IL SOGNO DEL PRESTIGIO INTERNAZIONALE* di Daniela Adorni

È difficile comprendere la complessità della costruzione crispina in tema di politica estera e di relazioni internazionali senza soffermarsi sull’evoluzione dell’ideale nazionalitario nel pensiero politico di Crispi(1). In quest’ambito, il pensiero dello statista prendeva le mosse da un’idea di nazione che, sganciata dal fondamento volontaristico e dal carattere storico di derivazione democratico-russeauiana, si avvicinava piuttosto, attraverso la mitizzazione di elementi fisici e culturali, ad una metafisica della nazionalità con forti addentellati nell’elaborazione dottrinaria tedesca. La formula della natio quia nata, tanto cara a Crispi, di un’entità - la nazione, appunto - esistente a prescindere dalla scelta volontaria di un popolo e collocata al di fuori e prima dei prodotti della storia (gli Stati), si coniugava poi con lo "spirito del popolo" che, giunto finalmente a maturazione, aveva emancipato il territorio nazionale dallo straniero, restituendogli anche l’unità politica.

Da un lato, dunque, un dato naturale, ineliminabile, immanente - la Nazione - dall’altro l’Unità politica, lo Stato, consacrazione legale della rivoluzione nazionale, termine ultimo della volontà di un popolo cosciente che aveva dichiarato "necessità di vita e suo diritto, l’unità e l’indivisibilità"(2) della patria. Un binomio che aveva trovato incarnazione nei due uomini che Crispi considerava i grandi padri della patria: Garibaldi e Vittorio Emanuele.

Questi due termini - nazione e Stato - sempre compresenti nel pensiero di Crispi, si erano sempre più congiunti fino a sovrapporsi e sostanzialmente ad identificarsi(3) a partire dalla prima esperienza di governo che era coincisa con l’ ‘umiliazione’ italiana al Congresso di Berlino, dando vita ad una tortuosa teorizzazione in cui, in nome di uno Stato che reclamava il suo posto al tavolo delle grandi potenze, veniva posta una seria ed inedita ipoteca al principio di nazionalità. I motivi di questo ‘mutamento’ erano facilmente comprensibili; lo stesso Crispi li affermava dicendo che, per l’Europa, "l’era delle nazionalità fu chiusa a Berlino nel 1878"(4) quando cioè fu a tutti palese che d’allora in poi qualsiasi modificazione alla carta geografica sarebbe dovuta passare per le diplomazie dei singoli Stati, pena la guerra e la rovina per tutti. Si trattava ora di compendiare il principio di nazionalità, che pure tanta parte aveva avuto nella creazione dello Stato italiano, con le più moderne esigenze di equilibrio tra potenze; il che in breve significava che gli altri concetti, nella battaglia mazziniana strettamente connessi all’idea di nazionalità, quelli cioè di libertà, di fratellanza universale e di democrazia cosmopolita, pur formalmente mantenuti, passavano in secondo piano. L’esaltazione del principio di nazionalità si trasformava nel calcolo utilitaristico della forza disponibile e degli interessi preminenti di ogni entità nazionale, ciascuna chiusa nel suo proprio ‘egoismo’. Il timore che quello stesso principio al quale si doveva l’esistenza politica dell’Italia se spinto oltre ogni ragionevole misura conducesse follemente alla rovina diveniva punto di partenza per un attacco alle parole d’ordine irredentiste: la rivendicazione delle terre irredente avrebbe schierato contro l’Italia tutti quanti i governi europei e avrebbe condotto fatalmente alla guerra, ad una guerra davanti alla quale il paese si sarebbe trovato impreparato, inerme ed isolato. Saggezza politica consigliava invece non solo di "tenersi forti per virtù d’armi", ma anche di dare un deciso impulso alla competenza e all’efficienza delle diplomazie, e di procedere secondo una prudente e responsabile politica di alleanze. Quanto tale mutamento di prospettiva fosse gravido di conseguenze sarebbe solo parzialmente comprensibile se non si tenesse conto che esso andava di pari passo con il maturare di quell’altra idea che avrebbe inserito Crispi, a tutto diritto, nell’età dei nazionalismi, quella cioè che ciascuna nazione - o meglio, ciascuno Stato - avesse una propria missione da compiere(5). La qual cosa, sul piano della progettualità politica, aveva un duplice esito in politica estera e in politica interna. In politica estera, si apriva la strada a quella ‘megalomania’ che, a giudizio di Crispi, altro non era che l’assecondare il dato di fatto ormai acquisito per cui - e cito dal discorso di Palermo del 14 ottobre 1889 - "come al corpo dell’individuo, all’entità nazione occorre, per vivere, aria respirabile" e per cui "la lotta per l’esistenza altri confini non ha che quelli del mondo conosciuto". Di non minore entità erano gli effetti che la totale sovrapposizione dei concetti di nazione e Stato e la connessa rivendicazione di un ruolo attivo nel panorama internazionale avevano in politica interna. A supportare quello che era ormai divenuto un dogma, erano necessari infatti sia un rafforzamento - e, conseguentemente, un irrigidimento - delle istituzioni politiche sia l’eliminazione di tutto quanto poteva esser tacciato di essere antinazionale. E antinazionali ed antipatriottici erano, nella visione di Crispi, l’internazionale rossa e l’internazionale nera, "anarchici e preti [che predicano] le lusinghiere teorie della umanità nella quale si confondono i popoli di ogni razza, d’ogni lingua e d’ogni religione"(6), teorie che "sono la negazione della patria". Anello di congiunzione tra il sogno del prestigio internazionale e l’immagine di uno Stato forte e coeso era destinato ad essere un esecutivo la cui autorevolezza era da Crispi considerata la vera chiave di volta del destino d’Italia.

Si definiva in tal modo quella strettissima connessione tra politica interna e relazioni internazionali su cui Crispi da lungo tempo insisteva e la cui assenza egli addebitava alla mancanza di un uomo di genio in grado di dare al paese un saldo ordinamento politico, a suo parere, indispensabile non solo per farne una potenza, ma anche e soprattutto per accreditarne l’immagine presso gli Stati stranieri. Non solo essere potenti, quindi, ma anche apparire potenti. E se è vero che l’idea della missione storica dell’Italia si nutriva in Crispi di una ipervalutazione della forza e della grandezza della nazione e, parallelamente, dell’ansia di ‘far presto’, di non restare esclusi dai luoghi in cui si sarebbero decise le sorti del mondo, è anche vero che, proprio la lettura del Risorgimento come rivoluzione nazionale, impediva al siciliano di cogliere la sproporzione tra realtà e verità. Come spesso accadeva, quell’ ‘apparire’ che Crispi invocava, era in definitiva un ‘dover essere’, un ‘non poter essere altrimenti’: in politica estera come in politica interna, era inammissibile che la borghesia nazionale, eroica, civilizzatrice, rivoluzionaria, protagonista, si accontentasse di svolgere un ruolo da comprimaria e rinunziasse alle più logiche conseguenze del suo valore. Il nocciolo della questione, tornava dunque, ancora una volta, al giudizio storico-politico sul Risorgimento, su chi ne era stato il motore, su chi aveva ora il dovere di portarlo a compimento: la monarchia umbertina e il ceto politico moderato, per scarsa virtù o per malcelato servilismo verso lo straniero, non potevano arrestare il cammino della nazione(7), né tantomeno lo poteva intralciare un internazionalismo che sul criterio delle differenze di classe voleva fondare le proprie fortune o un irredentismo che volgeva lo sguardo solo al confine orientale.

