a causa delle condizioni dei tipografi, stremati da continue veglie notturne. Ma già nel numero successivo si denunziava come l’organizzazione della difesa civile nel nostro Paese registrasse un pauroso sbandamento: crisi di direzione dei soccorsi, improvvidenza di scorte, intempestività degli interventi: "Va detto che il colpo del destino è caduto in una delle zone più depresse economicamente, debole di capacità reattive (…). La macchina burocratica dello Stato ha girato a lungo a vuoto. I primi soccorsi si sono presentati sui luoghi del disastro con ritardi inconcepibili; l’organizzazione sanitaria ha dimostrato d’essere ferma al secolo scorso"(8). Dopo due anni dal terremoto si sarebbe notato: "Terremoto anno secondo: più forte del sisma, la burocrazia" ed ancora "Basta con gli inverni sotto le baracche!". E, nel n. 3 del 1971, si ripeteva "Terremoto anno terzo: è mancata la volontà politica e la capacità pratica di intervenire".

Questa attenzione, da parte del giornale, all’amministrazione pubblica della città e della Sicilia, come anche alla vita ed ai problemi delle comunità parrocchiali, che si sarebbe poi sviluppata con indicazioni sempre più tecnicamente approfondite nei numeri successivi, oltre ad essere la testimonianza dell’inizio di un atteggiamento nuovo dei laici cattolici palermitani nel controllo dell’effettiva azione politica dei loro eletti, è anche il sintomo del nascere di una volontà più decisa da parte del mondo cattolico palermitano di conoscere a fondo, ed anche tecnicamente, i problemi amministrativi della propria città e di partecipare responsabilmente alla vita delle sue istituzioni pubbliche. Nasceva forse, proprio intorno a Voce Nostra, il desiderio di una maggiore comunanza cittadina che porterà, negli anni Ottanta, ad una vera aggregazione politica, quale è stato il movimento Una Città per l’uomo, onde tentare l’inserimento diretto dei problemi morali e sociali più emergenti tra i temi dell’amministrazione pubblica o comunque per provare a stimolare gli eletti perché, nelle sedi ove si assumono le decisioni per tutta la collettività, non si disperdessero i valori cristiani che avevano ispirato il conferimento del mandato all’atto del voto.

Certo, dal partito che formalmente li rappresentava, i cattolici di Voce Nostra si aspettavano non poco. Si attendevano, da un lato, la costruzione d’una società che, sebbene non confessionale, rendesse agevole lo svilupparsi dei valori comunitari della Chiesa e, dall’altro, che la Chiesa e l’elettorato cattolico potessero indirizzare il loro partito di riferimento verso scelte di fondo sicuramente non nichiliste o atee né, come si direbbe oggi, assolutamente laiche.

Il n. 7 del primo anno di vita del settimanale è particolarmente dedicato a temi del genere, con interventi di due importanti esponenti della cultura cattolica siciliana: Santino Caramella(9) e Pietro Mazzamuto(10).

Vi si affronta l’argomento dell’apertura sempre più probabile della D.C. alle forze maggiormente di sinistra, riaffermandosi quello che abbiamo detto circa le aspettative dei cattolici impegnati in politica: "o la D.C. è cosciente che il consenso che le perviene nasce e si sostanzia anche da una sua funzione anticomunista ed allora ogni manovra in senso contrario è controproducente; oppure intende seriamente instaurare un dialogo con il P.C.I. ma è discutibile che le convenga farlo proprio alla immediata vigilia delle elezioni". Argomento che presupponeva certamente spiegazioni ideologiche di fondo quali quelle dei due autorevoli autori citati: Caramella spiegava allora la laicità dello Stato, in relazione però al senso che il termine "laico" significava allora effettivamente, prima che usurpasse il significato di agnostico o addirittura di ateo; riferendosi cioè, in opposizione al termine "chierico", ai battezzati non ricoprenti una carica nella gerarchia ecclesiastica, ma pur sempre membri della Chiesa. Egli diceva dunque: "Allo Stato, prima di tutto, spetta di creare l’ambiente mondano in cui il laico, che vive in apostolato, possa celebrare la santità della vita matrimoniale e familiare e rendere la sua testimonianza della verità evangelica".

E Mazzamuto, soffermandosi sui partiti di ispirazione cristiana e sul loro ruolo di mediatori e difensori dei valori religiosi nella società, scriveva: "Bene è la collaborazione della Chiesa a favore delle cosiddette società intermedie, di cui consta la società civile, quali sono, ad esempio, i partiti politici (…) ma la Chiesa, come ha il diritto di sconfessare e condannare lo Stato che comprometta o addirittura calpesti gli inalienabili diritti della persona alla libertà e alla giustizia, così ha pure il diritto di sconfessare e condannare coloro che sotto l’insegna della Croce pensano esclusivamente al loro profitto privato e fanno pubblica professione di cattolicesimo solo per soddisfare le loro ambizioni di potere politico e di prestigio sociale".

L’avvertimento era esplicito e certamente si inseriva nel dubbio di cui abbiamo detto e che, via via ingigantendosi, porterà negli anni Ottanta a quel "pronunciamento da parte di un organismo ufficiale della Chiesa (quale è la Commissione socio-politica della Consulta diocesana per l’apostolato dei laici, N.d.A.) così chiaro e così distaccato dal tradizionale comportamento della gerarchia nei confronti della D.C."(11), con il consenso al formarsi del movimento Una città per l’uomo.

Eugenio Guccione, lo studioso del pensiero di Don Sturzo, avrebbe continuato ad impostare storicamente il problema della presenza dei cattolici nella società in una serie di articoli degli anni 1973-1975 in cui emergono i pericoli di investiture di potere in nome dei valori cristiani di persone intese poi ad agire in maniera del tutto opposta. Tali incertezze tuttavia non portarono mai il giornale a schierarsi dalla parte dei movimenti di dissenso nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche e, quando esplose l’episodio dell’occupazione della cattedrale di Parma, Voce Nostra respinse espressamente tali metodi e ai contestatori mandò a dire di rimeditare piuttosto sulla propria posizione personale nella Chiesa.

La propensione alla critica ed al cambiamento si fermava nell’ambito del processo riformatore interno alle strutture ufficiali della Chiesa; così mentre padre Paolo Collura(12), in una lettera aperta a don Mazzi(13), contestava che la Chiesa stesse effettivamente con i ricchi, si puntualizzava la posizione ecclesiale riproducendosi una relazione di Vittorio Bachelet, presidente generale dell’Azione cattolica, in cui, analizzandosi la crisi di sfiducia che in quel tempo pervadeva anche i cattolici (probabilmente permeati dal più generale clima contestatario), induceva a guardare con fiducia al rinnovamento pur senza rinnegare il passato(14).

Sotto altro punto di vista, va del resto detto che, specialmente nei primi anni di vita di Voce Nostra, incertezze e travagli rimanevano al livello culturale e delle coscienze ma non si risolvevano neanche in alcun distacco dal partito della D.c. Infatti, sebbene, il giornale mostrasse interesse ed attenzione (e non avversione) per il travaglio delle ACLI che, nel corso dell’undicesimo congresso nazionale svoltosi a Torino, avevano visto esplodere la contestazione dei lavoratori cristiani nei confronti delle strutture sociali e politiche del Paese nonché la condanna del neo-capitalismo e l’autonomia del movimento nel campo politico, ufficialmente non assumeva però alcuna forte iniziativa. Si domandava così a Nino Alongi, presidente delle ACLI siciliane, nonché collaboratore del giornale, se questa Associazione di lavoratori cristiani, con la dichiarazione di autonomia annunziata a Torino, avesse rotto l’unità politica dei cattolici italiani (il che era evidente); si offrivano ai lettori le risposte di Alongi e si riferiva un commento di solidarietà con le ACLI di monsignor Petralia, vescovo di Agrigento(15), riportandosi una sua breve analisi delle ingiustizie evidenti nel sistema sociale di allora. Ma, quando si avvicinarono le elezioni politiche del 19 maggio 1968, il giornale fu pieno di appelli all’unità dei cattolici.

Il 28 aprile titolava: "Votare tutti uniti", riportando un messaggio dell’arcivescovo di Palermo, Cardinale Carpino, che così chiariva: "Riguardo al dovere di votare tutti uniti, i vescovi, attese le condizioni presenti della nostra società, richiamano tutti i cattolici a tale dovere, non solo in ordine ad un pericolo, non certo del tutto scomparso, per la libertà religiosa del nostro Paese, ma altresì per la tutela e la promozione dei valori umani e cristiani della famiglia, nel costume, nell’ordine sociale, nell’ordine internazionale, nella società civile in genere di fronte a diverse, ma spesso convergenti, impostazioni laiciste"(16).

Nel numero del 12 maggio, ad una settimana dal voto, si precisava ancora che era vero che "nel nostro paese si può cogliere un diffuso malcontento verso i partiti; che nei partiti è attuale il problema di una più viva partecipazione democratica e di una migliore selezione della classe dirigente; ed è anche vero che talvolta sono stati commessi degli errori", ma si induceva anche a riflettere che "fino a quando nel nostro Paese permarrà una così forte presenza di estremisti di sinistra e di destra c’è un pericolo immanente per la libertà" e quindi la necessità dell’unità politica dei cattolici; espressione che significava, per tacita convenzione, voto alla D.c. E, ove il messaggio così tacitianamente espresso non fosse bastato, si aggiungeva che solo la D.c. aveva difeso le libertà civili fondamentali. Il giorno delle elezioni, poi, un articolo del gesuita e politologo Giuseppe De Rosa spiegava perché l’unità politica dei cattolici fosse ancora necessaria.

Più articolata e meno decisa è la posizione del giornale in occasione delle elezioni amministrative del 7 giugno 1970. Un mese prima(17) il direttore Orlando Scarlata non esitava a criticare la mancanza di previi dibattiti sui servizi e di credibili progetti da parte dei partiti in lizza, particolarmente della Democrazia cristiana. "Ci auguriamo di conoscere al più presto – diceva – un programma costruttivo e concreto con una sua credibilità". Malgrado ciò, però, e malgrado si denunziasse che Comuni, Province, Regioni e Parlamento perdessero sempre più prestigio nell’animo di tutti, il discorso non era in realtà fatto "contro" ma "al" partito d’ispirazione cattolica, tanto che poi, quando le elezioni si avvicinavano, il dialogo tornava sempre chiaro: "Noi chiediamo alla D.C. di mostrare di essere il partito che può e deve rappresentare alla coscienza dei cattolici un punto di convergenza politica … puntiamo ancora di più sull’unità dei cattolici"(18).

Che il comunismo mostrasse ancora un volto illiberale e totalitario era stato dimostrato, del resto, appena il 21 agosto 1969 quando in Cecoslovacchia le truppe del Patto di Varsavia avevano posto fine con i carri armati all’esperimento innovativo del governo di Dubcek. Voce Nostra commentò a lungo il fatto, riproducendo le tristi immagini di carri armati, macerie, arresti, esecuzioni, ecc. e annotò: "è stato stupefacente che l’Unione sovietica abbia condotto la sua spedizione punitiva contro i riformatori ceki secondo la logica e con i sistemi zaristi, su un calcolo più strategico che strettamente politico (…) ma che dire del colpevole pigolìo con il quale gli USA hanno accompagnato quel misfatto?". Era del resto emblematico quello che accadeva nel paese comunista a noi più vicino, l’Albania, dove si sviluppava una azione atea con questi dati: 2169 chiese, moschee e conventi trasformati in centri di cultura politica per i giovani. Il giornale annotava: "Il programma ateistico eversivo è stato puntualmente applicato. I dirigenti hanno usato schiere di giovanissimi, armati di mitra e di bombe a mano, per sradicare con spietata ferocia, nelle città e nei villaggi, ogni sentimento religioso. I sacerdoti cattolici sono stati torturati ed alcuni anche trucidati dinanzi alla popolazione, per essersi rifiutati di dichiarare che Dio è morto e che la religione è una menzogna". E questo, il giornale lo diceva a commento della notizia che era stato fucilato, all’inizio del 1973, il sacerdote cattolico Stefano Kurti(19).

Ciò malgrado, che i cattolici palermitani e, comunque, i palermitani non schierati politicamente, ovvero non aventi familiarità con le segreterie e le sezioni politiche, cominciassero a rinnegare le c.d. deleghe in bianco fatte in favore del partito dei cattolici e sentissero il bisogno di esprimersi coordinatamente sui problemi che veramente e da vicino li interessavano (la scuola dei figli, i trasporti pubblici, l’estetica e l’igiene del proprio quartiere, i servizi a rete, ecc.), fu evidente in un episodio partecipativo veramente notevole, quale fu nel 1971 la nascita del Comitato di quartiere di Boccadifalco, avvenuta appunto dall’aggregazione spontanea degli abitanti di quel sobborgo della città per la soluzione del problema della riapertura della scuola elementare Mantegna, la cui chiusura a tempo indefinito per lavori di ristrutturazione costringeva i bambini ad un estenuante pendolarismo verso una scuola di altro quartiere.

Il giornale titolava: Nasce spontaneo il comitato di quartiere; e spiegava come cominciasse a piacere questa idea dei comitati di quartiere, dato che 150 persone, forse di più, si erano trovate unite ordinatamente per spingere e sollecitare il ripristino della scuola e per iniziare un dialogo permanente tra quella zona periferica della città e la pubblica amministrazione, fuori dalle solite mediazioni delle segreterie dei partiti ed anche lontano dalle proteste esagitate(20). Come si sa, i comitati di quartiere spontanei si diffusero poi in una buona parte della città, prima dell’istituzione per legge dei consigli di quartiere, avvenuta nel 1976 con la legge regionale n. 84.

Il giornale assecondava con interesse perché sembrava così che, civilmente e lontano da sterili contestazioni, si potesse aprire uno spiraglio nella barriera burocratico-politica che separava la base popolare dal vertice elettivo, chiuso nei vari palazzi del potere.

Nello spirito di rinnovata solidarietà, nel 1972 nasceva la Missione di Palermo, un’organizzazione di volontariato guidata dal padre gesuita Angelo La Rosa, operante nei quartieri più degradati e poveri della Città, nei quali si ritenne che il lavoro di evangelizzazione e di carità non potesse che avere le stesse caratteristiche che, storicamente, avevano avuto le missioni cristiane nelle più sperdute parti del mondo, ove prima di tutto si era cominciato col dare dignità all’essere umano. La Missione di Palermo, "pur mantenendo strettamente la vecchia impostazione assistenzialista costituirà una prima risposta alla richiesta di una chiesa più sensibile alle condizioni degli emarginati e dei poveri. Nel 1980 vi operavano a tempo pieno sei religiosi e 21 religiose, tra queste le suore di madre Teresa di Calcutta, e vi collaboravano moltissimi laici. Si avvaleva nei vari quartieri di centri pilota retti da assistenti sociali"(21). In Voce Nostra la Missione fu vista così. "Quanti pensano che la Missione di Palermo possa essere organizzazione, utopia, soluzione urbanistica, risanamento dei vecchi quartieri, si sbagliano. Non è questo la Missione. Non è affatto una mobilitazione straordinaria per l’acceleramento di alcune scadenze amministrative. è l’occasione sconvolgente per una verifica, personale ed ecclesiale, molto più attenta e profonda (…) della città povera dei mandamenti storici, dell’abbrutimento, della disoccupazione, dell’evasione scolastica (…), di via Lazio, la strada insanguinata dello sviluppo edilizio; della città dei cantieri navali allo sfascio; della città dei 115 morti all’aeroporto di Punta Raisi, della città-dormitorio del CEP, degli stupefacenti pesanti, del sottosviluppo culturale, della carenza di tensioni fondamentali …"(22).

Se tale era la posizione "politica" del giornale, specialmente nei primi anni, deve dirsi anche che esso si occupava dei problemi sociali fondandone direttamente la problematica sulle solide basi della morale cristiana, dell’apostolato, della carità, dell’ecumenicità della Chiesa e della tradizione.

Interessanti furono così i numeri(23) dedicati al Sinodo della chiesa greca, ospitato dalla Diocesi di Palermo nel 1973, in cui si approfondivano le ragioni della particolarità di quei cristiani mediante un interessante numero speciale tutto dedicato a quell’evento storico o gli articoli dedicati a riesaminare figure di religiosi che si erano impegnati utilmente nella Chiesa e nel lavoro di riscatto degli ultimi: Padre Messina, "il figlio della Kalsa che piacque a Dio", Maria Polloni, fondatrice della Casa per madri nubili di Baida, Don Bosco e i suoi oratori, Giacomo Cusmano; ovvero di pensatori cristiani, come Michele Federico Sciacca o di politici dichiaratamente e fattivamente cristiani, come Giorgio La Pira(24).

Temi attuali che ancora di più interessavano i fondamenti della morale cattolica in quegli anni furono la legge sul divorzio, approvata nel dicembre del 1970; il relativo referendum abrogativo svoltosi nel maggio del 1974, come è noto senza fortuna per la posizione cattolica; l’apertura del discorso sulla depenalizzazione dell’aborto, iniziato nel 1975 e conclusosi il 29 maggio 1978 con l’approvazione della legge che ha reso legittimo l’aborto volontario. Gli articoli su questi argomenti, nonché sull’uso della pillola anticoncezionale furono ovviamente moltissimi e di alta levatura culturale e gli argomenti a difesa della morale della Chiesa martellanti(25). Interessanti, se non altro per misurare l’attenuazione della soglia del cosiddetto comune senso del pudore da quei tempi fino ad oggi, sono alcuni servizi sulla morale negli spettacoli e nei comportamenti privati. Molta allarmata attenzione fu dedicata, per esempio, al film di Bernardo Bertolucci "L’ultimo tango a Parigi", prima sequestrato per oscenità, poi dissequestrato, infine premiato con il Nastro d’argento e si dedicarono perfino critiche all’uso della minigonna, divenuta di moda in quegli anni(26).

