E. SCIACCA, Il problema storico del pensiero politico moderno. La genesi della modernità, Palermo, Arnaldo Lombardi Editore, 2000, pp. 341.
Il recente lavoro di Enzo Sciacca costituisce un importante contributo per lo studio del pensiero politico moderno, il quale, partendo dal problema della duplice concezione dello Stato - naturalistica e contrattualistica -, propone una diversa definizione dell’uomo: animale politico che non potrebbe vivere senza la polis o unico elemento naturale che vede lo Stato come ente convenzionale, come fictio.
Il problema della concezione naturalistica dello Stato ha le sue fonti nel pensiero aristotelico secondo cui la polis è comunità autarchica e tale autosufficienza è condizione di sovranità "perché non ha bisogno di nessun altro" (p. 13). Secondo Sciacca bisogna evitare di ritenere le due concezioni dello Stato come cronologicamente distinte poiché il pensiero politico moderno è profondamente intrecciato nelle due interpretazioni dell’idea di Stato.
Un carattere fondamentale del pensiero politico moderno è il considerare la politica come scienza, e anche tale peculiarità ha le sue radici nel pensiero greco e, precisamente, in Aristotele, il primo a indicare "la necessità di indagine sulle regole della legislazione" attribuendo alla scienza politica la ricerca delle "cause della conservazione e della rovina della polis" (p. 17) in base al diverso tipo di governo. Sciacca coglie, nella concezione aristotelica della politica come scienza, l’interessante teoria della deliberazione, della phrónesis, della "prudenza": "La politica della deliberazione - scrive l’autore - è una scienza che [...] si può trasmettere" (p. 17) . La phrònesis appartiene al mondo dell’opinione e rappresenta la prevalenza di un’opinione sulle altre. In tal senso la politica può essere trasmessa "se il suo ambito riguarda le opinioni e la loro varietà e variabilità" (p. 18). Tale aspetto risulta rilevante perché da qui venne fuori la precettistica politica che ebbe il suo maggior sviluppo alla fine del XV secolo.
L’autore dimostra, pertanto, come la cultura filosofico-politica, all’inizio dell’età moderna appaia contesa tra due correnti di pensiero: da una parte l’aristotelismo, dall’altra il platonismo. Il primo "rappresenta [...] il retaggio del passato antico e medievale" che discende dalla scolastica e da San Tommaso; e da cui deriverebbe la concezione dello Stato sovrano nazionale. Il secondo avrebbe indicato le novità del pensiero moderno: utopismo, razionalismo, evangelismo politico. Analizzando il pensiero politico dell’assolutismo monarchico Sciacca osserva come, in realtà, il sovrano assoluto fosse vincolato alle leggi fondamentali, alla consuetudine. La sovranità assoluta si poneva in opposizione alla sovranità relativa del pensiero medievale. E anche tale definizione discendeva da Artistotele poiché lo Stato nazione "assoluto è perché è" (p. 30); cioè è tale per la sua autarchia. L’autore passa in rassegna i pensatori assolutisti da Claude de Seyssel - secondo cui lo Stato è "corpo mistico" e la monarchia ha i suoi "freni’ nella religione, nella giustizia e nelle leggi fondamentali - a Jean Bodin, per il quale il governo giusto è quello "bene ordinato" e il potere sovrano coincide con la potestà legislativa che trova un limite nelle leggi naturali stabilite da Dio. E proprio ne Les six livres de la République Sciacca individua, nella classificazione delle forme di governo, un criterio di discriminazione che appare nel regime di proprietà piuttosto che nella base sociale del consenso o partecipazione al governo (p. 41).
Con Bodin siamo in pieno sedicesimo secolo, il secolo della crisi, della Riforma protestante; il tempo in cui si assiste alla fine della concezione dell’impero universale, della Res publica Christiana dell’età carolingia. Ma il maggiore scrittore politico del XVI secolo resta, comunque, Niccolò Machiavelli, del quale Sciacca coglie i richiami ai pensatori greci ma anche agli scritti di Egidio Romano, Francesco Patrizi, Erasmo e More. L’autore ritiene che nel principato civile starebbe "l’ideologia" che sostiene l’impalcatura teorica del Principe (p. 53), poiché il principe civile è colui che è giunto al potere non per il favore del popolo, ma per la simpatia e il sostegno conquistati attraverso altre vie. Il più interessante contributo del Segretario fiorentino alla riflessione politica moderna è l’avere individuato le regole della politica che non sono dettate dalla morale o dalla religione. Nel sostenere che le repubbliche non si reggono con i "padrenostri", Machiavelli poneva la distinzione tra profeti armati e disarmati, aprendo la strada ai teorici della Ragion di Stato.
Se, come abbiamo visto, dall’aristotelismo deriva l’assolutismo, dal platonismo derivano le riflessioni politiche dell’evangelismo di Erasmo e dell’utopismo di More. Il cancelliere inglese, criticando la proprietà privata, fondò la sua repubblica sull’eguaglianza economica, sforzandosi di creare un modello "perfetto" di Stato, una repubblica meritocratica. E tra gli altri rappresentanti dell’etica evangelica Sciacca ricorda il pensiero politico di Erasmo e di Guillaume Budé per il quale la scienza politica si esprime nell’educazione politica secondo "il precetto socratico-platonico" che la virtù è conoscenza (p. 80).
Dal protestantesimo, come moto religioso filosoficamente critico dei presupposti teoretici dell’aristotelismo, si assistette all’emergere del costituzionalismo dell’olandese Althusius, con il quale - specifica l’autore - si può considerare concluso il dibattito politico sullo Stato, communitas, venuto fuori dalla Riforma (p. 102). È il periodo della neoscolastica di Suarez, Mariana e Molina, i quali rappresentano la mediazione tra filosofia tomistica medievale e pensiero moderno (pp. 106-110).
La prima tappa del percorso della modernità si conclude con la teorizzazione dell’assolutismo di diritto divino: "l’assolutismo si presenta come una delle espressioni maggiormente significative della modernità nel pensiero politico, specialmente - scrive Sciacca - se consideriamo la sua definitiva sistemazione teorica, [...] con la proposizione di una concezione discendente della legittimazione dell’autorità politica attraverso lo strumento del "diritto divino" [...]: la teoria dell’onnipotenza legislativa del sovrano assoluto" (p. 114).
Tale fu l’assolutismo di Luigi XIV e quello teorizzato da Bossuet il cui scopo fu di tracciare una monarchia fondata sulla tradizione della religione cattolica. Qui è la giustizia a segnare il confine tra governo legittimo e arbitrario. E la monarchia assoluta, rispettando la proprietà privata e la libertà dei sudditi, è legittima e non arbitraria.
Nel dibattito sulla Controriforma si colloca la riflessione politica di Tommaso Campanella, la sua utopia, la res publica come organizzazione politica e sociale che si richiama alla monarchia assoluta (p. 124). L’autore passa poi a delineare il pensiero degli anti-assolutisti come J. Harringhton, o dei libertini come Gabriel Naudè, il cui "libertinismo erudito", muovendo "contro l’ortodossia controriformistica e contro l’assolutismo", si pose a difesa di un "ambito di ragionamento autoritario imposto sia dalla conoscenza fondata sulla tradizione che da qualsiasi controllo politico e sociale" (p. 133). Il contributo più rilevante del pensiero libertino alla definizione di modernità è dato dal concetto di politica come "rappresentazione" che vuole ricercare il meraviglioso e lo straordinario in sintonia con la cultura barocca.
Nella filosofia della modernità giusnaturalismo e contrattualismo diventano i presupposti teoretici per i quali Stato e società sono "creature" artificiali: "contrattualismo e giusnaturalismo sono a loro volta i principali punti di riferimento teoretici e di criteri ermeneutici dell’epistemologia politica della modernità" (pp. 141-142).
La rivoluzione cartesiana, nel campo della teoresi, trovò applicazione nella filosofia politica con Ugo Grozio e con la sua fondazione razionale del diritto di natura come norma della retta ragione. Ma il primo, autentico, teorico dello Stato moderno è Thomas Hobbes poiché: "nella sua filosofia - scrive l’autore - affondano le radici e traggono alimento tutti i caratteri fondamentali della concezione moderna dello Stato: dalla sovranità erga omnes, alla onnipotenza legislativa; dalla personalità alla rappresentatività" (p. 167). L’unica certezza del sistema hobbesiano è costituita dal diritto positivo dello Stato-persona artificiale onnipotente. Il suo giuspositivismo - osserva acutamente Sciacca - è fortemente saldato al suo giusnaturalismo, perché finisce "per negare se stesso, ma rappresenta certamente la condizione per la genesi e l’affermazione del diritto positivo" (p. 168).
L’altro grande rappresentante del pensiero politico inglese del XVII secolo è John Locke. L’autore, in particolare, si inserisce nel dibattito storiografico che giudica il problema della proprietà come uno degli aspetti lockiani più significativi e "qualificanti". La recente storiografia ha messo in evidenza come la filosofia politica di Locke sia riconducibile "alla tradizione storico-cristiana e alla moderna dottrina giusnaturalistica di tipo hobbesiano". In un senso Locke è il filosofo della libertà, nell’altro della "nuova mentalità borghese pre-capitalistica" (p. 185). Locke testimonierebbe così, con la sua filosofia, la crisi e la trasformazione delle concezioni giusnaturalistiche del XVII secolo. Ma sia in Hobbes che in Locke, è chiara la concezione della società come fictio rispetto all’unica realtà che è l’uomo.
Nel XVIII secolo il giusnaturalismo lascia insoluto il problema del rapporto tra individuo e Stato. Locke aveva cercato di risolverlo separando la sfera della "sovranità naturale dell’individuo" da quella della "sovranità costituzionale del governo civile" distinguendo i diritti naturali dalla legge positiva. Hobbes, al contrario, insiste "nella contemporanea affermazione di due principi non facilmente conciliabili: il potere assoluto dello Stato e quello altrettanto assoluto dell’individuo, il diritto positivo e il diritto naturale" (p. 189).
Il pensiero del Settecento cerca di superare il giusnaturalismo sin dalle sue fondamenta filosofiche e, con Montesquieu, sposta il concetto di natura dal piano normativo a quello metodologico; con Rousseau tenta di recuperare aspetti della filosofia politica antica giungendo alla teoria dello Stato etico e del totalitarismo democratico (pp. 191-192).
Montesquieu non contrappone il diritto naturale a quello positivo e rifiuta di considerare il diritto positivo umano come arbitrario poiché la legge positiva è espressione della ragione umana che governa tutti i popoli della terra. È questo che, secondo Sciacca, differenzia Montesquieu dai suoi contemporanei distinguendolo anche, per aver capovolto il rapporto libertà/potere del popolo e per avere affermato che le repubbliche (aristocrazia e democrazia) - al contrario dei governi moderati - non sono Stati liberi per loro natura.
Costituzione e costituzionalismo, con Montesquieu, assumono un contenuto semantico vicino a quello giunto sino a noi; un significato normativo nel senso politico che nasce dalla "riflessione sulla costituzione inglese e sulla sua interpretazione come un ordinamento tendente alla libertà individuale" (p. 220).
L’altro pensatore del Settecento che supera il giusnaturalismo è Rousseau; egli ripropone alcuni aspetti della concezione organicistica dello Stato e della società, ma anticipa anche alcuni temi del XIX secolo propri del Romanticismo politico e filosofico. Lo studio attento del pensiero di Rousseau conduce Sciacca a concludere che egli fu un filosofo "complesso e contraddittorio [...] in una ansiosa ricerca di una coerente sistemazione teoretica" (p. 250) che riassunse le contraddizioni e le incertezze di un’epoca di transizione.
Dopo Rousseau, Sciacca traccia il pensiero politico dell’Illuminismo soffermandosi ora su quello inglese di Hume, ora su quello tedesco di Lessing, sul francese Voltaire e sugli Enciclopedisti. L’autore analizza la complessa posizione di G. B. Vico il quale rifiuta i principi metodologici e filosofici dell’Illuminismo che, invece, vengono accettati dagli illuministi italiani del Nord (Pietro e Alessandro Verri, Beccari, Carli), e dai meridionali (Genovesi, Galliani e Filangieri).
Il volume si chiude con la trattazione delle due grandi rivoluzioni del XVIII secolo: quella americana e quella francese. L’autore studia il vivace dibattito politico espresso negli articoli del Federalist e l’American Political Mind del quale Thomas Jefferson appare uno dei più significativi esponenti; e nell’esperienza francese sottolinea il ruolo di Emmanuel Joseph Sieyés le cui idee fondamentali (sovranità della Nazione e concezione della rappresentanza politica) vengono considerate i "consequenziali sviluppi della teoria lockiana dei diritti dell’individuo" (p. 311). E dal pensiero rivoluzionario giacobino di Robespierre e Saint-Just Sciacca giunge ad esaminare i controrivoluzionari Maistre e Bonald le cui riflessioni rappresentarono un momento significativo della crisi della modernità. Da lì sarebbe sorto il pensiero politico del XIX secolo a cui spettava il compito di mediare i rapporti tra rivoluzione e legittimismo, tra libertà individuale e autorità dello Stato.
Il volume di Enzo Sciacca, con le sue intense e profonde considerazioni, rappresenta un valido strumento per coloro che desiderano affrontare il problema storico del pensiero politico moderno e seguire l’attuale dibattito storiografico sulla genesi della modernità, che, come ha dimostrato l’autore, non può prescindere dallo studio attento del pensiero politico classico e, in particolare, dal platonismo e dall’aristotelismo.