La concentrazione nelle mani di Crispi della presidenza del Consiglio, del ministero dell’Interno e di quello degli Affari Esteri, era la migliore situazione perchè il tanto sospirato obiettivo della "patria grande, padrona di sé, amata e stimata dagli altri popoli"(8) potesse essere portato a compimento. Chi mi ha preceduto ha egregiamente illustrato quali furono gli indirizzi seguiti nel campo delle relazioni internazionali e della politica coloniale e quale fosse di volta in volta il valore attribuito a quelle che Crispi definiva ‘matrimoni di convenienza’, cioè alle alleanze. Nell’ambito della politica interna, invece, tre furono i pilastri su cui Crispi fondò il suo progetto di dare all’Italia il giusto prestigio internazionale:

1. l’educazione civile e militare del popolo perchè in ogni cittadino crescesse un buon soldato;

2. il potenziamento degli armamenti e l’efficienza dell’esercito;

3. la radicale riorganizzazione del ministero degli Affari esteri.

Il primo di questi obiettivi dà la misura di quanto il nuovo corso della politica estera inaugurato da Crispi non intendesse, almeno formalmente, esaurirsi in una ‘politica di potenza’ quale mero esercizio della forza o calcolato computo delle alleanze più vantaggiose, segnata, invece, come fu, dal perdurante tentativo di darle un fondamento democratico; il terzo - la riorganizzazione del dicastero degli Esteri - con lo spostare l’accento sulle strutture e sugli uomini chiamati a dar corso alla politica estera - chiarisce dal canto suo la volontà di affiancare alla politica di potenza una politica di ‘prestigio’ il cui sottinteso era la riqualificazione dello Stato-nazione e della sua immagine.

Quello dell’educazione civile e militare del popolo fu concetto che Crispi, se pure non giunse a dargli il carattere di norma dello Stato, richiamò sovente con coerenza e con logica conseguente nel corso dei suoi interventi, fuori e dentro il parlamento, imperniati sulla rivisitazione della garibaldina ‘nazione armata’. Milizia territoriale e tiro a segno nazionale, strutture che sarebbero dovute essere attive anche in tempo di pace(9), erano presentati quali correttivi ad una concezione ‘separata’ e non democratica dell’esercito. Passata attraverso il filtro dell’esaltazione dell’eroe dei due mondi e, con lui, di tutti gli eroi che avevano combattuto nelle patrie battaglie, l’idea della necessità di un potenziamento degli armamenti e degli strumenti di difesa nazionale era stemperata nella più accettabile prospettiva di una ‘educazione globale’ del popolo ai valori civili e militari. La preparazione fisica e militare della gioventù, nelle palestre e nei campi del tiro a segno, diveniva, in quest’ottica, un obiettivo primario, talmente importante che nel settembre del 1893 Crispi stesso lanciava, da Palermo, la proposta di creazione dell’Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo(10), un sodalizio cui il siciliano intendeva dare dimensione nazionale ed attraverso il quale riteneva di poter fondare quel rilancio del patriottismo, nel quale tante speranze riponeva e che pure mediante altri strumenti aveva cercato di vivificare.

Se in questo modo Crispi sembrava poter dare soddisfazione alla sua ‘teoria dell’apparire’, restava il vero e più urgente nocciolo della questione, quello cioè dell’ ‘essere’ nazione forte e potente. E qui, di fronte ad un’esigenza di riarmo sentita come indispensabile, la ‘nazione armata’ tornava ad esser relegata nell’armamentario della mitologia propagandistica, e il siciliano diventava più pragmatico, tanto pragmatico da perdere di vista le reali condizioni del paese e l’onere finanziario che le fortificazioni e la corsa agli armamenti avrebbero comportato. Nella vecchia e torbida Europa era impensabile che le nazioni potessero essere disarmate ed anzi che l’Italia avesse "un esercito ed un’armata pari alla sua importanza politica e conforme alle esigenze della sua posizione geografica"(11) era il presupposto stesso per realizzare le alleanze con i grandi Stati su un piano di pari dignità. E quando le alleanze furono fatte(12), le spese per esercito e marina, all’interno di una mutata concezione dei compiti dell’intero apparato militare, divennero necessarie come deterrente all’aggressività delle potenze avversarie - la Francia, naturalmente, ma anche, in potenza, la Svizzera e la stessa Austria - e come garanzia della pace in Europa(13). Queste almeno le giustificazioni fornite da Crispi alla dilatazione dei bilanci di guerra e marina, che sotto il suo primo Gabinetto raggiunsero cifre spropositate rispetto al passato(14) e che, con la parola d’ordine del patriottismo, egli dovette difendere non solo da chi contestava in via generale l’indirizzo di politica estera del ministero, ma anche da coloro i quali, ivi compresi anche alcuni ambienti militari e, per certi aspetti, lo stesso titolare del dicastero della guerra durante i primi due governi Crispi(15), Bertolé-Viale, pur non pregiudizialmente contrari alla scelta triplicista, non erano convinti dell’urgenza di un riarmo a tappe forzate o temevano una politica finanziaria dissennata. Sulla connessione tra questione finanziaria e spese militari, Crispi d’altro canto aveva da tempo esposto la propria opinione che si sostanziava nell’idea di una radicale riforma dell’esercito nel senso del sistema territoriale alla prussiana. Intoccabile era invece la marina cui Crispi, ma non solo Crispi, attribuiva importanza fondamentale per gli equilibri nel Mediterraneo(16) ed il cui ruolo era tornato nel 1890 di estrema attualità dopo l’inizio della fortificazione di Biserta.