L’attenzione alla mafia, nella configurazione politica, sociologica e di impegno popolare, che si sarebbe prospettata più nettamente negli anni Ottanta e Novanta con dibattiti, libri, comitati ed anche con una certa strumentalizzazione di tipo elettoralistico, si cominciò ad intravedere in V.N. con l’assassinio del procuratore capo della Repubblica Pietro Scaglione, avvenuto il 5 maggio 1971: "Le cosche non si limitano a darsi battaglia tra loro per la spartizione delle aree di influenza … ora l’obiettivo è un altro: il potere ed il predominio su tutto e su tutti"(27).

Più attente e più appassionate sarebbero state le considerazioni sull’orribile presenza della mafia nel tessuto sociale siciliano dopo l’assassinio di Persanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio nel 1980. Nei numeri successivi a quella data, si evidenziava la debolezza di un uomo politico onesto, coraggioso, cristiano ed idealisticamente impegnato in un contesto sociale e politico governato da regole fondate sulla prevaricazione e la sopraffazione.

Dopo il 1974 il giornale sembrò perdere l’iniziale smalto che abbiamo descritto nelle pagine precedenti e si impoverì di pagine e di servizi. Dall’inizio del 1975 e fino al febbraio del 1977 (salvo l’uscita di due numeri zero), la pubblicazione del giornale fu sospesa, forse proprio per crisi di indirizzo. Quando riprese, il 19 febbraio del 1977 (per poi attuare una lunga vacanza, dal 16 luglio al 24 settembre), il nuovo direttore responsabile, Gianni Daniele, spiegò "quello che è, che sarà e che vuole essere Voce Nostra": "Affronteremo i problemi che riguardano la nostra realtà diocesana e siciliana, urleremo il nostro no alla violenza da qualunque parte essa venga e comunque si manifesti, [esporremo] le nostre preoccupazioni per questo modello di società (…) che è profondamente e sostanzialmente ingiusta perché emargina e sfrutta coloro che hanno bisogno di essere difesi: i bambini, i vecchi, gli ammalati, i poveri".

Sul finire del 1977, il giornale cominciò ad uscire quindicinalmente sebbene recando ancora l’indicazione "settimanale di cultura e attualità", ma, nell’anno successivo, l’espressione "settimanale" muterà in quella di "periodico".

In effetti il giornale, nell’ultimo corso, sembra andar mutando da voce della comunità dei laici cristiani di Palermo in organo della Diocesi. Si parla più di vocazioni, dei lavori della Conferenza episcopale italiana, della condizione dei religiosi, della vita in clausura, della Missione di Palermo(28), di pastorale della famiglia, della presenza a Palermo del Cardinale Ruffini, rievocato nel decennale dalla morte, della sacralità della vita e quindi della delittuosità dell’aborto…

Il direttore, del resto, chiarendo nel 1978(29) quale fosse il bilancio della presenza di V.N. in Sicilia, metteva in primo piano lo spazio dato agli avvenimenti ecclesiali della diocesi e alle manifestazioni di cui si era fatta promotrice la comunità cattolica e quindi il tentativo fatto dal giornale di seguire i grandi avvenimenti del Paese, leggendoli in chiave diocesana. Mancavano ormai le inchieste sul Comune, sulla Regione, gli enti regionali ed i servizi sociali; mancavano - o erano divenuti argomento secondario - le rivendicazioni della partecipazione al governo della città da parte della comunità dei cristiani.

Sul piano della politica, appunto, trattata ormai come informazione, sia pure con commenti ed indirizzi e non più come proposta di profonda evoluzione dei partiti e della società, si ribadisce l’inaccettabilità del marxismo per i cristiani, studiandosi le prospettive per i cattolici recate dal progetto, di quegli anni, d’un "compromesso storico", ossia di un possibile e leale incontro per il governo dell’Italia tra la componente politica cattolica e quella comunista. Nella risposta di Enrico Berlinguer ad una lettera di monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea, che il giornale riproduceva(30), mentre si ammette il libero apporto alla società delle organizzazioni cristiane, si lamenta che nell’Occidente permanga ancora un sistema capitalistico e che in Italia non si riesca a rivedere il Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano, che considera ancora la religione cattolica come religione di Stato.

Purtroppo, però, certo materialismo marxista e certo anticlericalismo erano ancora espressi in quel tempo in forma polemica. Il 13 gennaio il Giornale recava il titolo "Protesta contro un articolo infamante sul Papa (intitolato Woitila, Fanfani e Torquemada, N.d.A.) ed è subito licenziato", riferendo il caso del direttore del quotidiano Diario di Palermo, uscito per un breve tempo in quegli anni, che aveva visto a sua insaputa sul suo giornale l’articolo contro il Papa.

Ma quegli anni inducevano forse realisticamente ad un compromesso tra i due più forti partiti italiani, esprimenti le allora più evidentemente diverse concezioni di società (quella marxista e quella occidentale) perché effettivamente la società di quei tempi era lacerata da odi poggianti sull’esasperazione delle due concezioni ed il "compromesso" forse avrebbe potuto avere il valore di una tregua.

Il 1977 ed il 1978 furono anni particolarmente segnati da scontri tra militanti di estrema destra ed estrema sinistra, da atti terroristici e, in genere, da violenza di piazza. A Roma, in piazza Indipendenza, il 2 febbraio del 1977 giovani del movimento di Autonomia (estrema sinistra) si scontrarono con la polizia ed assaltarono quindi una sede del Fronte della Gioventù (M.s.i.); scontri tra autonomi e polizia avvennero il 5 marzo per la condanna di Fabrizio Panzieri a nove anni di reclusione per l’uccisione dello studente di destra Mikis Mantakas; l’11 marzo muore colpito dalla polizia Pier Francesco Lo russo, militante di Lotta continua; un brigadiere della polizia è ucciso a Roma in un agguato terroristico ed un altro sottufficiale di venticinque anni è ucciso a Milano da un commando di Autonomia che ha appena effettuato una spesa proletaria in un supermercato; Vittorio Bruno, vice direttore del "Secolo XIX", è ferito in un agguato delle Brigate rosse; lo studente Mauro Amati di 21 anni è ucciso da una banda delle Unità combattenti comuniste a Roma; Walter Rossi di Lotta continua è ucciso da un gruppo di neofascisti a Roma; negli scontri che ne seguirono, causati dai giovani comunisti, morirà un altro giovane di destra. Il 12 maggio nel corso di tafferugli per una manifestazione radicale sulla vittoria del fronte divorzista non autorizzata, muore Giorgiana Masi di 19 anni. Nel 1978 saranno uccisi dalle Brigate rosse Carmine De Rosa, capo dei sorveglianti della Fiat e Girolamo Tartaglione, direttore del Ministero di Grazia e giustizia. Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, ventenni militanti del Fronte della Gioventù, sono uccisi da terroristi di estrema sinistra; Rosario Berardi, maresciallo di polizia, è ucciso il 10 marzo dalle Brigate rosse. Il 16 marzo del 1978 è Aldo Moro ad essere rapito dalle Brigate rosse, previa uccisione degli uomini della scorta. E ciò solo per fare degli esempi. Le violenze e gli scontri proseguirono nei mesi e negli anni successivi con una vera ecatombe di giovani e l’instaurazione di un permanente clima di odio tra gli esponenti giovanili di estrema destra e di estrema sinistra. Il corpo di Aldo Moro, ucciso dalle B.R., verrà trovato il 9 maggio 1978(31). Voce Nostra si interrogava: "Chi alimenta la guerriglia?", riflettendo sulla distorsione di diffuse concezioni del vivere sociale(32).

Anche negli ultimi mesi di vita il giornale contenne sempre articoli di buon livello culturale e continuò a rinnovare il gruppo dei collaboratori: compaiono, tra l’altro, approfonditi studi del Gruppo di formazione culturale J. Maritain(33) di Palermo e comincia ad apparire la firma di Padre Ennio Pintacuda(34), che da politologo sarà uno degli ispiratori della stagione politica diretta dal sindaco di Palermo, Luca Orlando, poi detta "Primavera di Palermo".

I fascicoli degli ultimi anni furono di sole quattro pagine ed il giornale cessò nel giugno del 1980, accomiatandosi per le vacanze estive ma non riprendendo che con un numero speciale del 1981, contenente esclusivamente documenti per i lavori dell’Assemblea ecclesiale diocesana(35).

Prima di chiudere, comunque, il giornale annunziava che il movimento di cattolici Una città per l’uomo avrebbe presentato proprie liste alle elezioni per i consigli di quartiere, con ciò ribadendo la propria fiducia in una rappresentanza diretta dei cattolici nelle sedi decisionali, ove si sperava che potessero risolversi i veri problemi delle sub-comunità cittadine secondo principi cristiani.

Oggi, dopo vent’anni dalla cessazione di V.N., un settimanale locale che pretenda di vivere e diffondersi soltanto attraverso il libero acquisto dei lettori e sulla forza delle sue idee non è più pensabile. D’altra parte, nella congerie dei forti messaggi che arrivano attraverso i talk-show televisivi, sempre su temi di grande rilievo generale, ed attraverso gli editoriali dei maggiori quotidiani nazionali, usurpanti l’attenzione per le cose a noi più vicine, sarebbe assai difficile concepire un attuale ruolo efficace per Voce Nostra. Né, assorbiti come siamo dai grandi temi del mercato europeo, delle imprese militari degli USA, degli assetti del mondo islamico, delle manovre elettorialistiche fatte a suon di miliardi dai partiti politici, (frattanto sostituitisi a quelli dei tempi di V.N.), dell’andamento delle borse mondiali ecc., sembra non esservi più tempo per lavorare comunitariamente per noi stessi e per gli ultimi della città; né per discutere della carità; né per affrontare problemi di rappresentanza spontanea e di quartiere dei poveri presso l’amministrazione civica; né di introdurre nella pubblica amministrazione valori cristiani.

Ma la società palermitana che emerge dalla lettura delle annate di Voce Nostra, vista storicamente, con le sue cronache della solidarietà dimostrata da tanti cristiani intorno alla Missione di Palermo, del nascere spontaneo dei comitati di quartiere, delle liste autonome dei cattolici di Città per l’uomo per le elezioni dei consigli di quartiere può indurre a riflettere se d’una circolazione settimanale di idee e di indirizzi ecclesiali sui problemi pratici la comunità palermitana non abbia ancora bisogno, e se non esista ancora una categoria di cittadini che non sia ascoltata da nessuno di quelli che partecipano al governo della città.

Ma se pure quello sforzo dei laici cattolici e del volontariato di allora, per tentare di inserire la visione cristiana nelle scelte amministrative, fatto da una parte della città che voleva sentirsi una vera comunità, può oggi essere giudicato il frutto di un’utopia, può almeno dirsi che le rievocazioni cui inducono le pagine di V.N. accendono la nostalgia per un grande corale sforzo di collaborazione comunitaria, che effettivamente ci fu, ed il sogno d’una politica locale veramente ispirata dai cittadini che pensano ad una seria evoluzione della società in senso solidale.

NOTE

1 Precedentemente si erano pubblicati a Palermo i due periodici politici cattolici: La Montagna (1903-1909) e Il Centro (1903-1913). Cfr. Lo Franco G., La Montagna, una voce palermitana della stampa cattolica, in Rassegna siciliana, aprile 2000, n. 9.

2 Alongi N., Palermo, gli anni dell’utopia, Soveria Mannelli (Catanzaro) 1997, pagg. 26 e 27.

3 Per un approfondimento della politica regionale di quegli anni, cfr. Menighetti R. – Nicastro F., Storia della Sicilia autonoma, Palermo 1998, pag. 145.

4 Le annate di V.N. sono interamente conservate e microfilmate presso la Biblioteca centrale della Regione siciliana. Ne era direttore Emanuele Gambino, direttore responsabile Orlando Scarlata, vice direttore Nino Barraco, direttore amministrativo padre Giuseppe Carcione e presidente del consiglio di amministrazione Giovanni Torregrossa, allora presidente della Giunta diocesana di azione cattolica. I collaboratori più assidui furono Carlo Alberto d’Elia, giornalista della RAI; Nino Alongi, professore di filosofia, scrittore e poi editorialista di Repubblica; Piero Lorello, presidente diocesano della Gioventù di azione cattolica, poi assessore comunale; Armando Fusco, funzionario della Regione che, proprio in quegli anni, ideava ed elaborava, insieme alla più giovane classe dirigente regionale, il progetto di una interessante riforma dell’Amministrazione pubblica; Raimondo Mignosi funzionario regionale; Eugenio Guccione, storico, studioso del pensiero di Don Sturzo, poi docente universitario; Renato Chiesa; Giulia Sommariva, sensibile scrittrice di cose d’arte e di argomenti culturali; Ignazio Sucato, sacerdote e direttore del piccolo periodico "La Via" che uscì a Palermo per alcuni decenni dopo la guerra; Santino Caramella, professore di filosofia morale nell’università di Palermo; Pietro Mazzamuto, professore di lettere nell’università di Palermo; Rino Cacioppo, giornalista; Giuseppe Pavone, docente della facoltà di architettura; Emanuele Sinagra, professore di fisica dell’università di Palermo; Bianca Cordaro, poi giornalista della RAI; Franco Riccio, esponente cattolico nell’organismo rappresentativo universitario; Albano Rossi, noto critico d’arte; Salvatore Orilia, storico della letteratura italiana e docente nei licei; Giuseppe Savagnone, scrittore cattolico. Negli anni Settanta sarebbero "passati" da V.N. anche: Raffaello Rubino, uno dei politici democristiani più autenticamente cristiani; Ugo Alvaro Bazan e Luigi Tripisciano, giornalisti della RAI; Giuseppe Frisella Vella, professore di economia politica nell’Università di Palermo; Lucio Galluzzo, giornalista dell’ANSA; Fausto Vallainc; Albino Longhi, capo redattore della RAI di Palermo; Enzo Sigillò, avvocato; padre Paolo Collura; Francesco Pizzo; Renato Luciano; Nicola Piazza, avvocato; Francesco Stabile, storico; Giovanni Cappuzzo; Lucio Marcatajo; Antonio Mogavero Fina, storico delle Madonie. Vi comparve anche diverse volte la firma di Gustavo Selva, allora direttore di un giornale-radio. Dal 1° marzo 1969 fu direttore responsabile Orlando Scarlata; dal 1972, padre Franco Ciaramitaro e dal febbraio del 1977, Gianni Daniele.

5 Nella rivalutazione del ruolo dei laici e della libertà dei cristiani in genere, si inseriva il problema dei rapporti con i non credenti ed addirittura del dialogo con essi. Nino Barraco, in Sono finiti gli anatemi (V.N. n. 8 del 25 febbraio 1968) spiegava: "Il Concilio ha definitivamente rivalutato la posizione del laico, che non può più essere considerata come quella del manovale … e che ha diritto al dialogo ed al confronto con i non credenti o con i membri di altre religioni purchè non succeda che il cristiano trovandosi nel mondo, studiando pensieri altrui, frequentando una società non cristiana, arrivi a spingere la propria tolleranza fino a condividere la posizione dei dissidenti, a tenere il dialogo con i lontani offendendo intanto i vicini, a parlare di apertura più per andarsene dalla casa del Padre che per farvi rientrare i lontani".

6 L’articolo è di Carlo Alberto D’Elia.

7 V.N. 11 gennaio 1970, n. 2: Lorello P., "La Cassa per il Mezzogiorno è un fatto nuovo: basterà?"

8 D’Elia C.A. in V.N. n. 4 del 1968.

9 Santino Caramella è nato a Genova il 22 giugno 1902 ed è morto a Palermo il 26 gennaio 1972. Fu filosofo e pedagogo; formatosi politicamente accanto a Piero Gobetti, fu successivamente professore di filosofia nell’istituto di magistero dell’Università di Messina ed in quello di Catania, dedicandosi soltanto alla pura ricerca filosofica; nel 1950 divenne ordinario di filosofia teoretica a Palermo, dove rimase fino alla morte. Fu uno dei maggiori animatori della Biblioteca filosofica fondata da Amato Pojero a Palermo; presidente dell’Accademia di scienze, lettere ed arti ed autore di importanti opere filosofiche sulla religione, la teosofia, l’ideologia, la conoscenza e la metafisica. Palermo gli ha dedicato una strada nel quartiere di Altarello di Baida. Per le collaborazioni a V.N., cfr. n. 7 del 14 febbraio 1971 e n. 21 del 23 maggio 1971.

10 Pietro Mazzamuto è nato a Centuripe nel 1920. è stato tra i più illustri docenti di letteratura italiana dell’Università di Palermo. Autore nel 1954 di una Rassegna bibliografico-critica della letteratura italiana, ha pubblicato studi sui principali autori classici italiani, dedicando anche profonde analisi a scrittori siciliani, quali Alessio Di Giovanni, Quasimodo, Antonio Veneziano, Giovanni Gentile, Domenico Tempio. E’ stato anche autore di racconti e di un romanzo: Il diavolo e l’olio santo.

11 Alongi N., Palermo, cit., pag. 153.

12 Paolo Collura, sacerdote, è nato a Prizzi nel 1914 ed è morto a Palermo nel 1997. Oltre al suo ministero sacerdotale, si dedicò a ricerche storico-artistiche. Tra l’altro, è stato direttore del Museo di arte sacra di Palermo, ha compiuto la ricerca e la pubblicazione delle più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento (1092-1282); ha condotto importanti studi sul monachesimo pre-normanno in Sicilia ed ha organizzato significative mostre su temi dell’arte sacra.

13 V.N., 22 febbraio 1970, n. 8.

14 V.N. 7 giungo 1970, n. 23.

15 Cfr. V.N. 16 novembre 1969, n. 36.

16 Cfr. V.N. 28 aprile 1968, n. 17.

17 V.N. 24 maggio 1970, n. 21.

18 V.N., Luciano R., 31 maggio 1970, n. 22.

19 V.N. 8 settembre 1968, n. 30; 13 maggio 1973, n. 76.

20 V.N. D’Elia C.A., n. 13 del 28 marzo 1971.

21 Alongi N., Palermo, cit. pag. 149.

22 V.N. n. 1 del 6 gennaio 1974, Barraco N., La Missione di Palermo compromette i cristiani.

23 V.N. n. 29 del 7 ottobre 1973 e n. (speciale) 31 del 21 ottobre 1973.

24 V.N. n. 6 del 7 febbraio 1971; n. 3 del 7 luglio 1979, ove si commentava la meditazione sul vangelo del filosfo M.F. Sciacca; n. 6 del 28 ottobre 1979: Galati V., Rileggiamo La Pira.