Claudia Giurintano
G. CONTI ODORISIO, Una famiglia nella Storia. I Conti di San Marco Argentano (1849-1980), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, pp. 145.
Ginevra Conti, in Odorisio, utilizzando lettere, diari, atti notarili, testamenti e sentenze ritrovate alla rinfusa nella casa paterna, ripercorre - con il distacco e la scientificità propri dello storico - la storia della sua famiglia dal 1849 al 1980 anno della morte del padre.
La Conti dichiara che la vita di suo padre Emanuele Conti può "essere compresa solo se considerata nell’insieme della storia della sua famiglia e di quella del mezzogiorno, nel complesso intreccio tra storia pubblica e storia privata" (p. 9).
Il primo capitolo si apre con la storia dei bisnonni Raffaele e Carolina. Don Raffale era un avvocato, sindaco di Cosenza, insignito della Croce di Cavaliere della corona e con i fratelli - tutti medici, giudici e farmacisti - incarnava lo stereotipo della borghesia liberale che, con il suo attaccamento alla proprietà terriera, esprimeva la propria simpatia e tendenza verso l’aristocrazia. Dal matrimonio di Raffaele e Carolina nacque Antonio Alessandro Emmanuele: il nonno dell’autrice.
La Conti descrive il desiderio del nonno di contribuire a migliorare le condizioni di vita del paese inserendo la sua proprietà di San Marco - a 50 Km da Cosenza - nel processo di sviluppo industriale italiano: egli migliorò le condizioni igieniche del paese; introdusse la costruzione di oggetti di ceramica; da tesoriere ed esattore fu animato da spirito caritatevole e da solidarietà sociale. Sposato con la baronessa Carolina Valentoni, dopo la prematura morte di questa, prese in moglie Ginevra La Regina, rappresentante di una della famiglie più ricche del paese.
Da questo matrimonio nacquero Maria e Raffaele Emanuele, padre della Conti. Antonio A. Emauele morì due mesi dopo la nascita del figlio. E donna Ginevra, rimasta sola con i due figli, si dedicò anima e corpo alla loro educazione.
La Conti ricostruisce queste vicende avvalendosi anche di fonti orali, ricordi paterni; ella descrive il salotto dei La Regina, le lunghe conversazioni sulla politica e i commenti alle notizie pubblicate sui giornali del tempo.
Il giovane Emanuele, crescendo, si mostrava ribelle e ostinato tanto che donna Ginevra vestì il figlio con abiti da bambina fino a sei anni "sperando che questi modificassero certe intemperanze" (p. 26). Ma tale mezzo non fu sufficiente; Emanuele fu messo in collegio e furono anni difficili e senza distrazioni. Il primo anno venne bocciato, ma riuscì brillantemente a superare tali difficoltà tanto da maturarsi con il massimo dei voti in tutte le materie tranne che in matematica. La sua "orgogliosa caparbietà" lo spinse ad iscriversi in una Facoltà poco adatta alle sue inclinazioni: ingegneria al Politecnico di Torino.
Per seguire la storia del padre, durante gli anni universitari e della Grande Guerra, Ginevra Conti fa ricorso alle lettere della nonna che contengono "notizie, ammonizioni, prescrizioni, insegnamenti" (p. 29). Furono anni di vita durissima e di grandi sacrifici. Donna Ginevra e sua figlia fecero di tutto per amministrare i propri fondi, privandosi di ogni cosa pur di mantenere Emanuele all’università e continuando a vivere nella casa "incatenata" dopo i danni del terremoto del giugno 1913.
A Torino Emanuele si trovò senza le restrizioni del collegio "divorava Papini, che aveva redatto il programma nazionalista" (p. 37), e fu tra i fondatori del Gruppo Giovanile Nazionalista. Nella città piemontese fece amicizia con Vittorio Ambrosini, fratello del costituzionalista Gaspare. Scoppiata la guerra, Emanuele decise di partire volontario e a donna Ginevra sembrò "che quel figlio così ribelle e testardo facesse ogni cosa per contrariarla" (p. 38). La guerra appariva ad Emanuele Conti "una necessità ineluttabile, ma [...] anche un’occasione di catarsi, un metodo di rieducazione morale e di riabilitazione personale" (p. 38). Morta Pia, la sorella di donna Ginevra, lo zio vedovo prese in sposa la nipote, sorella di Emanuele. Si trattò - osserva la Conti - quasi di una "transazione commerciale"; e Ginevra "con spietata, inconscia freddezza", accettò quel matrimonio dal quale sarebbero venuti solo disgrazie e dolori.
Emanuele Conti, frattanto, nel 1916, partito come sottotenente, combatteva la sua guerra "non solo contro gli austriaci, ma anche contro i regolamenti dell’esercito" (p. 42). Nel 1917 ricevette una medaglia al valor militare ma l’anno successivo, la Commissione Militare pretese da lui la somma di £165, 95 per avere fatto viaggiare a spese dello Stato un suo attendente: "La grande guerra per mio padre - scrive l’autrice - si concluse così con una medaglia di bronzo [...] e una multa" (p. 43).
Finita la guerra, egli ottenne finalmente quella laurea che "non gli servirà mai a nulla". Per lui, da sempre ostile al comunismo, trovò naturale avvicinarsi al Partito nazionale fascista che, più di altri, combatteva comunismo e bolscevismo. Egli partecipò alla marcia su Roma e alla fine degli anni ‘20 collaborò al periodico "La conquista dello Stato" diretto da Curzio Malaparte. Ma, iniziato il periodo della conquista del potere, "nel momento in cui molti cominciavano per opportunismo, ad entrare nel partito [...] che si sarebbe trasformato in regime, mio padre - scrive la Conti - cominciò invece ad allontanarsene" (p. 48).
Nel 1930 egli decise di andare a Parigi dove conobbe Daniel Halévy e Léon Blum. In Francia sposò Renée Raffin e con lei tornò in Calabria, in quel palazzo ormai decadente. La giovane francese comprese che "diventare moglie di un proprietario terriero del Sud non significava essere diventata ricca, ma aver cambiato genere di povertà" (p. 58): viveva in un palazzo, aveva dei servitori ma non aveva i soldi per fare un viaggio o acquistare un abito.
Il primo figlio, Fabrizio, nacque quando Emanuele fu nominato Podestà di San Marco. Il 30 ottobre 1935 partì volontario per l’Abissinia. Fu allora che egli decise di tenere un diario per la moglie, in un francese raffinato, evitando così di spedirle lettere che la censura avrebbe controllato. Questo diario costituisce la fonte principale per la ricostruzione delle vicende africane; un documento storico che la Conti giudica di "straordinario interesse".
In Africa molti soldati italiani si trovavano lì da oltre due anni, sottoposti a fatiche di ogni genere. E il 5 marzo 1937 una loro protesta costò al capitano Conti un processo e un "rimpatrio d’ufficio" perché, come comandante di batteria "non aveva spiegato sufficiente azione assistenziale e opera di persuasione tra i militari dipendenti" (96). Per le troppe emozioni e stanchezze si ammalò con febbre forte e il 22 giugno, su una nave ospedale, lasciò l’Asmara per raggiungere Napoli.
Un anno dopo nasceva la Conti. Il 3 settembre Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. Per Renée inizia un periodo di disperazione per la paura di non potersi recare liberamente dai suoi genitori. Non trovando un impiego come ingegnere Emanuele Conti decide di riavvicinarsi al partito fascista e nel 1940 viene promosso Ispettore federale. Nel 1941 sostenne "la necessità di completare le classi della scuola di avviamento professionale a San Marco" (p. 107). E nel febbraio 1942 fu richiamato alle armi e destinato a Napoli dove si trasferì tutta la famiglia.
La Conti descrive gli orrori della guerra e i contrasti, le contraddizioni dei nobili Matarazzo nella cui depandance Emanuele e la sua famiglia vivevano: la incredibile frugalità del pasto che veniva servita con posate d’argento, bicchieri di cristallo ed eleganti piatti. Le stesse conversazioni, spesso brillanti, venivano condotte in una atmosfera di grande precarietà. Ma la guerra non fece dimenticare ad Emanuele Conti il suo conflitto personale con il Ministero e, grazie ai suoi esposti, il rimpatrio di autorità fu corretto in "ordinario" ottenendo la promozione a maggiore.
Il mito della superiorità bellica dell’Italia si sgretolava ogni giorno di più; le sirene suonavano per annunciare i bombardamenti e le notti dell’autrice cominciarono a diventare movimentate costretta - appena bambina - ad abbandonare il proprio letto per correre nei rifugi.
L’8 settembre 1943: l’armistizio. Emanuele Conti annota sul suo diario le manifestazioni di esultanza ma anche "lo sgomento e la disillusione di molti ufficiali di fronte alle falsità del regime fascista e alla rivelazione delle scandalose ricchezze accumulate dai gerarchi" (p. 116).
Il 16 settembre l’autorità tedesca di occupazione ordina a tutti i militari di presentarsi al comando tedesco più vicino "Conti non ebbe alcuna esitazione"; tale ordine era contro il suo sentimento e il suo dovere di soldato. Il 1° ottobre 1943 entrarono gli americani; il 22 novembre egli depose definitivamente la divisa: "questa volta il rientro a San Marco era definitivo: la patria non aveva più bisogno di lui" (p. 123). Il rientro durò solo un anno poiché la morte della moglie lo spinse a trasferirsi a Roma. Qui la loro vita "assunse i contorni di una esistenza militare"; ogni distrazione era loro bandita, il guardaroba ridotto al necessario. E se per Proudhon la proprietà era un "furto", l’autrice amaramente afferma che per la sua famiglia fu piuttosto una "sventura".
Suo padre, capace di tanto eroismo, con il suo carattere "aristocratico" per il forte senso dell’onore, per le qualità morali, per la vasta cultura, non fu capace, ella scrive, della "lunga pazienza" necessaria per quelle cose che richiedono tenacia a costanza.
Il pregevole libro di Ginevra Conti procedendo con il preciso e minuzioso parallelismo tra storia familiare (privata) e storia italiana (pubblica) dimostra, "bodinianamente", come la famiglia sia il prius rispetto allo Stato, la cellula della società che si innesta nella comunità politica.
Claudia Giurintano
AA.VV., Commemorazione storica del 31 ottobre 1998, Società e spiritualità in Sicilia nel Cinque e Seicento, Atti della Commemorazione e del Convegno storico celebrato nel IV Centenario della nascita di San Giacinto Giordano Ansalone (1598-1998), a cura di Giovanni Capodici, S. Stefano Quisquina, Grafiche Geraci, 2001, pp. 155 e appendice documentaria.
Per il quarto centenario della nascita di San Giacinto Giordano Ansalone (1598-1634), la diocesi di Agrigento indisse l’Anno Giordaniano (1998-1999) e un Comitato organizzò un intenso programma di attività con commemorazioni, convegno con pubblicazione degli atti e annullo postale, per ricordare il domenicano, missionario nelle Filippine e in Giappone, martirizzato a Nagasaki e canonizzato a Roma il 17 ottobre 1987.
Giordano, al secolo Giacinto, nato a Santo Stefano Quisquina, aveva portato avanti la sua missione nelle Filippine con grande determinazione poiché, amava dire, se il fiume Giordano "poté tornare indietro, io Giordano no, non torno indietro" (p. 53). Espressione, questa, - Jordanus non est retrorsum - che fu anche il titolo di un interessante lavoro di Calogero Messina, docente di Storia moderna nell’Ateneo palermitano, edito nel 1998 e recensito nel n. 3 (aprile 1998) della nostra rivista.
Un volume, di recente pubblicazione, ricorda le manifestazioni dell’Anno Giordaniano raccogliendo gli interventi alla Commemorazione (31/10/1998); al Convegno (30/10/1999) e, in un’appendice documentaria, presenta, tra gli altri, le recensioni al libro di Messina e gli articoli apparsi su "L’Osservatore Romano", "L’Avvenire", "Famiglia Cristiana", "La Sicilia", "Mediterraneo" e altre testate.
La prima parte, la Commemorazione, si apre con il contributo di P. Vincenzo Romano - già provinciale dei Domenicani - il quale interpreta il sacrificio di Giordano come un messaggio, un nuovo tentativo di riscrivere il Vangelo, valido per tutti i tempi e più che mai per i nostri. E Calogero Messina, nel suo saggio, pone l’attenzione su un’altra illustre figura di Santo Stefano Quisquina: Fra’ Vincenzo Traina, vissuto nel XVI secolo e morto in odor di santità.
I lavori del Seminario di Studi su Società e spiritualità in Sicilia nel Cinque e Seicento, introdotti dal Vescovo di Agrigento, mons. Carmelo Ferraro, e dall’arciprete di Santo Stefano Quisquina, mons. Antonino Massaro - si aprono con la relazione del ricercatore Fabrizio D’Avenia sulla storia della Sicilia nei secoli XVI e XVII. Si trattò di un periodo travagliato e doloroso per le classi più deboli della società isolana che vide nella rivolta del 1647 uno dei "segnali più drammatici". Ma, nonostante tali sofferenze, la Sicilia riuscì a far emergere le proprie risorse spirituali concretizzate nelle "manifestazioni di fede, di devozione che presero vita nonostante la precarietà del vivere quotidiano e come risposta, umanissima, a questo disagio" (p. 91).