E veniamo al terzo punto di fondamentale importanza, quello del riordinamento del ministero degli Affari Esteri(17). Compiuto a più riprese da Crispi nell’arco dei tre anni dei suoi due primi governi, esso si svolse sulla falsariga delle proposte contenute nelle relazioni che Abele Damiani espose in occasione della discussione sul bilancio della Consulta per l’anno 1880 e per il 1881(18) e nel progetto che Alberto Pisani Dossi, nel dicembre del 1885 presentò al direttore degli Affari politici ed amministrativi, Giacomo Malvano(19). L’idea più ‘dirompente’ contenuta in entrambi i documenti era quella della unificazione, almeno su base concorsuale, delle tre carriere del ministero (interna, diplomatica e consolare), cavallo di battaglia della Sinistra storica, più volte agitato quale passaggio indispensabile per conferire al ministro la possibilità di realizzare il tanto auspicato ricambio del personale, nel tentativo di romperne il tradizionale assetto fondato su criteri censitari e preservato dello stretto legame tra Destra storica, Corona e diplomazia. Ma, a parte quell’obiettivo che tanto scalpore e tante resistenze suscitava, altri punti erano destinati ad assumere in futuro una rilevanza fondamentale nel piano riformatore di Crispi, primo tra tutti quello dell’abolizione delle due direzioni generali(20) con l’implicito rilancio del ruolo politico centrale del segretario generale, punto di raccordo tra volontà ministeriale ed attività amministrativa. Quando Crispi giunse alla Consulta sembrò fosse giunto il momento in cui il progetto Dossi-Damiani avrebbe trovato immediata attuazione, attraverso un provvedimento ‘rivoluzionario’, ma il ministro, cauto quanto mai nella gestione di un dicastero così impegnativo e così geloso della propria tradizione e dei propri privilegi, agì, invece, con singole e centellinate misure speciali che tutte contribuirono al progressivo esautoramento e alla calcolata delegittimazione degli elementi ritenuti d’intralcio. Se l’obiettivo era pur sempre quello di una globale ristrutturazione degli uffici e di una vera e propria epurazione degli organici, Crispi preferì, prima di procedere alla demolizione dell’esistente, rodare il funzionamento di un’équipe di lavoro - che vedeva gli uomini a lui più fedeli collocati nelle posizioni chiave dell’organizzazione ministeriale - che, prima di ogni altra cosa, necessitava di credito sia all’interno del paese che all’estero. Nominato Edmondo Mayor Des Planches alla carica di segretario particolare e coadiuvato dallo stesso Dossi, segretario capo nel gabinetto del ministero dell’Interno, ma con analoghe funzioni alla Consulta, il neo ministro Crispi organizzava così il viaggio a Friedrichsruh(21) che, avaro di risultati eclatanti, fu emblema e passerella insieme del ‘nuovo corso’ che egli si apprestava ad inaugurare e di cui si ebbe piena coscienza col ‘licenziamento’, agli inizi di novembre, del conte Giuseppe Greppi, ambasciatore a Pietroburgo, e del conte Luigi Corti, ambasciatore a Londra(22). In un clima non certamente disteso, piovvero poi i due decreti del 25 dicembre 1887 che riordinavano gli uffici ministeriali e sopprimevano le direzioni generali: restava la carica del segretario generale, che diveniva però, con l’affidamento ad Abele Damiani, una carica prettamente politica da cui dipendeva l’avviamento delle pratiche di ogni divisione del ministero; gli uffici venivano riorganizzati in cinque divisioni, si ricostituiva infine il Gabinetto del ministro con attribuzioni riservatissime e di particolare delicatezza. Fin dall’inizio si delineò il peso enorme che l’ufficio di Gabinetto - a capo del quale fu designato Pisani Dossi - avrebbe esercitato non solo nella conduzione interna del dicastero, ma anche nel tracciare le linee della politica estera. Quando poi con la legge del febbraio 1888 furono aboliti i segretariati generali ed istituita la figura del sottosegretario di Stato, il più incolore Damiani fu ben presto sopravanzato in competenze e in potere decisionale(23), creandosi così la paradossale situazione per cui vero centro propulsivo e gestionale del ministero e dell’indirizzo di politica estera era, dopo il ministro, una figura formalmente sciolta da ogni responsabilità verso il parlamento ed il paese.

Ma ancor di più che sulla vigorosa opera riformatrice condotta nell’organizzazione centrale del ministero, vale la pena soffermarsi sulle innovazioni introdotte nell’apparato periferico, innovazioni che furono, anche queste, frutto dell’attiva e fertile collaborazione tra Crispi e il suo capo di Gabinetto, Pisani Dossi, il quale del presidente del Consiglio e ministro degli Esteri condivideva l’approccio energico e globale alle questioni internazionali ed anzi ne era intelligente e competente consigliere. La diplomazia, come dimostrò il grande movimento nelle sedi diplomatiche e consolari attuato nel primo triennio di gestione crispina(24), fu l’ambito che, per primo, risentì degli effetti di quella concezione globale della politica estera di cui i due erano originali assertori; il suo potenziamento e il suo rinnovamento in conformità del ruolo che il paese avrebbe dovuto giocare nello scacchiere europeo, si coniugavano con l’ambizione di adempiere, specie attraverso la rete consolare, a quegli obiettivi di promozione di immagine, di diffusione della cultura, di allargamento degli scambi commerciali, di tutela delle comunità italiane all’estero, che erano il nucleo forte e più caratteristico del grandioso disegno. Si trattava di introdurre, in quello che Crispi riteneva fosse un universo immobile, tradizionalmente supino al volere della Corona - il corpo diplomatico, appunto -, una diversa concezione della politica estera, informandola ai valori dell’italianità, del prestigio internazionale, dell’immagine ‘alta’ che dell’Italia si sarebbe dovuta dare presso le opinioni pubbliche straniere(25). Manifestazione evidente di questa volontà di mutamento finalizzata ad una concezione ideologica e astratta dei compiti spettanti ai rappresentanti italiani all’estero, fu l’estensione agli agenti diplomatici e consolari della legge 14 luglio 1887 che regolava l’aspettativa ed il collocamento a riposo dei prefetti(26): il provvedimento significava l’attribuzione al ministro di più ampi margini di discrezionalità nel forgiare un corpo che per le sue delicate funzioni era di cruciale importanza e, in generale, ribadiva la più profonda essenza dell’opera riformatrice crispina, la concentrazione cioè nelle mani proprie e degli uomini di maggior fiducia del controllo capillare di tutti i rami della pubblica amministrazione(27).