25 V.N., per es.: n. 2 del 13 gennaio 1974; n. 6 del 10 febbraio 1974; n. 10 del 10 marzo 1974; n. 13 del 31 marzo 1974.

26 V.N. n. 6 del 7 febbraio 1961; n. 7 del 18 febbraio 1973; n. 21 del 17 giugno 1973.

27 V.N. D’Elia C.A. n. 28 del 11 luglio 1971.

28 V.N. n. 4 del 2 aprile 1977, La Rosa A., Prende quota la Missione di Palermo.

29 V.N. n. 1 del 19 febbraio 1977.

30 V.N. n. 14 del 22 ottobre 1977 e n. 15 del 29 ottobre 1977 contengono una serie di articoli sul problema dell’incontro tra cattolici e marxisti. Cfr., in particolare, Fusco A. La questione comunista, in V.N. n. 17 dell’11 novembre 1979.

31 V.N. n. 6 del 25 marzo 1978 e n. 7 dell’8 aprile 1978. La sintesi della posizione del giornale di fronte al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro è traibile dai titoli a tutta pagina dei detti due servizi: Ci sentiamo coinvolti nella mobilitazione generale e Lo Stato non è ancora sconfitto.

32 V.N. n. 7 del 14 aprile 1979, n. 9 del 12 maggio 1979.

33 V.N. n. 10 del 26 maggio 1979.

34 V.N. n. 14 del 22 ottobre 1977. V., particolarmente, n. 2 del 20 gennaio 1980 circa l’assassinio di Piersanti Mattarella.

35 Alongi, op. cit. pag. 149, dice che i motivi ufficiali della chiusura di V.N. "saranno di natura finanziaria. In verità, vi erano stati degli screzi all’interno della redazione sull’opportunità o meno di appoggiare la DC in occasione delle elezioni regionali del 1979. La maggioranza aveva ribadito l’autonomia di V.N., il Cardinale ne aveva condiviso la scelta, ma subito dopo le elezioni ne sospenderà la stampa".

UNA POLITICA DI FRONTIERA PER UNA COSCIENZA COSTITUZIONALE DEI CATTOLICI - LETTERE DI MEDA A TONIOLO di Rosanna Marsala

Premessa

La diretta filiazione del cattolicesimo sociale e della democrazia cristiana dal cattolicesimo intransigente è stata più volte posta in evidenza dalla critica storica. Secondo i giudizi più diffusi il cattolicesimo intransigente ha voluto mettere fine alle divisioni e agli sdoppiamenti fra l’uomo sociale impegnato nella vita e il cristiano che vive la sua fede; questa separazione, che aveva rinchiuso il "prete in sacrestia" e rifiutato l’intervento della chiesa nell’ordine sociale e politico, viene rinnegata. Il cattolicesimo intransigente diviene, dunque, portatore di specifiche istanze sociali (che poi saranno rilanciate e consolidate dall’enciclica leoniana Rerum Novarum del 1891) ed è la matrice del cattolicesimo sociale. A dimostrazione di tale tesi è l’itinerario percorso da diversi esponenti del movimento cattolico, e fra questi si può annoverare Filippo Meda. Formatosi all’interno dell’Opera dei congressi, alla scuola di Don Davide Albertario, egli pur riconoscendo la necessità di restare fedele ai voleri del Papa, ben presto comincia a staccarsi dalla posizione prevalente all’interno della maggiore organizzazione cattolica nazionale, immobilista e contraria ad ogni immissione dei cattolici nella vita politica e sociale dello stato. Inizia la sua battaglia che ha come obiettivo finale l’inserimento ufficiale dei cattolici nella vita dello stato attraverso una presenza sempre più attiva sino alla creazione di un partito di cattolici non confessionale, progressista e riformista.

Per Meda che, a ragione, è stato definito "il più politico dei giovani democratici cristiani" era premessa necessaria l’accettazione dei valori dello stato moderno e delle istituzioni rappresentative. Anche se consapevole della validità delle sue convinzioni, Meda cercò sempre l’approvazione e il sostegno di uomini come Giuseppe Toniolo che, sebbene riconoscesse la necessità di dare un ruolo al laicato cattolico, considerava l’operato del giovane avvocato milanese a tratti impulsivo e poco cauto.

In effetti Giuseppe Toniolo, del quale Meda condivise in gran parte le teorie politiche e fu grande ammiratore, rappresentò un punto di riferimento per tanti giovani democratici cristiani.

Toniolo fu colui che tentò di conciliare il vecchio e il nuovo, di far accettare il concetto di democrazia e difendere in ogni modo l’unità dell’azione cattolica; si rese perfettamente conto che lo stato moderno chiamava i cattolici a nuovi compiti e per questo insegnò ai giovani del suo tempo a impegnarsi nella lotta per l’elevamento economico e sociale delle condizioni delle classi più deboli.

Le lettere che riportiamo in appendice furono scritte da Filippo Meda a Giuseppe Toniolo tra il 1890 e il 1917, un periodo di grandi fermenti e trasformazioni sia all’interno del movimento cattolico sia nella società italiana; esse ci mostrano il travaglio ideologico del giovane Meda, ma anche il rapporto singolare che legava i due protagonisti del movimento cattolico; sebbene, si tratti per lo più di comunicazioni di lavoro, esse sicuramente costituiscono, a nostro parere, una occasione per la richiesta di consigli, suggerimenti, sostegno e approvazione.

I - Dal cattolicesimo intransigente alla democrazia cristiana

Filippo Meda(1) nacque a Milano il 1° gennaio 1869 da una famiglia della media borghesia commerciale. Frequentò il liceo Beccaria e nel luglio 1891 si laureò in lettere alla Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano; prese, subito dopo, una seconda laurea in giurisprudenza all’università di Genova (novembre 1893). Nel 1896, dopo aver sostenuto gli esami per procuratore e avvocato, aprì uno studio legale a Milano assieme ad Agostino Camerini; nello stesso anno sposò Maria Annunciata Branca, da cui ebbe due figli Gerolamo (1897) e Luigi (1900).

Meda iniziò la sua attività giornalistica(2) molto presto, collaborando a diversi periodici cattolici dell’epoca, tra cui ricordiamo: "La scintilla", "Il corriere della domenica", "La rivista monzese", che si trasformò poi nel "Cittadino", "L’elettore cattolico milanese", "La scuola cattolica", "La rivista internazionale di scienze sociali". Ma la collaborazione più rilevante fu senz’altro quella a "L’Osservatore cattolico", battagliero quotidiano milanese di Don Davide Albertario(3). Il primo articolo di Meda intitolato "Le scuole secondarie" comparve sul numero del 14-15 maggio 1887; col passare del tempo i suoi scritti si intensificarono e la collaborazione divenne continuativa tanto che il 1° agosto 1893 Don Albertario rilasciò a Meda una lettera di presentazione che lo accreditava quale redattore de "L’Osservatore cattolico".

Intanto, all’interno della sezione giovani dell’Opera dei congressi(4) del capoluogo lombardo, Meda si distinse per la sua attività di organizzatore elettorale e di conferenziere, elaborando anche un proprio pensiero sul movimento cattolico. L’esordio di Meda nel movimento cattolico si deve ad un opuscolo dal titolo Cattolicismo e legittimismo che lo impose subito all’attenzione e gli assicurò stima e fama di democratico tra i cattolici militanti. In questo scritto egli affermò la tesi della inconciliabilità tra cattolicismo e legittimismo; secondo Meda bisognava distinguere nettamente la causa cattolica da quella dei legittimisti, in quanto la restaurazione del Pontefice era qualcosa di sostanzialmente diversa dalla restaurazione degli altri sovrani preunitari. I cattolici non volevano "l’Italia in pillole con relativi duchi e granduchi" e sicuramente desideravano "l’Italia forte, grande, indipendente, una anche, ma in pace col Pontefice effettivo"(5). Il potere temporale del Papa era voluto solo perché il Papa stesso riteneva necessaria una sovranità effettiva e territoriale a garanzia della propria indipendenza, ma "se domani il Papa giudicasse diversamente per ipotesi, noi cesseremmo di volerla e di domandarla"(6). Ciò che veramente importava era, invece, la pacificazione religiosa e per raggiungere tale meta, i cattolici avrebbero dovuto seguire le direttive del Pontefice. La fedeltà al Pontefice era un punto fondamentale del "partito cattolico", uno dei tre soli partiti che assieme al liberale e al socialista, in Italia e in Europa, potevano "dirsi influenti nella vita pubblica e sostanzialmente diversi l’uno dall’altro"(7). Anche l’atteggiamento di Meda nei confronti dell’astensionismo elettorale era giustificato dalla necessità di rimanere fedeli al Papa, "disobbedendo a questo comando noi distruggeremmo il principio fondamentale del nostro programma che è la subordinazione dell’ordine temporale all’ordine spirituale; non saremmo più partito cattolico; saremmo un partito inutile"(8). Da queste parole si evince subito una delle caratteristiche della personalità di Filippo Meda, ossia la sua incondizionata obbedienza alla S. Sede. Egli, nonostante rappresenti l’uomo che condusse il movimento cattolico sulla via della lotta per una politica indipendente da ogni vincolo confessionale, non uscì mai dall’ortodossia della chiesa. Al tempo stesso, si rendeva conto che la questione romana aveva monopolizzato l’attenzione dei cattolici distogliendoli da altri campi. In particolare aveva causato il loro isolamento culturale e favorito l’orientamento diffuso secondo il quale l’organizzazione delle masse, che gli stessi intransigenti si proponevano, non necessitasse di una grande cultura ma fossero sufficienti gli elementari principi della fede(9). Tuttavia, all’interno dell’Opera dei congressi, e soprattutto per uomini come Paganuzzi o i fratelli Scotton, per i quali rappresentava "segno di debolezza e d’insubordinazione ogni accenno alla vita pubblica, ogni aspirazione all’attività politica dei cattolici"(10), le posizioni di Meda, e di quanti come lui aspiravano all’ingresso dei cattolici nella vita politica e sociale del paese, suscitarono perplessità e polemiche(11). Ma ciò che destava maggiore preoccupazione, tra gli intransigenti più ostinati, era la tendenza dei cattolici lombardi(12), sostenuta a gran voce da Meda, di sostituire la formula margottiana "né eletti né elettori" con l’altra "preparazione nell’astensione". Meda era convinto che per poter attuare in campo sociale gli obiettivi che il movimento cattolico si era prefisso, bisognava far sentire l’influenza dei cattolici nella vita politica, culturale e scientifica del paese e per questo era necessario "preparare nell’astensione disciplinata gli elettori politici, collo scopo diretto di tener pronte le forze per il giorno dell’azione e di predisporre l’avvento di questo giorno(13). A tale scopo, Meda assieme a Luigi Bertani e Giuseppe Mazza, in preparazione alle elezioni amministrative, fondò nel 1890 l’associazione degli elettori cattolici che aveva come proprio organo di stampa il periodico "L’elettore cattolico milanese". Il 6 luglio 1902 Meda fu eletto per la prima volta consigliere provinciale per il mandamento di Rho(14), che lo rielesse nelle elezioni seguenti e per l’ultima volta l’8 giugno 1914.

In questi stessi anni Meda manifestò la sua piena adesione al sistema rappresentativo parlamentare e ciò lo differenziava dalla maggior parte degli intransigenti che, invece, erano sostanzialmente indifferenti nei confronti delle istituzioni parlamentari. Meda intendeva accettare i principi fondamentali del nuovo stato liberale; continuare sulla strada della contrapposizione irriducibile diventava sterile e inutile. Era necessario che i cattolici si inserissero gradualmente nei gangli dello stato per poi modificarlo in senso cristiano e popolare. Ciò naturalmente comportava una presenza sempre più attiva dei cattolici nella vita pubblica ed una accettazione dei valori dello stato moderno e delle sue istituzioni che non tutti i protagonisti del movimento cattolico erano disposti a condividere. Lo stesso Romolo Murri entrò in polemica con Filippo Meda, in quanto temeva che questa apertura nei confronti delle istituzioni liberali provocasse una involuzione in senso transigente del giovane avvocato milanese. La posizione di Murri potrebbe apparire, per certi versi, ambigua o contraddittoria: da un lato afferma la funzione attiva del laicato moderno, divergendo così dall’ala conservatrice dell’Opera dei congressi, dall’altra pone in essere una strenua difesa dell’astensionismo elettorale, criticando l’azione di coloro che auspicavano l’ingresso dei cattolici nella politica attiva(15).

Durante la prigionia di Don Albertario, a seguito dei moti del 1898(16), ed anche dopo la sua liberazione, Meda tenne di fatto la direzione de "L’Osservatore cattolico"(17) dalle cui colonne sostenne con vigore il fascio democratico cristiano sorto a Milano nel 1899. Ben presto Meda divenne la guida effettiva del movimento cattolico milanese. Alla morte di Don Albertario, Meda rimase unico direttore e proprietario de "L’Osservatore cattolico" sino alla chiusura del giornale avvenuta il 30 settembre 1907. Sostenne la candidatura di Grosoli alla presidenza dell’Opera dei congressi, e quando questi, sconfessato dalla S. Sede dovette rassegnare le dimissioni, Meda per solidarietà si dimise dalla carica di presidente della sezione elezioni amministrative. Nonostante ciò, e mentre l’Opera dei congressi veniva sciolta, perché considerata ormai inutile, Meda fondava l’unione nazionale fra gli elettori cattolici amministrativi allo scopo di uniformare il comportamento dei cattolici in campo amministrativo, ma soprattutto per preparare una organizzazione elettorale nella prospettiva di una modifica dell’astensionismo nei riguardi delle elezioni politiche(18). Tuttavia, difronte alle improvvise elezioni indette da Giolitti, all’indomani dello sciopero del 1904, Meda ritenne opportuno continuare sulla linea dell’astensionismo; vi furono però delle candidature cattoliche e fra queste lo stesso Filippo Meda che fu candidato senza aver dato il suo assenso.

All’indomani delle elezioni, Meda cercò di ridare impulso all’unione nazionale ritenendo che l’attenuazione del non expedit potesse favorire l’organizzazione di un partito cattolico. È proprio nel discorso di Rho del 28 dicembre 1904 che Meda esprime la necessità di un partito cattolico non confessionale, progressista e riformatore, che potesse finalmente inserire le masse cattoliche nello stato. In particolare, premeva a Meda che i cattolici non si re-cassero alle urne senza un partito, senza un minimo di comune coscienza po-litica; e in effetti il tentativo di Meda, negli anni che precedettero la nascita del partito popolare, può essere considerato il primo serio tentativo di fondare un organismo politico costituito da cattolici ma aconfessionale. Forse i tempi ancora non erano maturi e Meda, difronte al fallimento della sua iniziativa, si rifiutò di assumere la presidenza dell’unione elettorale in quanto egli, ben lungi dal rappresentare un elemento equilibratore tra opposte tendenze, si sarebbe trovato in contrasto con gli orientamenti generali prevalenti nell’unione elettorale, soprattutto con quella impostazione che voleva i cattolici italiani fortemente dipendenti dalla S. Sede anche in politica(19).

Divenuto direttore de "L’Unione", il nuovo giornale nato dalla fusione de "L’Osservatore cattolico" e "Lega lombarda", Meda continuò nella sua azione di preparazione dell’inserimento dei cattolici nella vita dello stato; in effetti Meda aveva voluto un giornale "che abbandonasse la vecchia maniera delle lotte degli intransigenti, chiuse in se stesse, senza sbocco, e avviasse i cattolici a comprendere i problemi del funzionamento della vita delle istituzioni fondamentali dello stato moderno"(20). Ciò naturalmente destò preoccupazione all’interno della chiesa, e critiche da parte dei più tenaci intransigenti, in particolare da "L’Unità cattolica"(21) giornale da sempre fortemente contrario a qualsiasi apertura nei confronti dello stato liberale. "L’Unione" ebbe vita breve e tormentata sia per le critiche di cui si è detto, sia per la delicata situazione finanziaria; e così nel 1912 Meda lascia la direzione del giornale che cambia anche la testata in "L’Italia".

La consapevolezza che l’attività parlamentare, intesa come vero servizio, gli impedisse di dedicarsi pienamente al giornalismo, condusse Meda alla decisione di lasciare la direzione de "L’Unione". Nel 1909 Meda fu eletto, per la prima volta, deputato nel collegio di Rho col 66% dei voti. In parlamento, egli si qualificò, ben presto, come il leader del gruppo dei deputati cattolici; ebbe, finalmente, modo di realizzare quell’ideale di "azione sociale su terreno costituzionale" che da tempo propugnava, con interventi concreti e cercando allo stesso tempo di eliminare, per quanto possibile, le contrapposizioni ancora esistenti fra Stato e Chiesa.

In occasione della guerra libica Meda, dopo una iniziale posizione contraria(22), aderì alla politica giolittiana sottolineando però che il suo consenso era di natura strettamente politica. In vista delle elezioni del 1913,(23) che si sarebbero tenute col suffragio quasi universale maschile, Meda cercò di riproporre l’idea di un partito cattolico popolare cristiano che avrebbe dovuto agire "come libera iniziativa di cittadini, all’infuori di qualsiasi responsabilità o vincolo ufficiale, mediante la raccolta di adesioni collettive ed individuali al proprio programma(24). Il tentativo di costituire un partito popolare cristiano, fallì ancora una volta e Meda dovette accontentarsi di aderire al patto Gentiloni(25). Sebbene l’idea di Meda rimaneva quella della creazione di un partito, egli fu certamente nel gruppo che lavorò per l’elaborazione del patto Gentiloni pur continuando ad affermare che i cattolici avrebbero potuto appoggiare solamente quei liberali che avessero abbandonato l’anticlericalismo(26). Senza voler attribuire al patto Gentiloni significati che non ebbe, di fatto esso diede per la prima volta l’idea che, se i cattolici si fossero costituiti in forza organizzata, cosa che Meda da tempo auspicava, essi avrebbero potuto incidere profondamente nella vita pubblica del paese; e le elezioni del 1913 rafforzarono ancora di più in Meda la convinzione che ormai i cattolici dovessero pensare a fondare un partito autonomo, anche per evitare di essere assorbiti dai liberali; "io credo - scrisse Meda - oggi più che mai ciò che ho sempre creduto; che, cioè, in Italia l’esistenza di una organizzazione dei cattolici non sia solo una necessità per la difesa religiosa, ma anche per la normale e progressiva evoluzione della vita nazionale"(27).

