RECENSIONI

E. SCIACCA, Il problema storico del pensiero politico moderno. La genesi della modernità, Palermo, Arnaldo Lombardi Editore, 2000, pp. 341.

Il recente lavoro di Enzo Sciacca costituisce un importante contributo per lo studio del pensiero politico moderno, il quale, partendo dal problema della duplice concezione dello Stato - naturalistica e contrattualistica -, propone una diversa definizione dell’uomo: animale politico che non potrebbe vivere senza la polis o unico elemento naturale che vede lo Stato come ente convenzionale, come fictio.

Il problema della concezione naturalistica dello Stato ha le sue fonti nel pensiero aristotelico secondo cui la polis è comunità autarchica e tale autosufficienza è condizione di sovranità "perché non ha bisogno di nessun altro" (p. 13). Secondo Sciacca bisogna evitare di ritenere le due concezioni dello Stato come cronologicamente distinte poiché il pensiero politico moderno è profondamente intrecciato nelle due interpretazioni dell’idea di Stato.

Un carattere fondamentale del pensiero politico moderno è il considerare la politica come scienza, e anche tale peculiarità ha le sue radici nel pensiero greco e, precisamente, in Aristotele, il primo a indicare "la necessità di indagine sulle regole della legislazione" attribuendo alla scienza politica la ricerca delle "cause della conservazione e della rovina della polis" (p. 17) in base al diverso tipo di governo. Sciacca coglie, nella concezione aristotelica della politica come scienza, l’interessante teoria della deliberazione, della phrónesis, della "prudenza": "La politica della deliberazione - scrive l’autore - è una scienza che [...] si può trasmettere" (p. 17) . La phrònesis appartiene al mondo dell’opinione e rappresenta la prevalenza di un’opinione sulle altre. In tal senso la politica può essere trasmessa "se il suo ambito riguarda le opinioni e la loro varietà e variabilità" (p. 18). Tale aspetto risulta rilevante perché da qui venne fuori la precettistica politica che ebbe il suo maggior sviluppo alla fine del XV secolo.

L’autore dimostra, pertanto, come la cultura filosofico-politica, all’inizio dell’età moderna appaia contesa tra due correnti di pensiero: da una parte l’aristotelismo, dall’altra il platonismo. Il primo "rappresenta [...] il retaggio del passato antico e medievale" che discende dalla scolastica e da San Tommaso; e da cui deriverebbe la concezione dello Stato sovrano nazionale. Il secondo avrebbe indicato le novità del pensiero moderno: utopismo, razionalismo, evangelismo politico. Analizzando il pensiero politico dell’assolutismo monarchico Sciacca osserva come, in realtà, il sovrano assoluto fosse vincolato alle leggi fondamentali, alla consuetudine. La sovranità assoluta si poneva in opposizione alla sovranità relativa del pensiero medievale. E anche tale definizione discendeva da Artistotele poiché lo Stato nazione "assoluto è perché è" (p. 30); cioè è tale per la sua autarchia. L’autore passa in rassegna i pensatori assolutisti da Claude de Seyssel - secondo cui lo Stato è "corpo mistico" e la monarchia ha i suoi "freni’ nella religione, nella giustizia e nelle leggi fondamentali - a Jean Bodin, per il quale il governo giusto è quello "bene ordinato" e il potere sovrano coincide con la potestà legislativa che trova un limite nelle leggi naturali stabilite da Dio. E proprio ne Les six livres de la République Sciacca individua, nella classificazione delle forme di governo, un criterio di discriminazione che appare nel regime di proprietà piuttosto che nella base sociale del consenso o partecipazione al governo (p. 41).

Con Bodin siamo in pieno sedicesimo secolo, il secolo della crisi, della Riforma protestante; il tempo in cui si assiste alla fine della concezione dell’impero universale, della Res publica Christiana dell’età carolingia. Ma il maggiore scrittore politico del XVI secolo resta, comunque, Niccolò Machiavelli, del quale Sciacca coglie i richiami ai pensatori greci ma anche agli scritti di Egidio Romano, Francesco Patrizi, Erasmo e More. L’autore ritiene che nel principato civile starebbe "l’ideologia" che sostiene l’impalcatura teorica del Principe (p. 53), poiché il principe civile è colui che è giunto al potere non per il favore del popolo, ma per la simpatia e il sostegno conquistati attraverso altre vie. Il più interessante contributo del Segretario fiorentino alla riflessione politica moderna è l’avere individuato le regole della politica che non sono dettate dalla morale o dalla religione. Nel sostenere che le repubbliche non si reggono con i "padrenostri", Machiavelli poneva la distinzione tra profeti armati e disarmati, aprendo la strada ai teorici della Ragion di Stato.

Se, come abbiamo visto, dall’aristotelismo deriva l’assolutismo, dal platonismo derivano le riflessioni politiche dell’evangelismo di Erasmo e dell’utopismo di More. Il cancelliere inglese, criticando la proprietà privata, fondò la sua repubblica sull’eguaglianza economica, sforzandosi di creare un modello "perfetto" di Stato, una repubblica meritocratica. E tra gli altri rappresentanti dell’etica evangelica Sciacca ricorda il pensiero politico di Erasmo e di Guillaume Budé per il quale la scienza politica si esprime nell’educazione politica secondo "il precetto socratico-platonico" che la virtù è conoscenza (p. 80).

Dal protestantesimo, come moto religioso filosoficamente critico dei presupposti teoretici dell’aristotelismo, si assistette all’emergere del costituzionalismo dell’olandese Althusius, con il quale - specifica l’autore - si può considerare concluso il dibattito politico sullo Stato, communitas, venuto fuori dalla Riforma (p. 102). È il periodo della neoscolastica di Suarez, Mariana e Molina, i quali rappresentano la mediazione tra filosofia tomistica medievale e pensiero moderno (pp. 106-110).

La prima tappa del percorso della modernità si conclude con la teorizzazione dell’assolutismo di diritto divino: "l’assolutismo si presenta come una delle espressioni maggiormente significative della modernità nel pensiero politico, specialmente - scrive Sciacca - se consideriamo la sua definitiva sistemazione teorica, [...] con la proposizione di una concezione discendente della legittimazione dell’autorità politica attraverso lo strumento del "diritto divino" [...]: la teoria dell’onnipotenza legislativa del sovrano assoluto" (p. 114).

Tale fu l’assolutismo di Luigi XIV e quello teorizzato da Bossuet il cui scopo fu di tracciare una monarchia fondata sulla tradizione della religione cattolica. Qui è la giustizia a segnare il confine tra governo legittimo e arbitrario. E la monarchia assoluta, rispettando la proprietà privata e la libertà dei sudditi, è legittima e non arbitraria.

Nel dibattito sulla Controriforma si colloca la riflessione politica di Tommaso Campanella, la sua utopia, la res publica come organizzazione politica e sociale che si richiama alla monarchia assoluta (p. 124). L’autore passa poi a delineare il pensiero degli anti-assolutisti come J. Harringhton, o dei libertini come Gabriel Naudè, il cui "libertinismo erudito", muovendo "contro l’ortodossia controriformistica e contro l’assolutismo", si pose a difesa di un "ambito di ragionamento autoritario imposto sia dalla conoscenza fondata sulla tradizione che da qualsiasi controllo politico e sociale" (p. 133). Il contributo più rilevante del pensiero libertino alla definizione di modernità è dato dal concetto di politica come "rappresentazione" che vuole ricercare il meraviglioso e lo straordinario in sintonia con la cultura barocca.

Nella filosofia della modernità giusnaturalismo e contrattualismo diventano i presupposti teoretici per i quali Stato e società sono "creature" artificiali: "contrattualismo e giusnaturalismo sono a loro volta i principali punti di riferimento teoretici e di criteri ermeneutici dell’epistemologia politica della modernità" (pp. 141-142).

La rivoluzione cartesiana, nel campo della teoresi, trovò applicazione nella filosofia politica con Ugo Grozio e con la sua fondazione razionale del diritto di natura come norma della retta ragione. Ma il primo, autentico, teorico dello Stato moderno è Thomas Hobbes poiché: "nella sua filosofia - scrive l’autore - affondano le radici e traggono alimento tutti i caratteri fondamentali della concezione moderna dello Stato: dalla sovranità erga omnes, alla onnipotenza legislativa; dalla personalità alla rappresentatività" (p. 167). L’unica certezza del sistema hobbesiano è costituita dal diritto positivo dello Stato-persona artificiale onnipotente. Il suo giuspositivismo - osserva acutamente Sciacca - è fortemente saldato al suo giusnaturalismo, perché finisce "per negare se stesso, ma rappresenta certamente la condizione per la genesi e l’affermazione del diritto positivo" (p. 168).

L’altro grande rappresentante del pensiero politico inglese del XVII secolo è John Locke. L’autore, in particolare, si inserisce nel dibattito storiografico che giudica il problema della proprietà come uno degli aspetti lockiani più significativi e "qualificanti". La recente storiografia ha messo in evidenza come la filosofia politica di Locke sia riconducibile "alla tradizione storico-cristiana e alla moderna dottrina giusnaturalistica di tipo hobbesiano". In un senso Locke è il filosofo della libertà, nell’altro della "nuova mentalità borghese pre-capitalistica" (p. 185). Locke testimonierebbe così, con la sua filosofia, la crisi e la trasformazione delle concezioni giusnaturalistiche del XVII secolo. Ma sia in Hobbes che in Locke, è chiara la concezione della società come fictio rispetto all’unica realtà che è l’uomo.

Nel XVIII secolo il giusnaturalismo lascia insoluto il problema del rapporto tra individuo e Stato. Locke aveva cercato di risolverlo separando la sfera della "sovranità naturale dell’individuo" da quella della "sovranità costituzionale del governo civile" distinguendo i diritti naturali dalla legge positiva. Hobbes, al contrario, insiste "nella contemporanea affermazione di due principi non facilmente conciliabili: il potere assoluto dello Stato e quello altrettanto assoluto dell’individuo, il diritto positivo e il diritto naturale" (p. 189).

Il pensiero del Settecento cerca di superare il giusnaturalismo sin dalle sue fondamenta filosofiche e, con Montesquieu, sposta il concetto di natura dal piano normativo a quello metodologico; con Rousseau tenta di recuperare aspetti della filosofia politica antica giungendo alla teoria dello Stato etico e del totalitarismo democratico (pp. 191-192).