Parzialmente risolto, con la solita tecnica di provvedimenti d’autorità, il problema degli organici, Crispi potè dedicarsi al tentativo di ‘conquistare’ al suo progetto il corpo diplomatico-consolare, entrando ora nel merito dei compiti spettanti ai rappresentanti italiani all’estero. E qui la questione si rivelava sia di forma che di sostanza. Con una raffica di circolari emanate quasi tutte nei primi mesi del suo ministero, egli richiamava l’attenzione dei regi agenti su un’infinità di aspetti, talora apparentemente marginali, che nel complesso definivano il contegno e lo stile di vita cui si sarebbero dovuti uniformare: quello cioè di essere testimoni ed al contempo promotori del "sentimento di italianità". Solennizzare con feste e banchetti, con concerti ed inaugurazioni, le ricorrenze nazionali al fine di creare e mantenere, nelle comunità italiane di residenti all’estero, alto e vivo il ricordo della patria; essere punto di riferimento per i connazionali, sia con il rigoroso adempimento del proprio ufficio, sia con un esemplare comportamento nella vita privata e pubblica; scegliere sedi prestigiose ed arredarle con mobilio e suppellettili di stile spiccatamente italiano, in modo da offrire agli occhi dell’opinione pubblica dei paesi ospiti l’immagine di un’Italia grande e sicura di se stessa ed ai compatrioti la certezza di un lembo di patria in terra straniera. Questi alcuni degli accorgimenti, per così dire ‘esteriori’, vivamente raccomandati al personale delle legazioni, ma il ministro si spingeva ancora più in là e dava alcune istruzioni volte ad impedire che, causa la lunga permanenza all’estero, andasse perduto il genuino carattere italiano. Poco entusiasta dei matrimoni con straniere, invitava i diplomatici a dare ai propri figli un’educazione nazionale e - intendendo per educazione non solo la padronanza della lingua, ma l’assimilazione di abitudini, comportamenti esteriori, cultura nel senso più ampio del termine - di mandarli quindi a studiare nella madrepatria. Inoltre, perché il rappresentante all’estero avesse sempre il polso della situazione italiana, della vita quotidiana, della sua evoluzione, dei suoi problemi, delle nuove tendenze, lo consigliava di trascorre i propri periodi di vacanza nel regno. Riguardo poi all’espletamento dei doveri d’ufficio con Roma, Crispi disponeva l’uso dell’italiano nella corrispondenza diplomatica e l’adozione di un nuovo cifrario in italiano per la corrispondenza telegrafica.

Con questa determinazione, ma attraverso una selva di leggine, decreti, circolari, ordini del giorno, istruzioni che finiva spesso col disorientare i destinatari e, alla lunga, col renderli insofferenti verso un ‘centro’ così incalzante ed onnipresente, il presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, aveva affrontato il cruciale problema della ‘nazionalizzazione’ della diplomazia, e nel 1889 poteva annunciare soddisfatto alla Camera l’apprezzabile esito di quel lavoro di demolizione delle "false abitudini" inveterate nel corpo diplomatico e consolare, prima tra tutte quella dell’uso della lingua francese nelle corrispondenze, nei cifrari e persino nelle normali comunicazioni.

Se il lavoro di Crispi si fosse fermato qui, a questa pur sostanziale riforma dell’immagine, esso nè avrebbe seriamente impensierito un corpo profondamente arroccato sulle proprie abitudini e tradizioni, nè avrebbe significato una sterzata di contenuto nelle linee della politica estera. Fu infatti sul piano dei carichi di lavoro, e quindi delle nuove funzioni che diplomatici e consoli andavano ad assumere, che la ‘rivoluzione’ crispina veramente incise in maniera duratura e mostrò di essere il prodotto di una nuova sensibilità politica che cercava di adeguarsi ai tempi. Già il fatto stesso di toccare gli intoccabili, di ricondurre un settore della vita dello Stato sotto l’imperio del governo dello Stato, fu una iniziativa carica di importanti risvolti politici(28), ma più ancora la pretesa di ridefinire il metodo e le finalità del lavoro degli agenti all’estero ebbe un effetto dirompente, che, in via astratta, avrebbe potuto produrre un reale salto qualitativo per un paese che si fregiava del nome di ‘potenza’, ma che dai primi ministri delle altre nazioni era sovente dimenticato(29). La diplomazia, fino a quel momento inutile e dispendioso orpello, doveva divenire attivo strumento di conoscenza e di intervento che traducesse in atti ed in fatti le scelte politiche del ministero. In questo senso andavano le tantissime circolari che trattavano gli obblighi d’ufficio degli agenti all’estero: relazioni e rapporti, con oggetti e scadenze obbligatori, divennero il principale veicolo del rinnovato modo di intendere la politica estera. Con essi, il ministero intendeva essere informato sulla situazione economica e politica del paese di accreditamento, sulla sua evoluzione, sui rapporti con gli altri Stati; ma informato in maniera intelligente e proficua: non bastava, ad esempio, che, come disposto, si inviassero regolarmente statistiche commerciali, agricole, industriali sul paese ospite. Poiché scopo di quelle informazioni era di mettere il governo italiano in condizioni di definire via via la propria politica commerciale, i ‘ministri all’estero’ dovevano corredarle di proprie riflessioni, apprezzamenti, indicazioni, facendo parlare le cifre, evidenziando i fenomeni più rilevanti per gli interessi della madrepatria, indagandone e spiegandone le cause. Obblighi precisi erano poi posti per gli studi riguardanti l’analisi dei flussi migratori - i rapporti dovevano essere bimestrali - nel tentativo di costruire una politica nazionale dell’emigrazione cui la legge 30 dicembre 1888 cercò di dare sanzione(30). Oltre alle ‘biografie degli italiani di successo’ - che si inquadravano in una logica mirante a fare delle comunità italiane all’estero strumenti di penetrazione economica - ed oltre alle relazioni sullo ‘stato di salute’ delle collettività dei connazionali - in vista di una politica d’esportazioni calibrata ai bisogni che esse esprimevano - si richiedeva al corpo diplomatico-consolare un serio e vigoroso impegno nel senso sia della tutela e dell’assistenza dirette agli emigrati bisognosi, sia del coinvolgimento, a questo fine, dei trapiantati che avevano avuto maggior fortuna, quella borghesia nazionale in terra straniera che Crispi riteneva dovesse farsi anch’essa carico di ‘nazionalizzare’ e di rendere coese le ‘isole’ italiane. Non scevro da preoccupazioni antianarchiche ed antisocialiste, il controllo sugli emigrati che al personale di legazioni e consolati era affidato, oltre ad avere i suoi punti fermi nelle società di beneficenza, alcune parzialmente sussidiate dal governo, faceva leva anche sull’associazionismo mutualistico che, mentre funzionava da rete assistenziale parallela e talora surrogatoria dell’intervento statale, consentiva un controllo più capillare delle comunità. Il motivo dichiarato di tanta solerzia era appunto quello di tenere vivi tra gli italiani delle colonie il sentimento di solidarietà e il senso di appartenenza alla patria nonostante la lontananza; ad esso era però sottinteso il più generale obiettivo politico-ideologico di creazione ed organizzazione del consenso, sia all’interno delle comunità sia nella madrepatria, intorno alla linea di politica estera intrapresa dal governo. La normativa sulle scuole italiane all’estero fu, su questo piano, il principale risultato che Crispi riuscì a conseguire nel corso dei suoi primi ministeri.

In conclusione, il parziale fallimento della politica estera crispina, così come il presidente del Consiglio l’aveva immaginata, poco commisurando le effettive possibilità e capacità del paese con l’ambizione dei propositi, nulla toglieva alla modernità dell’impulso e dell’organizzazione dati al ministero, nella sua struttura centrale e nelle sue propaggini.

 

Note

* Il testo qui proposto riprende alcuni capitoli del mio Francesco Crispi. Un progetto di governo, Firenze, Olschki, 1999.

1 Sulla questione restano fondamentali le pagine di F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Le premesse, Laterza, Bari 1951, pp. 62-67; 74-79.