Allo scoppio della prima guerra mondiale Meda si schierò in un primo tempo per la neutralità (28), ma ben presto, per motivi strettamente politici(29) rivide la sua posizione e decise di entrare come ministro delle finanze nel governo di unità nazionale di Paolo Boselli. Tale decisione creò diverse perplessità nel mondo cattolico(30); in particolare "L’Osservatore Romano" scrisse che "non essendovi in Italia un partito cattolico politicamente costituito, anzi neppure in parlamento un gruppo cattolico propriamente detto, l’on.Meda non può, come ministro, rappresentare altri che se stesso"(31). Tutto ciò ed altre dichiarazioni da parte della S. Sede misero Meda in una imbarazzante situazione tanto che fu sul punto di dimettersi. Ma le notizie sempre più gravi che giungevano dal fronte lo dissuasero: "dopo quegli avvenimenti - dichiarò Meda al "Corriere d’Italia" - ogni esitanza anche di un solo minuto, sarebbe stata una colpa difronte alla patria, mi avrebbe giustamente squalificato non soltanto come uomo politico, ma come cittadino, e inoltre credo avrebbe potuto, a torto o a ragione, gettare sulla parte cattolica un’ombra, se non un sospetto, di minore sensibilità in presenza dell’invasione nemica"(32). La motivazione fu considerata accettabile dall’ "Osservatore Romano" e Meda potè così restare al ministero delle finanze anche nel successivo governo Orlando, senza perciò sentirsi in imbarazzo. Meda, pur non possedendo particolari competenze tecniche, grazie al suo senso pratico, dimostrò di essere uno dei migliori ministri delle finanze che l’Italia liberale avesse avuto. In particolare si ricorda il suo contributo per la riforma delle imposte dirette(33) che Luigi Einaudi giudicò un tentativo onesto e serio per creare un sistema che fosse di grande aiuto alla finanza e al tempo stesso riducesse al minimo la pressione esercitata sulla produzione della ricchezza(34).

Nel 1919, difronte alla costituzione del partito popolare italiano(35), Meda assunse un atteggiamento che meravigliò molti. Infatti pur essendo favorevole a un partito aconfessionale, autonomo e nazionale (egli stesso già da tempo ne aveva auspicato la nascita) ritenne, in un primo tempo, di non aderire per due motivi fondamentali: in primo luogo in quanto membro del governo non reputava corretto entrare in un partito politico sorto dopo la costituzione del ministero; in secondo luogo perché non condivideva alcuni punti del programma del Partito Popolare Italiano. Più verosimilmente si potrebbe pensare che il comportamento di Meda derivasse anche da una sorta di presa di posizione nei confronti di un partito che egli tanto aveva voluto ma che non era riuscito a formare, ed ora un altro, Luigi Sturzo, era riuscito nel suo intento. Tuttavia, nei mesi seguenti alla costituzione del partito, sia per la caduta del governo Orlando e lo scioglimento della camera, sia per le continue pressioni da parte di amici e compagni, decise di aderire formalmente al Partito Popolare Italiano. Nello stesso tempo Meda diede vita ad una nuova rivista "Civitas" attraverso la quale poter esprimere liberamente ed autonomamente le proprie idee.

Nel 1919 viene rieletto al Parlamento nazionale. I consensi raccolti dal Partito Popolare Italiano nelle elezioni del 1919 posero, come è noto, gravi problemi ai suoi dirigenti. Bisognava rimanere all’opposizione o partecipare al governo coi liberali? Meda invitava ad essere cauti: "noi che siamo e saremo sempre collaborazionisti per principio, noi che escludiamo dalle ipotesi future anche la conquista del potere nel senso più completo, dobbiamo avvertire a tempo l’errore in cui si cadrebbe anticipando i tempi, compromettendo le situazioni, sciupando gli uomini"(36). In altre parole, Meda riteneva opportuno, in quel momento particolare, che il Partito Popolare Italiano non entrasse a far parte del governo; e coerentemente egli stesso rifiutò l’incarico di parteciparvi. Ma più tardi accettò la nomina a ministro del tesoro nel governo Giolitti giustificando la sua presenza per spirito di sacrificio e nella convinzione di giovare al paese; "ho dovuto accettare il tesoro, -scriveva al figlio Gerolamo il 13/06/1920 - dico ho dovuto perché senza questa accettazione, oggi Giolitti rassegnava il mandato al Re, non credendo egli di poter stare al governo se io non sia a capo di questo dicastero"(37). Anche come ministro del tesoro, Meda si adoperò per migliorare le condizioni finanziarie del paese e, in particolare, assieme al ministro del lavoro Labriola, intervenne nell’occupazione delle fabbriche per indurre gli industriali a concedere gli aumenti salariali e i miglioramenti normativi richiesti.

In occasione delle elezioni amministrative del 1920 Meda fu in polemica con Sturzo. Egli riteneva realisticamente, che estendere a tutta l’Italia la tattica intransigente (consistente nel rifiuto da parte dei cattolici a qualsiasi appoggio a candidati liberali) come auspicava il sacerdote calatino, avrebbe comportato in alcune città la vittoria schiacciante dei socialisti; quindi, pur accettando in linea di principio l’intransigenza, bisognava lasciare ai responsabili locali la libertà di autoregolarsi(38). La stanchezza per la politica, indusse Meda nel 1921 a rassegnare le dimissioni dal governo Giolitti. Ciò gli permise di potersi dedicare di più all’attività professionale; nel frattempo fu nominato presidente della Banca popolare di Milano, carica che tenne fino al 1927. Sempre in questo periodo collaborò con Padre Gemelli alla fondazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di cui divenne consigliere legale.

Nel 1921, Meda si presentò alle elezioni come capolista del Partito Popolare Italiano nella circoscrizione di Milano-Pavia, ma nonostante l’enorme successo personale(39), egli non volle più ricoprire alcun incarico ministeriale(40). In seguito a questi suoi continui rifiuti, ma anche forse per contrasti di fondo, i rapporti tra Meda e Sturzo(41) che più volte lo aveva esortato a partecipare al governo , si guastarono definitivamente.

L’atteggiamento di Meda nei confronti del fascismo fu sempre molto cauto ma non di resa o connubio; egli riteneva inconciliabile sul terreno ideologico popolarismo e fascismo. Tuttavia, benché contrario alla partecipazione dei popolari al ministero Mussolini, Meda riteneva che il partito non avrebbe dovuto schierarsi su posizioni di scontro frontale con il fascismo, temendone le reazioni violente: "anche gli spiriti sdegnosi e intolleranti di costrizioni morali e intellettuali è da ricordare - scrisse al figlio Gerolamo nel 1923 - essere male il disperdere energie nell’ora in cui non se ne può sperare pratico risultato mentre è invece saggio adattare la propria condotta alle esigenze realistiche della vita e della storia".(42)

Sempre per timore di un inasprimento della politica fascista, Meda, contrariamente al partito, votò a favore della riforma elettorale Acerbo, ma, nello stesso tempo, rifiutò l’invito di Mussolini di entrare a far parte del listone. Il suo atteggiamento di cautela nei confronti del fascismo, interpretato da molti come consenso, provocò forti polemiche soprattutto all’interno del Partito Popolare Italiano. Naturalmente ciò lo amareggiò molto. E, così, decise di allontanarsi dalla vita politica attiva e mantenere una posizione autonoma soprattutto dai clerico- fascisti verso i quali non mostrò mai alcuna simpatia.

Nel 1925 la rivista "Civitas" fu sequestrata ed egli decise di sospenderne la pubblicazione. Da allora in poi si dedicò esclusivamente alla professione di avvocato, pur continuando a collaborare a giornali e riviste d’ispirazione cattolica, quali "Vita e pensiero", "La scuola cattolica", "Pro familia" con articoli di carattere storico e letterario. Morì a Milano il 31 dicembre 1939.

II - Per una coscienza costituzionale

I cattolici intransigenti(1) e i socialisti, seppure per motivazioni diverse, erano stati accomunati da un atteggiamento negativo nei confronti del Parlamento; esso, infatti, veniva considerato dai socialisti come una istituzione borghese che avrebbe potuto corrompere il partito distogliendolo dai suoi fini; invece per il cattolico intransigente il Parlamento rappresentava il luogo dove si erano votate le leggi contro la chiesa e i suoi beni. Accedervi avrebbe significato accettare una istituzione che aveva violato i diritti del Papa. Ma l’allargamento del suffragio elettorale voluto da Depretis(2), conduce le forze politiche ad una seria riflessione sull’atteggiamento da assumere nei confronti del Parlamento. Per i socialisti il Parlamento divenne uno strumento che poteva essere adoperato per migliorare la legislazione sociale in difesa degli interessi dei lavoratori. Anche per la chiesa, l’introduzione del suffragio universale poneva nuovi e più gravi problemi .Tra la S. Sede e la classe politica dirigente liberale veniva ora ad inserirsi una classe popolare che reclamava a gran voce la difesa dei suoi diritti economici, politici e civili, e la chiesa non poteva rimanere sorda se non voleva che la nuova massa di elettori si spostasse tutta a sinistra; era, dunque, necessario organizzare anche politicamente il nuovo elettorato politico(3). Tuttavia, per il cattolico intransigente, il Parlamento continuò ad essere una istituzione estranea fino a quando non apparve Filippo Meda(4) sulla scena del movimento cattolico organizzato.

Possiamo senz’altro affermare che la caratteristica fondamentale di tutto l’operato di Filippo Meda fu la lotta che egli intraprese per affermare la necessità dell’azione sociale dei cattolici sul terreno costituzionale. Egli fu l’uomo dell’estrema prudenza, il moderatore per antonomasia, ma, al tempo stesso, colui che condusse il movimento cattolico da partito astensionista a partito cattolico costituzionale.

L’esperienza politica di Meda non fu contrassegnata da profonde crisi o da impeti rivoluzionari; egli rappresenta l’esempio di un cattolico che, fin dall’esordio nelle attività delle organizzazioni cattoliche presenta un complesso di convinzioni politiche che rimarranno nella sostanza di fondo pressocchè inalterate.Certo c’è differenza tra il Meda del periodo in cui scrive su "L’Ossevatore cattolico(5)" e il Meda che fonda il giornale "L’Unione(6)"; ma ciò non rappresenta un contrasto, bensì, come già abbiamo cercato di dimostrare, una conseguenza logica delle premesse che erano già presenti nel primo Meda .

Filippo Meda fu democratico cristiano nella sua interezza, criticò l’interpretazione del non expedit con la famosa formula né eletti né elettori(7), fu per l’autonomia del movimento cattolico, senza però tralasciare la possibilità di alleanze con i partiti di tradizione laica;non pronunciò mai una condanna integrale del Risorgimento, ma, anzi, fu sempre fiducioso nella possibilità di conciliazione tra lo Stato e la S. Sede. Ben presto la sua vocazione a immedesimarsi nei problemi reali, concreti, relativi all’evoluzione del movimento cattolico, lo distinsero da altre figure, sebbene anch’esse nate all’interno della democrazia cristiana. Meda fu un appassionato degli ideali della democrazia cristiana, ed agì sempre dall’interno dell’Opera dei congressi. Bisogna ricordare che Meda non fu soltanto un pragmatico, ma seppe accompagnare la sua azione con un preciso pensiero politico; agiva considerando la situazione politica nel suo complesso e valutando ogni singolo atto al fine di riuscire ad incanalare il movimento cattolico sulla via del costituzionalismo. Al centro della sua elaborazione politica vi è lo stato, sebbene Meda sia cosciente di non poter elaborare una linea politica che non tenesse conto dei gravi problemi riguardanti i rapporti tra stato e chiesa, tra classe politica dirigente liberale e movimento cattolico. Ed, infatti, la questione più spinosa che contrappose Meda agli intransigenti della vecchia maniera come Paganuzzi e Sacchetti riguardava il comportamento elettorale dei cattolici(8). Il non expedit era considerato dagli intransigenti come una sorta di dogma, necessario e inderogabile, del movimento cattolico. Lo stesso Murri(9) fu all’inizio molto vicino a questa interpretazione e considerava il non expedit come una deliberazione presa dal Vaticano a nome dei cattolici; anche Sturzo(10) era dello stesso parere, ed era convinto che la fine dell’astensionismo avrebbe gettato il clero meridionale di nuovo nelle braccia delle clientele moderate locali e, quindi, auspicava che tale legge rimanesse in vigore sino a che i cattolici non avessero maturato una propria coscienza politica autonoma.

Filippo Meda rigetta ogni interpretazione dogmatica del non expedit. Pare strano a prima vista - egli affermava sin dal 1893 - che noi osiamo presentarci come partito, mentre rinunciamo ad usare dell’arma con cui i partiti oggi combattono e possono sperare di vincere, voglio dire il voto politico; e tale stranezza esisterebbe per davvero ove la nostra astensione fosse un proposito dogmatico, assoluto, irremovibile; ma chi ne conosce l’essenza e la ragione, non esita un momento a vedere che non c’è per nulla: difatti noi astenendoci non disprezziamo l’arma del voto politico, no; obbediamo al nostro capo, il quale si è riservato, in virtù del diritto che gli viene dall’essere egli giudice delle materie religiose e alle religiose connesse di licenziarci al fuoco quando gli sembri opportuno il momento(11)". Dunque, Meda dà all’astensione il valore di un semplice divieto pontificio, divieto eccezionale, dal momento che la norma sarebbe che i cattolici si recassero alle urne e votassero. In altre parole Meda critica la formula margottiana "né eletti né elettori" principalmente per avere assunto un carattere di perpetuità, mentre il divieto del Pontefice deve essere considerato come un provvedimento transitorio legato a speciali condizioni e perciò stesso revocabile, "onde bisognerebbe - dice Meda - proprio deciderci tutti una buona volta a respingere la formula margottiana e ad adottare quella che i migliori giornalisti nostri accettano, e che per primo propose "L’Osservatore cattolico" quella cioè della preparazione nell’astensione(12)". Secondo Meda l’astensionismo non implica un giudizio negativo sulle forme rappresentative, lungi dal cercare di convincere il Pontefice a togliere il divieto, bisognava invece operare per modificare le circostanze politiche che lo posero in essere, in particolare "dimostrando al popolo i danni che derivano dal mancare nelle vene e nelle arterie della pubblica amministrazione il sangue cattolico(13)". Ma grandi furono le difficoltà e le resistenze che il gruppo legato all’ "Osservatore cattolico" dovette superare prima di far accettare la formula della preparazione nell’astensione. La realtà è che una profonda diffidenza regnava tra i cattolici militanti nei confronti della politica (che spesso veniva identificata con il parlamento) dalla quale avrebbero dovuto tenersi lontano.

Filippo Meda, in diverse occasioni, ribadisce la sua fiducia nella funzione della rappresentanza parlamentare. E proprio in un momento di crisi delle istituzioni(14) è significativa la sua presa di posizione in favore del sistema democratico parlamentare. In una conferenza tenuta a Milano, Meda pronuncia il suo atto di fede nei confronti delle istituzioni parlamentari : "Dopo l’esperienza fatta in 50 anni, io credo che ben pochi protesterebbero se oggi, per esempio, a Crispi venisse il ticchio di sbarrare per sempre Palazzo Madama e Montecitorio e di far procedere l’amministrazione dello stato con decreti reali(15)"; e aggiungeva "tra questi pochi, però prego i lettori a credere, ci sarei io"(16). Tuttavia Meda, nonostante la sua fiducia nella istituzione parlamentare, si rende conto della degenerazione nella quale è caduta e si affretta a precisare una distinzione tra il sistema rappresentativo in sé e il sistema rappresentativo quale è oggi applicato in vari stati europei ed anche in Italia, che altro non è che parlamentarismo; "giacchè - dice Meda- ove i deputati vadano al parlamento considerandosi non come designati a garantire il retto funzionamento dell’autorità sociale, come amministratori insomma di un patrimonio che non appartiene a nessuno, e tanto meno a loro, e di cui non può essere mutata la destinazione e la natura, ma come investiti di una potestà che li pone nella condizione di proprietari abilitati ad usare e ad abusare della cosa loro affidata, o quanto meno come usufruttuari muniti delle più ampie facoltà di fare e disfare, senz’altro vincolo che il proprio giudizio, è facile che essi operino senza alcun criterio assoluto di ordine, ma semplicemente secondo le norme individuali o di scuola(17)". Cosa ben diversa è invece il sistema rappresentativo, "esso- dice Meda- non ha altro scopo che quello di far partecipare alla cosa pubblica tutti i cittadini i quali per qualche titolo vi abbiano diritto, allo scopo di impedire le strapotenze di uno o di pochi ; e poiché tale partecipazione non può avvenire per via diretta, si ricorre alla rappresentanza; ma è chiaro che i rappresentanti devono far quello che farebbero, se fosse possibile, i rappresentanti, cioè studiare e accertare i bisogni pubblici, provvedere ai mezzi per farvi fronte, controllare l’opera del potere esecutivo e del potere giudiziario, tenendo ad unica guida l’interesse comune pur sviluppando armonicamente gli interessi parziali, di cui l’interesse comune non è che la somma[.....]." In altre parole "la vera misura differenziale tra sistema rappresentativo e parlamentarismo non è quantitativa ma qualitativa; che insomma la degenerazione del primo e il sorgere del secondo han luogo per colpa degli uomini a cui è affidata la rappresentanza; dateci buoni deputati e buoni consiglieri, e avremo il sistema rappresentativo; dateci deputati e consiglieri cattivi, e avremo il parlamentarismo"(18). Ed è proprio alla luce di queste considerazioni che Meda insisterà fortemente sul fatto che la via costituzionale e parlamentare era quella che i cattolici avrebbero dovuto battere; come anche aveva ben compreso che per superare la crisi di sfiducia che circondava le istituzioni parlamentari si sarebbe dovuto sia allargare il suffragio, sia introdurre il sistema proporzionale " era necessario -argomentava Meda- che l’adunanza degli eletti riproducesse con fedeltà gli elementi collettivi e importanti che componevano la massa degli elettori"(19). Tutto ciò egli afferma "si ottiene appunto col sistema della rappresentanza proporzionale, il quale invece di attribuire tutti o quasi tutti i posti alla maggioranza relativa, li ripartisce fra i diversi gruppi a seconda delle loro forze rispettive"(20).