Montesquieu non contrappone il diritto naturale a quello positivo e rifiuta di considerare il diritto positivo umano come arbitrario poiché la legge positiva è espressione della ragione umana che governa tutti i popoli della terra. È questo che, secondo Sciacca, differenzia Montesquieu dai suoi contemporanei distinguendolo anche, per aver capovolto il rapporto libertà/potere del popolo e per avere affermato che le repubbliche (aristocrazia e democrazia) - al contrario dei governi moderati - non sono Stati liberi per loro natura.

Costituzione e costituzionalismo, con Montesquieu, assumono un contenuto semantico vicino a quello giunto sino a noi; un significato normativo nel senso politico che nasce dalla "riflessione sulla costituzione inglese e sulla sua interpretazione come un ordinamento tendente alla libertà individuale" (p. 220).

L’altro pensatore del Settecento che supera il giusnaturalismo è Rousseau; egli ripropone alcuni aspetti della concezione organicistica dello Stato e della società, ma anticipa anche alcuni temi del XIX secolo propri del Romanticismo politico e filosofico. Lo studio attento del pensiero di Rousseau conduce Sciacca a concludere che egli fu un filosofo "complesso e contraddittorio [...] in una ansiosa ricerca di una coerente sistemazione teoretica" (p. 250) che riassunse le contraddizioni e le incertezze di un’epoca di transizione.

Dopo Rousseau, Sciacca traccia il pensiero politico dell’Illuminismo soffermandosi ora su quello inglese di Hume, ora su quello tedesco di Lessing, sul francese Voltaire e sugli Enciclopedisti. L’autore analizza la complessa posizione di G. B. Vico il quale rifiuta i principi metodologici e filosofici dell’Illuminismo che, invece, vengono accettati dagli illuministi italiani del Nord (Pietro e Alessandro Verri, Beccari, Carli), e dai meridionali (Genovesi, Galliani e Filangieri).

Il volume si chiude con la trattazione delle due grandi rivoluzioni del XVIII secolo: quella americana e quella francese. L’autore studia il vivace dibattito politico espresso negli articoli del Federalist e l’American Political Mind del quale Thomas Jefferson appare uno dei più significativi esponenti; e nell’esperienza francese sottolinea il ruolo di Emmanuel Joseph Sieyés le cui idee fondamentali (sovranità della Nazione e concezione della rappresentanza politica) vengono considerate i "consequenziali sviluppi della teoria lockiana dei diritti dell’individuo" (p. 311). E dal pensiero rivoluzionario giacobino di Robespierre e Saint-Just Sciacca giunge ad esaminare i controrivoluzionari Maistre e Bonald le cui riflessioni rappresentarono un momento significativo della crisi della modernità. Da lì sarebbe sorto il pensiero politico del XIX secolo a cui spettava il compito di mediare i rapporti tra rivoluzione e legittimismo, tra libertà individuale e autorità dello Stato.

Il volume di Enzo Sciacca, con le sue intense e profonde considerazioni, rappresenta un valido strumento per coloro che desiderano affrontare il problema storico del pensiero politico moderno e seguire l’attuale dibattito storiografico sulla genesi della modernità, che, come ha dimostrato l’autore, non può prescindere dallo studio attento del pensiero politico classico e, in particolare, dal platonismo e dall’aristotelismo.

Claudia Giurintano

 

G. CONTI ODORISIO, Una famiglia nella Storia. I Conti di San Marco Argentano (1849-1980), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, pp. 145.

Ginevra Conti, in Odorisio, utilizzando lettere, diari, atti notarili, testamenti e sentenze ritrovate alla rinfusa nella casa paterna, ripercorre - con il distacco e la scientificità propri dello storico - la storia della sua famiglia dal 1849 al 1980 anno della morte del padre.

La Conti dichiara che la vita di suo padre Emanuele Conti può "essere compresa solo se considerata nell’insieme della storia della sua famiglia e di quella del mezzogiorno, nel complesso intreccio tra storia pubblica e storia privata" (p. 9).

Il primo capitolo si apre con la storia dei bisnonni Raffaele e Carolina. Don Raffale era un avvocato, sindaco di Cosenza, insignito della Croce di Cavaliere della corona e con i fratelli - tutti medici, giudici e farmacisti - incarnava lo stereotipo della borghesia liberale che, con il suo attaccamento alla proprietà terriera, esprimeva la propria simpatia e tendenza verso l’aristocrazia. Dal matrimonio di Raffaele e Carolina nacque Antonio Alessandro Emmanuele: il nonno dell’autrice.

La Conti descrive il desiderio del nonno di contribuire a migliorare le condizioni di vita del paese inserendo la sua proprietà di San Marco - a 50 Km da Cosenza - nel processo di sviluppo industriale italiano: egli migliorò le condizioni igieniche del paese; introdusse la costruzione di oggetti di ceramica; da tesoriere ed esattore fu animato da spirito caritatevole e da solidarietà sociale. Sposato con la baronessa Carolina Valentoni, dopo la prematura morte di questa, prese in moglie Ginevra La Regina, rappresentante di una della famiglie più ricche del paese.

Da questo matrimonio nacquero Maria e Raffaele Emanuele, padre della Conti. Antonio A. Emauele morì due mesi dopo la nascita del figlio. E donna Ginevra, rimasta sola con i due figli, si dedicò anima e corpo alla loro educazione.

La Conti ricostruisce queste vicende avvalendosi anche di fonti orali, ricordi paterni; ella descrive il salotto dei La Regina, le lunghe conversazioni sulla politica e i commenti alle notizie pubblicate sui giornali del tempo.

Il giovane Emanuele, crescendo, si mostrava ribelle e ostinato tanto che donna Ginevra vestì il figlio con abiti da bambina fino a sei anni "sperando che questi modificassero certe intemperanze" (p. 26). Ma tale mezzo non fu sufficiente; Emanuele fu messo in collegio e furono anni difficili e senza distrazioni. Il primo anno venne bocciato, ma riuscì brillantemente a superare tali difficoltà tanto da maturarsi con il massimo dei voti in tutte le materie tranne che in matematica. La sua "orgogliosa caparbietà" lo spinse ad iscriversi in una Facoltà poco adatta alle sue inclinazioni: ingegneria al Politecnico di Torino.

Per seguire la storia del padre, durante gli anni universitari e della Grande Guerra, Ginevra Conti fa ricorso alle lettere della nonna che contengono "notizie, ammonizioni, prescrizioni, insegnamenti" (p. 29). Furono anni di vita durissima e di grandi sacrifici. Donna Ginevra e sua figlia fecero di tutto per amministrare i propri fondi, privandosi di ogni cosa pur di mantenere Emanuele all’università e continuando a vivere nella casa "incatenata" dopo i danni del terremoto del giugno 1913.

A Torino Emanuele si trovò senza le restrizioni del collegio "divorava Papini, che aveva redatto il programma nazionalista" (p. 37), e fu tra i fondatori del Gruppo Giovanile Nazionalista. Nella città piemontese fece amicizia con Vittorio Ambrosini, fratello del costituzionalista Gaspare. Scoppiata la guerra, Emanuele decise di partire volontario e a donna Ginevra sembrò "che quel figlio così ribelle e testardo facesse ogni cosa per contrariarla" (p. 38). La guerra appariva ad Emanuele Conti "una necessità ineluttabile, ma [...] anche un’occasione di catarsi, un metodo di rieducazione morale e di riabilitazione personale" (p. 38). Morta Pia, la sorella di donna Ginevra, lo zio vedovo prese in sposa la nipote, sorella di Emanuele. Si trattò - osserva la Conti - quasi di una "transazione commerciale"; e Ginevra "con spietata, inconscia freddezza", accettò quel matrimonio dal quale sarebbero venuti solo disgrazie e dolori.

Emanuele Conti, frattanto, nel 1916, partito come sottotenente, combatteva la sua guerra "non solo contro gli austriaci, ma anche contro i regolamenti dell’esercito" (p. 42). Nel 1917 ricevette una medaglia al valor militare ma l’anno successivo, la Commissione Militare pretese da lui la somma di £165, 95 per avere fatto viaggiare a spese dello Stato un suo attendente: "La grande guerra per mio padre - scrive l’autrice - si concluse così con una medaglia di bronzo [...] e una multa" (p. 43).

Finita la guerra, egli ottenne finalmente quella laurea che "non gli servirà mai a nulla". Per lui, da sempre ostile al comunismo, trovò naturale avvicinarsi al Partito nazionale fascista che, più di altri, combatteva comunismo e bolscevismo. Egli partecipò alla marcia su Roma e alla fine degli anni ‘20 collaborò al periodico "La conquista dello Stato" diretto da Curzio Malaparte. Ma, iniziato il periodo della conquista del potere, "nel momento in cui molti cominciavano per opportunismo, ad entrare nel partito [...] che si sarebbe trasformato in regime, mio padre - scrive la Conti - cominciò invece ad allontanarsene" (p. 48).

Nel 1930 egli decise di andare a Parigi dove conobbe Daniel Halévy e Léon Blum. In Francia sposò Renée Raffin e con lei tornò in Calabria, in quel palazzo ormai decadente. La giovane francese comprese che "diventare moglie di un proprietario terriero del Sud non significava essere diventata ricca, ma aver cambiato genere di povertà" (p. 58): viveva in un palazzo, aveva dei servitori ma non aveva i soldi per fare un viaggio o acquistare un abito.

Il primo figlio, Fabrizio, nacque quando Emanuele fu nominato Podestà di San Marco. Il 30 ottobre 1935 partì volontario per l’Abissinia. Fu allora che egli decise di tenere un diario per la moglie, in un francese raffinato, evitando così di spedirle lettere che la censura avrebbe controllato. Questo diario costituisce la fonte principale per la ricostruzione delle vicende africane; un documento storico che la Conti giudica di "straordinario interesse".

In Africa molti soldati italiani si trovavano lì da oltre due anni, sottoposti a fatiche di ogni genere. E il 5 marzo 1937 una loro protesta costò al capitano Conti un processo e un "rimpatrio d’ufficio" perché, come comandante di batteria "non aveva spiegato sufficiente azione assistenziale e opera di persuasione tra i militari dipendenti" (96). Per le troppe emozioni e stanchezze si ammalò con febbre forte e il 22 giugno, su una nave ospedale, lasciò l’Asmara per raggiungere Napoli.