Mons. Domenico De Gregorio, presidente del Capitolo della Cattedrale di Agrigento, tracciando la storia della Chiesa agrigentina ai tempi di San Giacinto Giordano Ansalone indica le confraternite di Santo Stefano e le iniziative e opere dei vescovi più importanti del tempo: da Giuliano Cybo a Diego Haedo, da Francesco Traina a Francesco Maria Rini.
Calogero Messina ricostruisce la vita e l’opera di Fra’ Vincenzo Traina ripercorrendo la storia della cittadina nel XVI secolo e utilizzando, tra l’altro, i manoscritti da lui ritrovati dei miracoli e delle deposizioni degli stessi miracolati.
Il profilo spirituale di San Giordano è stato studiato da P. Vincenzo Romano, secondo cui il Santo fu modello di vera carità cristiana che non è solidarietà vuota, nè semplice beneficenza. Quella di Giordano fu una spiritualità incentrata "sulla predicazione intesa sia come annuncio della parola che come testimonianza di vita attuata parlando con Dio e di Dio" (p. 135).
Giordano fu condannato a morte per avere predicato e insegnato la legge di Cristo in Giappone. Egli non volle smettere di essere "operatore evangelico" e continuò il suo impegno, non voltandosi mai indietro. E la sua "santa ostinazione" vuole essere monito che, dinanzi agli ostacoli, non ci si deve volgere indietro, ma bisogna andare avanti, osservando i propri doveri e seguendo i propri ideali.
Claudia Giurintano
A. PORTANOVA, Storia del movimento sindacale in Sicilia dal 1944 al 1969 - Palermo, Editrice L’Epos, 2001 pp.156.
Questo libro, la cui prefazione è stata curata dal sindacalista Sergio D’Antoni, vuole fare luce sul movimento sindacale siciliano, che dal secondo dopo-guerra ai nostri giorni ha espresso la volontà di riscatto di migliaia di contadini e operai, ai quali era stato negato il senso della dignità civica. Il sindacalismo siciliano ha ricoperto un ruolo importante nella storia nazionale, soprattutto col passaggio dalle occupazioni delle terre contro il latifondo alle rivendicazioni dei diritti sindacali e al processo di sviluppo industriale, motore per l’unificazione economica e sociale con il resto del Paese. Il movimento raggiunse gloriose conquiste, ma fu segnato anche da drammatiche vicende che videro colpiti suoi esponenti, i quali in una solitaria ed eroica battaglia accompagnata da un massiccio consenso popolare e da una trasparente condotta morale, avevano toccato i perversi interessi politico-mafiosi. L’autore apre la trattazione ripercorrendo quella intensa fase di contatti fra esponenti sindacali di diversa matrice culturale, che nel 1943 crearono le condizioni per la sottoscrizione delle Patto di Roma. L’accordo, sottoscritto nel giugno 1944, fu il frutto del superamento di contrapposte ideologie, una socialista e l’altra democristiana, e realizzava l’unità sindacale attraverso la costituzione della Confederazione generale italiana del lavoro, che si ispirò a principi quali: un’ampia democrazia interna, garanzie per la rappresentanza delle minoranze e partecipazione di tutti allo sviluppo del Paese. Nel contesto del sindacato nazionale ben diverse erano le condizioni dei lavoratori del Mezzogiorno rispetto alla forza lavoro che operava nel centro-nord. Nel Meridione, infatti, il crollo vorticoso della produzione e la disgregazione dei rapporti che si erano creati fra i proprietari del latifondo, gli affittuari e i piccoli proprietari terrieri, determinarono l’impoverimento di questi ultimi a vantaggio della rendita parassitaria e della proprietà speculativa. In quegli anni alle dure condizioni dei lavoratori dei campi faceva seguito una altrettanto dura realtà del lavoro operaio, compresso dallo sfruttamento nelle fabbriche e soffocato da una politica di bassi salari. Ma, tra il 1944 e il 1947, con l’applicazione dei decreti Gullo e la organizzazione di classe nelle campagne, assistiamo finalmente allo sviluppo del movimento contadino, finalizzato al progresso economico e sociale dell’isola. Tra le cause che segnarono la svolta è importante anche segnalare la promulgazione dello Statuto regionale nel maggio 1946 e l’affermazione elettorale del 20 aprile 1947 da parte dei socialisti e comunisti uniti nelle liste del Blocco del Popolo. I successi politici enunciati furono accompagnati dalle lotte del movimento contadino impegnato a contrastare da un lato la repressione dello Stato e dall’altro la violenta reazione della mafia e del banditismo, che erano garanti del sistema di potere del blocco agrario. Brevi tempore, però, le conquiste sindacali furono messe a dura prova dalla strage di Portella della Ginestra ad opera della banda Giuliano e soprattutto dalla sconfitta elettorale delle sinistre del 18 aprile 1948. Tra il 1944 e il 1945, prima con il Congresso di Caltanissetta, al quale parteciparono le Camere del lavoro dell’isola, e poi con il Congresso delle organizzazioni CGIL dell’Italia liberata, svoltosi a Napoli, fu posta al centro dell’impegno sindacale la questione della terra: bisognava, infatti, risolvere il problema del latifondo, che ostacolava il processo di evoluzione delle masse lavoratrici siciliane e frenava la democratizzazione della vita dell’isola. A questo cammino si opponevano la polizia scelbiana, la mafia e i padroni delle terre, che non riuscirono, però, ad isolare il sindacato, il quale nel contempo si arricchiva del contributo di nuove forze, noncuranti delle denunzie, degli arresti, dei processi. Solo a partire dagli anni 50, sotto la spinta di lotte che coinvolgeranno contadini, minatori, operai, si realizzeranno nelle varie province dell’isola importanti risultati economici e sociali. È necessario sottolineare, tuttavia, che questi obiettivi furono raggiunti anche attraverso quel concreto contributo che il Partito Comunista seppe dare al movimento contadino siciliano. L’autore a questo punto della trattazione si sofferma sulla Legge per la Riforma agraria e sullo scontro tra le organizzazioni contadine e la mafia: il dibattito sulla Legge, infatti, da un lato accese aspri contrasti tra la sinistra e il blocco di centro-destra, dall’altro provocò la violenta reazione della mafia che colpì le figure più rappresentative del sindacato. La mafia, che aveva interessi economici nelle campagne, costituì uno strumento delle forze politiche reazionarie per frenare la lotta di classe, ponendosi come "guardia di base", nei confronti del potere politico costituito. Tra i delitti di stampo mafioso che suscitarono maggiore sdegno in quegli anni ricordiamo l’uccisione di Accursio Miraglia, segretario della Camera del Lavoro di Sciacca. Questo omicidio, che provocò una reazione senza precedenti, secondo l’autore, aiuta a capire come molti processi di mafia siano stati caratterizzati da un insabbiamento giudiziario, che attraverso il proscioglimento in fase istruttoria non consentiva di entrare nel merito delle indagini. Le reazioni al delitto Miraglia non si limitarono ad azioni di protesta, ma risvegliarono la coscienza morale e civile dei siciliani, creando le basi per una più vasta lotta popolare, e così, subito dopo il 4 giugno 1947, tra le cose più significative vi fu la costituzione della Federterra Regionale, centro propulsore del movimento di lotta nelle campagne. Non molto tempo dopo, e precisamente nel 1948, sarà la volta di Placido Rizzotto, sindacalista corleonese, a cadere sotto i colpi della mafia. Le indagini, guidate dall’allora capitano dei carabinieri di Corleone Carlo Alberto Dalla Chiesa, condussero all’arresto dei responsabili, ma la Corte di Assise di Palermo li assolse per insufficienza di prove. Pertanto, confermata la sentenza dalla Corte di Assise di Appello e respinto il ricorso in Cassazione, si concludeva impunemente un’altra tragica vicenda. Con l’omicidio Rizzotto un duro colpo venne inferto al movimento contadino, che nella vicina campagna elettorale fu condizionato da un clima di paura e di intimidazione; i risultati del 18 aprile 1948, che segnarono la vittoria della destra, ne furono testimonianza. L’autore nella seconda parte del libro si sofferma sul ruolo che ebbe il sindacato siciliano dagli anni 50 alla fine degli anni 60 e, partendo dalle elezioni regionali del 1951, che videro opporsi i due schieramenti politici, quello della D.C. e quello del Blocco del Popolo, tratta dello scontro sociale ed economico su temi quali la Riforma agraria, la riorganizzazione dell’industria zolfiera e, in senso più vasto, l’industrializzazione dell’isola. La Sicilia in quegli anni si presentava ricca di risorse: venne rinvenuto il petrolio e nascevano l’Ente siciliano di elettricità e la SOFIS, e sotto la spinta del sindacato veniva istituita la Cassa del Mezzogiorno, che aveva l’obiettivo di realizzare opere pubbliche e creare le condizioni finanziarie per lo sviluppo industriale del Sud. Presto, però, una politica assistenziale, fondata sul richiamo di capitali di investimento, e non su una programmazione come chiedeva il sindacato, determinò il fallimento della politica regionale. Intanto a Roma veniva eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e in Sicilia a Franco Restivo succedeva Giuseppe Alessi, che, rifacendosi al messaggio di Gronchi, accolse le richieste del sindacato con l’elaborazione di un piano regionale di sviluppo economico. Il governo Alessi, appoggiato da un lato dalla Sicindustria e dall’altro da CGIL, CISL, UIL, prometteva un impegno sui temi della riforma agraria e dell’industrializzazione, ma la reazione degli agrari condusse ad un ribaltamento politico con il governo presieduto da Giuseppe La Loggia. Era quello un clima di forti e contrastanti interessi politici e sociali che sfocerà nella vicenda Milazzo, il quale, proponendosi di realizzare l’autonomia economica e istituzionale della Regione, alimentò nel sindacato illusioni e aspettative, destinate a cadere con le elezioni del 7 giugno 1959. Negli anni 60 le manifestazioni di protesta nelle varie città d’Italia saranno represse da vere e proprie aggressioni della polizia e da Palermo a Reggio Emilia, in una sorta di Far West, cadranno numerosi lavoratori. Intanto in Sicilia si chiude definitivamente l’esperienza Milazzo e il nuovo governo, composto da democristiani, liberali, monarchici e missini, rispecchierà il governo democristiano presieduto da Fernando Tambroni. Nel contempo la strategia del movimento sindacale siciliano doveva formulare nuovi obiettivi, che mirassero all’occupazione, ai salari, al controllo del mercato: tutte tematiche nuove che il sindacato non sempre fu in grado di gestire. A Palermo una serie di atti di vandalismo colpirono i simboli del benessere e del progresso, dai quali i manifestanti si sentivano esclusi: vennero distrutti vetrine, aiuole, panchine, semafori. La protesta si configurò come un’insurrezione con caratteri di ribellismo che spinsero la segreteria nazionale e quella regionale della CGIL ad una più attenta riflessione sui problemi della Sicilia. Venne, pertanto, approvato un documento politico che, rivendicando un piano di sviluppo e un sostegno nazionale della CGIL a fianco del popolo siciliano, sollecitava l’attenzione dello Stato e della Regione sui problemi dell’isola. Alla fine degli anni 60 così il movimento sindacale italiano e quello regionale, che comprendeva CGIL, CISL e UIL, cogliendo i fermenti che pervenivano da tutta l’Europa, si pose in forma unitaria come soggetto politico e cominciò ad affrontare i nuovi temi della società: la casa, la scuola, la sanità, il fisco. Il 1968 fu per la Sicilia un anno di intense lotte che trovarono motivazione nelle scelte che il sindacato nazionale seppe fare e che si arricchirono di importanti temi locali, quali l’occupazione e il collocamento della manodopera. L’autore, che completa la trattazione con una raccolta di testimonianze e interviste, nonostante abbia descritto il succedersi degli eventi in forma un po’ frammentaria, ha certamente il merito di essersi cimentato su un terreno, il sindacato siciliano, troppo poco esplorato dagli studiosi contemporanei.
Sergio Figlioli
GUIDO virzì, Le ragioni forti della Destra - ISSPE, Palermo, 2001, pp. 160.
Raccolta di saggi di Guido Virzì che risalgono ad un intenso periodo - tra l’aprile del 1985 ed il dicembre 1988 - quando l’edificio della I Repubblica inizia a scricchiolare e si snoda la vicenda di un periodico palermitano da lui diretto, "Occidente", con richiamo, appunto, alla grande tradizione storica e culturale europea. "Occidente", preciso riferimento in termini di ‘valori’ eterni con profondissime radici nella nostra storia e nel nostro odierno modo di "sentire" la realtà.
Quello che colpisce subito il lettore sono la dignità ed il coraggio con cui Guido Virzì rivendica un ruolo ed una funzione significativa ad un mondo politico ed umano vissuto nell’emarginazione, alla quale era stato spietatamente assegnato da una classe politica arrogante, faziosa ed insofferente dell’ansia di rinnovamento e della crescita sociale e culturale della nuova Italia e della moderna Sicilia.
In verità il processo di "sdoganamento" è appena avviato, anche se molto timidamente e inframmezzato dalla solita logica delle intramontabili "trame nere" di regime.
E Guido Virzì, in nome di una "riscoperta" del valore Nazione e per una giusta e corretta "integrazione", affronta un necessario discorso su chi sul finire dell’ultima parte della seconda guerra mondiale, sfidando "il vento della storia", lottò sull’altro versante.
Una coraggiosa valutazione ed una precisa puntualizzazione sul nostro passato prossimo, ritornato di notevole attualità non solo con il progredire della storiografia nuova e di quella revisionistica, ma anche con le recenti iniziative sull’adozione dei libri di testo scolastici, di storia particolarmente.