A proposito del diritto al voto e della rappresentanza proporzionale Meda si esprime molto chiaramente, anche perché ritiene che la buona risoluzione di questi due problemi servano ad impedire che il sistema rappresentativo degeneri nel parlamentarismo. Infatti il motivo di questo "tralignamento", come egli stesso lo definisce, dipende dal fatto che la maggioranza degli elettori o è ignorante, o corrotta o indifferente, di conseguenza l’espressione del voto dà vita a cattivi rappresentanti. Meda scarta, con varie argomentazioni(21), sia l’ipotesi di un restringimento del diritto al voto in modo che il suffragio sia esercitato solo da coloro che sono in grado di esercitarlo bene, sia l’ipotesi di rendere il voto obbligatorio per combattere l’indifferenza e l’astensionismo.

La soluzione migliore rimane pur sempre il suffragio universale integrato da un istituto di democrazia diretta, il referendum. Ma ciò che più conta per un retto funzionamento degli istituti rappresentativi "è l’esistenza di associazioni politiche che operino costantemente per creare elettori coscienti e per preparare rappresentanti degni, e per vigilare sull’adempimento del loro mandato"(22).

Ed è proprio a questo compito che sono chiamati i cattolici "nel suscitare la coscienza pubblica, nel combattere l’indifferenza, nel persuadere gli elettori della importanza del loro diritto e della gravità del loro dovere"(23).

Riguardo al sistema elettorale Meda giudica il sistema maggioritario iniquo: esso "è forse una delle più gravi cause che hanno generato la decadenza e la corruzione delle istituzioni rappresentative, anzi distrugge il principio stesso della rappresentanza perché toglie ogni possibilità di essere rappresentante sul serio non solo alla minoranza che spesso può essere fortissima, ma alla stessa maggioranza degli elettori"(24). E a chi obbietta che in tal modo si provocherebbe un ulteriore frazionamento degli elettori in gruppi e gruppetti, Meda propone una sorta di moderno sbarramento cioè una legge che "escludesse dal concorso alla rappresentanza i gruppi non raggiungenti un certo numero di voti"(25), solo in questo modo si attuerebbe la vera partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Su queste premesse Filippo Meda innesterà la sua azione politica sempre più accorta e meditata e opererà in seno alle organizzazioni cattoliche per favorire la formazione di una coscienza politica costituzionale, preparerà i cattolici alla partecipazione aperta alle elezioni politiche.

Nel discorso di Rho del 29 dicembre 1904 Filippo Meda lancia l’idea della costituzione di una specie di centro politico dei cattolici italiani; "l’azione politica - egli afferma - non potrà e non dovrà svolgersi se non nell’orbita delle leggi, né avere alcuno scopo che non sia compatibile colle istituzioni, in cui s’incarna l’ordine sociale, verso il quale i principi cristiani ci insegnano il maggiore rispetto [...]. Io credo che nei nostri tempi non sia né possibile né utile un partito parlamentare con carattere confessionale"(26). Meda, più che un partito centralizzato riteneva opportuna la nascita di un raggruppamento politico molto largo, nel quale avrebbero potuto coesistere varie tendenze, ma nello stesso tempo sottolineava la necessità di un’autonomia politica dei cattolici garantita da un minimo di comuni premesse ideologiche. Nei suoi numerosi discorsi si può notare il superamento della tradizione intransigente:nessuna opposizione irriducibile allo stato liberale, adesione alle istituzioni esistenti; dunque partito composito quello delineato da Meda, partito che ammette tutte le tendenze, interclassista, aconfessionale, e che pone un accento particolare sui problemi concreti.

Per quanto riguarda la Questione romana Meda ritiene che la competenza a risolvere questo contrasto fosse di esclusiva competenza del Papa "né la sua potestà sarà mai diminuita dalla presenza in parlamento di uno o più deputati cattolici, perché questi, come tutti i deputati, non riceveranno il mandato dalla S. Sede, ma dai loro elettori"(27).

Nel concepire un partito, Meda si distacca dal pensiero di Don Davide Albertario(28) il quale aveva previsto che si sarebbe giunti al partito e pur sempre un partito intransigente ispirato a un programma di democrazia cristiana(29), ma Meda doveva tener conto della realtà politica così come si presentava dopo le elezioni del 1904(30) che prometteva alla chiesa un’atmosfera più distesa, più tranquilla e più rispettosa delle sue esigenze. Se tutto ciò poteva andare bene per il nord, e quindi, poteva preludere un inserimento senza riserve dei cattolici nella vita pubblica, non poteva soddisfare l’intero movimento cattolico e, in particolare, le correnti democratiche cristiane del mezzogiorno(31). Per uomini come Sturzo, Torregrossa, Parlati(32) il sistema politico ed economico giolittiano rimaneva soffocante, accentratore e lesivo delle autonomie locali(33). La realtà del Mezzogiorno induceva Sturzo ad esprimersi in questi termini: "Uno degli ostacoli maggiori ad una organizzazione elettorale nazionale dei cattolici italiani che sia viva e vitale e non nominale [...] è non solo il non expedit, che non discuto, ma i legami che i cattolici stringono nei rapporti della vita politica della nazione [...]. O sperduti in un’astensione senza alcun significato collettivo, o confusi per lo più con i partiti moderati cui danno appoggio, essi non arrivano, né arriveranno mai ad assicurarsi una personalità e un carattere nella semplice vita amministrativa(34)". Di certo le condizioni delle masse contadine del sud, avvilite dalla pratica clientelare di tutti i governi liberali, erano diverse da quelle del nord e Sturzo non poteva condividere l’idea di Meda che cercava la via del partito costituzionale, largamente democratico, interclassista, in grado di secondare lo sforzo della politica giolittiana(35). La sua formula fu "azione sociale su terreno costituzionale", formula che dispiaceva agli intransigenti.

A tal proposito è importante ricordare il discorso pronunciato da Meda il 18 novembre 1906 in occasione della sua elezione a presidente della direzione diocesana milanese: "superato ormai un periodo storico travagliatissimo, e per tale s’intende il periodo che va dal 1870 al 1904, durante il quale l’astensione metteva i cattolici in una posizione di resistenza passiva allo stato italiano, i cattolici sono adesso in un periodo nuovo, costruttivo nel quale essi possono fare qualcosa per il popolo e per la religione mediante l’opera legislativa, anche in collaborazione con altri partiti che sono disposti a lavorare per l’utilità popolare. E dall’ingresso dei cattolici nella vita politica le istituzioni non hanno nulla da temere e tutto da sperare, perché i cattolici accettano le istituzioni non solo per rispettarle ma anche per migliorarle e riformarle"(36). Naturalmente questo discorso suscitò le ire della stampa intransigente e anche de "L’Osservatore Romano".

Da una iniziale impostazione nella quale considera la stessa Opera dei Congressi come partito politico, Meda giunse gradatamente al partito non confessionale, distinto dalla azione cattolica propriamente detta. Autentico partito politico, dunque, quello che i cattolici d’azione in Italia avrebbero costituito, con un programma rispondente alle reali ed obiettive esigenze del paese. Sempre nel discorso del 1906, Meda ne traccia i punti fondamentali. I democristiani, come i democratici, hanno ereditato dalla tradizione cristiana(37) l’indifferenza nei confronti delle forme di stato: "il cristianesimo non impone a nessuno di professare opinioni monarchiche piuttosto che repubblicane; vuole, invece, che in monarchia e in repubblica le istituzioni siano conformi all’ordine e al diritto; la democrazia poi non esige da nessuno il sacrificio dell’ideale monarchico, quando il capo dello Stato, re od imperatore, non sia il detentore del potere, bensì la personificazione della sovranità sociale, non sia il princeps nel senso classico e operativo, bensì una potestà regolatrice, non sia insomma lo Stato, ma una funzione dello Stato(38)". Sicchè i cattolici dovevano pensare a darsi una qualche conformazione politica organica per influire meglio sullo sviluppo delle istituzioni; in altre parole, Meda pensava che non si sarebbe avuta perfetta e normale partecipazione dei cattolici alla vita pubblica senza un partito, anche se fosse stato un partito per sua essenza collaborazionista, disposto ad accettare gli istituti democratici nelle forme attuali e a realizzare un argine contro il socialismo e a protezione degli ordinamenti liberali.

Meda si adoperò, in ogni modo, per migliorare i rapporti tra liberali e cattolici e stabilire così un clima di fiducia tra le organizzazioni cattoliche e il partito di governo; ma dopo le elezioni del 1913 il leader del movimento cattolico milanese si rese conto che ormai i cattolici avrebbero dovuto fondare un partito autonomo per evitare di lasciarsi assorbire dai liberali. Tuttavia, nonostante Meda fosse stato il primo cattolico militante uscito dai quadri dell’azione cattolica leoniana a capire e indicare la necessità della nascita di un partito di cattolici, non toccò a lui fondare il partito nazionale di cattolici. Egli aveva, con la sua azione cauta, riservata, collaborazionista, preparato il terreno ma rimase estraneo alle discussioni e agli avvenimenti successivi. Alla fine della guerra le circostanze vollero che fosse Luigi Sturzo a dare al concetto cristiano di democrazia quel contenuto politico per il quale Meda aveva tanto lavorato, dando vita al primo partito di cattolici: il Partito Popolare Italiano.

III - Influenze Tonioliane

Un personaggio fondamentale nella storia del movimento cristiano democratico fu Giuseppe Toniolo(1). Questi, per giovani come Filippo Meda e Luigi Sturzo, rappresentò un costante punto di riferimento(2). Meda, in particolare, fu un acceso e convinto assertore delle teorie politiche e sociali(3) del professore trevigiano, tanto da affermare che "Giuseppe Toniolo veniva in tal modo ad assumere in Italia la posizione di capo riconosciuto dalla scuola sociale cristiana, e ad essere anche fuori dell’Italia una delle autorità più rispettabili e rispettate"(4). Contestare Toniolo significava non condividere e attaccare frontalmente la dottrina sociale della chiesa.

Giuseppe Toniolo fu l’uomo che cercò di conciliare il vecchio e il nuovo, perché si prodigò per far accettare anche ai più intransigenti gli orientamenti e i postulati della democrazia cristiana; fu sempre rispettoso della dottrina della chiesa e insegnò ai giovani cattolici del suo tempo ad impegnarsi nella lotta per l’elevamento economico e sociale delle condizioni del popolo e, in particolare, della classe operaia, vero problema del nuovo secolo.

L’ingresso di Toniolo nell’ambito del movimento cattolico avvenne in modo non molto evidente, ma, successivamente, grazie anche alla sua amicizia con Medolago Albani, il professore trevigiano fu spinto ad un impegno più attivo e diretto; necessitava in quel momento delineare una via alternativa al liberalismo e al socialismo e Toniolo fu sollecitato ad elaborare strumenti scientifici e culturali che permettessero di interpretare, in modo organico e propositivo, la realtà contemporanea(5).

Nel campo intransigente Toniolo rappresentava la personalità più sensibile ai problemi della cultura. Egli era convinto dell’importanza della maturazione e preparazione culturale dei cattolici prima di un loro qualsiasi inserimento nella politica e nell’azione sociale(6).

Le posizioni di Toniolo erano chiaramente antistataliste e, rifacendosi alla società medievale, sottolineava come questa, grazie alla sua articolazione in organismi dotati di propri poteri giurisdizionali e di propria autorità politica, rendesse possibile il graduale progresso dei ceti inferiori entro l’ordine costituito.

Nel 1889 fondò l’Unione cattolica per gli studi sociali(7) che, sebbene avesse l’approvazione di Leone XIII, suscitò polemiche all’interno dell’Opera dei congressi. Il nocciolo dei contrasti con la dirigenza dell’Opera dei congressi stava nel diverso modo di intendere, all’interno della società civile e religiosa, il ruolo del laicato cattolico, che Toniolo avrebbe voluto più attivo e meglio inserito nei processi di trasformazione delle strutture sociali del paese e a livello internazionale. In tale prospettiva fu fondata nel 1893 la "Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie" alla cui collaborazione Toniolo chiamò insigni studiosi nazionali e internazionali(8). Tra costoro vi fu lo stesso Filippo Meda.

La coscienza della realtà sociale creata dal capitalismo moderno e dal conseguente sviluppo del proletariato, come pure la crescente avanzata del socialismo, spinse Toniolo a redigere Il programma dei cattolici difronte al socialismo(9).

Ben presto le idee di Toniolo, volte a sollevare le classi più deboli, infiammarono molti giovani cattolici e provocarono una accesa opposizione da parte dell’intransigenza paganuzziana(10). Un ulteriore elemento di contrasto si produsse intorno al problema della Democrazia cristiana(11); Toniolo, infatti, aveva riconosciuto la legittimità del termine democrazia cristiana in un saggio dal titolo Il concetto cristiano di democrazia in cui definiva la democrazia cristiana come "l’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori"(12). Era intenzione di Toniolo proporre un concetto che mettesse d’accordo vecchi e giovani. Secondo il professore trevigiano la democrazia cristiana non poteva, né doveva identificarsi con alcuna forma di governo; non era né repubblicana, né monarchica: era piuttosto un modo di porsi difronte alla realtà storica e di risolvere i problemi alla luce del Vangelo. Toniolo era incline a ritenere che la democrazia cristiana del domani sarebbe stata fautrice delle autonomie locali e di classe contro i centralismi burocratici, perché la storia aveva dimostrato che il popolo "politicamente non visse soltanto per entro ai grossi parlamenti, bensì piuttosto negli organismi autonomi dei comuni, delle corporazioni, rivestite di funzioni civili, nelle università campagnole, nelle vicinie o adunanze parrocchiali, nell’autorità feconda delle consuetudini giuridico-locali"(13). L’avallo dato da Toniolo alla democrazia cristiana approfondì le diffidenze nella dirigenza dell’Opera dei congressi, e non solo in essa. Il timore era che "la condiscendenza" nei confronti dei giovani desse corpo al "deviazionismo" di un movimento e compromettesse proprio l’unità che si diceva di voler salvaguardare.

La crisi del 1898, coinvolgendo in una medesima repressione socialisti e cattolici, e rendendo manifeste le debolezze dell’Opera dei congressi rese ancora più evidenti le tensioni. I contrasti tra i cattolici si accesero ancora di più in seguito ad un articolo di Filippo Meda sull’"Osservatore cattolico" del 15 e 16 marzo 1898, in cui l’autore faceva un resoconto della conferenza tenuta da Toniolo, sempre nel marzo del 1898, a Milano, intorno al concetto di democrazia cristiana(14). Tanto che lo stesso Toniolo in una lettera a Mons. Carlo Panighetti del 19 marzo 1898 esprimeva il suo dispiacere per il fatto che quell’articolo avesse travisato il suo pensiero:""L’Osservatore Cattolico", dettando alcune righe sulla conferenza intorno alla democrazia cristiana, da me tenuta lunedì scorso a Milano, sotto l’impressione di un argomento atto ad eccitare gli animi, lasciò trascorrere qualche frase che non solo tradisce il mio pensiero, ma forse anche quello dell’autore dell’articoletto, in seguito al quale però taluni giornali di Milano e di Torino sollevarono obiezioni"(15). Giuseppe Toniolo, per tutto il periodo della sua attività all’interno del movimento cattolico, cercò di fare da mediatore fra le due anime. E se, da un lato egli persisteva nel sostenere il movimento giovanile, pregando il Paganuzzi di non irrigidirsi e di comprendere come sotto "l’ebrezza della novità" e "l’irrequietezza delle aspirazioni indefinite" manifestate dai democratici cristiani si celasse un "proposito legittimo, nobile, cristiano per eccellenza, quello di persuadere colle parole e coi fatti che i cattolici sanno comprendere i bisogni e le aspirazioni del momento che essi soli nell’avvenire potranno darci legittima soddisfazione"(16), dall’altro lato, finiva, in forza della sua stessa posizione mediatrice, col suscitare perplessità tra alcuni giovani e, soprattutto, in Romolo Murri. Questi già nel marzo del 1900, distingueva la dottrina sociale di Toniolo e l’azione pratica dei democratici cristiani(17). D’altro canto lo stesso Toniolo riteneva opportuno dover placare l’animo di alcuni giovani cattolici, e ciò si evince, in modo particolare, da una lettera del 15 agosto 1908 indirizzata a Don Davide Albertario, in cui il professore trevigiano fa espresso riferimento a Filippo Meda: "Ma invero, dal tempo della sua prigionia a me pure parve che taluni redattori o collaboratori, del resto pieni di ingegno, di cuore, di slancio, abbiano lasciato correre nel giornale valoroso, sul problema o meglio sulla tesi papale, qualche nociva reticenza ed equivoco. Io sarei lieto di dovermi ricredere di queste mie impressioni (chè piena è la rettitudine delle mie intenzioni); [...] ma a giovani ricchi di cultura, di slancio, di intuizione, vorrei porre il quesito, se questi eventuali equivoci sieno consoni appieno a quel senso di modernità, di italianità e di aspettative avvenire di cui essi posseggono il segreto e gli entusiasmi. Dinanzi alla minaccia e sotto la pressura di uno stato panteista e liberticida, l’indipendenza del Pontefice, in quel più alto grado che egli reclama, non è il pegno ed il palladio dell’indipendenza dello spirito, della società, del popolo? [...] Noi vogliamo e dobbiamo essere cattolici e perciò stesso patrioti sinceri e ferventi, che non hanno nulla a che fare coi regimi passati poco cristiani e nulla italiani, ma nemmeno con uno stato presente che per essere antipapale, perciò stesso è antinazionale; [...]"(18). E ancora in un’altra lettera affiora il timore di Toniolo per i possibili equivoci che giovani cattolici possono far nascere "Io prego del resto lei e il signor Burgiesser di non conchiudere per la rivista di cultura letteraria generale, del Crispolti e Meda, senza aver parlato anche con me. Vorrei, pur lasciando piena libertà di direzione, uscisse colla scritta "sotto gli auspici della Società scientifica"... .."(19).