Un anno dopo nasceva la Conti. Il 3 settembre Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. Per Renée inizia un periodo di disperazione per la paura di non potersi recare liberamente dai suoi genitori. Non trovando un impiego come ingegnere Emanuele Conti decide di riavvicinarsi al partito fascista e nel 1940 viene promosso Ispettore federale. Nel 1941 sostenne "la necessità di completare le classi della scuola di avviamento professionale a San Marco" (p. 107). E nel febbraio 1942 fu richiamato alle armi e destinato a Napoli dove si trasferì tutta la famiglia.

La Conti descrive gli orrori della guerra e i contrasti, le contraddizioni dei nobili Matarazzo nella cui depandance Emanuele e la sua famiglia vivevano: la incredibile frugalità del pasto che veniva servita con posate d’argento, bicchieri di cristallo ed eleganti piatti. Le stesse conversazioni, spesso brillanti, venivano condotte in una atmosfera di grande precarietà. Ma la guerra non fece dimenticare ad Emanuele Conti il suo conflitto personale con il Ministero e, grazie ai suoi esposti, il rimpatrio di autorità fu corretto in "ordinario" ottenendo la promozione a maggiore.

Il mito della superiorità bellica dell’Italia si sgretolava ogni giorno di più; le sirene suonavano per annunciare i bombardamenti e le notti dell’autrice cominciarono a diventare movimentate costretta - appena bambina - ad abbandonare il proprio letto per correre nei rifugi.

L’8 settembre 1943: l’armistizio. Emanuele Conti annota sul suo diario le manifestazioni di esultanza ma anche "lo sgomento e la disillusione di molti ufficiali di fronte alle falsità del regime fascista e alla rivelazione delle scandalose ricchezze accumulate dai gerarchi" (p. 116).

Il 16 settembre l’autorità tedesca di occupazione ordina a tutti i militari di presentarsi al comando tedesco più vicino "Conti non ebbe alcuna esitazione"; tale ordine era contro il suo sentimento e il suo dovere di soldato. Il 1° ottobre 1943 entrarono gli americani; il 22 novembre egli depose definitivamente la divisa: "questa volta il rientro a San Marco era definitivo: la patria non aveva più bisogno di lui" (p. 123). Il rientro durò solo un anno poiché la morte della moglie lo spinse a trasferirsi a Roma. Qui la loro vita "assunse i contorni di una esistenza militare"; ogni distrazione era loro bandita, il guardaroba ridotto al necessario. E se per Proudhon la proprietà era un "furto", l’autrice amaramente afferma che per la sua famiglia fu piuttosto una "sventura".

Suo padre, capace di tanto eroismo, con il suo carattere "aristocratico" per il forte senso dell’onore, per le qualità morali, per la vasta cultura, non fu capace, ella scrive, della "lunga pazienza" necessaria per quelle cose che richiedono tenacia a costanza.

Il pregevole libro di Ginevra Conti procedendo con il preciso e minuzioso parallelismo tra storia familiare (privata) e storia italiana (pubblica) dimostra, "bodinianamente", come la famiglia sia il prius rispetto allo Stato, la cellula della società che si innesta nella comunità politica.

Claudia Giurintano

 

AA.VV., Commemorazione storica del 31 ottobre 1998, Società e spiritualità in Sicilia nel Cinque e Seicento, Atti della Commemorazione e del Convegno storico celebrato nel IV Centenario della nascita di San Giacinto Giordano Ansalone (1598-1998), a cura di Giovanni Capodici, S. Stefano Quisquina, Grafiche Geraci, 2001, pp. 155 e appendice documentaria.

Per il quarto centenario della nascita di San Giacinto Giordano Ansalone (1598-1634), la diocesi di Agrigento indisse l’Anno Giordaniano (1998-1999) e un Comitato organizzò un intenso programma di attività con commemorazioni, convegno con pubblicazione degli atti e annullo postale, per ricordare il domenicano, missionario nelle Filippine e in Giappone, martirizzato a Nagasaki e canonizzato a Roma il 17 ottobre 1987.

Giordano, al secolo Giacinto, nato a Santo Stefano Quisquina, aveva portato avanti la sua missione nelle Filippine con grande determinazione poiché, amava dire, se il fiume Giordano "poté tornare indietro, io Giordano no, non torno indietro" (p. 53). Espressione, questa, - Jordanus non est retrorsum - che fu anche il titolo di un interessante lavoro di Calogero Messina, docente di Storia moderna nell’Ateneo palermitano, edito nel 1998 e recensito nel n. 3 (aprile 1998) della nostra rivista.

Un volume, di recente pubblicazione, ricorda le manifestazioni dell’Anno Giordaniano raccogliendo gli interventi alla Commemorazione (31/10/1998); al Convegno (30/10/1999) e, in un’appendice documentaria, presenta, tra gli altri, le recensioni al libro di Messina e gli articoli apparsi su "L’Osservatore Romano", "L’Avvenire", "Famiglia Cristiana", "La Sicilia", "Mediterraneo" e altre testate.

La prima parte, la Commemorazione, si apre con il contributo di P. Vincenzo Romano - già provinciale dei Domenicani - il quale interpreta il sacrificio di Giordano come un messaggio, un nuovo tentativo di riscrivere il Vangelo, valido per tutti i tempi e più che mai per i nostri. E Calogero Messina, nel suo saggio, pone l’attenzione su un’altra illustre figura di Santo Stefano Quisquina: Fra’ Vincenzo Traina, vissuto nel XVI secolo e morto in odor di santità.

I lavori del Seminario di Studi su Società e spiritualità in Sicilia nel Cinque e Seicento, introdotti dal Vescovo di Agrigento, mons. Carmelo Ferraro, e dall’arciprete di Santo Stefano Quisquina, mons. Antonino Massaro - si aprono con la relazione del ricercatore Fabrizio D’Avenia sulla storia della Sicilia nei secoli XVI e XVII. Si trattò di un periodo travagliato e doloroso per le classi più deboli della società isolana che vide nella rivolta del 1647 uno dei "segnali più drammatici". Ma, nonostante tali sofferenze, la Sicilia riuscì a far emergere le proprie risorse spirituali concretizzate nelle "manifestazioni di fede, di devozione che presero vita nonostante la precarietà del vivere quotidiano e come risposta, umanissima, a questo disagio" (p. 91).

Mons. Domenico De Gregorio, presidente del Capitolo della Cattedrale di Agrigento, tracciando la storia della Chiesa agrigentina ai tempi di San Giacinto Giordano Ansalone indica le confraternite di Santo Stefano e le iniziative e opere dei vescovi più importanti del tempo: da Giuliano Cybo a Diego Haedo, da Francesco Traina a Francesco Maria Rini.

Calogero Messina ricostruisce la vita e l’opera di Fra’ Vincenzo Traina ripercorrendo la storia della cittadina nel XVI secolo e utilizzando, tra l’altro, i manoscritti da lui ritrovati dei miracoli e delle deposizioni degli stessi miracolati.

Il profilo spirituale di San Giordano è stato studiato da P. Vincenzo Romano, secondo cui il Santo fu modello di vera carità cristiana che non è solidarietà vuota, nè semplice beneficenza. Quella di Giordano fu una spiritualità incentrata "sulla predicazione intesa sia come annuncio della parola che come testimonianza di vita attuata parlando con Dio e di Dio" (p. 135).

Giordano fu condannato a morte per avere predicato e insegnato la legge di Cristo in Giappone. Egli non volle smettere di essere "operatore evangelico" e continuò il suo impegno, non voltandosi mai indietro. E la sua "santa ostinazione" vuole essere monito che, dinanzi agli ostacoli, non ci si deve volgere indietro, ma bisogna andare avanti, osservando i propri doveri e seguendo i propri ideali.

Claudia Giurintano

 