Dalle note emerge anche un "sicilianismo", che può e deve diventare positivo e valido se supportato da istanze politiche concrete ed efficaci ché la comunità isolana, è tanto lontana ed avulsa da Palazzo dei Normanni, che si rivela, appunto, "luogo geometrico d’incontro della più viva protesta, della più ampia e motivata sfiducia di un popolo siciliano oggettivamente ghettizzato e penalizzato nel panorama politico e sociale della Nazione".
Un distacco, sempre più marcato, del "paese reale" dal "paese legale", rappresentato quest’ultimo, invero, da una classe politica impreparata ed imprigionata da bizantinismi, tatticismi e la cui azione è fondata sullo spettacolo mortificante e politicamente scorretto ed estremamente riduttivo delle clientele e dei giochi di governo e sottogoverno.
Emergono, negli scritti, anche indicazioni di fondo che conservano, a distanza di anni, un valore immutato e pregnante: la preminenza della cultura e della politica, o se si preferisce della cultura politica sull’economia, dell’essere sull’avere.
E la necessità di valori - guida, di solidi punti di riferimento culturali ed esistenziali: dal "siciliano di Cinisi" Julius Evola che, giustamente a detta di Virzì, "strappandoci alla nostra solitudine ed ai nostri complessi di colpa e/o di inferiorità e tentando di restituirci tutto il nostro Passato, ci ha ridato il gusto del presente e delle sue lotte e, soprattutto, la voglia ed il coraggio di affrontare le prospettive, quali che siano, del Futuro"; a Ernst Junger "guerriero primordiale in lotta contro ogni forma di decadenza borghese dell’Occidente", uno dei più lucidi testimoni del dramma epocale dell’Occidente moderno; a Konrad Lorenz, il quale di fronte "all’evidente nevrosi dell’uomo moderno non esita a denunziare la "perdita dell’individualità", il "livellamento", l’ "alienazione" della natura che provoca la scomparsa dell’attitudine ad avere rispetto di qualche cosa, la competizione economica che, in omaggio al principio utilitaristico, considera il mezzo come fine a se stesso e fa dimenticare l’obiettivo originale e non da ultimo il generale appiattimento dei sentimenti".
E poi la memoria. Le origini del MSI con lo splendido apporto culturale, attivistico, organizzativo di siciliani come Nino Di Forti, Dino Grammatico, Nino Macaluso, Ferdinando Aronica, Patriarca, Quattrocchi, Pino Seminara, Enzo Gentile, Gregorio Guarnaccia, Angelo Nicosia, Agostino Di Stefano - Genova, tra i primi splendidi attivisti e dirigenti di partito, ma soprattutto Alfredo Cucco "un Gigante, un protagonista, un Simbolo. Un simbolo di tenacia, di continuità, di tempra, di fedeltà e di coraggio. Un punto di riferimento, specie in termini di tenuta morale, in un’Italia andata a pezzi e smarrita".
Tra le righe di Guido Virzì fa capolino anche la questione ambientale affrontata, non solo con riferimento al contingente, al drammaticamente contingente, come nel caso degli "incendi estivi" che in Sicilia, già nel 1988, raggiungono livelli oggettivamente preoccupanti, ma anche a quello della vivibilità, di piogge e nevi acide, al gravissimo e preoccupante inquinamento marino, alla progressiva riduzione dello strato d’ozono dell’atmosfera terrestre o dell’aria irrespirabile di vaste e numerose regioni industrializzate.
Umberto Balistreri
Castrense Civello. Una vita per la poesia - a cura di Antonino Russo e Umberto Balistreri - ISSPE, Palermo, 2001, pp. 72.
La rivalutazione dell’opera di Castrense Civello, a partire da quella futurista, ha avuto inizio nel 1983 con la pubblicazione sulla rivista internazionale di letteratura "Berenice" di un ampio servizio di Antonino Russo dal titolo "L’aeropoeta futurista Castrense Civello" che comprendeva poesie e immagini inedite.
La consacrazione definitiva si è avuta poi con la pubblicazione di libri dello stesso Russo "Lettere di futuristi a Civello" nel 1987; "Poesie futuriste inedite di Civello" nel 1992; "Castrense Civello: l’uomo e il poeta" nel 1997; e nel corso del Convegno "Il futurismo, la Sicilia", organizzato a Bagheria nel dicembre del 1996 da Umberto Balistreri.
La pubblicazione di inediti in questo libro aggiunge nuovi elementi utili alla conoscenza dell’opera di Civello: dimostra che il poeta, pur essendo stato investito dal ciclone futurista, non aveva mai gettato alle ortiche gli strumenti del poetare classico.
Si tratta di pochi pezzi che sono stati trovati tra le sue carte, ma l’impatto con l’intenso lirismo delle poesie di Civello è sempre di sicuro effetto. Esso si respira specialmente nei poemi di "Aria Madre" e de "Il pilota sconosciuto", e all’inizio della sua avventura aeropoetica gli aveva fatto sognare la gloria:
Ave gloria,
te saluto, trasvolante pei cieli
guarniti dal trionfo di nuvole d’oro,
nuvole, nuvole di rosa.
Ave!
Intenso lirismo, comunque, che era nella penna del Civello, sia dentro l’avventura futurista che fuori, ma che con l’aeropoesia aveva avuto modo di esaltarsi.
Castrense Civello è anche tenace difensore del territorio e dei suoi beni.
Ambientalista anti litteram, sin dagli anni Cinquanta dalle pagine del "Popolare" proponeva non solo la "difesa del verde" e la creazione di "parchi e giardini", ma anche il "rimboschimento di Catalfano e di Mongerbino", l’adozione di un preciso "piano regolatore" nel pieno rispetto della natura, la "coraggiosa protezione di tutti i monumenti antichi" con "relativo restauro", lo "studio dei più efficaci rimedi contro la caotica regolamentazione edilizia", un’ "azione protettiva contro chi deturpa il paesaggio". Poneva anche il problema di una continua "pulizia" e della lotta contro i "rumori".
Un preciso, puntuale, circostanziato decalogo. Non un’elencazione arida ed astrusa o peggio monotona e scialba, ma un "ampio panorama tematico illustrativo di esigere e di problemi nei vari settori dell’intensa vita cittadina".
Attenzione per i beni monumentali. tutti, su cui "vigilare... affinché non avvengano, come nel passato sono avvenute, delle arbitrarie ed incivili deturpazioni di opere d’arte che tornino a disdoro della città". Anche e soprattutto per la Certosa, di cui pubblichiamo una singolare sequenza fotografica che oggi - nella situazione di grave degrado della struttura che ha perso il suo parco - costituisce un monito ed una significativa testimonianza storica.
Creatore di quella Biblioteca Comunale di cui un nutrito gruppo di intellettuali ed operatori culturali ha recentemente chiesto l’intitolazione al poeta futurista, Civello si pose sempre il problema del suo incremento e del suo potenziamento. In una lettera, ad esempio, dell’aprile 1961, indirizzata al Commissario Prefettizio della Pia Opera Casa di Riposo "Perez-Raimondi" di Santa Flavia, con la quale chiede l’acquisizione al patrimonio della biblioteca bagherese del carteggio Perez, evidenzia che nell’ "archivio storico e letterario" della stessa - e grazie alla sua esclusiva feconda e febbrile attività - sono conservati lettere, testimonianze e autobiografiche, fra le altre, di Garibaldi, Crispi, Ruggero Settimo, Meli, Cesareo, D’Annunzio, Zola, Carducci e Pascoli.
Maurizio Scaglione
Nicola Previteri, Verso l’Unità. Gli ultimi sindaci borbonici di Bagheria.
Questo puntuale lavoro di indagine storica condotto quasi esclusivamente su documenti d’archivio, non è che la continuazione del precedente volume dedicato dall’autore al sindaco di Bagheria Pittalà, la cui parabola terrena si inseriva in un periodo storico di particolari turbolenze politiche e sociali, nel cui scenario la microstoria della città rispecchia la storia dell’intera Isola.
Il lavoro si apre là dove si era chiuso il volume precedente, all’alba cioè, del 3 luglio 1849, con una Bagheria sgomenta alla notizia dell’uccisione, peraltro inspiegabile, del suo giovane sindaco Gesualdo Pittalà, dopo il quale nessun’altra figura carismatica si affacciò all’orizzonte politico cittadino.
L’autore, pur analizzando con cura la vita politica e sociale della sua città dall’indomani del proditorio assassinio, fino al giorno del plebiscito che decretava l’annessione dell’Isola ala regno d’Italia, non perde assolutamente la necessaria visione di sintesi che permette al lettore di percepire gli elementi di continuità e di diversità che legano il passato al presente e la storia di una piccola città a quella che fu la storia di tutta la Sicilia nella prima metà dell’Ottocento.
Così dopo aver descritto con ricchezza di particolari il clima di panico che seguì il ferale avvenimento, l’accentuarsi delle norme di sicurezza, l’invio della forza pubblica, l’arresto di sospetti e pregiudicati, alla fine del suo lavoro, il Previteri, riesce a trovare il bandolo che unisce tutti gli assassinii eccellenti che all’epoca insanguinarono Bagheria. Si trattava di moventi politici e sociali insieme: audacia rivoluzionaria ma, nello stesso tempo desiderio di vendetta verso chi aveva ripristinato l’ordine all’indomani della rivoluzione del ‘48 a discapito dei ribaldi e dei profittatori.
L’opera del Previteri è anche un elogio più che dovuto all’abilità e alla professionalità di Salvatore Maniscalco, capo della polizia borbonica in Sicilia, per anni vituperato dalla storiografia antiborbonica che lo ha sempre considerato alla stregua di un servile aguzzino. Il Maniscalco, come l’autore ampiamente dimostra, si limitò ad esercitare il suo potere, usandolo nel miglior modo possibile per assicurare la stabilità del trono ai Borboni di cui non fu servo, ma fedele suddito.
Subito dopo il ‘48 si adoperò per riportare nell’Isola quella calma, rotta dagli eventi rivoluzionari che avevano messo in luce oltre ai patrioti e agli idealisti, anche i profittatori e i delinquenti comuni, felici di approfittare del trambusto generale per rifarsi una verginità e rigenerarsi nell’ambito del nuovo regime. Un esempio era dato da Giuseppe Scordato, divenuto dopo il ‘48 capitano d’armi, e dalla sua banda, che si erano messi in luce durante la rivoluzione, animati, più che da intenti politici, da vecchi rancori che nutrivano contro il regime borbonico, colpevole di avere messo al bando Giovanbattista Scordato e poi lo stesso Giuseppe per i fatti di sangue compiuti durante l’epidemia di colera. Nei confronti di Giuseppe Scordato, il Maniscalco, dando ancora una volta prova di acume, nutrì sempre diffidenza e ostilità e ne fece spesso oggetto di accesi rimproveri: "Io, quindi, debbo esternarle - gli scriveva - che resto poco contento di lei, epperò la esorto a destarsi e mettersi in buona attività" (p. 37).
Oltre ad inviare reparti dell’esercito nei centri che presentavano maggiori rischi di disordini, il Maniscalco favorì la creazione di compagnie di cosiddetti rondieri, reclutati fra volontari locali la cui paga gravava sul bilancio comunale e impose il deposito presso le casse comunali di ogni tipo di armi, pena la morte.
Ciò che caratterizzò la Bagheria di questo periodo fu senza dubbio la riottosità, da parte dei cittadini più illustri, ad assumere il timone della città o, comunque, anche la carica di Decurione. L’esperienza di don Gesualdo Pittalà che, dopo essersi indebitato per provvedere al benessere comune, aveva concluso la sua esistenza, ancor giovane, per mano assassina, scoraggiava anche i più volenterosi che, con le più svariate scuse, tendevano a schivare l’onere dato dalla gestione del potere.
Peraltro la situazione economica del Comune non era certo felice; la rivoluzione, con il trambusto derivatone, aveva determinato la soppressione di alcuni dazi. Le spese, invece, erano notevolmente cresciute per il pagamento degli stipendi dei rondieri, non certo per la gestione dell’educazione scolastica per la quale il comune, per mantenere due maestri, non sborsava più di trenta ducati annui, insufficienti per l’acquisto dell’acqua e per l’affitto di locali decorosi. È sorprendente constatare che lo stipendio medio che il comune pagava ad un maestro elementare era di trenta tarì al mese, mentre un bracciante ne guadagnava tre al giorno!
Il nuovo sindaco, il notaio Luigi Castronovo, cercando di rimpinguare le casse comunali, si scontrò con gli interessi personali degli stessi amministratori o di notabili locali. Tutto ciò rendeva timorosi i membri della commissione che avrebbe dovuto aggiornare il sistema daziario comunale a compiere il loro dovere nel timore di attirarsi l’odiosità dei contribuenti, "laddove tale odiosità andava interpretata come un probabile taglio di viti".
A Bagheria i galantuomini non presentavano nessun interesse per la politica e nessuna aspirazione ad un qualsiasi cambiamento, paghi com’erano del loro benessere economico e del ruolo sociale ricoperto. I fermenti rivoluzionari, invece, erano relativamente diffusi fra i piccoli borghesi o fra quelli tra i contadini che speravano che un cambiamento politico fosse anche foriero di un miglioramento economico.
Il 28 agosto 1850 veniva trovato in territorio di Bagheria il cadavere di un certo Francesco Buttitta. Si trattava di un delitto politico i cui mandanti furono immediatamente arrestati o si diedero alla macchia.