Nonostante le piccole incomprensioni (che furono più di carattere pratico che teorico), cui abbiamo accennato, Meda fu sempre consapevole del vero significato dell’opera svolta da Toniolo, in quanto anch’egli era convinto che un maggiore e più critico impegno culturale e scientifico dei cattolici non si dissociasse dall’attività sociale(20); d’altro canto lo stesso Toniolo si fece promotore di associazioni professionali a carattere sindacale e permanente che, senza voler dar vita a una conflittualità sociale, avevano il precipuo scopo di elevare il proletariato alla dignità di classe, riallacciando relazioni armoniche con le classi superiori sulla base della solidarietà, della giustizia e della carità cristiana.

Ma secondo Filippo Meda "la sua attività migliore e duratura, al di fuori delle contingenze di tempo e di luoghi, è però sempre quella che svolse come scrittore"(21) volta in particolare alla costruzione organica dell’economia. Meda studiò e recepì totalmente gli insegnamenti di Giuseppe Toniolo e, nonostante il suo interesse per la libertà economica, condivise il solidarismo Toniolano e allo stesso modo affermava che allo stato potevano essere assegnati poteri d’intervento nelle questioni economiche avendo le leggi economiche un carattere razionale positivo e non naturale.

L’amore per l’insegnamento di Toniolo spinse Meda a scrivere alcune opere sul pensiero del maestro(22) e in tutte si può ravvisare la profonda conoscenza che Meda possedeva delle teorie del professore trevigiano e la sua ferma convinzione che la figura del maestro fosse "sempre come quella di un uomo del quale tutti potevano e dovevano fidarsi, perché egli dalla competenza dottrinale universalmente riconosciutagli, dall’indole mite e conciliante, dall’esempio di una attività disinteressata e di una vita pienamente conforme, in pubblico e in privato, alle idee che professava, traeva un prestigio che nessuno mai potè contendergli e del quale egli si valeva per eccitare i timidi e i tardi, per moderare i frettolosi e gli ardenti. Ebbe, come tutti coloro che si lasciano travolgere nella vita pubblica, amarezze, disillusioni, contraddizioni :ma non mai dubbi o sconforti; la solida costruzione del suo intelletto, la limpida schiettezza del sentimento [...] lo preservarono da qualsiasi tentazione di abbandonare il campo: se qualche volta parve starsene in disparte, fu per deferente ossequio a direttive autorevoli prevalse in dissenso dalle sue, dissenso che egli, tuttavia, non proclamò mai, come altri invece volle fare, che anzi dissimulò sempre preoccupato sopra ogni cosa di non compromettere con intempestive agitazioni lo svolgersi sicuro e graduale del moto cristiano restauratore e riformatore che egli non ammetteva possibile ed efficiente se non sulla base di una assoluta ortodossia e di una disciplina tetragona ad ogni seduzione di scisma, senza per questo sentire il bisogno di avvilirla nella rinuncia ai suoi metodi, ai suoi convincimenti, alle sue speranze"(23). Queste parole ci fanno ben comprendere quanto grande fosse l’ammirazione e il rispetto che Meda nutriva per Toniolo e il legame che univa due tra i personaggi che hanno fatto la storia del movimento cattolico. Tuttavia non possiamo negare che vi fossero delle diversità, soprattutto sul piano pragmatico: Toniolo si sentiva piuttosto estraneo al diretto impegno politico e desiderava accentuare l’attività sociale e il lavoro scientifico; Meda, invece, riteneva necessario e naturale conseguenza dell’opera l’inserimento dei cattolici nei "gangli dello stato" e a tale scopo dedicò gran parte della sua vita.

Lettere di Meda a Toniolo

Nonostante le evidenti differenze, soprattutto di metodo, fra l’autorevole esponente del movimento cattolico italiano e Filippo Meda vi furono intensi rapporti di lavoro. E ciò è documentato anche dalle lettere riportate di seguito. Esse furono scritte da Filippo Meda a Giuseppe Toniolo tra il 1890 e il 1917. Si tratta di quasi un trentennio di intensa e proficua attività per entrambi. Toniolo realizza le prime iniziative nel campo delle ricerche politico-sociali, fonda l’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia e dà il via ad alcune importanti pubblicazioni scientifiche quali la "Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie"(1893), e la collana "Pubblicazioni di scienze sociali e discipline affini"(stampata presso la tipografia editrice S. Bernardino da Siena messa a disposizione da Mons. Buffalini sin dal 1890), intensifica il suo impegno per creare in Italia, dal nord al sud, una forza cattolica viva e operante, divenendo al tempo stesso leader indiscusso del movimento cattolico italiano.

Si tratta di ben 34 lettere (una di esse, però, non è indirizzata al Toniolo) delle quali non esiste alcuna menzione nell’Opera Omnia di Giuseppe Toniolo. Attualmente le lettere sono custodite presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Per comodità di riferimento abbiamo contrassegnato le lettere con un numero progressivo.

In primo luogo occorre osservare che le lettere sono state scritte su carta con intestazioni diverse e che tali intestazioni seguono cronologicamente le attività e gli impegni che Meda andava assumendo: Opera dei congressi e dei comitati cattolici in Italia, Comitato diocesano Milanese Sezioni giovani, Corriere della domenica, Piccola biblioteca scientifico letteraria, L’Osservatore cattolico, L’Unione, Camera dei deputati, Ministro delle finanze, Società editrice Romana (L’Italia, Il Romanzo della domenica, La casa).

Anche il tono delle lettere subisce un’ evoluzione, nel senso che inizialmente Meda scrive in modo molto formale e riverente e, successivamente, diverrà più confidenziale, sebbene permanga sempre evidente il rapporto "discepolo- maestro" e il rispetto che il giovane avvocato milanese nutre nei confronti di un personaggio che già aveva conquistato la mente e il cuore di tanti giovani cattolici impegnati. Le lettere ci forniscono prevalentemente delle informazioni sulla personalità di Filippo Meda, sul suo travaglio ideologico e sulle scelte che lo condurranno ad assumere delle responsabilità all’interno della istituzione statale. La prima lettera è datata marzo 1890, quando Meda era ancora un giovane agli inizi della sua attività giornalistica; è anche il momento in cui dissensi e contrasti cominciavano a investire gli organismi dirigenti dell’Opera dei congressi circa i metodi di organizzazione, la sua struttura, i suoi programmi d’azione. Meda è vicepresidente della Sezioni giovani dell’Opera e, in tale veste, scrive a Toniolo pregandolo di fornire del materiale per la piccola biblioteca scientifico - letteraria, una pubblicazione in fascicoli che avrebbe dovuto fare da "contraltare", almeno nelle intenzioni di Meda, alla biblioteca del popolo. A tale scopo Meda vorrebbe inserire lavori di un certo spessore e attualità e chiede al prof. Toniolo di collaborare inviando qualcosa riguardante i suoi studi di economia sociale cristiana espresse in forma semplice e sintetica. L’insistenza con la quale Meda chiede la collaborazione di Toniolo a questa nuova pubblicazione attesta in primo luogo la sua totale adesione alle teorie elaborate dal docente trevigiano in campo economico-sociale, in secondo luogo la convinzione della necessità di un elevamento culturale delle masse, ritenuta ormai indispensabile da una buona parte degli aderenti all’Opera dei congressi.

Durante tutto il 1890 seguono una serie di lettere e cartoline postali che possiamo definire di servizio, in quanto trattano comunicazioni riguardanti la pubblicazione di lavori dell’uno o dell’altro personaggio, ma che, al tempo stesso, ci mostrano l’intenso e proficuo lavoro di ricerca che i due svolgono in quel periodo.

Con la lettera n. 8 del 1893, recante l’indicazione "riservata", Meda inizia ad usare un tono meno formale e a trattare argomenti riguardanti le problematiche che in quel momento accendevano gli animi all’interno dell’Opera dei congressi. Ricordiamo che all’interno dell’Opera assunse importanza crescente rispetto alle altre la seconda sezione economica sociale cristiana, grazie anche all’impulso formidabile dato dall’enciclica Rerum Novarum "accolta come segnale di riscossa" negli ambienti cattolici, specialmente in quelli intransigenti già impegnati da alcuni anni nell’azione economico-sociale. L’organizzazione si trova in un momento particolarmente difficile: la nomina del prof. Lumeria alla cattedra di alta religione aveva messo in allarme alcuni membri in quanto questi era dichiaratamente rosminiano, convinto liberale e, addirittura, dal pulpito aveva invitato i fedeli, nelle ultime elezioni polititiche, a recarsi a votare. Meda, in fondo, condivide tale linea, ma al momento sembra che il suo agire sia contraddistinto dalla prudenza. Tuttavia cominciano a delinearsi all’interno dell’Opera le sue posizioni e quelle di quanti, come lui, aspiravano all’ingresso dei cattolici nella vita politica e sociale del paese; e qualsiasi episodio che portasse ad uno scontro fra le due anime del movimento è sottoposto da Meda al giudizio super partes di Toniolo, al quale chiede consigli per portare avanti una linea di azione.

Particolarmente interessante è la lettera n.12. Nel 1893 viene organizzato un banchetto elettorale e Meda, quale membro del consiglio direttivo dell’associazione elettorale e responsabile del giornale ufficiale "L’elettore cattolico milanese", vi partecipa. Meda afferma che l’associazione elettorale, promotrice del banchetto, è composta interamente da elementi nuovi, nel senso che si tratta di giovani convinti che per poter attuare gli obiettivi che il movimento cattolico si era prefissi, bisognava far sentire l’influenza dei cattolici nella vita politica e sostituire la formula "né eletti né elettori" con l’altra "preparazione nell’astensione". Egli si sente rincuorato dall’aver vicino Toniolo. Per il giovane avvocato milanese, in questo cammino verso l’introduzione dei cattolici in politica, rimangono preziosi gli ammonimenti del professore trevigiano e li accetta ringraziandolo: "hanno sempre fatto parte del mio programma e spero di non staccarmene mai". Meda è pronto ad accogliere le proposte conciliative di Toniolo che in quel momento è l’unico che possa fare da trade-union tra i vecchi e i giovani democratici cristiani.Tuttavia in modo risoluto non aderisce alla preghiera di Toniolo di ritirare le dimissioni da segretario del comitato diocesano e da vice presidente della sezione giovani. E la motivazione addotta sta nel fatto che ormai, all’interno dell’Opera, Meda rappresenterebbe un elemento sospetto; anziché abbandonare le sue opinioni in merito alle azioni da portare avanti, egli preferisce ritirarsi dalle posizioni più esposte ai colpi. Ciò che lo consola grandemente è la preziosa stima e la benevolenza che Toniolo mostra nei suoi confronti.

Dalla lettera n. 14, sempre del 1893, si evince che il rapporto con il prof. Toniolo è divenuto ancora più stretto e Meda senza remore si lascia andare ad un ulteriore sfogo sulla situazione, ormai di crisi insanabile venutasi a creare all’interno dell’Opera. Egli desidererebbe la presenza fisica di Toniolo affinché questi potesse verificare personalmente che la colpa di ciò che accade non è "di quei poveri giovani di cui si dice tanto male". L’affermazione delle tesi portate avanti da Meda aveva provocato una serie di dimissioni e l’essere additati come ribelli e "novatori" produce una grande amarezza. Si rivolge ancora una volta al suo maestro nella speranza che egli, "giovane di mente e di cuore se non di anni, possa comprendere lo stato d’animo in cui versa".

Sebbene gran parte della storiografia cattolica affermi che i contrasti all’interno dell’Opera dei congressi tra la vecchia guardia e il nucleo dei giovani comincino a delinearsi dopo il 1897 (anno in cui si celebrò a Milano il XV congresso cattolico), di fatto le lettere di Meda ci attestano che già da qualche anno esistevano dissensi e contrasti. Tuttavia, forse anche grazie a tali contrasti, è proprio in questo periodo che la maggiore organizzazione nazionale cattolica intensifica le iniziative economico-sociali(1).

La lettera n.17 dell’ 8-12-1893 esprime la preoccupazione della mancanza di preparazione dei giovani cattolici e delle masse per combattere le teorie marxiste. Per Meda sarebbe necessario non limitarsi più alla creazione di qualche società di mutuo soccorso, bensì prepararsi adeguatamente all’avanzata delle teorie socialiste che, pur di "accaparrarsi" le masse avevano ridotto il loro programma alla proprietà collettiva del capitale destinato alla produzione e alla proprietà privata dei frutti. Questo timore accomunava tutti i cattolici che, in quel momento, assistevano alla rapida avanzata delle forze di sinistra(2). D’altra parte, già nel 1890, "L’Osservatore cattolico", pur ribadendo il contrasto irriducibile tra cristianesimo e socialismo, invitava i cattolici ad occuparsi della questione sociale intensificando l’azione nel campo economico-sociale(3).

Nonostante la crescita e l’impegno in campo sociale di tutta l’organizzazione cattolica tanto da far considerare il 1897 anno di maggiore espansione dell’Opera dei congressi, Meda nella lettera n. 20 manifesta, ancora una volta, lo stato d’animo di insofferenza nel quale si ritrova; le continue divergenze all’interno del movimento lo inducono a tenersi in disparte, ma allo stesso tempo ciò gli incute paura per il futuro del movimento democratico e chiede a Toniolo conforto e un suo parere sul da farsi. Da quanto detto possiamo dedurre che il dissidio, quantomeno latente fra i gruppi all’interno dell’Opera, anziché portare un indebolimento, almeno in un primo periodo, aveva avuto riflessi positivi in quanto aveva condotto allo svecchiamento di certe strutture ed al loro progressivo adattamento alle nuove esigenze della società e alla creazione di organismi più moderni. Ma, successivamente, questi progressi sul piano sociale, si accompagnarono ad una progressiva decadenza dell’Opera dei congressi, i contrasti tra le varie correnti(4) si accentuarono a tal punto che nel 1904 si giunse alla soppressione dell’organizzazione da parte della S. Sede. Poco prima e, precisamente, nel 1901 la promulgazione dell’enciclica Graves de communi che sanzionò ufficialmente il nome "Democrazia Cristiana" ebbe l’effetto immediato di incoraggiare il moltiplicarsi di associazioni e organismi professionali secondo il nuovo indirizzo(5); ma al tempo stesso venne a creare un’ ulteriore spaccatura tra coloro che davano un’interpretazione più prudente e moderata del concetto di democrazia, come Toniolo e Meda, e coloro che la intendevano nell’accezione più ampia come ad esempio Romolo Murri.

L’incondizionata adesione alle direttive del Pontefice in merito alla Questione romana non impediva a Meda di occuparsi di problematiche inerenti la difficile convivenza tra il novello stato italiano e la Chiesa cattolica; e, infatti, nella lettera n. 22, l’avvocato milanese sottopone al vaglio e al giudizio critico di Toniolo lo schema dettagliato di un possibile convegno sul tema del divorzio, chiedendo al contempo di trovare i relatori più adatti per trattare un argomento così delicato. Meda, proprio per la complessità del tema ritiene opportuno affrontarlo nei suoi diversi aspetti: il divorzio difronte al concetto religioso del matrimonio; il divorzio difronte al concetto giuridico del matrimonio (il che equivarrebbe alla dissertazione della tesi se unico presidio della indissolubilità sia la sacramentalità ovvero se la indissolubilità possa essere sostenuta difronte ad uno stato che riconosce valido il solo matrimonio civile); inoltre una revisione dei precedenti parlamentari e una comparazione con la legislazione delle altre nazioni europee e, per concludere, gli effetti sociali del divorzio. Nella lettera n. 23, Meda chiede esplicitamente a Toniolo di scrivere un articolo tramite il quale potere finalmente "mettere le cose a posto", indicandolo così come l’unico esponente del movimento cattolico che potesse condurre ad una fusione tra le due correnti della Democrazia Cristiana, l’una più avanzata e combattiva facente capo a Romolo Murri e al "Domani d’Italia", l’altra più moderata che si richiamava agli insegnamenti di Toniolo e al programma di Meda.

Nel 1905 Meda era ancora direttore de "L’Osservatore cattolico", il battagliero giornale milanese. Conclusasi l’esperienza dell’Opera dei congressi, egli intensificò i suoi sforzi per la formazione non più di una semplice Unione elettorale, ma di un vero e proprio Centro politico(6); tuttavia, nella lettera n. 24, Meda, resosi conto delle innumerevoli difficoltà che il suo progetto avrebbe incontrato,difronte all’azione intrapresa da Toniolo (incaricato dalla S. Sede di elaborare gli statuti delle varie Unioni, che avrebbero dovuto succedere all’Opera dei congressi), dichiara, seppure a malincuore, la sua collaborazione allo stimato professore. Meda non rinnega le sue idee, ma è disposto a favorire le nuove iniziative nella speranza di una evoluzione che possa condurre alla creazione di un Centro cattolico autonomo a dimensione laica. D’altra parte lo stesso Toniolo così aveva scritto a Meda: "non si rifiuti e faccia preziosa la prova massima della sua finezza e saggezza politica, mettendo in disparte per ora le idealità di una perfezione avvenire"(7). A pochi giorni di distanza segue un’altra lettera, la n. 25 del 9 luglio 1905, dalla quale si evince che Meda, pur continuando a collaborare col Toniolo nella creazione degli statuti, non perde occasione per ricordare al professore le sue idee in merito alla federazione elettorale; si lamenta per la debole coscienza politica dei cattolici ed esprime la sua paura: "ci trasformeremo a servire da sgabello ai moderati". Il discorso di Ferrara, pronunciato da Meda in occasione del 10° anniversario della fondazione del locale circolo cattolico, non è altro, come egli stesso scriverà a Toniolo nella lettera n. 27, che una riconferma delle idee che sempre erano state alla base della sua lotta per affermare la necessità dell’azione sociale dei cattolici sul terreno costituzionale: "non ho se non ripetuto - scrive Meda - nelle forme più appropriate ai tempi le idee che sono sempre state la direttiva della mia vita privata e pubblica". Eppure, quelle stesse idee che ora ricevono il plauso dello stesso Toniolo e di altri esponenti del movimento cattolico avevano creato dissidi e sospetti. Meda è convinto che le sue parole non gioveranno a diminuire i problemi che avevano suscitato nel passato, ma ritiene sempre più impellente che i cattolici si impegnino nella competizione elettorale con senso di responsabilità e coscienza politica. Allo scoppio della prima guerra mondiale Meda entra a far parte del governo Boselli come ministro delle finanze. Era la prima volta che un esponente del movimento cattolico facesse parte di un governo liberale; naturalmente ciò destò parecchie perplessità, se non scalpore, in tutto il mondo cattolico. Le lettere n. 31, 32, 33, 34 che vanno dal dicembre 1915 al dicembre 1917, coprono, forse, il periodo di maggiore travaglio per Filippo Meda. Da una parte egli considera la sua partecipazione al governo una scelta necessaria per la realizzazione di un disegno provvidenziale: l’ingresso dei cattolici nella vita istituzionale del paese. Egli rappresenta il soldato che ha abbattuto l’ultima barriera, che ha fatto saltare il reticolato. Adesso che il terreno è sgombro il suo compito, forse storico, è finito. Sente su di sé fortemente la responsabilità di un atto che ha rappresentato una svolta per tutti i cattolici italiani. Dall’altra parte i giudizi non poco benevoli, se non addirittura aspri gli impongono delle riflessioni al punto tale da invocare indulgenza dagli amici che da ogni parte d’Italia lo confortano. Ciò che maggiormente lo angustia è sapere come sarà giudicato dal professore Toniolo del quale egli si definisce figlio spirituale seppure indegno, perché è proprio grazie al maestro e al suo forte senso filosofico della storia, trasmesso attraverso l’insegnamento e gli scritti, che egli ha fatto le sue scelte più importanti.