A. PORTANOVA, Storia del movimento sindacale in Sicilia dal 1944 al 1969 - Palermo, Editrice L’Epos, 2001 pp.156.

Questo libro, la cui prefazione è stata curata dal sindacalista Sergio D’Antoni, vuole fare luce sul movimento sindacale siciliano, che dal secondo dopo-guerra ai nostri giorni ha espresso la volontà di riscatto di migliaia di contadini e operai, ai quali era stato negato il senso della dignità civica. Il sindacalismo siciliano ha ricoperto un ruolo importante nella storia nazionale, soprattutto col passaggio dalle occupazioni delle terre contro il latifondo alle rivendicazioni dei diritti sindacali e al processo di sviluppo industriale, motore per l’unificazione economica e sociale con il resto del Paese. Il movimento raggiunse gloriose conquiste, ma fu segnato anche da drammatiche vicende che videro colpiti suoi esponenti, i quali in una solitaria ed eroica battaglia accompagnata da un massiccio consenso popolare e da una trasparente condotta morale, avevano toccato i perversi interessi politico-mafiosi. L’autore apre la trattazione ripercorrendo quella intensa fase di contatti fra esponenti sindacali di diversa matrice culturale, che nel 1943 crearono le condizioni per la sottoscrizione delle Patto di Roma. L’accordo, sottoscritto nel giugno 1944, fu il frutto del superamento di contrapposte ideologie, una socialista e l’altra democristiana, e realizzava l’unità sindacale attraverso la costituzione della Confederazione generale italiana del lavoro, che si ispirò a principi quali: un’ampia democrazia interna, garanzie per la rappresentanza delle minoranze e partecipazione di tutti allo sviluppo del Paese. Nel contesto del sindacato nazionale ben diverse erano le condizioni dei lavoratori del Mezzogiorno rispetto alla forza lavoro che operava nel centro-nord. Nel Meridione, infatti, il crollo vorticoso della produzione e la disgregazione dei rapporti che si erano creati fra i proprietari del latifondo, gli affittuari e i piccoli proprietari terrieri, determinarono l’impoverimento di questi ultimi a vantaggio della rendita parassitaria e della proprietà speculativa. In quegli anni alle dure condizioni dei lavoratori dei campi faceva seguito una altrettanto dura realtà del lavoro operaio, compresso dallo sfruttamento nelle fabbriche e soffocato da una politica di bassi salari. Ma, tra il 1944 e il 1947, con l’applicazione dei decreti Gullo e la organizzazione di classe nelle campagne, assistiamo finalmente allo sviluppo del movimento contadino, finalizzato al progresso economico e sociale dell’isola. Tra le cause che segnarono la svolta è importante anche segnalare la promulgazione dello Statuto regionale nel maggio 1946 e l’affermazione elettorale del 20 aprile 1947 da parte dei socialisti e comunisti uniti nelle liste del Blocco del Popolo. I successi politici enunciati furono accompagnati dalle lotte del movimento contadino impegnato a contrastare da un lato la repressione dello Stato e dall’altro la violenta reazione della mafia e del banditismo, che erano garanti del sistema di potere del blocco agrario. Brevi tempore, però, le conquiste sindacali furono messe a dura prova dalla strage di Portella della Ginestra ad opera della banda Giuliano e soprattutto dalla sconfitta elettorale delle sinistre del 18 aprile 1948. Tra il 1944 e il 1945, prima con il Congresso di Caltanissetta, al quale parteciparono le Camere del lavoro dell’isola, e poi con il Congresso delle organizzazioni CGIL dell’Italia liberata, svoltosi a Napoli, fu posta al centro dell’impegno sindacale la questione della terra: bisognava, infatti, risolvere il problema del latifondo, che ostacolava il processo di evoluzione delle masse lavoratrici siciliane e frenava la democratizzazione della vita dell’isola. A questo cammino si opponevano la polizia scelbiana, la mafia e i padroni delle terre, che non riuscirono, però, ad isolare il sindacato, il quale nel contempo si arricchiva del contributo di nuove forze, noncuranti delle denunzie, degli arresti, dei processi. Solo a partire dagli anni 50, sotto la spinta di lotte che coinvolgeranno contadini, minatori, operai, si realizzeranno nelle varie province dell’isola importanti risultati economici e sociali. È necessario sottolineare, tuttavia, che questi obiettivi furono raggiunti anche attraverso quel concreto contributo che il Partito Comunista seppe dare al movimento contadino siciliano. L’autore a questo punto della trattazione si sofferma sulla Legge per la Riforma agraria e sullo scontro tra le organizzazioni contadine e la mafia: il dibattito sulla Legge, infatti, da un lato accese aspri contrasti tra la sinistra e il blocco di centro-destra, dall’altro provocò la violenta reazione della mafia che colpì le figure più rappresentative del sindacato. La mafia, che aveva interessi economici nelle campagne, costituì uno strumento delle forze politiche reazionarie per frenare la lotta di classe, ponendosi come "guardia di base", nei confronti del potere politico costituito. Tra i delitti di stampo mafioso che suscitarono maggiore sdegno in quegli anni ricordiamo l’uccisione di Accursio Miraglia, segretario della Camera del Lavoro di Sciacca. Questo omicidio, che provocò una reazione senza precedenti, secondo l’autore, aiuta a capire come molti processi di mafia siano stati caratterizzati da un insabbiamento giudiziario, che attraverso il proscioglimento in fase istruttoria non consentiva di entrare nel merito delle indagini. Le reazioni al delitto Miraglia non si limitarono ad azioni di protesta, ma risvegliarono la coscienza morale e civile dei siciliani, creando le basi per una più vasta lotta popolare, e così, subito dopo il 4 giugno 1947, tra le cose più significative vi fu la costituzione della Federterra Regionale, centro propulsore del movimento di lotta nelle campagne. Non molto tempo dopo, e precisamente nel 1948, sarà la volta di Placido Rizzotto, sindacalista corleonese, a cadere sotto i colpi della mafia. Le indagini, guidate dall’allora capitano dei carabinieri di Corleone Carlo Alberto Dalla Chiesa, condussero all’arresto dei responsabili, ma la Corte di Assise di Palermo li assolse per insufficienza di prove. Pertanto, confermata la sentenza dalla Corte di Assise di Appello e respinto il ricorso in Cassazione, si concludeva impunemente un’altra tragica vicenda. Con l’omicidio Rizzotto un duro colpo venne inferto al movimento contadino, che nella vicina campagna elettorale fu condizionato da un clima di paura e di intimidazione; i risultati del 18 aprile 1948, che segnarono la vittoria della destra, ne furono testimonianza. L’autore nella seconda parte del libro si sofferma sul ruolo che ebbe il sindacato siciliano dagli anni 50 alla fine degli anni 60 e, partendo dalle elezioni regionali del 1951, che videro opporsi i due schieramenti politici, quello della D.C. e quello del Blocco del Popolo, tratta dello scontro sociale ed economico su temi quali la Riforma agraria, la riorganizzazione dell’industria zolfiera e, in senso più vasto, l’industrializzazione dell’isola. La Sicilia in quegli anni si presentava ricca di risorse: venne rinvenuto il petrolio e nascevano l’Ente siciliano di elettricità e la SOFIS, e sotto la spinta del sindacato veniva istituita la Cassa del Mezzogiorno, che aveva l’obiettivo di realizzare opere pubbliche e creare le condizioni finanziarie per lo sviluppo industriale del Sud. Presto, però, una politica assistenziale, fondata sul richiamo di capitali di investimento, e non su una programmazione come chiedeva il sindacato, determinò il fallimento della politica regionale. Intanto a Roma veniva eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e in Sicilia a Franco Restivo succedeva Giuseppe Alessi, che, rifacendosi al messaggio di Gronchi, accolse le richieste del sindacato con l’elaborazione di un piano regionale di sviluppo economico. Il governo Alessi, appoggiato da un lato dalla Sicindustria e dall’altro da CGIL, CISL, UIL, prometteva un impegno sui temi della riforma agraria e dell’industrializzazione, ma la reazione degli agrari condusse ad un ribaltamento politico con il governo presieduto da Giuseppe La Loggia. Era quello un clima di forti e contrastanti interessi politici e sociali che sfocerà nella vicenda Milazzo, il quale, proponendosi di realizzare l’autonomia economica e istituzionale della Regione, alimentò nel sindacato illusioni e aspettative, destinate a cadere con le elezioni del 7 giugno 1959. Negli anni 60 le manifestazioni di protesta nelle varie città d’Italia saranno represse da vere e proprie aggressioni della polizia e da Palermo a Reggio Emilia, in una sorta di Far West, cadranno numerosi lavoratori. Intanto in Sicilia si chiude definitivamente l’esperienza Milazzo e il nuovo governo, composto da democristiani, liberali, monarchici e missini, rispecchierà il governo democristiano presieduto da Fernando Tambroni. Nel contempo la strategia del movimento sindacale siciliano doveva formulare nuovi obiettivi, che mirassero all’occupazione, ai salari, al controllo del mercato: tutte tematiche nuove che il sindacato non sempre fu in grado di gestire. A Palermo una serie di atti di vandalismo colpirono i simboli del benessere e del progresso, dai quali i manifestanti si sentivano esclusi: vennero distrutti vetrine, aiuole, panchine, semafori. La protesta si configurò come un’insurrezione con caratteri di ribellismo che spinsero la segreteria nazionale e quella regionale della CGIL ad una più attenta riflessione sui problemi della Sicilia. Venne, pertanto, approvato un documento politico che, rivendicando un piano di sviluppo e un sostegno nazionale della CGIL a fianco del popolo siciliano, sollecitava l’attenzione dello Stato e della Regione sui problemi dell’isola. Alla fine degli anni 60 così il movimento sindacale italiano e quello regionale, che comprendeva CGIL, CISL e UIL, cogliendo i fermenti che pervenivano da tutta l’Europa, si pose in forma unitaria come soggetto politico e cominciò ad affrontare i nuovi temi della società: la casa, la scuola, la sanità, il fisco. Il 1968 fu per la Sicilia un anno di intense lotte che trovarono motivazione nelle scelte che il sindacato nazionale seppe fare e che si arricchirono di importanti temi locali, quali l’occupazione e il collocamento della manodopera. L’autore, che completa la trattazione con una raccolta di testimonianze e interviste, nonostante abbia descritto il succedersi degli eventi in forma un po’ frammentaria, ha certamente il merito di essersi cimentato su un terreno, il sindacato siciliano, troppo poco esplorato dagli studiosi contemporanei.

Sergio Figlioli

 

GUIDO virzì, Le ragioni forti della Destra - ISSPE, Palermo, 2001, pp. 160.

Raccolta di saggi di Guido Virzì che risalgono ad un intenso periodo - tra l’aprile del 1985 ed il dicembre 1988 - quando l’edificio della I Repubblica inizia a scricchiolare e si snoda la vicenda di un periodico palermitano da lui diretto, "Occidente", con richiamo, appunto, alla grande tradizione storica e culturale europea. "Occidente", preciso riferimento in termini di ‘valori’ eterni con profondissime radici nella nostra storia e nel nostro odierno modo di "sentire" la realtà.

Quello che colpisce subito il lettore sono la dignità ed il coraggio con cui Guido Virzì rivendica un ruolo ed una funzione significativa ad un mondo politico ed umano vissuto nell’emarginazione, alla quale era stato spietatamente assegnato da una classe politica arrogante, faziosa ed insofferente dell’ansia di rinnovamento e della crescita sociale e culturale della nuova Italia e della moderna Sicilia.

In verità il processo di "sdoganamento" è appena avviato, anche se molto timidamente e inframmezzato dalla solita logica delle intramontabili "trame nere" di regime.

E Guido Virzì, in nome di una "riscoperta" del valore Nazione e per una giusta e corretta "integrazione", affronta un necessario discorso su chi sul finire dell’ultima parte della seconda guerra mondiale, sfidando "il vento della storia", lottò sull’altro versante.

Una coraggiosa valutazione ed una precisa puntualizzazione sul nostro passato prossimo, ritornato di notevole attualità non solo con il progredire della storiografia nuova e di quella revisionistica, ma anche con le recenti iniziative sull’adozione dei libri di testo scolastici, di storia particolarmente.

Dalle note emerge anche un "sicilianismo", che può e deve diventare positivo e valido se supportato da istanze politiche concrete ed efficaci ché la comunità isolana, è tanto lontana ed avulsa da Palazzo dei Normanni, che si rivela, appunto, "luogo geometrico d’incontro della più viva protesta, della più ampia e motivata sfiducia di un popolo siciliano oggettivamente ghettizzato e penalizzato nel panorama politico e sociale della Nazione".

Un distacco, sempre più marcato, del "paese reale" dal "paese legale", rappresentato quest’ultimo, invero, da una classe politica impreparata ed imprigionata da bizantinismi, tatticismi e la cui azione è fondata sullo spettacolo mortificante e politicamente scorretto ed estremamente riduttivo delle clientele e dei giochi di governo e sottogoverno.