Gli inquirenti prestarono particolare attenzione all’accaduto in considerazione del fatto che nel gennaio precedente un tentativo rivoluzionario, di cui l’organizzatore era Nicolò Garzilli, era stato sventato a Palermo, tuttavia nonostante la loro tempestività e il loro impegno, gli imputati di sovversione furono tutti assolti dalla Gran Corte Criminale di Palermo il 13 gennaio 1851 con formula dubitativa, "attesocchè in diritto l’art. 125 leggi penali, è mestieri per ritenersi la cospirazione che si abbia indubitata la prova dei mezzi qualunque di agire essere stati concertati e conchiusi tra due o più persone, ciò che nella specie non è del tutto provato". Come garantismo mi pare che il regime borbonico non dovesse prendere lezioni da nessuno, tenuto conto che, trattandosi di un reato politico, commesso in un momento di instabilità, un regime autoritario avrebbe potuto comportarsi ben più severamente.
Il 3 agosto del 1852, per ordine del Maniscalco, veniva arrestato il capitano d’arme Giuseppe Scordato "per essersi reso indegno della fiducia di cui il Regio Governo lo aveva onorato, facendo vittima della propria ribalderia chi non intendea sobbarcare alle di lui esigenze(...). Una istruzione si è aperta dal magistrato e sarà forse agevole che si snodi ora la lingua a tanti testimoni che il terrore faceva tacere". La autorevole severità contro i prepotenti era forse un metodo più efficace di quelli che si usano oggi per sconfiggere l’omertà.
Nel giugno del ‘60, quando già Garibaldi aveva cacciato da Palermo i Borboni, iniziò per Bagheria una stagione di terrore di cui vittime furono i rondieri sopravvissuti ai disordini dell’aprile precedente e le loro sfortunate famiglie, divenute bersagli dello spirito di vendetta del ceto popolare. I tragici eventi smorzarono gli entusiasmi patriottici del momento e diffusero tra il ceto dei galantuomini i vecchi timori: "Cosa gli riservava l’avvenire?".
Gabriella Portalone
EUGENIO GUCCIONE, Politica e diritto tra fede e ragione. Problematiche del XIX e del XX secolo - G. Giappichelli Editore, Torino 2001.
In questo suo ultimo lavoro, Eugenio Guccione, ordinario di Storia delle Dottrine politiche presso il nostro Ateneo ed attento componente del Comitato scientifico della nostra Rassegna, si interroga su un problema vecchio quando il mondo, ma tuttora oggetto delle più profonde riflessioni di filosofi e teologi: il rapporto tra fede e ragione, questione mai risolta e differentemente affrontata dai credenti e dai non credenti. L’analisi di tale rapporto - sottolinea l’autore nella sua Premessa - appare particolarmente attuale oggi, alla luce delle questioni di bioetica che dividono il mondo della scienza da quello della teologia. In effetti, l’esperienza ci ha dimostrato nel corso dei secoli, che è impossibile razionalizzare ogni cosa e credere solo nel razionale, e Giovanni Paolo II nella sua recente enciclica Fides et Ratio, mettendo in evidenza i limiti del pensiero laico, ha paragonato fede e ragione alle due ali "con cui lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità" senza poter rinunziare a nessuna delle due.
I cinque pensatori analizzati in questo volume, Ventura, Buchez, Rosmini, Sturzo e Maritain, tutti cattolici, nell’enunciare la loro personale teoria sulla questione, si rifanno più o meno alla filosofia tomistica, in base alla quale esisterebbe un’armonia tra fede e ragione e, quantunque le verità della prima sarebbero indimostrabili, non per questo possono essere etichettate come antirazionali.
Gioacchino Ventura, teatino palermitano, educato in ambienti reazionari, dalla cui frequentazione aveva derivato un’impostazione politica assai lontana dal liberalismo, nel 1820, dopo la rivoluzione carbonara di Napoli, dove si era stabilito, affascinato dagli scritti di Lamennais, ne diventa un sincero ammiratore. A differenza del pensatore francese, tuttavia, il teatino cerca di conciliare la dottrina liberale con l’ossequio alle tradizioni, in una sintesi di semitradizionalismo che gli avrebbe permesso di rimanere nell’ambito della Chiesa di Roma. L’autore sottolinea che tale posizione di compromesso fu scelta dal Ventura, non per servilismo, ma per l’obbedienza che un sacerdote deve ai superiori.
Su tale base di sottomissione, Ventura cercherà di costruire il suo programma politico sulla conciliazione tra popolo, libertà e religione, sostenendo che sarebbero stati proprio gli strumenti di cui i rivoluzionari si servivano per nuocere alla Chiesa - libertà di stampa e di pensiero, separazione tra religione e Stato - a darle la libertà indispensabile alla sua missione universale.
Tutto il suo pensiero politico si foda sul concetto di sovranità, di derivazione tomistica e comune alla maggior parte dei pensatori cattolici. Per Ventura la sovranità, che è solamente di Dio, è immediatamente da Dio conferita al popolo che, a sua volta la trasferisce al re, o comunque a chi effettivamente eserciti il potere politico.
Così come il popolo la delega al sovrano, alle condizioni stabilite, può revocarla quando tali condizioni non dovessero più sussistere. Alla stregua di San Tommaso e della sua giustificazione del tirannicidio, anche in Ventura troviamo la legittimazione della rivoluzione nel caso in cui il popolo tutto si rivolti contro il sovrano per esercitar i suoi diritti, non derivanti dalla legge degli uomini, bensì dalla legge di natura. Come gli altri pensatori presenti nel libro di Guccione, anche Ventura premette al diritto positivo il diritto naturale e allo stato, il popolo nella sua interezza e nelle sue individualità. Afferma infatti, che il "governo più forte e il più felice non è già quello che fa tutto, ma quello che lascia fare tutto ciò che non compromette affatto la giustizia e l’ordine pubblico" (p. 19). Si tratta di una teroria antistatalista oggi pienamenta attuale - il cosiddetto principio di sussidarietà - che si prefigge di ridare all’individuo il giusto ruolo in una società troppo spesso dominata dalla presenza di uno stato onnipotente.
Il concetto di sovranità ancor più profondamente viene analizzato da un altro pensatore cattolico temporalmente a noi più vicino: Jacques Maritain. Questi rifiuta il significato che al termine sovranittà viene generalmenta attribuito, sulla base del pensiero dei filosofi dell’assolutismo come Bodin, di quelli del contrattualismo come Hobbes, di quelli della democrazia come Rousseau, o di quelli dello statalismo come Hegel. Partendo dal metodo tomistico, Maritain sostiene che la sovranità è costituita da due attributi: il diritto all’indipendenza e al potere supremo, che è naturale ed inalienabile, e il distacco assoluto da parte di chi è sovrano rispetto ad ogni cosa, quindi anche rispetto a chi è da lui governato. Per il pensatore francese la sovranità è qualcosa di assoluto ed indivisibile a cui dunque non può partecipare il singolo cittadino e per il fatto che essa necessiti una posizione di trascendenza e di totale distacco da ogni condizionamento umano, essa non può che avere carattere divino. Dunque titolari di sovranità sarebbero Dio, il Papa, "nella sua facoltà di Vicario di Cristo è sovrano della Chiesa", che, per il potere derivatogli da Dio rimane indipendente dalla struttura ecclesiale e, in senso puramente spirituale, il saggio, inteso come asceta, indipendente dalle passioni e dalla legge, a cui non è soggetto, "perché la sua volontà è per se stessa e spontaneamente intonata alla legge" (p. 81).
Dalle considerazioni suddette si desume che né il corpo politico, né lo Stato, né il popolo, presentano i requisiti necessari per essere considerati sovrani.
Il corpo politico, che è espressione del popolo, sebbene autonomo sia interamente che esternamente, nei rapporti con gli altri corpi politici, "non si governa separatamente da sé e al di sopra di sé" e quindi non può essere sovrano. Né può esserlo lo Stato che è parte del corpo politico e che gode dell’indipendenza non come diritto suo naturale, ma perché trasmessogli dal corpo politico. Pur non potendo essere titolare di sovranità, perché mancante del requisito della trascendenza, il popolo, da cui deriva il corpo politico e quindi lo Stato "è al di sopra dello Stato, il popolo non è per lo Stato, lo Stato è per il popolo" (p. 86). Al di sopra di tutto, tuttavia, seguendo pedissequamente il pensiero tomista, Maritain pone il diritto naturale. Sostiene infatti che se una legge è ingiusta, non perché sia frutto della volontà popolare diventa giusta. Dalla legge di natura, fondata sulla giustizia divina, deriva il diritto del popolo a governarsi e ad esercitare tale diritto, secondo precetti non scritti, ma comunque universalmente validi.
Sul rapporto tra diritto e dovere sia Buchez che Rosmini basano la disciplina giuridica della società civile.
Partendo dalla Dichiarazione dei diritti enunciata dai rivoluzionari francesi, i due pensatori cattolici sottolineano l’inesistenza di una priorità del diritto che troverebbe la sua sostanza e i suoi limiti nel suo contrapposto, cioè nel dovere. Infatti - sostiene Buchez - sta nei doveri che gli uomini sono tenuti ad osservare gli uni verso gli altri, lo scopo comune d’attività che sta alla base dell’esistenza di ogni umana società. La legge naturale, riflesso della volontà ordinatrice di Dio, si manifesta negli uomini con l’inclinazione al bene e con la tendenza ad organizzarsi socialmente e politicamente. Tale tendenza non potrebbe realizzarsi se gli uomini non riconoscessero l’esistenza di principi etici a cui devono rifarsi prima di agire. Si tratta dei doveri che sarebbero, dunque, anteriori ai diritti e non posteriori come affermavano i sostenitori dei principi diffusi dall’Illuminismo e dalla rivoluzione francese. D’altra parte - sostiene il seguace di Saint-Simon -, lo stesso termine dovere è di origine cristiana, poiché il corrispondente latino, munus, ufficium, concerne la funzione pubblica e non il rapporto tra cittadini. Solo dal dovere scaturisce il concetto di fraternità umana, concetto del tutto sconosciuto ai pagani. Anche Rosmini riconosce una priorità del dovere sul diritto e vede nel rapporto tra diritto e dovere il rapporto tra la persona oggetto e la persona soggetto del diritto.
La originalità del pensiero di Rosmini sta, tuttavia, nell’asserzione dell’esistenza di un’identità tra diritto e persona, poiché la legge positiva può considerarsi giusta solo se "non lede nella persona la facoltà o la potestà di godere un bene lecito" (p. 42).
La vita di ogni persona si realizzerebbe in base ai due elementi della libertà e della proprietà che non sarebbe altro che l’esplicazione stessa della libertà, in quanto espansione della persona del singolo sulle cose ad essa circostanti (p. 43). Sarebbe la proprietà - secondo il filosofo roveretano - un sentimento che lega le cose alla persona e in questa espressione troviamo il significato che a tale diritto sarà dato, in seguito, dall’enciclica leoniana De Rerum Novarum.
Così come il diritto si identifica con la persona, così la giustizia, come legge morale, non è frutto della volontà, come per Kant, bensì è data dalla stessa volontà umana, che si conforma così alla legge di natura che è legge divina e universale; da ciò il venir meno della contrapposizione tra diritto e morale.
Da buon cattolico Rosmini respinge la priorità dello Stato sull’individuo e, di conseguenza, privilegia il bene comune sul bene pubblico.
Luigi Sturzo, invece, affronta il problema del conflitto tra morale e diritto attraverso l’esame della questione militare. Egli scriveva nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali, periodo in cui il ricorso alla guerra era considerato normale e legittimo. Ma se la guerra era ritenuta legittima, non per questo poteva essere considerata necessaria, perciò il pensatore siciliano aspirava ad una futura eliminazione della guerra, possibile nel momento in cui le strutture sociali che ne riconoscevano la legittimità fossero venute meno per il naturale evolversi delle società civili. Sturzo portava come esempio a sostegno della sua tesi, i vari istituti giuridici un tempo ritenuti legittimi e perpetui e poi, in seguito all’evoluzione dei costumi, divenuti illeciti e dannosi al progresso della società: la faida, la poligamia, la schiavitù.
Perché la guerra potesse un giorno seguire lo stesso destino di quegli istituti giuridici, ormai ritenuti contrari alla morale e alle leggi della convivenza sociale, il sacerdote calatino faceva affidamento sull’evoluzione e sul rafforzamento degli organismi comunitari come la Società delle Nazioni. Sullo stesso piano si era posto circa un secolo prima Buchez nel sottolineare il ruolo fondamentale che aveva avuto il Congresso di Vienna, inteso come Direttorio internazionale, nel fermare Napoleone e riportare l’ordine e la pace in Europa, anticipando i principi europeistici che si sarebbero diffusi soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Gabriella Portalone
SALVATORE VAIANA, Una storia siciliana fra Ottocento e Novecento. Lotte politiche e sociali, brigantaggio e mafia, clero a Barrafranca e dintorni.
Presentazione di padre Ennio Pintacuda - Salvo Bonfirriato editore, Palermo 2000, pp. 255.
Salvatore Vaiana, attento studioso del fenomeno mafioso in Sicilia, su cui ha condotto varie ricerche, dà vita, in questa sua ultima opera, ad un rilevante esempio di microstoria, riguardante il comune di Barrafranca tra il 1892 e il 1922, che, pur arricchendo la storiografia concernente gli studi locali, si inserisce a pieno diritto nel contesto più vasto degli studi storici relativi al periodo postunitario del Mezzogiorno d’Italia.