Conclusione

Tutta la vicenda del movimento cattolico in Italia può essere letta in termini di faticoso e lento passaggio dall’intransigenza al dialogo. Sebbene all’interno dell’intransigentismo scorrano varie correnti, quelle temporaliste e legittimiste, quelle interclassiste e corporative dei cristiano-sociali, quelle più nettamente popolari dei democratici cristiani, è ormai assodato che dal cattolicesimo intransigente si sia giunti gradualmente ad una apertura, seppur critica, ai valori della cultura contemporanea.

Nell’alveo dell’intransigentismo Filippo Meda rappresenta l’esempio più evidente di un’evoluzione di pensiero e di azione che condurrà i cattolici alla diretta e totale partecipazione alla vita politica del paese. È, infatti, alla luce dell’itinerario percorso da questo personaggio che noi oggi possiamo rilevare le radici intransigenti del movimento democratico cristiano e del primo partito di cattolici. Meda, pur rimanendo fedele ai principi dell’intransigenza (ferma difesa dei diritti della chiesa, condanna dello stato liberale e di come si era strutturato in Italia) comprende la necessità di una presenza viva dei cattolici per migliorare la struttura dello stato e intraprende la strada "riformista" per attuare tale disegno.

Tutti sono consapevoli della gravità della questione sociale e della necessità di porvi rimedio; tutti si rendono conto della minaccia delle ideologie socialiste ostili a ogni ideale veramente cristiano; tutti si oppongono all’ordine liberale, individualistico, borghese, capitalista e laicista; tutti, infine, si sentono impegnati su due fronti di battaglia nella ricerca di una terza via tra liberalismo e socialismo, accomunati negli obiettivi e nei contenuti, ma profondamente in disaccordo riguardo all’attività e ai metodi da seguire per la riconquista cristiana della società.

Meda fa la sua scelta: dal rifiuto del liberalismo e dalla condanna delle strutture dello stato Italiano passa all’azione politica per la riforma dello stato su principi democristiani. La presenza all’interno del parlamento come primo deputato cattolico, la lunga attività svolta nelle amministrazioni locali, l’incarico ministeriale rappresentano tappe significative di un’ evoluzione di pensiero volta verso un’azione intelligentemente riformistica. Ed è anche per questo che non si può parlare di conservatorismo di Meda né, nell’ultimo periodo della sua attività politica, di clerico-fascismo. Il suo forte senso dello stato, fondato sull’impero della legge, lo condurranno a compiere delle scelte non sempre comprese e condivise. Ciò gli procurò un lacerante travaglio interiore. E quello che si evince nel rapporto epistolare che, per quasi un trentennio egli intrattenne con Toniolo. Dalle lettere traspare un personaggio pienamente convinto delle sue idee, che agisce in coerenza con esse,ma al tempo stesso bisognoso di riscontri e certezze. Ciò che maggiormente salta agli occhi è l’uomo Meda amareggiato per le incomprensioni e gli aspri giudizi nei suoi confronti, a causa delle decisioni, non sempre facili, da lui prese.

Al di là di ogni possibile giudizio, a Meda si deve riconoscere il merito di aver svolto un’importante funzione storica: aver traghettato i cattolici italiani da posizioni intransigenti, rigide e chiuse a qualsiasi dialogo con il mondo politico circostante, ad un inserimento attivo, fondamentale e necessario all’interno delle strutture istituzionali.

NOTE

1 Sul pensiero e sull’opera di Filippo Meda esiste una cospicua bibliografia: M. Vaussard, Filippo Meda, Louis de Soje, Paris, 1916; G. Micheli, Filippo Meda e l’opera sua di scrittore, Parma, La giovane montagna, 1940; G. Meda, Nel decennio della morte di mio padre, Milano, 1949; A. Fantetti, Eco di dibattiti: Murri, Toniolo, Meda, Civitas, 1954; G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, Firenze, Le monnier, 1959; A. Fappani, L’entrata dell’On. Meda nel ministero Boselli, R.P.S., 1969; F. Traniello-S. Fontana, Meda, Murri e Sturzo e alcuni momenti del dibattito sul partito cattolico (1894-1905), in L.S.I II; A. Majo, La stampa quotidiana cattolica milanese 1860-1912. Mezzo secolo di contrasti, Milano, Grafiche Boniardi, 1972.

2 Per i ricordi di Meda sulle sue esperienze giornalistiche vedi: F. Meda, Mezzo secolo di giornalismo, in "L’illustrazione vaticana", 16-30 novembre 1937.

3 Funzione importante rivestì la figura di Don Davide Albertario nell’affermazione e nel rafforzamento dell’intransigentismo milanese, tanto da essere definito "il cervello politico più forte di tutto l’intransigentismo lombardo" in D. Secco Suardo, I cattolici intransigenti, Brescia, Morcellania, 1962, p.67; su Don Davide Albertario vedi anche: Dizionario biografico degli italiani, Istituto della enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1960, la voce Albertario a cura di F. Fonzi; G. Pecora, Don Davide Albertario,campione del giornalismo cattolico Torino, Soc.Ed.Internazionale, 1934; F. Fonzi, Don Davide Albertario, la realtà e il mito, in "Quaderni di cultura e storia sociale", n. 6-7, giugno-luglio 1954, pp. 377-389.

4 Sull’Opera dei congressi Cfr. G. De Rosa, Storia politica dell’azione cattolica in Italia. L’opera dei congressi (1874-1904), Bari, Laterza, 1953; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia dalla restaurazione all’età giolittiana, Bari, La terza, 1976; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, Università Gregoriana, 1958; E. Vercesi, Il movimento cattolico in Italia (1870-1922), Firenze, Casa editrice "La voce", 1923;G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma, Editori riuniti, 1972.

5 F.Meda, Le cinque piaghe del movimento cattolico italiano, in "Fatti ed idee", Milano, Palma, 1898, n.15.

6 F. Meda, Noi e gli altri, in "Fatti e idee", n. 49.

7 F. Meda, Noi e gli altri, cit., n. 36.

8 Ibidem, n. 50.

9 Cfr. E. Passerin D’Entrèves, L’eredità della tradizione cattolica risorgimentale, in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Roma, 1961, Atti di un convegno tenuto a Bologna 27-28-29 dicembre 1960; E. Vercesi, P. Semeria, servo degli orfani, con prefazione di Filippo Meda, Amatrice, 1932.

10 Cfr., F. Fonzi, Crispi e lo "stato di Milano", Milano, Giuffrè, 1965.

11 Cfr., A. C. Jemolo, Partecipazione dei cattolici alla vita dello stato italiano, Roma, Studium, 1958; C. Besana, La storiografia sull’azione sociale, Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico, n.1, anno 1999; G. Valente, Aspetti e momenti dell’azione sociale dei cattolici in Italia (1892-1926), Roma, Cinquelune, 1978;

12 Sugli sviluppi del movimento cattolico lombardo Cfr. L. Osnaghi Dodi, L’azione sociale dei cattolici nel milanese (1878-1904), Milano, Sugarco edizioni,1974.

13 F. Meda, L’azione politica dei cattolici, in "L’osservatore cattolico", 17-18 marzo, 1896.

14 Cfr., Per le elezioni al consiglio provinciale. Il caso di Rho, in "L’osservatore cattolico", 21 giugno 1902.

15 Sulla figura e sull’opera di Romolo Murri Cfr., G. Marcucci, Fanello, Romolo murri, in Storia e politica, fasc. II, aprile-giugno, 1970; L. Bedeschi, I cattolici disubbidienti, Roma, Napoli, Vito Bianco editore, 1959; G. Spadolini, Murri, in Gli uomini che fecero l’Italia, Il novecento, Milano, Longanesi, 1972; L. Ambrosoli, Il primo movimento democratico cristiano in Italia (1897-1904), Roma, Cinquelune, 1958; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1961; E. Guccione, Cattolici e democrazia,Ventura, Murri, Sturzo e le critiche di Gobetti, Palermo, Ila Palma, 1988.

16 Cfr., F. Fonzi, Crispi e lo "Stato di Milano", cit.

17 Cfr., L. Ambrosoli, Profilo del movimento cattolico milanese nell’Ottocento, in "Rivista storica del socialismo", settembre-dicembre 1960, pp. 677-724; P. Scoppola, La stampa cattolica di fronte al problema sociale e alla crisi dello stato liberale, in Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino,1966.

18 In effetti, sotterrata l’Opera dei congressi, a Filippo Meda fecero capo, da ogni parte d’Italia, i maggiori esponenti del movimento cattolico, per preparare il convegno che avrebbe dovuto fondare l’organo di collegamento elettorale dei cattolici. Il convegno si svolse il 4 agosto 1904, e qui si decise di fondare una unione elettorale che avrebbe dovuto supplire all’Opera dei congressi. L’unione non nacque sotto buoni auspici; vi era molta confusione tra i cattolici ,e si temeva una sconfessione da parte della autorità ecclesiastica. Lo stesso Giuseppe Toniolo fu contrario all’iniziativa di Filippo Meda.Cfr., M. Invernizzi, L’Unione elettorale cattolica italiana (1906-1919).

19 In questa vicenda appare più volte il nome di Giuseppe Toniolo, il quale in un primo tempo critica l’iniziativa di Filippo Meda, successivamente lo incoraggia "non si rifiuti- scriveva a Meda Giuseppe Toniolo - e faccia preziosa la prova massima della sua finezza e saggezza politica mettendo in disparte per ora le idealità di una perfezione avvenire". (Cartella "Documenti e memorie" in archivio Filippo Meda). Infine lo stesso Toniolo, insieme a Medolago Albani e Pericoli riprenderà il tentativo di Meda; infatti Toniolo fu incaricato dalla S.Sede di elaborare gli statuti delle varie Unioni che avrebbero dovuto succedere alla disciolta Opera dei congressi. Bisogna tuttavia evidenziare che il nuovo tentativo di Toniolo era notevolmente diverso dall’idea di Meda che avrebbe voluto creare un centro cattolico autonomo a dimensione laica.

20 G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, Firenze, Le Monnier, 1959.

21 Nei confronti de "L’Unità cattolica" Meda sporse querela per diffamazione; dopo regolare processo "L’Unità cattolica" venne condannato dal tribunale di Firenze. Cfr., La querela de "L’Unione" contro "L’Unità", in "Avanti!", Roma, 18 dicembre 1908; e "Corriere d’Italia", 10-giugno-1909, in cui si trova il resoconto del processo.

22 F. Meda, Dal nazionalismo al pacifismo, in "Rassegna nazionale", 16-6-1913.

23 L’atteggiamento di Meda nella questione delle elezioni del 1913 che si sarebbero svolte col suffraggio universale e sulla partecipazione dei cattolici, fu espressa nel discorso che egli pronunciò a Ferrara in occasione del 10° anniversario della fondazione del locale circolo cattolico; il testo del discorso si trova né "Il corriere d’Italia" ,23-09-1912.

24 G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, cit.

25 Vedi F. Meda, In attesa delle elezioni, in "Il corriere d’Italia" 10-07-1912; F. Meda, Pio X e la vita politica italiana, in "Vita e pensiero", giugno 1935.

26 In un articolo apparso su "Il corriere d’Italia del 4 -12 -1912 Meda scriveva: "L’azione pubblica dei cattolici in Italia non è, oramai, più in antitesi diretta e necessaria con il partito liberale, che meglio si sarebbe dovuto dire il partito attuale di governo, se non in quanto questo partito fosse anticlericale".

27 F. Meda, I cattolici italiani e le ultime elezioni politiche, in "Nuova antologia", 16/01/1916.

28 L’iniziale neutralismo di Meda si può senz’altro ricondurre al suo ideale pacifista considerato l’unico modo per un ordinato sviluppo civile e politico della società tutta. Cfr., F. Meda, Dal nazionalismo al pacifismo, cit.; F. Meda, La guerra europea e gli interessi italiani, in "Vita e pensiero", 30/03/1915.

29 Tra i fattori che indussero Meda a rivedere la sua posizione neutrale, fu senz’altro l’aggressione del Belgio da parte della Germania che aveva così violato ogni norma di diritto internazionale. Vedi: F. Meda, La violata neutralità del Belgio, in "Vita e pensiero",20/04/1915.

30 Tra gli altri ricordiamo Romolo Murri il quale osservava che "l’ingresso di Meda nel ministero lasciava più o meno le cose com’erano nell’atteggiamento dei cattolici, incerto e multanime dinanzi alla guerra". Vedi: R. Murri, Filippo Meda, nel "Giornale del mattino", 8/ 08/1916.

31 Il nuovo ministero, in "L’osservatore romano" 20/06 /1916.

32 Corriere d’Italia, 31/10/1917.

33 Vedi: F. Meda, La riforma delle imposte dirette sui redditi, Milano, Ed. Treves, 1920.

34 Cfr. G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, cit.

35 F. Meda, Il nuovo partito cattolico, (intervista), in "L’idea nazionale", 1 -2 gennaio 1919.

36 F. Meda, La situazione parlamentare e il partito popolare italiano, in " Civitas", n. 2, 1919.

37 G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, cit.

38 Cfr., F. Meda, I popolari, la proporzionale e le elezioni amministrative. Tattica intransigente?, in "Civitas", 1920.

39 Meda ottenne 58.568 voti di preferenza su 101.131 voti andati complessivamente alla lista.

40 Rifiutò la nomina di ministro degli esteri e della giustizia propostagli da Bonomi, come pure quella a rappresentante dell’Italia alla conferenza di Washington sul disarmo del novembre 1921. Anche nel 1922, nel corso della drammatica crisi del primo ministero Facta, Meda si rifiutò di comporre il governo.

41 Cfr., L.Sturzo, Il partito popolare italiano, vol. II, Popolarismo e fascismo 1924, Bologna, Zanichelli, 1956

42 G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, cit.

NOTE

1 Sui vari filoni del cattolicesimo Cfr. F. Fonzi, Per una storia del movimento cattolico (1861-1919), Rassegna storica del Risorgimento, 1950; P. Alatri, Profilo storico del cattolicesimo liberale in Italia, Palermo, Flaccovio, 1950; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma, Rinascita, 1953; F. Fonzi, La cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Roma, Cinquelune, 1961; F. Malgeri, I cattolici dall’unità al fascismo, Momenti e figure, Chiaravalle centrale, edizioni Frama’s, 1973.

2 Cfr. G. Candeloro,Storia dell’Italia moderna, Milano, Feltrinelli, 1970.

3 Cfr. G. De Rosa, Storia politica dell’azione cattolica in Italia, I, Bari, Laterza, 1953.

4 Cfr. G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, cit.

5 Fondato a Milano nel 1864 diviene, grazie all’ingresso nella redazione di Don Davide Albertario, quotidiano di punta del cattolicesimo intransigente.

6 "L’Unione" nasce nel 1907 dalla fusione di due giornali milanesi un tempo avversari: "L’Ossevatore cattolico" e "La Lega lombarda"(quotidiano transigente diretto dal marchese Cornaggia); fautore dell’iniziativa e direttore della nuova testata sarà lo stesso Filippo Meda.

7 Il non expedit fu emanato nel marzo del 1871, quando la penitenzieria del Vaticano rispondendo alla domanda "se nelle circostanze attuali, ed in vista di tutto ciò che si sta consumando in Italia a danno della chiesa sia espediente concorrere alle politiche elezioni", rispose: "non expedire". Ma l’ufficialità si ebbe nel 1874, quando lo stesso Pio IX si espresse, affermando che per un cattolico non era lecito andare a sedere a Montecitorio. Già nel 1861 Don Giacomo Margotti (fondatore nel 1863 de "L’Unità cattolica", battagliero giornale intransigente) aveva coniato la formula né eletti né elettori, in un articolo apparso l’8 gennaio 1861, destinato a diventare il manifesto dell’astensionismo elettorale dei cattolici, prima ancora della sanzione ufficiale della S. Sede.

8 Meda espresse le sue idee in una serie di articoli; tra gli altri ricordiamo: L’azione politica dei cattolici in "L’Osservatore cattolico" 17-18 marzo 1896; In attesa delle elezioni, in "Il corriere d’Italia" 10 luglio 1912.