Emergono, negli scritti, anche indicazioni di fondo che conservano, a distanza di anni, un valore immutato e pregnante: la preminenza della cultura e della politica, o se si preferisce della cultura politica sull’economia, dell’essere sull’avere.

E la necessità di valori - guida, di solidi punti di riferimento culturali ed esistenziali: dal "siciliano di Cinisi" Julius Evola che, giustamente a detta di Virzì, "strappandoci alla nostra solitudine ed ai nostri complessi di colpa e/o di inferiorità e tentando di restituirci tutto il nostro Passato, ci ha ridato il gusto del presente e delle sue lotte e, soprattutto, la voglia ed il coraggio di affrontare le prospettive, quali che siano, del Futuro"; a Ernst Junger "guerriero primordiale in lotta contro ogni forma di decadenza borghese dell’Occidente", uno dei più lucidi testimoni del dramma epocale dell’Occidente moderno; a Konrad Lorenz, il quale di fronte "all’evidente nevrosi dell’uomo moderno non esita a denunziare la "perdita dell’individualità", il "livellamento", l’ "alienazione" della natura che provoca la scomparsa dell’attitudine ad avere rispetto di qualche cosa, la competizione economica che, in omaggio al principio utilitaristico, considera il mezzo come fine a se stesso e fa dimenticare l’obiettivo originale e non da ultimo il generale appiattimento dei sentimenti".

E poi la memoria. Le origini del MSI con lo splendido apporto culturale, attivistico, organizzativo di siciliani come Nino Di Forti, Dino Grammatico, Nino Macaluso, Ferdinando Aronica, Patriarca, Quattrocchi, Pino Seminara, Enzo Gentile, Gregorio Guarnaccia, Angelo Nicosia, Agostino Di Stefano - Genova, tra i primi splendidi attivisti e dirigenti di partito, ma soprattutto Alfredo Cucco "un Gigante, un protagonista, un Simbolo. Un simbolo di tenacia, di continuità, di tempra, di fedeltà e di coraggio. Un punto di riferimento, specie in termini di tenuta morale, in un’Italia andata a pezzi e smarrita".

Tra le righe di Guido Virzì fa capolino anche la questione ambientale affrontata, non solo con riferimento al contingente, al drammaticamente contingente, come nel caso degli "incendi estivi" che in Sicilia, già nel 1988, raggiungono livelli oggettivamente preoccupanti, ma anche a quello della vivibilità, di piogge e nevi acide, al gravissimo e preoccupante inquinamento marino, alla progressiva riduzione dello strato d’ozono dell’atmosfera terrestre o dell’aria irrespirabile di vaste e numerose regioni industrializzate.

Umberto Balistreri

 

Castrense Civello. Una vita per la poesia - a cura di Antonino Russo e Umberto Balistreri - ISSPE, Palermo, 2001, pp. 72.

La rivalutazione dell’opera di Castrense Civello, a partire da quella futurista, ha avuto inizio nel 1983 con la pubblicazione sulla rivista internazionale di letteratura "Berenice" di un ampio servizio di Antonino Russo dal titolo "L’aeropoeta futurista Castrense Civello" che comprendeva poesie e immagini inedite.

La consacrazione definitiva si è avuta poi con la pubblicazione di libri dello stesso Russo "Lettere di futuristi a Civello" nel 1987; "Poesie futuriste inedite di Civello" nel 1992; "Castrense Civello: l’uomo e il poeta" nel 1997; e nel corso del Convegno "Il futurismo, la Sicilia", organizzato a Bagheria nel dicembre del 1996 da Umberto Balistreri.

La pubblicazione di inediti in questo libro aggiunge nuovi elementi utili alla conoscenza dell’opera di Civello: dimostra che il poeta, pur essendo stato investito dal ciclone futurista, non aveva mai gettato alle ortiche gli strumenti del poetare classico.

Si tratta di pochi pezzi che sono stati trovati tra le sue carte, ma l’impatto con l’intenso lirismo delle poesie di Civello è sempre di sicuro effetto. Esso si respira specialmente nei poemi di "Aria Madre" e de "Il pilota sconosciuto", e all’inizio della sua avventura aeropoetica gli aveva fatto sognare la gloria:

Ave gloria,

te saluto, trasvolante pei cieli

guarniti dal trionfo di nuvole d’oro,

nuvole, nuvole di rosa.

Ave!

Intenso lirismo, comunque, che era nella penna del Civello, sia dentro l’avventura futurista che fuori, ma che con l’aeropoesia aveva avuto modo di esaltarsi.

Castrense Civello è anche tenace difensore del territorio e dei suoi beni.

Ambientalista anti litteram, sin dagli anni Cinquanta dalle pagine del "Popolare" proponeva non solo la "difesa del verde" e la creazione di "parchi e giardini", ma anche il "rimboschimento di Catalfano e di Mongerbino", l’adozione di un preciso "piano regolatore" nel pieno rispetto della natura, la "coraggiosa protezione di tutti i monumenti antichi" con "relativo restauro", lo "studio dei più efficaci rimedi contro la caotica regolamentazione edilizia", un’ "azione protettiva contro chi deturpa il paesaggio". Poneva anche il problema di una continua "pulizia" e della lotta contro i "rumori".

Un preciso, puntuale, circostanziato decalogo. Non un’elencazione arida ed astrusa o peggio monotona e scialba, ma un "ampio panorama tematico illustrativo di esigere e di problemi nei vari settori dell’intensa vita cittadina".

Attenzione per i beni monumentali. tutti, su cui "vigilare... affinché non avvengano, come nel passato sono avvenute, delle arbitrarie ed incivili deturpazioni di opere d’arte che tornino a disdoro della città". Anche e soprattutto per la Certosa, di cui pubblichiamo una singolare sequenza fotografica che oggi - nella situazione di grave degrado della struttura che ha perso il suo parco - costituisce un monito ed una significativa testimonianza storica.

Creatore di quella Biblioteca Comunale di cui un nutrito gruppo di intellettuali ed operatori culturali ha recentemente chiesto l’intitolazione al poeta futurista, Civello si pose sempre il problema del suo incremento e del suo potenziamento. In una lettera, ad esempio, dell’aprile 1961, indirizzata al Commissario Prefettizio della Pia Opera Casa di Riposo "Perez-Raimondi" di Santa Flavia, con la quale chiede l’acquisizione al patrimonio della biblioteca bagherese del carteggio Perez, evidenzia che nell’ "archivio storico e letterario" della stessa - e grazie alla sua esclusiva feconda e febbrile attività - sono conservati lettere, testimonianze e autobiografiche, fra le altre, di Garibaldi, Crispi, Ruggero Settimo, Meli, Cesareo, D’Annunzio, Zola, Carducci e Pascoli.

Maurizio Scaglione

 

Nicola Previteri, Verso l’Unità. Gli ultimi sindaci borbonici di Bagheria.

Questo puntuale lavoro di indagine storica condotto quasi esclusivamente su documenti d’archivio, non è che la continuazione del precedente volume dedicato dall’autore al sindaco di Bagheria Pittalà, la cui parabola terrena si inseriva in un periodo storico di particolari turbolenze politiche e sociali, nel cui scenario la microstoria della città rispecchia la storia dell’intera Isola.

Il lavoro si apre là dove si era chiuso il volume precedente, all’alba cioè, del 3 luglio 1849, con una Bagheria sgomenta alla notizia dell’uccisione, peraltro inspiegabile, del suo giovane sindaco Gesualdo Pittalà, dopo il quale nessun’altra figura carismatica si affacciò all’orizzonte politico cittadino.

L’autore, pur analizzando con cura la vita politica e sociale della sua città dall’indomani del proditorio assassinio, fino al giorno del plebiscito che decretava l’annessione dell’Isola ala regno d’Italia, non perde assolutamente la necessaria visione di sintesi che permette al lettore di percepire gli elementi di continuità e di diversità che legano il passato al presente e la storia di una piccola città a quella che fu la storia di tutta la Sicilia nella prima metà dell’Ottocento.

Così dopo aver descritto con ricchezza di particolari il clima di panico che seguì il ferale avvenimento, l’accentuarsi delle norme di sicurezza, l’invio della forza pubblica, l’arresto di sospetti e pregiudicati, alla fine del suo lavoro, il Previteri, riesce a trovare il bandolo che unisce tutti gli assassinii eccellenti che all’epoca insanguinarono Bagheria. Si trattava di moventi politici e sociali insieme: audacia rivoluzionaria ma, nello stesso tempo desiderio di vendetta verso chi aveva ripristinato l’ordine all’indomani della rivoluzione del ‘48 a discapito dei ribaldi e dei profittatori.

L’opera del Previteri è anche un elogio più che dovuto all’abilità e alla professionalità di Salvatore Maniscalco, capo della polizia borbonica in Sicilia, per anni vituperato dalla storiografia antiborbonica che lo ha sempre considerato alla stregua di un servile aguzzino. Il Maniscalco, come l’autore ampiamente dimostra, si limitò ad esercitare il suo potere, usandolo nel miglior modo possibile per assicurare la stabilità del trono ai Borboni di cui non fu servo, ma fedele suddito.

Subito dopo il ‘48 si adoperò per riportare nell’Isola quella calma, rotta dagli eventi rivoluzionari che avevano messo in luce oltre ai patrioti e agli idealisti, anche i profittatori e i delinquenti comuni, felici di approfittare del trambusto generale per rifarsi una verginità e rigenerarsi nell’ambito del nuovo regime. Un esempio era dato da Giuseppe Scordato, divenuto dopo il ‘48 capitano d’armi, e dalla sua banda, che si erano messi in luce durante la rivoluzione, animati, più che da intenti politici, da vecchi rancori che nutrivano contro il regime borbonico, colpevole di avere messo al bando Giovanbattista Scordato e poi lo stesso Giuseppe per i fatti di sangue compiuti durante l’epidemia di colera. Nei confronti di Giuseppe Scordato, il Maniscalco, dando ancora una volta prova di acume, nutrì sempre diffidenza e ostilità e ne fece spesso oggetto di accesi rimproveri: "Io, quindi, debbo esternarle - gli scriveva - che resto poco contento di lei, epperò la esorto a destarsi e mettersi in buona attività" (p. 37).