2 Non a caso Crispi riteneva di ‘qualità’ superiore la formula di plebiscito assunta nelle province meridionali, che a differenza dell’ "annettersi - verbo che allude ad una servitù", aveva significato la proclamazione di un diritto e di "un supremo dovere per tutte le genti latine", quello dell’unità e della sovranità territoriale della patria comune.

3 Cfr. E. Artom, L’uomo Francesco Crispi, in "Rassegna Storica Toscana", 1970, n. 1, pp. 15-16; U. Levra, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino 1992, pp. 311-317. Non a caso Crispi scriveva che "le Nazioni non muoiono. Muoiono i Regni, gl’Imperi, le Repubbliche, muore tutto ciò ch’è legale e convenzionale" (Francesco Crispi: Pensieri e profezie raccolti da T. Palamenghi Crispi, Roma, Tiber, 1920 - d’ora in poi Pensieri e profezie - CCLXXXIII), riferendosi cioè alla caducità delle forme costituzionali e non all’entità Stato "che è di vita naturale ed eterna quando rappresenta la nazione" (Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1915, (d’ora in poi DP), vol. III, Camera dei deputati, tornata del 6 marzo 1890).

4 Lettera di F. Crispi a Saverio Fera da Napoli del 3 febbraio 1897 in Carteggi politici inediti di Francesco Crispi (1860-1900), estratti dal suo archivio, ordinati e annotati da T. Palamenghi Crispi, Roma, L’Universelle, s.d. [1912] (d’ora in poi Carteggi politici). Ma l’affermazione era già del 1890 (discorso di Firenze dell’8 ottobre 1890) quando Crispi sostenne che il trattato di Berlino era stato per il principio di nazionalità "più una sosta che una conferma" (Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi (1849-1890) Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1890, - d’ora in poi Scritti e discorsi - p. 751).

5 È pur vero che l’idea non era originale: in Italia, lo stesso Mazzini e il Gioberti del Primato, ne erano stati caldi sostenitori; per non parlare poi dell’idea herderiana della missione del ‘genio’ tedesco. In Crispi tuttavia, poco propenso a subire il fascino di dottrine e di schemi teorici, la gravità di tale pensiero stava proprio nella sua concretezza e nella sua praticabilità che avrebbero spostato il baricentro dell’azione politica verso la volontà di potenza. Il che, tuttavia, non significava sposare automaticamente ansie espansioniste e mire egemoniche. La ‘missione’ cui Crispi sembrava costantemente riferirsi, era piuttosto quella della decisa affermazione di un prestigio e di una dignità dello Stato italiano pari a quelli delle altre potenze europee e tali da farlo partecipare a pieno diritto alla definizione degli assetti territoriali e degli equilibri internazionali. Già nel 1881 egli aveva espresso il nucleo di questo pensiero quando, dalla tribuna di Palermo, ammoniva: "Io voglio la libertà e l’indipendenza di tutti i popoli, ma non posso tollerare che sia calpestata la patria mia e che le sia impedito di tenere nel consesso europeo il posto che le è dovuto" (Scritti e discorsi, discorso pronunciato nella sede della società democratica di Palermo, il 13 novembre 1881).

6 Carteggi politici, lettera di Crispi a S. Fera da Napoli, del 3 febbraio 1897.

7 Sono note le accuse crispine a Cavour di aver ‘diplomatizzato’ la rivoluzione (cfr. Ultimi scritti e discorsi extraparlamentari (1891-1901), a cura di T. Palamenghi Crispi, Roma, L’Universelle, s.d. [1912-1913] - d’ora in poi Ultimi scritti - p. 275, In morte di Ottone di Bismarck, 1 agosto 1898; DP, II, Camera dei deputati, tornata del 18 maggio 1883, sebbene in quest’ultimo Crispi sottolineasse l’effetto positivo dell’opera cavouriana che mise un freno alla "impazienza" e all’audacia dei repubblicani come lui accusava la Destra (ma anche i ministeri di Sinistra) di aver gettato il paese nel discredito a causa di esitazioni ed incertezze (per tutte, le parole pronunciate nella famosa seduta del 31 gennaio 1891, quella della ‘politica servile’ verso lo straniero). Più complesso era invece l’atteggiamento verso l’istituto monarchico, esaltato come simbolo e garante dell’unità, ma, nella sua incarnazione in Umberto I, ridimensionato dalla pochezza di un ‘re borghese’. Secondo la concezione di Crispi "il re non può vivere come un umile borghese, il quale mangia e beve e lascia correre il tempo. Il re deve avere una missione di umanità e civiltà, se non vuole che i popoli ritengano inutile la sua esistenza" (Pensieri e profezie, CXLIII).

8 Discorso pronunciato allo scoglio di Quarto in occasione dell’inaugurazione di un monumento a Garibaldi a Genova nell’ottobre 1893, citato in Francesco Crispi: politica interna. Diario e documenti raccolti e ordinati da T. Palamenghi Crispi, Milano, Treves, 1924 (d’ora in poi Politica interna) p. 283.

9 Sull’importanza della milizia territoriale e della milizia mobile, Crispi aveva insistito ancora nel 1880 (cfr. DP, II, Camera dei deputati, tornata del 20 marzo 1880), due anni prima, cioè, che fosse varato il nuovo ordinamento dell’esercito messo a punto dal generale Ferrero che, sulla falsariga della ristrutturazione voluta da Ricotti, ministro della guerra dal 1870 al 1876, pur prevedendo sia la milizia territoriale che quella mobile non ne curava l’organizzazione in tempo di pace. Ma le affermazioni in quella sede fatte si dimostrarono essere semplici dichiarazioni d’intenti e negli anni che lo videro al potere, esse continuarono a rimanere sulla carta, salvo essere ripescate, non solo da Crispi, ma anche da alcuni vertici militari, con una chiara valenza antifrancese. Per quel che riguarda il tiro a segno, entrato a far parte delle istituzioni dello Stato con la legge 2 luglio 1882, l’impegno che Crispi profuse fu sicuramente maggiore tanto che l’istituzione registrò, durante i suoi ministeri, sensibili modificazioni che ne accentuarono quei tratti demagogici ed autoritari che mal si celavano sotto il pretesto di una forma democratica di ‘educazione civile’.