L’autore ricostruisce la storia di questo centro agricolo dell’ennese, inserito nel triangolo economicamente più depresso dell’Isola, rifacendosi quasi esclusivamente a minuziose e pazienti ricerche condotte su documenti d’archivio.
Gli avvenimenti che caratterizzarono il quarantennio di cui l’autore si occupa, si svolgono sullo sfondo di un ambiente immutabile, quello della Sicilia agraria, del latifondo arido e per lo più incolto o malcoltivato, delle lotte di potere tra famiglie rivali, della corruzione del clero e degli amministratori, della forte componente mafiosa e brigantesca. È quell’ambiente che mantiene inalterati la forma e i colori, pur vedendo cambiare i protagonisti e i loro ruoli e che rimane purtroppo sempre caratterizzato dall’individualismo proprio del siciliano, dalla sua resistenza al cambiamento, quando esso comporti sconvolgimenti dell’equilibrio sociale esistente e il sorgere di nuovi gruppi di potere.
Perciò in questa nostra magnifica Isola, ogni volontà di modernizzazione si infrange nell’opposizione dei potentati locali che, pur di mantenere lo statu quo, non esitano ad allearsi alla mafia o ai briganti o di ricorrere alle minacce, alla violenza e all’omicidio.
Non importa da chi provenga l’aiuto, purché sia valido al controllo della situazione e all’immutabilità della stessa. Mi viene da pensare che questo modo di essere dei siciliani, l’individualismo della sua classe dominante, la mentalità mafiosa, riuscirono a sconfiggere un avvenimento di portata mondiale come la stessa Rivoluzione francese che si fermò, appunto, a Pizzo Calabro, piché il baronaggio siciliano non esitò ad allearsi con gli inglesi, agevolando la loro occupazione dell’Isola, e con l’odiato sovrano borbonico, pur di tenere lontana dallo stretto ogni novità atta a sovvertire l’ordine costituito.
Nella Barrafranca raccontata da Vaiana, manca, peraltro, un elemento che in gran parte della regione tentò di portare un vento di rinnovamento sociale economico. Parlo del movimento cattolico, della propaganda sturziana, della diffuzione delle Casse Rurali, efficace strumento creditizio contro l’usura dilagante, delle altre iniziative portate avanti dagli apostoli della Rerum novarum, per favorire il mondo contadino ed elevarlo culturalmente, moralmente ed economicamente. Nelle diocesi di Palermo, di Piazza Armerina, di Noto, di Acireale, ma soprattutto di Girgenti, l’opera di vescovi illuminati e di sacerdoti intelligenti ed attivi, diede vita ad un’imponente organizzazione cooperativistica che, attraverso le affittanze agricole, le cooperative di credito e quelle di consumo, riuscì a dare alla classe contadina una vera e propria coscienza sociale, preparandola, peraltro, all’accoglimento dei principi democratici, sanciti nel 1913 dall’approvazione della legge sul suffragio universale maschile.
A Barrafranca, invece, il clero locale si presentava spesso corrotto, contiguo alla mafia, vicino alle stesse logge massoniche, interessato alle manovre del potere, spesso addirittura mandante di omicidi, schierato con l’una o l’altra delle due fazioni che dividevano il paese, quella facente capo all’avvocato Bonfirriato e quella guidata da Benedetto Giordano.
In tale clima, chi avesse voluto forzare la situazione dirigendola verso forme di cambiamento e di evoluzione sociale, era destinato a pagare con la vita. Tale fu la sorte del socialista Alfonso Canzio, ucciso nel 1919, seguendo la sorte di Panepinto, di Alongi, di Orcel, combattivo protagonista del movimento contadino barrese, a cui l’autore dedica il suo libro.
Gabriella Portalone
G. GENTILE, Frammenti di filosofia. Voll. LIII e LIV, Firenze, 1999.
Proseguendo nella pubblicazione delle opere complete e dei carteggi, l’Editrice Le Lettere di Firenze ha pubblicato, in questi giorni, i due tomi dei "Frammenti di storia della filosofia" (1999) per un totale di ben 1217 pagine; e ciò a conferma, se ve ne fosse stato bisogno, della valenza storiografica dell’attività di Giovanni Gentile il quale, oltre che eminente pensatore teoretico, fu anche un insigne storico della filosofia. Occupandoci, ora, del primo tomo che comprende 439 fittissime pagine, diciamo subito che si tratta di una raccolta di scritti notevoli - sebbene ve ne siano alcuni più brevi d’occasione -, visto e considerato che esso raccoglie, innanzitutto, il lungo saggio "Studi sullo stoicismo romano del primo secolo d.C.", pubblicato per la prima volta nel 1904 per i tipi di Vecchi. Al lavoro sarebbe dovuta seguire una seconda e terza parte, ma probabilmente il filosofo - assillato da tanti impegni - non riuscì a terminarlo e questa rimane, ancora oggi, una grave perdita tenuto conto dell’acribìa con cui egli dimostrò di essere un non meno valente filologo.
Ma, oltre allo studio filologico sullo stoicismo, il primo tomo abbraccia altri notevoli scritti quali, ad esempio, gli studi su Vico, gli scritti sul suo maestro a Pisa Donato Jaja, i lavori su Roberto Ardigò, il "Discorso inaugurale al III Congresso hegeliano di Roma (19 aprile 1933),ricordi su Francesco Fiorentino e numerosissimi altri saggi - spesso di carattere polemico - di ordine strettamente filosofico, pedagogico, psicologico, filologico e di "Kulturgeschichte".
Per quel che concerne l’acutissimo studio sullo stoicismo romano - studio di cui ci siamo già occupati, l’articolo è raccolto nel nostro libro "Vitalità del mondo latino" (1997) -, basti, qui, solo accennare che per Gentile la società del I secolo non era così corrotta come si riteneva ove si consideri, altresì, che un nuovo cosmopolitismo stava facendo capolino nel panorama del tempo e che, infine, nuove religioni, come il cristianesimo, stavano penetrando negli spiriti dei cittadini. Ecco perché, osserva il giovane Gentile, lo stoicismo diventò un’esigenza negli animi degli uomini del primo secolo dell’era volgare e, a Roma, parole del pensatore, "i filosofi divennero quasi i direttori di coscienze agli individui e alle famiglie".
Per quanto riguarda gli interessi gentiliani per Giambattista Vico - interessi culminati nel ponderoso, quanto interessante, volume "Studi vichiani" (1915) - essi durarono fino agli ultimi mesi della vita del filosofo, tant’è vero che quest’ultimo commemorò il grande Napoletano all’Accademia d’Italia, di cui era Presidente, precisamente il 19 marzo del 1944, in occasione del secondo centenario della morte. Anche i due scritti presenti nel primo tomo dei "Frammenti", confermano la generale predilezione del filosofo attualista per il pensiero dell’autore della "Scienza Nuova"; autore così lodato da Gentile: "Che fascio di verità presenta, in una di quelle formule splendide e potenti, che sono come la ricompensa del genio che ha lungamento meditato!". E altrove, puntualizando i meriti del filosofo e giurista napoletano, con tali parole intende rivendicare alcuni dei tanti pregi del più grande pensatore italiano a cavallo fra i secoli XVII e XVIII: "Questi aveva avuto due profonde intuizioni fondamentali: una intorno alla potenza costruttiva dello spirito, per cui anticipò il principio di soggettivismo kantiano; l’altra intorno al concetto dell’assoluto come svilupo nella natura e nel pensiero, per cui anticipò il principio della nuova metafisica dimostrata nella ‘Logica’ di Hegel".
Anche nei riguardi di Donato Jaja - suo maestro alla Normale di Pisa - Gentile ha accenti di rispetto, stima e venerazione, sia quando il filosofo pugliese "mirò a concepire la realtà come spirito; ma come spirito che si fa tale, ossia come realtà che si fa, ma non è spirito", sia, ancora quando, incalza Gentile, "i giovani sentivano che egli era un padre che nella filosofia non portava soltanto delle parole, sentivano a contatto con la sua anima che veramente per lui la filosofia era la vita". Era uno di quegli uomini, conclude il discepolo, della "Destra che credevano allo Stato etico, al grande valore che è proprio dello Stato per l’uomo che sia veramente libero". Ma se a Vico e a Jaja sono, da Gentile, riservate alcune tra le più belle pagine del primo tomo, non bisogna dimenticare che il libro gentiliano è una fonte inesauribile di studi critici di prim’ordine; studi che riguardano gli autori, italiani e stranieri, più in vista della storia della filosofia.
E questi rispondono ai nomi di Pico, Galilei, Spinoza, Gallupi, Boutroux, Montessori, Orestano, Varisco ed altri a conferma della versatilità di uno studioso, Gentile, appunto, che spazia in tutto l’arco della speculazione e della cultura in genere. Senza dimenticare gli scritti sui vari Carabellese, Bacone, B. Nardi e, in particolare, la Prefazione all’Autobiografia di Gandhi del 1931, ripubblicata in questo primo tomo a conferma della vastità degli interessi del filosofo attualista il quale così si pronunzia riguardo al grande toerico della non violenza: "Gli europei hanno qualche cosa da apprendere dal Mahatma indiano. (...). E gli italiani che non hanno nella propria letteratura libri di questo genere, scritti con sì profonda ispirazione religiosa, impareranno a conoscere in Gandhi un grande scrittore".
Un bellissimo libro dunque, questi ‘Frammenti’ di Gentile, il quale con tali parole si esprimeva nel gennaio 1921 allorquando una buona parte dei saggi erano stati raccolti nei ‘Saggi critici’: "Riunisco in questi due volumi (cui altri ne seguiranno) una parte dei molti piccoli scritti di filosofia, da me espressamente pubblicati in questo ventennio intorno a questioni o scrittori, di cui si è variamente e più o meno largamente discusso".
Lino Di Stefano
FRANCESCO ALBERTO GIUNTA, Karin è tra noi. Romanzo di idee. Note di Franco Lanza, Ed. Bastogi, Foggia, 2001.
Pervenuto all’attività di romanziere nella più recente stagione della sua vita, Francesco Alberto Giunta ha dato vita ad un ciclo narrativo di libri che si richiamano l’un l’altro svolgendo un discorso che solo in parte è della trama narrativa, ma che è impostato soprattutto su ragioni ideologiche.
E questo nel senso che Giunta, estraneo alle ideologie politiche, è comunque interessato alle filosofie, alle religioni, ai problemi spirituali.
I personaggi della sua trilogia (A Lipari un giorno avvenne, Il posto delle pietre e l’ultima Karin è tra noi) operano in un contesto internazionale ed appaiono orientati non proprio da ragioni economiche o di carriera, ma dalla cosiddetta "congiura sentimentale e dal profondo bisogno di capirla".
Karin, come i personaggi femminili dei precedenti romanzi, Elisa e Chiara, impersona un’unica femminilità di taglio moderno, ma di bisogni antichi. Karin, personaggio principale sintetizza ideali e desideri delle altre due protagoniste e "passa da una vita familiare infelice ad un pellegrinaggio psicologico ed ideologico verso i paesi insanguinati dalle ingiustizie e dalla violenza.
Il romanzo è un "romanzo d’idee" originale, di respiro cosmopolita "con aperture multietniche e con un bagaglio considerevole di conoscenze storiche e filosofiche" che evidenziano una profonda e raffinata cultura. I personaggi che "contano" sono tutti viandanti volti ad una ricerca continua. Il viaggio diventa tema fondamentale, anzi un grande movimento esistenziale "che mette in sintonia il libro con il movimento stesso della storia e del mondo".
Altro motivo significativo quello del rapporto con le altre culture ed in particolare con la cultura islamica. In proposito, nel libro, è contenuta un’intervista Abd-al-Wahid Pallavicini, discepolo di René Guénon, il quale a buon diritto sostiene che "l’esempio di Francesco d’Assisi ai tempi delle Crociate, quando templari e saraceni sapevano ritrovare, pur combattendo per una Terra Santa, il comune anelito verso una Gerusalemme celeste, potrebbe rappresentare veramente l’esempio da seguire anche oggi per ritrovare lo spirito della trascendenza che solo unisce le varie rivelazioni al loro vertice". Dunque senso e necessità del Sacro, che deve essere perseguito, anzi vissuto da ciascuno "nella vita di tutti i giorni secondo la propria tradizione e la propria lingua".
È, poi, veramente notevole, che i personaggi fondamentali dei romanzi di Giunta siano donne, tanto più in un confronto con l’Islam, con il quale bisogna valorizzare il dialogo, oggi più che mai necessario. È nell’incontro tra Cristianesimo ed Islamismo l’unica possibilità per uscire dalla crisi del mondo moderno, e solo l’incontro tra le diverse espressioni religiose può fornire la soluzione ai problemi della società. Incontro tra Cristianesimo ed Islamismo non certo nella prospettiva di un assurdo ed inconcepibile sincretismo, ma nella consapevolezza che le due religioni, pur nelle loro profonde divergenze, propugnano entrambe la realizzazione spirituale dell’uomo.
Umberto Balistreri
F. SICLARI, Un amore fatto di parole. Catania, Prova d’Autore, 1999, pp. 120, e 7,75
L’autore, Franco Siclari, esercita la professione d’avvocato e svolge attività pubblicistica collaborando a riviste letterarie e, prevalentemente, alle pagine culturali del quotidiano catanese "La Sicilia". Il libro, Un amore fatto di parole, è una raccolta di dodici racconti e porta il titolo del primo di essi. Siamo dinanzi a una serie di ricordi e di riflessioni che travolgono il lettore sino a sollecitarlo a cogliere, qua e là, analogie con la propria esistenza o con il proprio ambiente. Il filo conduttore è l’amore, ma un amore sfuggente, evanescente, che non riesce mai a manifestarsi in tutta la sua interezza e concretezza.