Oltre ad inviare reparti dell’esercito nei centri che presentavano maggiori rischi di disordini, il Maniscalco favorì la creazione di compagnie di cosiddetti rondieri, reclutati fra volontari locali la cui paga gravava sul bilancio comunale e impose il deposito presso le casse comunali di ogni tipo di armi, pena la morte.

Ciò che caratterizzò la Bagheria di questo periodo fu senza dubbio la riottosità, da parte dei cittadini più illustri, ad assumere il timone della città o, comunque, anche la carica di Decurione. L’esperienza di don Gesualdo Pittalà che, dopo essersi indebitato per provvedere al benessere comune, aveva concluso la sua esistenza, ancor giovane, per mano assassina, scoraggiava anche i più volenterosi che, con le più svariate scuse, tendevano a schivare l’onere dato dalla gestione del potere.

Peraltro la situazione economica del Comune non era certo felice; la rivoluzione, con il trambusto derivatone, aveva determinato la soppressione di alcuni dazi. Le spese, invece, erano notevolmente cresciute per il pagamento degli stipendi dei rondieri, non certo per la gestione dell’educazione scolastica per la quale il comune, per mantenere due maestri, non sborsava più di trenta ducati annui, insufficienti per l’acquisto dell’acqua e per l’affitto di locali decorosi. È sorprendente constatare che lo stipendio medio che il comune pagava ad un maestro elementare era di trenta tarì al mese, mentre un bracciante ne guadagnava tre al giorno!

Il nuovo sindaco, il notaio Luigi Castronovo, cercando di rimpinguare le casse comunali, si scontrò con gli interessi personali degli stessi amministratori o di notabili locali. Tutto ciò rendeva timorosi i membri della commissione che avrebbe dovuto aggiornare il sistema daziario comunale a compiere il loro dovere nel timore di attirarsi l’odiosità dei contribuenti, "laddove tale odiosità andava interpretata come un probabile taglio di viti".

A Bagheria i galantuomini non presentavano nessun interesse per la politica e nessuna aspirazione ad un qualsiasi cambiamento, paghi com’erano del loro benessere economico e del ruolo sociale ricoperto. I fermenti rivoluzionari, invece, erano relativamente diffusi fra i piccoli borghesi o fra quelli tra i contadini che speravano che un cambiamento politico fosse anche foriero di un miglioramento economico.

Il 28 agosto 1850 veniva trovato in territorio di Bagheria il cadavere di un certo Francesco Buttitta. Si trattava di un delitto politico i cui mandanti furono immediatamente arrestati o si diedero alla macchia.

Gli inquirenti prestarono particolare attenzione all’accaduto in considerazione del fatto che nel gennaio precedente un tentativo rivoluzionario, di cui l’organizzatore era Nicolò Garzilli, era stato sventato a Palermo, tuttavia nonostante la loro tempestività e il loro impegno, gli imputati di sovversione furono tutti assolti dalla Gran Corte Criminale di Palermo il 13 gennaio 1851 con formula dubitativa, "attesocchè in diritto l’art. 125 leggi penali, è mestieri per ritenersi la cospirazione che si abbia indubitata la prova dei mezzi qualunque di agire essere stati concertati e conchiusi tra due o più persone, ciò che nella specie non è del tutto provato". Come garantismo mi pare che il regime borbonico non dovesse prendere lezioni da nessuno, tenuto conto che, trattandosi di un reato politico, commesso in un momento di instabilità, un regime autoritario avrebbe potuto comportarsi ben più severamente.

Il 3 agosto del 1852, per ordine del Maniscalco, veniva arrestato il capitano d’arme Giuseppe Scordato "per essersi reso indegno della fiducia di cui il Regio Governo lo aveva onorato, facendo vittima della propria ribalderia chi non intendea sobbarcare alle di lui esigenze(...). Una istruzione si è aperta dal magistrato e sarà forse agevole che si snodi ora la lingua a tanti testimoni che il terrore faceva tacere". La autorevole severità contro i prepotenti era forse un metodo più efficace di quelli che si usano oggi per sconfiggere l’omertà.

Nel giugno del ‘60, quando già Garibaldi aveva cacciato da Palermo i Borboni, iniziò per Bagheria una stagione di terrore di cui vittime furono i rondieri sopravvissuti ai disordini dell’aprile precedente e le loro sfortunate famiglie, divenute bersagli dello spirito di vendetta del ceto popolare. I tragici eventi smorzarono gli entusiasmi patriottici del momento e diffusero tra il ceto dei galantuomini i vecchi timori: "Cosa gli riservava l’avvenire?".

Gabriella Portalone

 

EUGENIO GUCCIONE, Politica e diritto tra fede e ragione. Problematiche del XIX e del XX secolo - G. Giappichelli Editore, Torino 2001.

In questo suo ultimo lavoro, Eugenio Guccione, ordinario di Storia delle Dottrine politiche presso il nostro Ateneo ed attento componente del Comitato scientifico della nostra Rassegna, si interroga su un problema vecchio quando il mondo, ma tuttora oggetto delle più profonde riflessioni di filosofi e teologi: il rapporto tra fede e ragione, questione mai risolta e differentemente affrontata dai credenti e dai non credenti. L’analisi di tale rapporto - sottolinea l’autore nella sua Premessa - appare particolarmente attuale oggi, alla luce delle questioni di bioetica che dividono il mondo della scienza da quello della teologia. In effetti, l’esperienza ci ha dimostrato nel corso dei secoli, che è impossibile razionalizzare ogni cosa e credere solo nel razionale, e Giovanni Paolo II nella sua recente enciclica Fides et Ratio, mettendo in evidenza i limiti del pensiero laico, ha paragonato fede e ragione alle due ali "con cui lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità" senza poter rinunziare a nessuna delle due.

I cinque pensatori analizzati in questo volume, Ventura, Buchez, Rosmini, Sturzo e Maritain, tutti cattolici, nell’enunciare la loro personale teoria sulla questione, si rifanno più o meno alla filosofia tomistica, in base alla quale esisterebbe un’armonia tra fede e ragione e, quantunque le verità della prima sarebbero indimostrabili, non per questo possono essere etichettate come antirazionali.

Gioacchino Ventura, teatino palermitano, educato in ambienti reazionari, dalla cui frequentazione aveva derivato un’impostazione politica assai lontana dal liberalismo, nel 1820, dopo la rivoluzione carbonara di Napoli, dove si era stabilito, affascinato dagli scritti di Lamennais, ne diventa un sincero ammiratore. A differenza del pensatore francese, tuttavia, il teatino cerca di conciliare la dottrina liberale con l’ossequio alle tradizioni, in una sintesi di semitradizionalismo che gli avrebbe permesso di rimanere nell’ambito della Chiesa di Roma. L’autore sottolinea che tale posizione di compromesso fu scelta dal Ventura, non per servilismo, ma per l’obbedienza che un sacerdote deve ai superiori.

Su tale base di sottomissione, Ventura cercherà di costruire il suo programma politico sulla conciliazione tra popolo, libertà e religione, sostenendo che sarebbero stati proprio gli strumenti di cui i rivoluzionari si servivano per nuocere alla Chiesa - libertà di stampa e di pensiero, separazione tra religione e Stato - a darle la libertà indispensabile alla sua missione universale.

Tutto il suo pensiero politico si foda sul concetto di sovranità, di derivazione tomistica e comune alla maggior parte dei pensatori cattolici. Per Ventura la sovranità, che è solamente di Dio, è immediatamente da Dio conferita al popolo che, a sua volta la trasferisce al re, o comunque a chi effettivamente eserciti il potere politico.

Così come il popolo la delega al sovrano, alle condizioni stabilite, può revocarla quando tali condizioni non dovessero più sussistere. Alla stregua di San Tommaso e della sua giustificazione del tirannicidio, anche in Ventura troviamo la legittimazione della rivoluzione nel caso in cui il popolo tutto si rivolti contro il sovrano per esercitar i suoi diritti, non derivanti dalla legge degli uomini, bensì dalla legge di natura. Come gli altri pensatori presenti nel libro di Guccione, anche Ventura premette al diritto positivo il diritto naturale e allo stato, il popolo nella sua interezza e nelle sue individualità. Afferma infatti, che il "governo più forte e il più felice non è già quello che fa tutto, ma quello che lascia fare tutto ciò che non compromette affatto la giustizia e l’ordine pubblico" (p. 19). Si tratta di una teroria antistatalista oggi pienamenta attuale - il cosiddetto principio di sussidarietà - che si prefigge di ridare all’individuo il giusto ruolo in una società troppo spesso dominata dalla presenza di uno stato onnipotente.

Il concetto di sovranità ancor più profondamente viene analizzato da un altro pensatore cattolico temporalmente a noi più vicino: Jacques Maritain. Questi rifiuta il significato che al termine sovranittà viene generalmenta attribuito, sulla base del pensiero dei filosofi dell’assolutismo come Bodin, di quelli del contrattualismo come Hobbes, di quelli della democrazia come Rousseau, o di quelli dello statalismo come Hegel. Partendo dal metodo tomistico, Maritain sostiene che la sovranità è costituita da due attributi: il diritto all’indipendenza e al potere supremo, che è naturale ed inalienabile, e il distacco assoluto da parte di chi è sovrano rispetto ad ogni cosa, quindi anche rispetto a chi è da lui governato. Per il pensatore francese la sovranità è qualcosa di assoluto ed indivisibile a cui dunque non può partecipare il singolo cittadino e per il fatto che essa necessiti una posizione di trascendenza e di totale distacco da ogni condizionamento umano, essa non può che avere carattere divino. Dunque titolari di sovranità sarebbero Dio, il Papa, "nella sua facoltà di Vicario di Cristo è sovrano della Chiesa", che, per il potere derivatogli da Dio rimane indipendente dalla struttura ecclesiale e, in senso puramente spirituale, il saggio, inteso come asceta, indipendente dalle passioni e dalla legge, a cui non è soggetto, "perché la sua volontà è per se stessa e spontaneamente intonata alla legge" (p. 81).

Dalle considerazioni suddette si desume che né il corpo politico, né lo Stato, né il popolo, presentano i requisiti necessari per essere considerati sovrani.