10 La documentazione d’archivio sull’Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo, sta in Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Carte Crispi (d’ora in poi CC), Deputazione Storia Patria Palermo (d’ora in poi DSPP), b. 82, f. 521 e ACS, CC, Reggio Emilia, b. 8, f. 16, sottof. 6, ins. 10, cui va aggiunta una lettera di T. Palamenghi Crispi allo zio in cui si salutava con fervore l’idea di far partire proprio dalla "città delle grandi iniziative patriottiche" la proposta associazione (ACS, CC, DSPP, b. 148, f. 1329 Tommaso Palamenghi Crispi, lettera di Palamenghi Crispi a Crispi, da Roma, del 10 settembre 1893). L’iniziativa della costituzione dell’Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo, era stata presentata a Palermo, il 10 settembre 1893: un luogo e una data particolarmente significativi (se si pensa a quali fossero le condizioni dello spirito pubblico in quella seconda metà del ‘93) che lasciano supporre un accorta valutazione preliminare. Il metodo Giolitti nei confronti della ‘questione siciliana’ si trovava in una fase di stallo; il problema del ricambio a palazzo Braschi era aperto; la Sicilia era al centro dell’attenzione nazionale; Crispi, in concorrenza con Rudinì e Zanardelli, preparava la sua successione non solo mostrando aperture verso il movimento dei Fasci e le problematiche economico-sociali che esso portava alla ribalta, ma offriva, anche attraverso l’ipotesi dell’Associazione, un’alternativa di potere, patriottica, unitaria, interclassista e, vagamente legata ad un obiettivo che era patrimonio storico della democrazia risorgimentale, quello, appunto della ‘nazione armata’. Il che naturalmente non significa che il valore di quella proposta fosse limitato all’uso strumentale che in quell’occasione potè essere fatto, poichè essa non fu episodio isolato, ma ebbe nel percorso ideale e politico di Crispi un ‘prima’ e un ‘dopo’. L’idea, come riferisce Tommaso Palamenghi Crispi, "accolta con grande favore nel primo momento, non ebbe pratica attuazione per gli avvenimenti che seguirono da lì a poco" (Politica interna, p. 282), ma le vicende legate alla riforma dell’istituto del Tiro a segno nazionale e l’adesione accordata a sodalizi ed iniziative volte alla educazione fisica e militare dei giovani, attestano la costante premura di Crispi su questo tema.

11 Scritti e discorsi, discorso pronunciato nella sala della Società democratica di Palermo il 13 novembre 1881.

12 Al rinnovo della Triplice nel febbraio del 1887, aveva fatto seguito nel gennaio del 1888 la convenzione militare in funzione antifrancese.

13 La documentazione archivistica relativa all’attività dei primi ministeri Crispi in ordine alla riorganizzazione di esercito e marina sta in ACS, CC, Roma, b. 6, f. 158 (che contiene il progetto di legge del 1888 sulle spese straordinarie) e ACS, CC, DSPP, b. 28, f. 226 Esercito e difesa nazionale, in cui, oltre al fascicolo Organizzazione del R. Esercito e difesa nazionale, relativo a proposte di legge e dibattiti parlamentari precedenti il 1887 (sottof. 1), sono conservate (sottof. 3) le corrispondenze con gli ambasciatori De Launay, Nigra e Menabrea circa l’entità delle spese militari in Germania (1872-1888), in Austria-Ungheria (1887-1889) e in Francia (1870-1883). Inoltre, al sottof. 4, sono le relazioni (del 23 ottobre 1890 e del 24 giugno 1891) che il Capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Cosenz, su richiesta di Crispi, redasse sulla consistenza delle forze militari in Italia, Francia, Germania, Russia ed Austria-Ungheria dal 1887 al 1891; e al sottof. 5, la memoria del generale Corvetto sull’ordinamento del R. Esercito dall’aprile 1887 al febbraio 1891, diretta a Crispi in data 4 febbraio 1891. Utili riferimenti generali sull’aumento delle spese militari e sull’importanza che Crispi ad esso attribuì, in G. Rochat, G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978, pp. 107-146; F. Venturini, Militari e politici nell’Italia umbertina, in "Storia Contemporanea", a. XIII, n. 2 (aprile 1982), pp. 167-250; R. Mori, La politica estera di Francesco Crispi (1887-1891), Roma, 1974, pp. 67-74.

14 Il disegno di legge per autorizzare spese straordinarie militari fu presentato dai ministri della Guerra e della Marina, Bertolè-Viale e Brin, l’1 dicembre 1888 e fu riferito alla Camera dall’onorevole De Renzi il 16 dicembre 1888. La discussione iniziò il 21 e si esaurì nell’arco di tre giorni; al Senato ne fu relatore il generale Mezzacapo. Con esso si chiedeva l’iscrizione nei bilanci straordinari di Guerra e Marina per l’esercizio 1888-1889, rispettivamente, di 90 e di 30 milioni da destinarsi all’acquisto di armamenti, di approvvigionamenti e alla costruzione di opere di difesa. Secondo quanto Crispi stesso avrebbe affermato a posteriori per scagionarsi dall’accusa di aver improvvidamente ed abnormemente accresciuto il bilancio della guerra del 1888, non si trattava di aumento delle spese ma di anticipazione: tra il 1884 ed il 1886, infatti, il Parlamento aveva approvato 240 milioni di spese straordinarie da ripartirsi tra gli esercizi successivi fino al 1892 e le cifre richieste col disegno di legge del 1888 erano in buona parte anticipazioni di spesa sui fondi destinati a quegli esercizi (DP, III, Camera dei deputati, tornata del 13 maggio 1894). In realtà le spese, anche attraverso lo strumento delle note di variazione, sfondarono il tetto delle anticipazioni approvate ed il bilancio dei ministeri di Guerra e Marina per l’esercizio finanziario 1888-1889, sfiorò la cifra dei 600 milioni.

15 Le occasioni di divergenza tra Crispi e Bertolé-Viale, quest’ultimo legato ad una concezione tradizionale dell’esercito e della politica estera, furono numerose: dall’opposizione esplicita del ministro della guerra verso l’espansionismo in Africa, alle riserve espresse sulla convenzione militare con la Germania stipulata nel gennaio del 1888, all’ostilità verso ‘corpi paramiltari’ (quale, ad esempio, il Tiro a segno mirava ad essere), all’atteggiamento stesso da tenersi nei confronti della Francia. Nota è poi la vicenda legata allo disegno di legge del 1888, in cui Bertolè-Viale, avvertendo di non trovarsi in sintonia col presidente del Consiglio circa l’entità dei fondi straordinari richiesti, si dichiarò disposto a rassegnare le dimissioni (A tal proposito la lettera di Bertolè-Viale a Crispi del 18 novembre 1888, riportata in Politica interna, p. 191 e in F. Venturini, Militari e politici nell’Italia umbertina, in "Storia Contemporanea", a. XIII, n. 2 (aprile 1982), p. 220).