In merito a tale raccolta, il critico letterario Sergio Sciacca ha felicemente scritto che "in queste rapide pagine, in queste storie che si seguono senza potere staccare gli occhi dalla pagina, c’è la verità di una esperienza comune. La solitudine del vivere anche quando si è in molteplice compagnia, l’impossibilità di fare comprendere i propri affetti, il timore di scoprirli ed esserne derisi. Luoghi di freddezza, timori di fanciulli (chi può sostenere che i fanciulli non abbiano sensibilità?), ricordi che non si dimenticano". Proprio così.
I personaggi e i fatti dei racconti s’inquadrano, per lo più, in uno scenario tipicamente siciliano e si muovono secondo un costume e una logica tradizionali, che raggiungono la massima vivezza d’immagine in Lupara bianca, La fattura e Il cortile. Anche i nomi di molti protagonisti - come Alfio, Carmela, Nedda, Mara, Puddu, Serafina, Melina, Nunziata -, appartengono allo stesso contesto sociale. A staccarsene è soltanto la lingua che, spezzata raramente da qualche incisiva frase dialettale, si snoda sciolta ed elegante, sonora e avvincente. È, certamente, un’opera destinata a collocarsi nella migliore letteratura contemporanea.
E.G
Partendo dalla famosa frase di D’Azeglio, pronunciata all’indomani dell’avvenuta unificazione - Fatta l’Italia, adesso bisogna fare gli italiani -, sorgono spontanee alcune domande: Si può costruire un’identità nazionale con decreti governativi, o plebisciti, o manovre diplomatiche? Esiste un popolo italiano? Si è mai formata la coscienza nazionale?
Noi studiosi del Risorgimento, purtroppo ormai passato di moda, identifichiamo tale periodo storico, appunto, con il travaglio intellettuale e politico che portò una sparuta minoranza di italiani a partorire un sentimento comune di italianità, senza il quale sarebbe stato impossibile progettare l’unificazione statuale. Ciò ci fa pensare che il sentimento di nazione non sorse spontaneo, ma fu una creazione forzata in funzione della costituzione dello stato nazionale. E se lo stato unificato era un’aspirazione che scaturiva dall’utilitarismo proprio della borghesia illuminata, industriale ed industriosa del nord dell’Italia, stanca di vedere ostacolati i propri traffici dalla molteplicità di barriere doganali, di leggi commerciali e di valute che frazionavano l’attività economica dell’intera penisola, la nazione era una creazione ideale che scaturiva dalla diffusione del movimento romantico e dalla constatazione dell’emarginazione dell’Italia dal contesto europeo, dominato, per la maggior parte, da stati nazionali o da imperi plurietnici.
La penisola, divisa in otto staterelli, per lo più satelliti di varie grandi potenze, non apparteneva né all’una, né all’altra categoria e si illanguidiva nel torpore di un fatalismo dovuto a secoli di dominazioni straniere e di sfruttamento coloniale che avevano tarpato quell’evoluzione artistica e spirituale che aveva dato il via, proprio dalle rive dell’Arno, dalla laguna veneziana, dai navigli milanesi, al grande movimento rinascimentale europeo.
Ma come nasce il sentimento nazionale fra popoli che quasi nulla avevano in comune dal punto di vista storico, legislativo, economico, sociale e anche linguistico, se si eccettua l’esistenza di una comune lingua scritta, conosciuta si e no dal 20% della popolazione? E quando nasce e perché?
Indubbiamente molto si deve alla diffusione fra le regioni italiane dei principi della rivoluzione dell’89, affermatisi con l’aiuto delle baionette dei rivoluzionari francesi che avrebbero di lì a poco fondato, nella penisola, le repubbliche giacobine. Nonostante la rivoluzione predicasse, ligia alla moda illuministica, principi di cosmopolitismo, essa aveva proclamato l’uguaglianza, la libertà e la fraternità non solo fra i singoli cittadini, ma anche fra i popoli. Quindi il diritto dei popoli oppressi alla liberazione e alla autodeterminazione. Tali sentimenti furono rafforzati dai vantaggi economici che alla borghesia settentrionale avevano apportato i pochi anni di unione amministrativa del nord, prima sotto le repubbliche cispadana e transalpina, poi sotto la Repubblica italiana, presieduta da Napoleone e, infine, sotto il Regno Italico di cui fu vicerè Eugenio di Beauharnais.
Già ai tempi della repubblica italiana, di cui fu vicepresidente l’intellettuale aristocratico lombardo Melzi d’Eril, si cominciava a coltivare l’aspirazione ad uno stato italiano unito, monarchico, che liberasse la popolazione, accomunata dalla lingua e dalla geografia, dal servaggio secolare(1).
Napoleone fu visto dai giovani intellettuali italiani come il liberatore; la sua politica di rinnovamento infiammò i loro animi, conquistati dall’esempio francese anche nel simbolismo (la bandiera tricolore, la raffigurazione dell’Italia come donna in catene, ecc.). Tuttavia, il trattato di Campoformio con cui la secolare Repubblica Serenissima di Venezia, l’unica veramente indipendente del territorio italico, veniva venduta all’Austria e la spoliazione continua dei tesori artistici italiani effettuata dal grande corso, suscitarono una forte reazione di ripulsa nei confronti dei francesi che si erano rivelati anch’essi dei conquistatori ancora più spregiudicati dei precedenti. Fu allora che scattò la molla dell’orgoglio nazionale che, coniugandosi con il ribellismo, proprio in ogni epoca, della gioventù, portò alla costituzione delle società segrete e all’esaltazione dell’eroismo, ma anche del terrorismo e del martirio, dando luogo quasi ad un cammino cristologico in cui la fede era costituita dall’amore per la patria, gli apostoli erano i cospiratori, i martiri gli eroi caduti per la causa.
Bisognava, tuttavia, che tale sentimento nazionale scaturito dal ribellismo, dallo sdegno e dalle aspirazioni sentimentali di uno sparuto gruppo di intellettuali, per lo più giovani, si diffondesse al resto della società. Il proselitismo passò così dal campo politico istituzionale a quello poetico letterario, alla ricerca di comuni glorie del passato da riesumare e proporre ai più colti, anche attraverso il romanzo storico. I Vespri siciliani di Amari, Il Conte di Carmagnola o l’Adelchi di Manzoni, L’assedio di Firenze di Guerrazzi, l’Ettore Fieramosca di D’Azeglio furono le letture di moda, mentre le odi come I sepolcri o All’Italia, consacravano due grandi poeti, Foscolo e Leopardi come vati del patriottismo italiano. Dante diveniva il precursore dello spirito italico, così come l’Italia medievale, invano impegnata a liberarsi dalla pesante tutela dell’imperatore e del papa, veniva vista come l’esempio più vicino e più comune al popolo italiano verso la riscossa.
Indubbiamente si trattava di artifici letterati e storici, poiché la vera divisione degli italiani, che peraltro non erano mai stati veramente uniti, iniziò proprio nel Medioevo. Il nord fu assoggettato dagli invasori sassoni che venivano dal centro Europa, il sud rimase, prevalentemente, sotto la dominazione bizantina. In seguito, al nord una borghesia mercantile in continua ascesa, per la maggiore speditezza dei traffici commerciali, grazie alle comunicazioni fluviali e terrestri facilitate dal terreno pianeggiante e per la vicinanza al centro dell’Europa, avrebbe cercato una maggiore autonomia amministrativa ed economica ribellandosi al gioco dell’Impero e fondando i primi comuni; al sud la cultura feudale introdotta dai normanni, avrebbe dato luogo ad una secolare economia latifondista fondata sul predominio della aristocrazia terriera e sull’assenza della borghesia. Sia nell’una che nell’altra parte della penisola si sarebbe affermata la completa assenza dello stato come potere assoluto centralizzato, insidiato a nord dalle autonomie comunali e a sud dall’anarchia feudale.
Nord e Sud avrebbero così imboccato due strade antitetiche, allontanando sempre più le popolazioni italiche, che nemmeno durante l’Impero romano condivisero leggi e costumi, poiché i romani lasciavano alle singole città ampia autonomia amministrativa e legislativa, ponendo così le basi di quella che sarebbe stata - secondo Cattaneo - l’Italia della città. Se, dunque, la storia comune è l’elemento che più distingue il carattere di un popolo, Croce obiettava che gli italiani, non avendo nemmeno una storia comune, mancavano di uno dei pilastri essenziali che costituiscono la nazione(2).
Gli italiani non condividevano nemmeno la lingua, visto che al sud le parlate locali erano più vicine ad un latino involgarito, al nord risentivano molto l’influenza delle lingue diffuse oltre le Alpi. Un piemontese e un siciliano, che non fossero intellettuali, conoscitori del latino o dell’italiano come lingua aulica non parlata, solo usata in letteratura e negli atti pubblici, non avrebbero potuto intendersi. Meglio si sarebbero compresi un siciliano con il dirimpettaio tunisino o il piemontese con il vicino francese.
Accorgersi di tale diversità non è difficile, tanto che Melchiorre Gioia, osservando le differenze etniche, linguistiche, storiche, giuridiche, economiche e perfino climatiche, arrivava ad affermare: "Non esiste l’italiano, esistono gli italiani"(3).
Ancora più drastico Gioberti che sosteneva che il popolo italiano "[...] è un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa, e non so pur se si trovi nel nostro vocabolario. V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, di istituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini"(4).
Appunto per suscitare l’orgoglio nazionale di un popolo infiacchito dalla lunga servitù politica, giudicato dagli stranieri senza carattere - ricordiamoci l’infelice espressione di Lamartine sull’Italia da lui definita terra dei morti - diveniva indispensabile basare l’educazione popolare allo spirito comune di nazione su termini molto forti, evocativi anche di un impegno religioso, comunque, non comune, come primato, missione, apostolato, martirio, ecc.
Creare lo spirito italico era dunque un’impresa ardua che sarebbe stata facilitata dall’invasione napoleonica, dal diffondersi del Romanticismo e del pensiero dei principali filosofi romantici tedeschi, Herder e Fichte, che avrebbero sovrapposto il sentimento di nazione al patriottismo.
Il patriottismo, infatti, inteso come lealtà alle istituzioni del proprio stato, era un sentimento vecchio quanto l’uomo come essere sociale che nulla, tuttavia, aveva a che fare con il sentimento nazionale. Per gli storici la patria non era un luogo naturale ma un’istituzione, non concepivano quindi la patria e tantomeno la nazione, senza il presupposto politico dello stato. Per l’inglese Price, vissuto durante la gloriosa rivoluzione "Per patria s’intende non il suolo o l’angolo di terra dove ci è capitato di nascere; non le foreste e i campi, ma la comunità di cui siamo membri, o quel corpo di compagni, di amici e di simili con i quali viviamo insieme sotto la medesima costituzione politica, protetti dalle stesse leggi e uniti dalla stessa società civile". Da tale concetto escludeva ogni forma di sciovinismo e di prevaricazione(5).
Anche lo spagnolo Vilar, durante la rivoluzione spagnola antinapoleonica, scriveva cose simili, non disgiungendo il concetto di patria da quello di cittadinanza e di libertà "Farebbe un grosso errore chi credesse di avere una patria per il solo fatto di vivere nel luogo natio fra le cose cui ha rivolto i suoi primi sguardi e i suoi primi balbettii [...] Non c’è patria nell’accezione del diritto pubblico, dove non ci sono cittadini e i cittadini esistono solo dove c’è la libertà civile"(6).
Se non meraviglia che la pensassero in tal modo Price o Vilar, cittadini di stati nazionali unitari, appare più strana la posizione di Goethe, secondo cui la patria "non è la repubblica, né il luogo dove siamo nati, ma qualsiasi luogo in cui possiamo vivere sicuri con le nostre proprietà, trovare un campo, una casa che ci ripari dalle intemperie"(7).
Fu Herder, il primo a coniare il termine Nationalismus, inteso non come impegno per la libertà politica e civile, ma difesa della cultura nazionale che si basa sull’unità spirituale della nazione, basata soprattutto sulla lingua comune. Secondo Herder nazione significa unità culturale fondata sulla comune lingua, storia, letteratura, religione, arte. In base a tali elementi che vanno al di là dello stato, ogni nazione avrebbe una sua identità originale ed inesprimibile se non con la propria lingua: "Nessuna nazione ha la stessa storia di un’altra, ogni nazione ha un proprio destino a seconda dei doni che Dio ha voluto dare ad essa. Non solo Dio non vuole l’amalgama delle diverse nazioni, ma vuole che ogni nazione vada per la sua strada senza adottare idee e forme di vita che non sono sue e danneggerebbero la sua unità e autenticità spirituale"(8).