Il corpo politico, che è espressione del popolo, sebbene autonomo sia interamente che esternamente, nei rapporti con gli altri corpi politici, "non si governa separatamente da sé e al di sopra di sé" e quindi non può essere sovrano. Né può esserlo lo Stato che è parte del corpo politico e che gode dell’indipendenza non come diritto suo naturale, ma perché trasmessogli dal corpo politico. Pur non potendo essere titolare di sovranità, perché mancante del requisito della trascendenza, il popolo, da cui deriva il corpo politico e quindi lo Stato "è al di sopra dello Stato, il popolo non è per lo Stato, lo Stato è per il popolo" (p. 86). Al di sopra di tutto, tuttavia, seguendo pedissequamente il pensiero tomista, Maritain pone il diritto naturale. Sostiene infatti che se una legge è ingiusta, non perché sia frutto della volontà popolare diventa giusta. Dalla legge di natura, fondata sulla giustizia divina, deriva il diritto del popolo a governarsi e ad esercitare tale diritto, secondo precetti non scritti, ma comunque universalmente validi.

Sul rapporto tra diritto e dovere sia Buchez che Rosmini basano la disciplina giuridica della società civile.

Partendo dalla Dichiarazione dei diritti enunciata dai rivoluzionari francesi, i due pensatori cattolici sottolineano l’inesistenza di una priorità del diritto che troverebbe la sua sostanza e i suoi limiti nel suo contrapposto, cioè nel dovere. Infatti - sostiene Buchez - sta nei doveri che gli uomini sono tenuti ad osservare gli uni verso gli altri, lo scopo comune d’attività che sta alla base dell’esistenza di ogni umana società. La legge naturale, riflesso della volontà ordinatrice di Dio, si manifesta negli uomini con l’inclinazione al bene e con la tendenza ad organizzarsi socialmente e politicamente. Tale tendenza non potrebbe realizzarsi se gli uomini non riconoscessero l’esistenza di principi etici a cui devono rifarsi prima di agire. Si tratta dei doveri che sarebbero, dunque, anteriori ai diritti e non posteriori come affermavano i sostenitori dei principi diffusi dall’Illuminismo e dalla rivoluzione francese. D’altra parte - sostiene il seguace di Saint-Simon -, lo stesso termine dovere è di origine cristiana, poiché il corrispondente latino, munus, ufficium, concerne la funzione pubblica e non il rapporto tra cittadini. Solo dal dovere scaturisce il concetto di fraternità umana, concetto del tutto sconosciuto ai pagani. Anche Rosmini riconosce una priorità del dovere sul diritto e vede nel rapporto tra diritto e dovere il rapporto tra la persona oggetto e la persona soggetto del diritto.

La originalità del pensiero di Rosmini sta, tuttavia, nell’asserzione dell’esistenza di un’identità tra diritto e persona, poiché la legge positiva può considerarsi giusta solo se "non lede nella persona la facoltà o la potestà di godere un bene lecito" (p. 42).

La vita di ogni persona si realizzerebbe in base ai due elementi della libertà e della proprietà che non sarebbe altro che l’esplicazione stessa della libertà, in quanto espansione della persona del singolo sulle cose ad essa circostanti (p. 43). Sarebbe la proprietà - secondo il filosofo roveretano - un sentimento che lega le cose alla persona e in questa espressione troviamo il significato che a tale diritto sarà dato, in seguito, dall’enciclica leoniana De Rerum Novarum.

Così come il diritto si identifica con la persona, così la giustizia, come legge morale, non è frutto della volontà, come per Kant, bensì è data dalla stessa volontà umana, che si conforma così alla legge di natura che è legge divina e universale; da ciò il venir meno della contrapposizione tra diritto e morale.

Da buon cattolico Rosmini respinge la priorità dello Stato sull’individuo e, di conseguenza, privilegia il bene comune sul bene pubblico.

Luigi Sturzo, invece, affronta il problema del conflitto tra morale e diritto attraverso l’esame della questione militare. Egli scriveva nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali, periodo in cui il ricorso alla guerra era considerato normale e legittimo. Ma se la guerra era ritenuta legittima, non per questo poteva essere considerata necessaria, perciò il pensatore siciliano aspirava ad una futura eliminazione della guerra, possibile nel momento in cui le strutture sociali che ne riconoscevano la legittimità fossero venute meno per il naturale evolversi delle società civili. Sturzo portava come esempio a sostegno della sua tesi, i vari istituti giuridici un tempo ritenuti legittimi e perpetui e poi, in seguito all’evoluzione dei costumi, divenuti illeciti e dannosi al progresso della società: la faida, la poligamia, la schiavitù.

Perché la guerra potesse un giorno seguire lo stesso destino di quegli istituti giuridici, ormai ritenuti contrari alla morale e alle leggi della convivenza sociale, il sacerdote calatino faceva affidamento sull’evoluzione e sul rafforzamento degli organismi comunitari come la Società delle Nazioni. Sullo stesso piano si era posto circa un secolo prima Buchez nel sottolineare il ruolo fondamentale che aveva avuto il Congresso di Vienna, inteso come Direttorio internazionale, nel fermare Napoleone e riportare l’ordine e la pace in Europa, anticipando i principi europeistici che si sarebbero diffusi soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Gabriella Portalone

 

SALVATORE VAIANA, Una storia siciliana fra Ottocento e Novecento. Lotte politiche e sociali, brigantaggio e mafia, clero a Barrafranca e dintorni.

Presentazione di padre Ennio Pintacuda - Salvo Bonfirriato editore, Palermo 2000, pp. 255.

Salvatore Vaiana, attento studioso del fenomeno mafioso in Sicilia, su cui ha condotto varie ricerche, dà vita, in questa sua ultima opera, ad un rilevante esempio di microstoria, riguardante il comune di Barrafranca tra il 1892 e il 1922, che, pur arricchendo la storiografia concernente gli studi locali, si inserisce a pieno diritto nel contesto più vasto degli studi storici relativi al periodo postunitario del Mezzogiorno d’Italia.

L’autore ricostruisce la storia di questo centro agricolo dell’ennese, inserito nel triangolo economicamente più depresso dell’Isola, rifacendosi quasi esclusivamente a minuziose e pazienti ricerche condotte su documenti d’archivio.

Gli avvenimenti che caratterizzarono il quarantennio di cui l’autore si occupa, si svolgono sullo sfondo di un ambiente immutabile, quello della Sicilia agraria, del latifondo arido e per lo più incolto o malcoltivato, delle lotte di potere tra famiglie rivali, della corruzione del clero e degli amministratori, della forte componente mafiosa e brigantesca. È quell’ambiente che mantiene inalterati la forma e i colori, pur vedendo cambiare i protagonisti e i loro ruoli e che rimane purtroppo sempre caratterizzato dall’individualismo proprio del siciliano, dalla sua resistenza al cambiamento, quando esso comporti sconvolgimenti dell’equilibrio sociale esistente e il sorgere di nuovi gruppi di potere.

Perciò in questa nostra magnifica Isola, ogni volontà di modernizzazione si infrange nell’opposizione dei potentati locali che, pur di mantenere lo statu quo, non esitano ad allearsi alla mafia o ai briganti o di ricorrere alle minacce, alla violenza e all’omicidio.

Non importa da chi provenga l’aiuto, purché sia valido al controllo della situazione e all’immutabilità della stessa. Mi viene da pensare che questo modo di essere dei siciliani, l’individualismo della sua classe dominante, la mentalità mafiosa, riuscirono a sconfiggere un avvenimento di portata mondiale come la stessa Rivoluzione francese che si fermò, appunto, a Pizzo Calabro, piché il baronaggio siciliano non esitò ad allearsi con gli inglesi, agevolando la loro occupazione dell’Isola, e con l’odiato sovrano borbonico, pur di tenere lontana dallo stretto ogni novità atta a sovvertire l’ordine costituito.

Nella Barrafranca raccontata da Vaiana, manca, peraltro, un elemento che in gran parte della regione tentò di portare un vento di rinnovamento sociale economico. Parlo del movimento cattolico, della propaganda sturziana, della diffuzione delle Casse Rurali, efficace strumento creditizio contro l’usura dilagante, delle altre iniziative portate avanti dagli apostoli della Rerum novarum, per favorire il mondo contadino ed elevarlo culturalmente, moralmente ed economicamente. Nelle diocesi di Palermo, di Piazza Armerina, di Noto, di Acireale, ma soprattutto di Girgenti, l’opera di vescovi illuminati e di sacerdoti intelligenti ed attivi, diede vita ad un’imponente organizzazione cooperativistica che, attraverso le affittanze agricole, le cooperative di credito e quelle di consumo, riuscì a dare alla classe contadina una vera e propria coscienza sociale, preparandola, peraltro, all’accoglimento dei principi democratici, sanciti nel 1913 dall’approvazione della legge sul suffragio universale maschile.

A Barrafranca, invece, il clero locale si presentava spesso corrotto, contiguo alla mafia, vicino alle stesse logge massoniche, interessato alle manovre del potere, spesso addirittura mandante di omicidi, schierato con l’una o l’altra delle due fazioni che dividevano il paese, quella facente capo all’avvocato Bonfirriato e quella guidata da Benedetto Giordano.

In tale clima, chi avesse voluto forzare la situazione dirigendola verso forme di cambiamento e di evoluzione sociale, era destinato a pagare con la vita. Tale fu la sorte del socialista Alfonso Canzio, ucciso nel 1919, seguendo la sorte di Panepinto, di Alongi, di Orcel, combattivo protagonista del movimento contadino barrese, a cui l’autore dedica il suo libro.

Gabriella Portalone

 

G. GENTILE, Frammenti di filosofia. Voll. LIII e LIV, Firenze, 1999.

Proseguendo nella pubblicazione delle opere complete e dei carteggi, l’Editrice Le Lettere di Firenze ha pubblicato, in questi giorni, i due tomi dei "Frammenti di storia della filosofia" (1999) per un totale di ben 1217 pagine; e ciò a conferma, se ve ne fosse stato bisogno, della valenza storiografica dell’attività di Giovanni Gentile il quale, oltre che eminente pensatore teoretico, fu anche un insigne storico della filosofia. Occupandoci, ora, del primo tomo che comprende 439 fittissime pagine, diciamo subito che si tratta di una raccolta di scritti notevoli - sebbene ve ne siano alcuni più brevi d’occasione -, visto e considerato che esso raccoglie, innanzitutto, il lungo saggio "Studi sullo stoicismo romano del primo secolo d.C.", pubblicato per la prima volta nel 1904 per i tipi di Vecchi. Al lavoro sarebbe dovuta seguire una seconda e terza parte, ma probabilmente il filosofo - assillato da tanti impegni - non riuscì a terminarlo e questa rimane, ancora oggi, una grave perdita tenuto conto dell’acribìa con cui egli dimostrò di essere un non meno valente filologo.