16 Indubbio fu in età crispina il potenziamento della marina militare (che datava però già dal 1883), settore più fortemente dell’esercito legato agli interessi di alcune industrie nazionali di base che dalle spese militari trassero enormi vantaggi (Cfr. L. De Rosa, L’incidenza delle spese militari sullo sviluppo economico italiano, in "Atti del I Convegno di storia militare", (Roma 17-19 marzo 1961), a cura del Ministero della Difesa, Roma, 1969 e R. Mori La politica estera di Francesco Crispi (1887-1891), Roma, 1973).cit.). La stessa scelta di potenziare la flotta, più che le fortificazioni costiere, non era certamente scevra da implicazioni con un orientamento di politica estera non più esclusivamente difensivo e non più limitato alle acque del Mediterraneo (nel bilancio della Marina del 1889-1890 fu infatti previsto lo stazionamento di diciassette unità italiane in acque extraeuropee). Brin e Saint-Bon furono le figure intorno alle quali ruotò il rilancio della marineria italiana attraverso un vasto e ardito programma di costruzioni navali imperniato su unità con soluzioni tecniche d’avanguardia che talora andavano a scapito delle capacità difensive - come dimostrarono, ad esempio gli ‘arieti torpedinieri’ (versione italiana degli inglesi ‘incrociatori protetti’) e gli ‘incrociatori torpedinieri’ (di essi, della classe Partenope, ben 8 furono costruiti e varati in età crispina) concepiti essenzialmente per le acque metropolitane - oppure la cui costruzione richiedeva alla poco efficiente industria cantieristica italiana un tempo di costruzione talmente lungo da renderle obsolete al momento dell’entrata in servizio (Cfr. G. Rochat, G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano cit., pp. 118-121; G. Giorgerini, A. Nani, Le navi di linea italiane. 1861-1961, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1962; e ID, Gli incrociatori italiani. 1861-1975, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1976). Parallelamente al disegno di potenziamento della flotta militare si delineava in Crispi l’esigenza di rilanciare, col sostegno dello Stato, la marina mercantile considerata "un organo ausiliare dell’armata" da riguardarsi non solo come elemento di forza economica, ma anche come "elemento di potenza militare" (DP, II, Camera dei deputati tornata del 2 maggio 1885).

17 Sulla riforma crispina del ministero degli Affari esteriEsteri abbondante è la bibliografia di riferimento per la quale si rimanda a V. Pellegrini, Il Ministero degli Esteri: l’organizzazione, in Istituto Per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica, Archivio, n. 6, n.s., Le riforme crispine, Milano, Giuffrè, 1990 (d’ora in poi ISAP), t. 1, Amministrazione statale, pp. 167-269 (in particolare la nota 106) in cui si fa menzione, oltre che delle più recenti pubblicazioni, anche dei numerosi interventi apparsi ‘a caldo’.

18 La prima relazione fu letta da Damiani nella seduta del 22 gennaio 1880, la seconda in quella del 9 dicembre 1880. Esse, furono però stilate da Pisani Dossi, come risulta dalle minute manoscritte presenti nelle sue carte (ACS, Carte Pisani Dossi, b. 1, ff. 11 e 13) e dalla testimonianza dello stesso Dossi (C. DOSSI, Note azzurre, a cura di D. Isella, Milano, 1964, pp. 4748; 4758).

19 Il progetto Pisani Dossi, messo a punto su richiesta dello stesso Malvano, non ebbe alcun seguito e fu questo, probabilmente, uno dei motivi del rancore che il giovane letterato nutrì nei confronti del funzionario torinese e che, all’epoca del primo ministero Crispi, lo avrebbe spinto a patrocinare l’estromissione del Malvano stesso dall’amministrazione degli Esteri. Il progetto del 1885, non fu però una novità assoluta: esso riassunse e sistematizzò idee e proposte che Pisani Dossi aveva ripetutamente pubblicizzato dalle colonne de "La Riforma", soprattutto nel periodo dicembre 1882 - gennaio 1883, in concomitanza con i lavori delle Commissioni (istituite dal ministro Mancini con decreto 24 novembre 1881, ma funzionanti a partire dal novembre dell’anno successivo) incaricate di studiare una riforma globale del ministero e delle sue strutture periferiche.

20 Tra le proposte, in quel momento considerate ‘minori’, vi erano nella relazione Damiani del 1880, l’idea del bollettino consolare come strumento di politica commerciale e il rilievo da attribuirsi alla lingua e alla cultura italiana all’estero come strumenti di penetrazione politica ed economica; nella relazione del 1881, inoltre, si auspicava la creazione di un unico ufficio emigrazione che riunisse, non necessariamente sotto il controllo del ministero degli esteriEsteri, competenze e gestioni fino allora frammentate. Nel progetto di Pisani Dossi del 1885 l’abolizione delle direzioni generali rispondeva al duplice scopo di semplificare e razionalizzare i servizi ed era concepito in parallelo con la sottrazione al ministero di alcune competenze (come ad esempio la corrispondenza di Corte, l’ordine dell’Annunziata, le questioni di stato civile) ritenute gravose per un dicastero cui era richiesta snellezza burocratica e concentrazione massima sugli affari squisitamente politici.

21 In quel viaggio, Crispi fu accompagnato da Mayor, da Pisani Dossi e dal nipote Tommaso Palamenghi, segretario particolare alla presidenza del Consiglio. Significativa l’assenza di funzionari del ministero, che, appunto, anche in questo modo, venivano via via esautorati e delegittimati.

22 Greppi e Corti furono richiamati dalle rispettive missioni e collocati a riposo "per motivi di servizio". Ad essi fecero seguito, nelle destituzioni, il ministro plenipotenziario a Lisbona, Filippo Oldoini ed il ministro a Monaco di Baviera, Ulisse Barbolani a testimoniare la pesante sfiducia e disistima che Crispi nutriva per gli alti vertici del ministero cui, nel suo delirio accentratore, decideva di sottrarre perfino la possibilità di aver contezza delle materie di competenza.

23 In applicazione alla legge 12 febbraio 1888 e del decreto del 1° marzo successivo (la legge sui ministeri e le norme che abolivano i segretari generali), Damiani rassegnò le proprie dimissioni da Segretario generale e venne nominato, con decreto del 9 marzo, sottosegretario di Stato alla Consulta. In applicazione del successivo decreto 29 marzo 1888, che fissò le attribuzioni del sottosegretario agli Esteri, la distribuzione dei compiti tra Damiani e Pisani Dossi fu sostanzialmente paritetica, ma ben presto al siciliano rimasero solo gli affari relativi alla gestione del personale e ad alcuni aspetti amministrativi, mentre il capo di Gabinetto accentrò sulla sua persona funzioni politiche e diplomatiche nonché tutte quelle competenze amministrative in cui più spiccato era il contenuto politico-ideologico (scelta dei testi concorsuali, revisione delle pubblicazioni del ministero, ecc.). A partire dal 1890, inoltre, al Gabinetto venne aggregato l’Ufficio coloniale, allargando così le funzioni di controllo di Pisani Dossi anche agli affari relativi a possedimenti, protettorati e aree di influenza.

24 Le uscite dalla carriera diplomatica e da quella consolare, tra luglio del 1887 e febbraio del 1891, ma con un picco durante il primo ministero, riguardarono 49 funzionari, di cui 18 erano diplomatici e 17 consoli; l’incidenza di questo dato è apprezzabile se si tien conto che la consistenza media per le due carriere era rispettivamente di 88 e 154 unità cfr. F. Grassi, Il Ministero degli Esteri: la diplomazia, in ISAP, t. I, Amministrazione statale, pp. 145-146, n. 19).