9 Sulla figura di Romolo Murri Cfr.: G. Spadolini, Murri, in Gli uomini che fecero l’Italia, cit.; L. Bedeschi, I cattolici disubbidienti, cit.; G. Marcucci Fanello, Romolo Murri, in "Storia e politica", cit; S. Zoppi, Romolo Murri e la prima democrazia cristiana, Prefazione di Giovanni Spadolini, Firenze, Vallecchi Editore, 1968; AA.VV., Romolo Murri nella storia politica e religiosa del suo tempo, Atti del convegno tenutosi a Fermo 9-11 ottobre 1970, a cura di G. Rossini, Roma, Cinquelune, 1972; L.Bedeschi, Il modernismo e Romolo Murri in Emilia e Romagna, Parma, Guanda, 1967; M. Guasco, Romolo Murri e il modernismo, Roma, Cinquelune, 1968; L. Bedeschi, Dal movimento di Murri all’appello di Sturzo, Milano, Ares, 1969.

10 Cfr. L. Sturzo, Le imminenti elezioni politiche e i cattolici, in "La croce di Costantino" 16 ottobre 1904; ora in La battaglia meridionalista-Luigi Sturzo, a cura di Gabriele De Rosa, Bari, Universale La Terza, 1979.

11 F. Meda, Noi e gli altri, in "Fatti e idee", n. 49.

12 F. Meda, La nostra astensione, in "La scuola cattolica", marzo 1895.

13 Ibidem.

14 Basti pensare allo scandalo della Banca Romana, la caduta di Giolitti, il ritorno di Crispi al potere, la repressione dei Fasci siciliani.

15 F. Meda, Parlamentarismo e sistema rappresentativo, estratto dal periodico "L’Elettore cattolico milanese", conferenza tenuta a Milano il 26 gennaio 1896, ora contenuta in F. Meda, Scritti scelti, a cura di Giampiero Dore, Roma, Edizioni Cinquelune, 1959, p.63-64.

16 Ibidem, p.64.

17 F. Meda, Parlamentarismo e sistema rappresentativo, cit., p. 66.

18 Ibidem, pp. 68-69.

19 Ibidem, p. 81.

20 Ibidem, p. 81

21 Cfr., F. Meda, Parlamentarismo e sistema rappresentativo, cit. p. 71-72. Successivamente, e precisamente nel discorso "Il programma politico della democrazia cristiana" del 1906, Meda cambierà opinione sul voto obbligatorio ritenendolo l’unico idoneo a colmare l’assenteismo di gran parte del corpo elettorale. Sarà invece contrario sia alla revoca del mandato in quanto sarebbe una coazione sulla volontà degli eletti e ne sopprimerebbe anche la responsabilità, sia al voto plurimo il quale non è compatibile con il principio di uguaglianza difronte alla legge.

22 Ibidem, p. 71.

23 Ibidem, p. 75.

24 Ibidem, p. 80.

25 Ibidem, p. 82.

26 F. Meda, I cattolici italiani nella vita politica, in "L’osservatore cattolico" 29 dicembre 1904.

27 Ibidem.

28 Sul pensiero di Don Davide Albertario Cfr.: F. Fonzi, Don Davide Albertario, la realtà e il mito, in "Quaderni di cultura e storia sociale", cit.; G.Pecora, Don Davide Albertario,campione del giornalismo cattolico, cit..

29 Cfr. P. Scoppola, La democrazia nel pensiero cattolico del Novecento, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da Luigi Firpo, vol. VI, Il secolo ventesimo, Torino, Utet, 1972; E. Guccione, Cattolici e democrazia, Ventura, Murri, Sturzo e le critiche di Gobetti, Palermo, Ila Palma, 1988.

30 Cfr. G. De Rosa, Storia contemporanea, Bergamo, Minerva Italica, 1971; F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Roma, Studium, 1960.

31 Sulla situazione del movimento cattolico nel mezzogiorno vedi: L. Sturzo, Conservatori cattolici e democratici cristiani, in Sintesi sociali, Opera omnia, Seconda serie, vol. I, Bologna, Zanichelli Editore, 1961; F. Malgeri, I cattolici dall’unità al fascismo, Momenti e figure, Chiaravalle Centrale, Edizioni Frama’s, 1973; La democrazia cristiana, Lettera pastorale collettiva dell’Episcopato Siculo, Noto, Tipografia di Fr. Zammit, 8 febbraio 1903.

32 Sulle vicende e sul valore dell’azione del gruppo palermitano Cfr., AA.VV., G. Giarrizzo, Luigi Sturzo nella storia d’Italia, vol. I, Roma, 1973.

33 L. Sturzo, La Regione nella Nazione (1949), Bologna, Zanichelli, 1974; E. Guccione, Municipalismo e federalismo in Luigi Sturzo, Torino, S.E.I., 1994; E. Guccione, Dal Federalismo mancato al Regionalismo tradito, Torino, Giappichelli Editore, 1988.

34 L. Sturzo, Problemi urgenti, in "La Patria", 15 ottobre 1904.

35 L. Sturzo, I problemi nella vita nazionale dei cattolici italiani, in Sintesi sociali, Opera Omnia, cit.

36 Il testo del discorso si trova in "L’Osservatore cattolico" 19 novembre 1906.

37 A proposito dell’indifferenza dei cattolici nei confronti delle forme di stato, ricordiamo un autore che molto ha influito sul pensiero politico di diversi esponenti del movimento cattolico moderno: Gioacchino Ventura. Cfr. G. Ventura, Il potere politico cristiano, vol. I, Milano, C. Turati, 1858; E. Guccione, Aspetti del pensiero politico di Gioacchino Ventura, Saggio introduttivo a G. Ventura, Il potere pubblico, Palermo-Sào Paulo, Ila Palma, 1988; R. Marsala, Potere politico e democrazia in Gioacchino Ventura, Palermo, Anvied, 1994.

38 F. Meda, Il programma politico della democrazia cristiana, adesso contenuto in Scritti scelti a cura di Giampiero Dore, cit., p. 142.

NOTE

1 Nato a Treviso il 7 marzo 1845, compì gli studi presso l’Istituto Foscarini di Venezia. Nel 1867 si laureò in giurisprudenza nell’Università di Padova e vi rimase, proseguendo i suoi studi, sino al 1872 come assistente e, dal 1873 al 1874, come incaricato alla cattedra di filosofia del diritto. Successivamente insegnò economia politica all’Istituto Tecnico di Venezia, ma, dopo qualche anno, fu chiamato quale docente della stessa disciplina all’Università di Modena. Nel 1879 passò all’Univesità di Pisa, dove, prima da straordinario e poi, dal 1883, da ordinario, tenne la cattedra di economia politica per circa quarant’anni. Morì a Pisa il 7 ottobre 1918.

2 Sul pensiero e sull’opera di Giuseppe Toniolo esiste una cospicua bibliografia: Raccolta di scritti in memoria di Giuseppe Toniolo, Milano, Società editrice "Vita e pensiero", Serie terza, vol. II, 1929; V. Mangano, L’opera scientifica di Giuseppe Toniolo, Roma, Editrice Studium, 1940; R. Battistello, Giuseppe Toniolo pioniere dell’azione sociale cristiana, Roma, Editrice Acli, 1952; F. Vistalli, Giuseppe Toniolo, Bergamo-Roma, Società Editrice S. Alessandro, 1954; B. Brunello, La democrazia cristiana di Giuseppe Toniolo, in "Giornale di metafisica", 1954; F. Vito, Gli scritti politici di Giuseppe Toniolo, in "Vita e pensiero", Milano, dicembre 1957; G. Dalla Torre, Eredità politico-sociale di Giuseppe Toniolo (Commemorazione ufficiale tenuta a Treviso), Scuola Cattolica di Cultura, Treviso, Tipografia Editrice Trevigiana, 1959; L. Gedda, Un laico fedele alla Chiesa: Giuseppe Toniolo, in "Tabor", Roma, dicembre 1968; E. Guccione, Cristianesimo sociale in Giuseppe Toniolo, Palermo, Ila Palma,1972.

3 Toniolo espresse le sue teorie politiche e sociali in numerosi scritti: Giuseppe Toniolo, La pretesa evoluzione sociale della Chiesa, in "Rivista internazionale di scienze sociali", settembre 1894; Indirizzi e concetti sociali all’esordire del secolo XX, (conferenze), Pisa 1900; La democrazia cristiana, Roma 1900; Le unioni professionali del lavoro, Treviso 1901; Lo sviluppo del cattolicesimo sociale dopo l’enciclica Rerum Novarum, in "Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie", Roma, maggio 1902; Problemi, discussioni, proposte intorno alla costituzione corporativa delle classi lavoratrici, ibidem, dicembre 1903 e gennaio-febbraio 1904; Provvedimenti sociali popolari, Roma, Società italiana cattolica di cultura, 1902; Trattato di economia sociale, in tre volumi: I, Introduzione, Firenze, 1906 (la terza edizione è stata stampata nel 1915); II, La produzione, Firenze, 1908 (seconda edizione 1921); III, La circolazione, Firenze, 1921 (seconda edizione 1929).

4 Scritti scelti di Giuseppe Toniolo, a cura di Filippo Meda, Milano, Società Editrice "Vita e pensiero", 1921, p.11.

5 Ciò il Toniolo fece tra il 1893 e il 1894 con due saggi: La genesi storica dell’odierna crisi economica, in "Rivista internazionale di scienze sociali", I, 1893; e L’economia capitalistica moderna, in "Rivista internazionale di scienze sociali", I,II, IV, in cui affrontò il problema delle relazioni tra Umanesimo, Rinascimento, Protestantesimo ed economia moderna.

6 Cfr. A. Gambasin, Origini, caratteri, finalità della Società cattolica italiana per gli studi scientifici, in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Atti del convegno tenutosi a Bologna il 27-28-29 dicembre 1960, Roma 1961.

7 Tale Unione aveva lo scopo di occuparsi di tutte le scienze sociali, prima fra tutte la sociologia.

8 Anche Filippo Meda ebbe modo di collaborare alla rivista.

9 Il programma fu scritto di pugno da Toniolo alla presenza di Filippo Meda. Tale episodio sta a significare che i due personaggi, da annoverare tra i maggiori ideologi ed organizzatori del movimento cattolico e della prima democrazia cristiana, condividessero i principi fondamentali come quelli espressi nel programma. Il programma fu pubblicato nella "Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie", 1894, vol.IV, pp. 168-175; ora trovasi anche in G. Toniolo, Saggi politici a cura di S. Majerotto, Roma, editore Cinquelune, 1957, pp. 33-43; e in G. De Rosa, I partiti politici in Italia, Bergamo, 1972, pp. 164-170; inoltre un valido commento sul programma si trova in E. Guccione, Il programma dei cattolici difronte al socialismo (1894), in "Idea", anno XXXVI, n.12, dicembre 1980, pp.58-61.

10 Cfr. A. Gambasin, Origini, caratteri, finalità della Società cattolica italiana per gli studi scientifici, cit.; A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, cit.

11 Toniolo, Democrazia cristiana concetti e indirizzi; I pionieri della Democrazia cristiana. Modernismo cattolico 1896-1906.

12 G. Toniolo, Il concetto cristiano di democrazia, in Saggi politici, cit. p. 56.

13 G.Toniolo, Il concetto cristiano di democrazia, cit. p. 84.

14 Nel resoconto pubblicato sull’ "Osservatore cattolico" del 15 e 16 marzo, anonimo ma che poi risultò essere di Filippo Meda, si leggeva tra l’altro:"... ... non esitò a proclamare che la democrazia cristiana è il programma unico possibile di ricostruzione e di difesa, così nella sua parte sociale che nella sua parte politica; che non c’è da preoccuparsi se dalla alleanza della chiesa col popolo diretta alla riabilitazione del proletariato deriveranno la condanna e la sparizione delle classi superiori perché tutto ciò è logico e giusto; che infine l’ora è giunta di accingersi a questo grande, difficile lavoro, che inizia un moto del quale la storia dirà forse che fu pari per importanza a quello che degli schiavi romani e dei barbari invasori fece il popolo dei liberi comuni auspice la chiesa. Toniolo concluse col grido di Carlo Marx cristianamente corretto: Proletari di tutto il mondo unitevi in Cristo". Opera Omnia di Giuseppe Toniolo, serie VI, Lettere (1896-1903), vol. II, p. 102, raccolte da Guido Anichini, ordinate e annotate da Nello Vian, Ed. del Comitato Opera Omnia di Giuseppe Toniolo, Città del Vaticano, 1952.

15 Lettera a Mons. Carlo Panighetti, nota n.2. La lettera di Toniolo fu pubblicata sull’ "Osservatore Cattolico" del 25 marzo, sotto il titolo Per un incidente. Seguiva una postilla di Filippo Meda che si dichiarava "non infallibile".

16 Lettera di Toniolo a Paganuzzi, 6 marzo 1899, in Opera Omnia, Lettere, Vol. II, cit.

17 In occasione del XVII Congresso cattolico che si sarebbe dovuto tenere a Roma nel settembre del 1900, i democratici cristiani decisero di riunirsi separatamente per esaminare i problemi relativi alla struttura e al futuro del loro movimento, Toniolo disapprovò questa iniziativa con una lettera aperta pubblicata sull’ "Osservatore Cattolico" e Murri lo accusò di contribuire in tal modo a "demolire quel poco di bene che si poteva fare e che forse si andava facendo in Italia, di rompere un altro ponte, costruito con lunga e grave fatica, fra la S.Sede e il popolo nostro". "Cultura sociale", 1-settembre-1900.

18 Lettera a Don Davide Albertario in Opera Omnia, Lettere (1896- 1903), vol. II, cit. pp. 314-317

19 Lettera a Don Giuseppe Faraoni in Opera Omnia, Lettere (1896-1903), vol. II, cit. p. 341.

20 Dello stesso avviso non fu Romolo Murri, il quale definì Toniolo come "il Paganuzzi del movimento sociale, l’idealista impenitente che da dieci anni ci ricanta, quasi con le stesse parole un suo canto palingenesiaco, che nell’economia, nella filosofia della storia, nella tattica dei partiti, porta ed applica, con immensa fiducia i rigidi criteri dell’assoluto" in "Cultura sociale" 16-06-1903.

21 Scritti scelti di Giuseppe Toniolo, a cura di Filippo Meda, seconda edizione, Milano, Società editrice "Vita e Pensiero", 1945, pp. XVIII-XIX.

22 Vedi: F. Meda, Il pensiero di Giuseppe Toniolo, Roma, Desclèe e C. Editori pontifici, 1919; Scritti scelti di Giuseppe Toniolo, a cura di Filippo Meda, cit.

23 F. Meda, Scritti scelti di Giuseppe Toniolo,cit., p. XVII-XVIII.

NOTE

1 Cfr. A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi, (1871-1904), Roma, Università Gregoriana, 1958; S. Zannelli, Note sull’azione sociale dei cattolici e sulle prime vicende del movimento sindacale cristiano in Italia (1870- 1904), in "Vita e pensiero", Milano, a. 42 (1959), n. 11, pp. 809- 822.

2 Già dal 1889 la stampa cattolica aveva manifestato un crescente interesse per il socialismo "Se per socialismo -scriveva "Il popolo cattolico" nel novembre del 1889 - si vuole intendere lo studio delle leggi costitutive della società, dei mezzi di perfezionarla, di svilupparvi l’ordine, la prosperità, la pace, il progresso, non proviamo nessuna difficoltà a dichiararci socialisti", ma "la scuola socialista, quale si definisce essa stessa con le sue dottrine e con i suoi atti, ha per iscopo la distruzione dell’ordine sociale attuale nella sua costituzione d’origine, basato sulla religione, sulla famiglia e sulla proprietà". Dunque tra cristianesimo e socialismo vi era antitesi totale. Mentre il cristianesimo "sancisce l’unità e la perpetuità della famiglia, il socialismo ne crea la distruzione. Il cristianesimo afferma il diritto di proprietà, il socialismo ne reclama l’abolizione". Il socialismo cristiano, in "Il popolo cattolico", 30 novembre 1889; Cfr. E. Guccione, I Cristiano-Sociali di fronte al Marxismo e le intuizioni di Romolo Murri, Estratto da Studi in memoria di Gaetano Falzone, a cura del Comitato di Palermo dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Palermo, Ila Palma, 1993.

3. Cfr. Il socialismo cristiano in "L’Osservatore cattolico" 28 febbraio - 1 marzo 1890; Chiesa e socialismo, in "L’Osservatore cattolico" 1-2 marzo 1890; La questione sociale, in "L’Osservatore cattolico" 21-22 maggio 1890.

4. "Proprio nel momento di massimo apogeo per l’Opera fece la sua comparsa la nuova corrente della Democrazia Cristiana, capeggiata da Romolo Murri, che si batteva per l’affermazione di un programma più audace di giustizia e rinnovamento sociale e propugnava l’organizzazione sindacale, in polemica con le concezioni paternalistiche e caritative e con i metodi autoritari dei vecchi dirigenti dell’Opera". L. Osnaghi Dodi, L’azione sociale dei cattolici nel milanese (1878-1904), Milano, Sugarco edizioni, 1974.

5. Cfr., L. Ambrosoli, Il primo movimento democratico cristiano in Italia (1897-1904), Roma, Cinquelune, 1958.

6. Già nel 1904 Meda, nel discorso di Rho, aveva espresso le sue idee molto chiaramente: "Nel futuro partito nostro - egli disse - non dovranno essere soppresse le tendenze; ciò equivarrebbe a togliergli l’elemento vitale [...], ma almeno in principio l’azione collettiva bisognerà che si adatti ad essere concordata sopra un minimo di postulati comuni, oltre il quale riprenderà il suo impero la libertà individuale, semprechè l’esercizio di essa non pregiudichi l’interesse generale: con questa regola ci sarà lecito sperare che le recenti evocazioni dell’esempio germanico non saranno state vane e che il futuro Centro italiano non dimenticherà l’esperienza fatta dai cattolici del Reichstag dell’impero, dov’essi, pure essendovi arrivati con diverse tradizioni e rappresentanti di bisogni diversi, dalle file dell’aristocrazia agraria, da quelle del commercio e dell’industria, e da quelle delle professioni liberali e del clero, furono concordi propugnatori di pace religiosa, di libertà politica, di giustizia sociale [...]. In "L’Osservatore cattolico", 29 dicembre 1904.

7. Cartella "Documenti e memorie" in Archivio Filippo Meda.

 

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