Ma, oltre allo studio filologico sullo stoicismo, il primo tomo abbraccia altri notevoli scritti quali, ad esempio, gli studi su Vico, gli scritti sul suo maestro a Pisa Donato Jaja, i lavori su Roberto Ardigò, il "Discorso inaugurale al III Congresso hegeliano di Roma (19 aprile 1933),ricordi su Francesco Fiorentino e numerosissimi altri saggi - spesso di carattere polemico - di ordine strettamente filosofico, pedagogico, psicologico, filologico e di "Kulturgeschichte".

Per quel che concerne l’acutissimo studio sullo stoicismo romano - studio di cui ci siamo già occupati, l’articolo è raccolto nel nostro libro "Vitalità del mondo latino" (1997) -, basti, qui, solo accennare che per Gentile la società del I secolo non era così corrotta come si riteneva ove si consideri, altresì, che un nuovo cosmopolitismo stava facendo capolino nel panorama del tempo e che, infine, nuove religioni, come il cristianesimo, stavano penetrando negli spiriti dei cittadini. Ecco perché, osserva il giovane Gentile, lo stoicismo diventò un’esigenza negli animi degli uomini del primo secolo dell’era volgare e, a Roma, parole del pensatore, "i filosofi divennero quasi i direttori di coscienze agli individui e alle famiglie".

Per quanto riguarda gli interessi gentiliani per Giambattista Vico - interessi culminati nel ponderoso, quanto interessante, volume "Studi vichiani" (1915) - essi durarono fino agli ultimi mesi della vita del filosofo, tant’è vero che quest’ultimo commemorò il grande Napoletano all’Accademia d’Italia, di cui era Presidente, precisamente il 19 marzo del 1944, in occasione del secondo centenario della morte. Anche i due scritti presenti nel primo tomo dei "Frammenti", confermano la generale predilezione del filosofo attualista per il pensiero dell’autore della "Scienza Nuova"; autore così lodato da Gentile: "Che fascio di verità presenta, in una di quelle formule splendide e potenti, che sono come la ricompensa del genio che ha lungamento meditato!". E altrove, puntualizando i meriti del filosofo e giurista napoletano, con tali parole intende rivendicare alcuni dei tanti pregi del più grande pensatore italiano a cavallo fra i secoli XVII e XVIII: "Questi aveva avuto due profonde intuizioni fondamentali: una intorno alla potenza costruttiva dello spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo kantiano; l’altra intorno al concetto dell’assoluto come svilupo nella natura e nel pensiero, per cui anticipò il principio della nuova metafisica dimostrata nella ‘Logica’ di Hegel".

Anche nei riguardi di Donato Jaja - suo maestro alla Normale di Pisa - Gentile ha accenti di rispetto, stima e venerazione, sia quando il filosofo pugliese "mirò a concepire la realtà come spirito; ma come spirito che si fa tale, ossia come realtà che si fa, ma non è spirito", sia, ancora quando, incalza Gentile, "i giovani sentivano che egli era un padre che nella filosofia non portava soltanto delle parole, sentivano a contatto con la sua anima che veramente per lui la filosofia era la vita". Era uno di quegli uomini, conclude il discepolo, della "Destra che credevano allo Stato etico, al grande valore che è proprio dello Stato per l’uomo che sia veramente libero". Ma se a Vico e a Jaja sono, da Gentile, riservate alcune tra le più belle pagine del primo tomo, non bisogna dimenticare che il libro gentiliano è una fonte inesauribile di studi critici di prim’ordine; studi che riguardano gli autori, italiani e stranieri, più in vista della storia della filosofia.

E questi rispondono ai nomi di Pico, Galilei, Spinoza, Gallupi, Boutroux, Montessori, Orestano, Varisco ed altri a conferma della versatilità di uno studioso, Gentile, appunto, che spazia in tutto l’arco della speculazione e della cultura in genere. Senza dimenticare gli scritti sui vari Carabellese, Bacone, B. Nardi e, in particolare, la Prefazione all’Autobiografia di Gandhi del 1931, ripubblicata in questo primo tomo a conferma della vastità degli interessi del filosofo attualista il quale così si pronunzia riguardo al grande toerico della non violenza: "Gli europei hanno qualche cosa da apprendere dal Mahatma indiano. (...). E gli italiani che non hanno nella propria letteratura libri di questo genere, scritti con sì profonda ispirazione religiosa, impareranno a conoscere in Gandhi un grande scrittore".

Un bellissimo libro dunque, questi ‘Frammenti’ di Gentile, il quale con tali parole si esprimeva nel gennaio 1921 allorquando una buona parte dei saggi erano stati raccolti nei ‘Saggi critici’: "Riunisco in questi due volumi (cui altri ne seguiranno) una parte dei molti piccoli scritti di filosofia, da me espressamente pubblicati in questo ventennio intorno a questioni o scrittori, di cui si è variamente e più o meno largamente discusso".

Lino Di Stefano

 

FRANCESCO ALBERTO GIUNTA, Karin è tra noi. Romanzo di idee. Note di Franco Lanza, Ed. Bastogi, Foggia, 2001.

Pervenuto all’attività di romanziere nella più recente stagione della sua vita, Francesco Alberto Giunta ha dato vita ad un ciclo narrativo di libri che si richiamano l’un l’altro svolgendo un discorso che solo in parte è della trama narrativa, ma che è impostato soprattutto su ragioni ideologiche.

E questo nel senso che Giunta, estraneo alle ideologie politiche, è comunque interessato alle filosofie, alle religioni, ai problemi spirituali.

I personaggi della sua trilogia (A Lipari un giorno avvenne, Il posto delle pietre e l’ultima Karin è tra noi) operano in un contesto internazionale ed appaiono orientati non proprio da ragioni economiche o di carriera, ma dalla cosiddetta "congiura sentimentale e dal profondo bisogno di capirla".

Karin, come i personaggi femminili dei precedenti romanzi, Elisa e Chiara, impersona un’unica femminilità di taglio moderno, ma di bisogni antichi. Karin, personaggio principale sintetizza ideali e desideri delle altre due protagoniste e "passa da una vita familiare infelice ad un pellegrinaggio psicologico ed ideologico verso i paesi insanguinati dalle ingiustizie e dalla violenza.

Il romanzo è un "romanzo d’idee" originale, di respiro cosmopolita "con aperture multietniche e con un bagaglio considerevole di conoscenze storiche e filosofiche" che evidenziano una profonda e raffinata cultura. I personaggi che "contano" sono tutti viandanti volti ad una ricerca continua. Il viaggio diventa tema fondamentale, anzi un grande movimento esistenziale "che mette in sintonia il libro con il movimento stesso della storia e del mondo".

Altro motivo significativo quello del rapporto con le altre culture ed in particolare con la cultura islamica. In proposito, nel libro, è contenuta un’intervista Abd-al-Wahid Pallavicini, discepolo di René Guénon, il quale a buon diritto sostiene che "l’esempio di Francesco d’Assisi ai tempi delle Crociate, quando templari e saraceni sapevano ritrovare, pur combattendo per una Terra Santa, il comune anelito verso una Gerusalemme celeste, potrebbe rappresentare veramente l’esempio da seguire anche oggi per ritrovare lo spirito della trascendenza che solo unisce le varie rivelazioni al loro vertice". Dunque senso e necessità del Sacro, che deve essere perseguito, anzi vissuto da ciascuno "nella vita di tutti i giorni secondo la propria tradizione e la propria lingua".

È, poi, veramente notevole, che i personaggi fondamentali dei romanzi di Giunta siano donne, tanto più in un confronto con l’Islam, con il quale bisogna valorizzare il dialogo, oggi più che mai necessario. È nell’incontro tra Cristianesimo ed Islamismo l’unica possibilità per uscire dalla crisi del mondo moderno, e solo l’incontro tra le diverse espressioni religiose può fornire la soluzione ai problemi della società. Incontro tra Cristianesimo ed Islamismo non certo nella prospettiva di un assurdo ed inconcepibile sincretismo, ma nella consapevolezza che le due religioni, pur nelle loro profonde divergenze, propugnano entrambe la realizzazione spirituale dell’uomo.

Umberto Balistreri

 

F. SICLARI, Un amore fatto di parole. Catania, Prova d’Autore, 1999, pp. 120, e 7,75

L’autore, Franco Siclari, esercita la professione d’avvocato e svolge attività pubblicistica collaborando a riviste letterarie e, prevalentemente, alle pagine culturali del quotidiano catanese "La Sicilia". Il libro, Un amore fatto di parole, è una raccolta di dodici racconti e porta il titolo del primo di essi. Siamo dinanzi a una serie di ricordi e di riflessioni che travolgono il lettore sino a sollecitarlo a cogliere, qua e là, analogie con la propria esistenza o con il proprio ambiente. Il filo conduttore è l’amore, ma un amore sfuggente, evanescente, che non riesce mai a manifestarsi in tutta la sua interezza e concretezza.

In merito a tale raccolta, il critico letterario Sergio Sciacca ha felicemente scritto che "in queste rapide pagine, in queste storie che si seguono senza potere staccare gli occhi dalla pagina, c’è la verità di una esperienza comune. La solitudine del vivere anche quando si è in molteplice compagnia, l’impossibilità di fare comprendere i propri affetti, il timore di scoprirli ed esserne derisi. Luoghi di freddezza, timori di fanciulli (chi può sostenere che i fanciulli non abbiano sensibilità?), ricordi che non si dimenticano". Proprio così.

I personaggi e i fatti dei racconti s’inquadrano, per lo più, in uno scenario tipicamente siciliano e si muovono secondo un costume e una logica tradizionali, che raggiungono la massima vivezza d’immagine in Lupara bianca, La fattura e Il cortile. Anche i nomi di molti protagonisti - come Alfio, Carmela, Nedda, Mara, Puddu, Serafina, Melina, Nunziata -, appartengono allo stesso contesto sociale. A staccarsene è soltanto la lingua che, spezzata raramente da qualche incisiva frase dialettale, si snoda sciolta ed elegante, sonora e avvincente. È, certamente, un’opera destinata a collocarsi nella migliore letteratura contemporanea.

E.G

 

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