25 Nelle intenzioni del presidente del Consiglio vi era, come si è detto, anche l’obiettivo di un deciso intervento sul personale, nel senso di una fusione delle tre carriere (diplomatica, consolare ed interna) e nel senso dell’immissione nei ruoli di forze nuove e giovani. Entrambi questi intenti furono, però, realizzati solo in parte: se pure si ottenne una maggiore intercambiabilità e omogeneizzazione di funzioni, all’unificazione delle carriere non si giunse; se, attraverso meccanismi come promozioni, messa in disponibilità o a riposo, pensionamenti, incentivi, si registrò un certo movimento interno negli organici che migliorò le prestazioni del personale e degli uffici, a Crispi non riuscì quel ricambio globale e radicale che si era prefisso. Vi erano d’altra parte, come lo stesso presidente del Consiglio ben sapeva, forti resistenze al mutamento, sia all’interno che all’esterno della Consulta, fondate non solamente sulla difesa corporativa delle funzioni ‘speciali’ che la diplomazia rivendicava, ma anche su timori più specificamente politici suscitati dalla maggior ingerenza del capo dell’Esecutivo e delle sue prospettive in politica estera. Sui nuovi compiti che Crispi, all’interno della generale riforma del ministero degli Affari Esteri, attribuì al corpo diplomatico e consolare, si vedano R. Mori, Francesco Crispi e la documentazione italiana sugli accordi segreti dal 1861 al 1887, in "Storia e politica", a. V, f. II, pp. 213-214; R. Mori, La politica estera estera di Francesco Crispi (1887-1891), Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1974, pp. 74-82; E. Serra, Alberto Pisani Dossi diplomatico, Milano, Angeli, 1987, pp. 31-35; F. Grassi, Il Ministero degli Esteri: la diplomazia, in ISAP, t. I, Amministrazione statale, pp. 81-165; M. Cacioli, La rete consolare nel periodo crispino, 1886-1891, Roma, 1988; F. Grassi, Il primo governo Crispi e l’emigrazione come fattore di una politica di potenza, in [Fondazione Brodolini], Gli italiani fuori d’Italia. Gli emigrati italiani nei movimenti operai dei paesi di adozione (1880-1940), a cura di B. Bezza, Milano, Angeli, 1983, pp. 49- 59.

26 Legge 11 luglio 1889 e successivo regolamento 28 novembre 1889. Già in precedenza, però, alcune norme relative alle libertà private del personale del ministero (Regolamento disciplinare per gli impiegati del Ministero degli Affari Esteri del 24 giugno 1888; circolare 12 novembre 1888) avevano cominciato a configurare sia un più marcato intervento del potere politico sugli organici amministrativi, sia il nuovo tipo di diplomatico che Crispi aveva intenzione di realizzare: veniva, infatti, fatto divieto ai dipendenti di ricoprire altri incarichi pubblici (se non dietro autorizzazione del ministro, rilasciata solo nei casi in cui egli avesse ritenuto quell’ufficio compatibile con gli interessi dello Stato); di tenere pubbliche conferenze o di pubblicare lavori di indole politica con la propria firma; di aderire a società italiane o straniere senza previa autorizzazione del ministro, di esercitare l’industria ed il commercio in qualsiasi forma; di ricoprire la carica di consiglieri d’amministrazione, o qualsiasi altra funzione, in società commerciali ed industriali. Norme che, se pure confermavano l’impronta accentratrice e personalistica dello stile crispino, avevano l’indubbio beneficio di sottrarre cariche particolarmente delicate (come quelle di diplomatici e consoli) dall’eventuale pressione di gruppi di potere economici o politici. Anche nel caso del corpo diplomatico, tuttavia, come per i prefetti, se l’iniziativa crispina rompeva effettivamente quell’osmosi tra politica ed amministrazione che aveva caratterizzato il sistema di governo precedente, essa, traducendosi in mera subordinazione del funzionario al politico, finiva col soffocare nascenti autonomie e professionalità dell’alta burocrazia.

27 Ancor più che per i prefetti, il dissenso tra ministro e rappresentante dell’Italia in terra straniera era, a parere di Crispi, motivo legittimo del ‘licenziamento’ del dipendente non allineato; molto meno che per i prefetti, però, il Parlamento, dato il carattere d’assoluta riservatezza del lavoro di ambasciatori, consoli e capi missione, aveva modo di verificare quando e fino a che punto l’agente all’estero fosse responsabile di un comportamento difforme dalle direttive ministeriali.

28 Da un punto di vista astratto, Crispi non negava nè il peso del popolo, attraverso i suoi rappresentanti, nel delineare le linee della politica estera, nè il ruolo della Corona, benché su quest’ultimo muovesse le proprie riserve e lo ammettesse solo in quanto connesso alla sopravvivenza stessa della casa regnante. Nè negava che anche l’esecutivo potesse avere una propria volontà in materia, ma dava per scontato che essa dovesse essere subordinata al principio della continuità nella condotta internazionale del paese. In tale prospettiva, proprio sul ministro doveva ricadere la responsabilità intera della politica estera, venendo questo a porsi contemporaneamente come garante di quella continuità e punto d’equilibrio tra interesse del popolo e interessi del re: "... la politica estera vive di tradizioni e non potrebbe essere rotta da mutamenti di Ministero. Se le cose internazionali interessano potentemente il popolo, interessano parimenti la dinastia, la cui esistenza può certamente dipendere da guerre, o da paci o da accordi più o meno abilmente stabiliti. Bisogna dunque trovare il modo di armonizzare le due volontà, quella del popolo e quella del re: e lo si può con l’intervento del Ministero responsabile, senza del quale nulla dovrebbe essere trattato e concluso (Scritti e discorsi, Vittorio Emanuele. La questione d’oriente, 9 gennaio 1884, da un Album pubblicato dal Circolo universitario Vittorio Emanuele di Bologna in occasione del pellegrinaggio nazionale alla tomba del Gran Re).

29 Come documenta Federico Chabod, Bismarck più volte, tra il 1879 ed il 1882, parlò infatti di "cinque grandi potenze", considerando l’Italia non essenziale ai pur precari equilibri europei (F. Charod, Storia della politica estera cit., p. 551 nota 2).

30 Come si vedrà, nel presentare quella legge, sottolineando il dovere del governo di indirizzare gli emigranti verso i luoghi ove avrebbero potuto trovare migliori condizioni di vita e maggiori possibilità di lavoro e di provvedere alla loro tutela nel paese ospite (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XVI legislatura, II sessione 1887, Documenti, disegni di legge e relazioni, n. 85, presentazione del presidente del Consiglio del disegno di legge sull’emigrazione, seduta del 15 dicembre 1887 e DP, II, Camera dei deputati, tornata del 20 maggio 1887), Crispi implicitamente elencava i compiti che ai rappresentanti diplomatico-consolari erano assegnati (cfr. F. Grassi, Il primo governo Crispi, cit., pp. 69-72).

 

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