Fin qui il pensiero di Herder è molto vicino a quello di Mazzini che considera anche lui imprescindibile che ciascun popolo prenda coscienza della propria identità nazionale per essere soggetto di storia e per avere un futuro. Tuttavia, mentre per Mazzini la nazione presuppone una scelta volontaria dell’individuo e prescinde, dunque, dal luogo di nascita e dalla razza, per Herder essa è una creazione naturale di Dio che non dipende dalla volontà degli uomini e dall’esistenza degli stati. Se Dio ha creato le nazioni e non gli stati - sostiene Herder - ciò vuol dire che le prime sono più importanti dei secondi. Posizione, questa, molto vicina a quello che sarà il pensiero di Crispi per il quale: "Lo Stato è un ente organico, autonomo che vive in virtù di leggi proprie, ma che è di vita naturale ed eterna quando rappresenta la nazione [...] Quando lo Stato rappresenta la nazione ha una vita che non è data dalle leggi, ma gli è data da Dio, e questo è il caso dell’Italia. e avvertite, signori, che il mio concetto nazionale va anche un poco più in là. Per me non credo neppure che a costituire uno Stato, il quale comprenda la nazione, siano necessari plebisciti, né credo possa dipendere dalla volontà dei cittadini o dalla volontà dello straniero che questo Stato si rompa; e se mai fu e se mai potesse essere rotto, il suo diritto inalienabile, imprescrittibile, eterno, nessuno potrebbe mai disconoscerlo"(9).
Per Fichte la nascita della nazione non è altro che la libertà della stessa di esprimere la propria identità; perciò la nascita della nazione tedesca coincide con la lotta delle tribù germaniche ai Romani che tentavano di omologarle alla loro cultura e cancellarne l’identità: "Libertà significava per loro rimanere tedeschi, risolvere le proprie questioni indipendentemente e originalmente secondo il loro spirito [...]". Dunque, per l’autore del Discorso alla nazione tedesca, i popoli politicamente oppressi devono prima costruire la propria identità, difendendo il linguaggio e la storia nazionale, e poi pensare alla lotta per la libertà politica.(10)
Anche la posizione di Fichte è molto vicina al pensiero di Mazzini che premette la rivoluzione nazionale a quella politica e sociale. Tuttavia, il pensatore genovese contesta ai tedeschi di aver trascurato l’importanza delle istituzioni fondate sulla libertà e l’uguaglianza. Egli vede in Dante il solo esempio che i veri italiani avrebbero dovuto seguire per il suo affetto patrio ben concepito, per aver egli compreso che l’amore per la patria deve essere infinito, immune da pregiudizi, ispirato alla pace e alla lotta contro la corruzione e la servitù: "La patria - scrive Mazzini - è una comunione di liberi e di eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine [...] La patria non è un aggregato, è un’associazione. Non v’è patria dove l’uniformità di quel diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze [...]" E ancora: "La patria non è un territorio: il territorio non ne è che la base. La patria è l’idea che sorge su quello: è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio [...]" "Prima di associarsi con le nazioni che compongono l’umanità bisogna esistere come nazione. [...]"(11)
Le teorie mazziniane trovarono difficile applicazione fra popoli che, come abbiamo sopra affermato, poco o niente avevano in comune se non la mancanza del senso dello stato, il secolare servaggio, l’individualismo, il disfattismo che porta tutt’ora noi italiani del XXI secolo a dimenticare la data dell’unica grande vittoria nazionale, e festeggiare orgogliosamente una sconfitta, pomposamente ribattezzata Liberazione.
Se la Chiesa fu l’elemento fondamentale di disunione degli italiani, visto che senza di essa e, soprattutto, senza il suo Stato che si estendeva proprio nel mezzo della penisola, l’unità politica dalle Alpi al Lilibeo, nel rispetto dei naturali confini geografici, forse si sarebbe potuta attuare fin dai tempi di Federico II di Svevia, essa costituì contestualmente l’unico vero collante fra popoli tanto diversi. Lo comprese benissimo Gioberti con il suo progetto di una Confederazione di stati, presieduta dal Papa, che unificasse senza fonderli i vari popoli che componevano la penisola. Lo comprese anche Manzoni che, a differenza di Cuoco, che vedeva la comunità di caratteri fra gli italiani nel mondo pre-romano, e di Mazzini che faceva riferimento alla comune origine da Roma faro di civiltà, si rifaceva alla Roma dei papi a quel cattolicesimo che aveva permesso il mantenimento di molte antiche tradizioni divenute, infine, l’unico sostrato comune dei popoli italici.
Esiste oggi la nazione italiana? Secondo Galli della Loggia la parte più importante dell’identità italiana [...] ciò che è per l’appunto uguale e comune, ciò che è identico e che conta sia tale - è la parte nascosta nelle viscere del tempo. Ma il fatto di essere nascosta non significa che non ci sia"(12).
NOTE
1 Secondo Bollati la costruzione diplomatica della nazione italiana, iniziò nel Settecento con Melzi d’Eril e continuò poi nel Risorgimento con Cavour e Vittorio Emanuele, Cfr. Giulio Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione. Torino 1983, p. 25.
2 Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1996, p. 316-318.
3 Melchiorre Gioia, Riflessioni sull’opera di Banstetten, in M. Gioia, Opere minori, vol. VI. Lugnao 1834, pp.110.
4 Vincenzo Gioberti, Del Primato morale e civile degli italiani, Capolago 1846, vol. I, pp. 117-118.
5 Maurizio Viroli, Per amore della patria, Bari 1995, pp. 48 e 94.
6 Pierre Vilar, Patrie et nation dans le vocabulaire de la guerre d’Indipendance espagnole, in Annales Historiques de la revolution francaise, vol. XLIII, 1971, p. 508.
7 J.B. Goethe, Sommtliche Werk, Stuttgart - Berlin, 1902-1912, vol. XXVI, p. 67.
8 Riportato da Maurizio Viroli, Per amore della patria, op. cit. p. 115.
9 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, tornata dal 6 marzo 1990, riportato da G. Portalone, Adua: fine di un sogno, in Rassegna Siciliana di storia e cultura, n. 9 Aprile 2000, p. 23. Se per Crispi la nazione e non ha bisogno di plebisciti, per Renan essa, intesa come principio spirituale di un popolo che desidera vivere insieme "è un plebiscito di tutti i giorni". Cfr. E. Renan, Che cos’è una nazione?, Roma 1994, p. 20.
10 Riportato da Maurizio Viroli, op. cit. p. 122.
11 G. Mazzini, Scritti editi e inediti, Imola 1906, vol. LXXXIII, pp. 882-885.
12 E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Bologna 1998, p. 163.
1.- Approccio storiografico e sociologico
Più fonti rivelano che la letteratura sull’emigrazione transatlantica dall’Italia, negli anni tra il XIX e il XX secolo, è condotta con varie metodologie di studio e caratterizzata da diversi approcci. È noto, come fino agli anni ‘70 dello scorso secolo la sociologia italiana abbia prestato al fenomeno poca attenzione limitandosi ad una raccolta numerica che classificava gli emigranti per regione, età, sesso...etc.
La scienza sociale, convinta che l’emigrazione, già spiegata e interpretata dagli storici, non potesse offrire altri spunti importanti per la propria analisi, ha colto solo più tardi quanto potesse dare lo studio del rapporto tra emigrazione e struttura economica e sociale e, quindi, l’importante ruolo dell’emigrazione nei processi di modernizzazione.
Da qualche decennio a questa parte gli studi sul fenomeno migratorio presentano un approccio micro-analitico che, attraverso l’osservazione diretta e l’uso delle fonti locali, permette l’analisi di un’area o di una comunità particolare. Esso è, limitato, nella sua applicazione, all’emigrazione più recente ma grandi problemi sorgono quando si guarda all’emigrazione più remota del post unificazione. Tale periodo si presta piuttosto ad un approccio macro-analitico, in particolare quando si considera il Sud dove il fenomeno assunse le forme più diverse.
Volendo focalizzare i diversi approcci alla storia dell’emigrazione italiana in America si possono distinguere tre tendenze principali:(1)
- la tendenza storica
- la tendenza strutturale
- la tendenza socio-antropologica
a) - La tendenza storica
Il primo approccio efficace al fenomeno in questione è quello storico i cui studi vertono sulla situazione di fatto, politica ed economica dell’emigrazione negli anni che seguirono l’unificazione italiana. Gli storici, in particolare, sottolineano l’impatto che un’"unificazione rapida e burrascosa" ebbe nel meridione dove gravavano i problemi irrisolti del latifondo ed esplodevano quelli provocati dal fenomeno della piemontesizzazione. Alla ribellione contro i proprietari terrieri (che si espresse nel brigantaggio) seguì un movimento migratorio, segno di protesta e della sfiducia dei contadini per il nuovo governo. Successivamente la sinistra al potere, ricorrendo a pesanti dazi doganali, favorì lo sviluppo industriale del Nord danneggiando ulteriormente l’economia del Sud(2) .Cosicché l’emigrazione del Sud caratterizzata da miseria e disperazione si presentò molto diversa da quella del Nord i cui attori si recavano all’estero per utilizzare le proprie capacità e la propria competenza per poi tornare in patria. Altro aspetto riscontrato nel fenomeno dal filone storico riguarda i vantaggi che derivarono dalla migrazione di massa: l’allentamento della pressione demografica, il miglioramento delle condizioni di vita degli agricoltori rimasti.
b) - La tendenza strutturale
Tale tendenza si esprime negli studi che mettono in relazione il fenomeno migratorio con le strutture in generale e con la struttura economica in particolare. Questo tipo di analisi la cui impronta è di tipo marxista e gramsciano, vede nello sviluppo del capitalismo in campagna la creazione di un proletariato su un sistema feudale esistente. I contadini violentemente tagliati fuori dal processo produttivo nazionale sono costretti ad emigrare(3).
Altra struttura, oggetto di studio, è quella demografica. Analizzando la connessione tra agricoltura, struttura sociale e tasso di natalità, Delille(4) fa rilevare come l’emigrazione abbia diminuito il tasso di natalità, che se combinato con un aumento della produttività, eleva le condizioni di vita. Gli altri studiosi sono più o meno d’accordo con la posizione di Delille. Tuttavia bisogna sottolineare che l’approccio strutturale ha reso lo studio del fenomeno più sociologico ed esplicativo.
c) - La tendenza socio-antropologica
La tendenza socio-antropologica è quella che, basandosi sul metodo micro-analitico, ha ricostruito la storia sociale dell’emigrazione avvalendosi delle fonti più svariate, tra le quali anche l’osservazione diretta. L’emigrazione, vista qui da due prospettive diverse, viene diagnosticata nelle sue dimensioni reali e nelle sue caratteristiche locali. I modelli di riferimento sono le analisi delle condizioni socioculturali di alcuni comuni in cui si è riscontrata un’emigrazione più forte, dovuta spesso all’identificazione tra miglioramento economico ed interessi della famiglia. Studi come quelli di F. Piselli nel suo libro Parentela ed emigrazione (Einaudi, Torino 1891) rilevano il carattere antropologico dell’emigrazione. Il tipo di struttura familiare si manifesta strettamente collegato al tipo di economia e alla mobilità interna di molte comunità del meridione. Altri studiosi, come Emilio Franzina, raccolgono e studiano lettere di contadini veneti emigrati in America. Da qui, subito si riscontra come ai legami affettivi dei primi tempi si sostituiscono poi interessi e preoccupazioni più materiali (eredità, crediti, sussidi...)(5).
Altro romanzo da ricordare è L’emigrazione in Friuli di Caterina Percoto, un manoscritto incompiuto, rielaborato da Rosanna Caira Lumetti. Si tratta di un progetto letterario in cui la scrittrice da una parte analizza criticamente la drammatica trasformazione delle campagne friulane, dove la crisi della società patriarcale preoccupava i ceti possidenti; dall’altra, denuncia i disinganni di un America vista come un paradiso terrestre, le speranze e le aspettative di chi scriveva le lettere, "le disillusioni e le contraddizioni di chi in America era andato a star male"(6). C’è chi nei suoi studi utilizza la testimonianza orale, tra questi Jerre Mangione che ha ricostruito la vita di una famiglia di emigrati siciliani nel loro adattamento e integrazione nella società americana.
Nessun metodo, di se stesso, si è manifestato e si manifesta esauriente. Un indagine complessa, come quella sull’emigrazione, richiede l’adozione di più metodi a secondo dell’aspetto da esaminare. Ciò, ovviamente, non toglie che ce ne possa essere uno prevalente, che è quello proprio che lo studioso per la sua formazione o per gli obiettivi in programma ritiene essere più efficace.
2. L’emigrazione intellettuale
La prima tappa dell’emigrazione italiana negli Stati uniti va dalla fondazione della Repubblica americana nel 1783 al 1861 data dell’Unificazione dell’Italia. Molti di quelli che sono considerati i Pionieri erano per lo più intellettuali ovvero appartenenti alle categorie professionali tipiche italiane. Giunti nel nuovo continente si concentrarono soprattutto nel Nord-Est e nella bassa valle del Mississippi. Le loro intenzioni furono subito quelle di rimanere, continuando le attività proprie di commercianti, artisti, musicisti ed insegnanti. Tutte professioni che avevano già svolto in Italia e che permisero loro di affermarsi nel paese ospite guadagnando una benevole tolleranza. L’America, più di ogni altro paese necessitava delle competenze professionali e delle abilità artistiche dell’Europa. Fu così che si affermarono i fratelli Piccirilli scultori e scalpellisti e il pittore Costantino Brumidi considerato il "Michelangelo del Campidoglio degli Stati Uniti". Altro italiano di spicco fu Luigi Palma, direttore del MOMA, fece del museo newyorchese il centro propulsore dell’arte italiana attirando scultori e architetti italiani chiamati in America per far fronte alle esigenze edilizie del grande sviluppo urbanistico americano.
Oltre che nel campo artistico, il contributo italiano riscosse successo nel campo scientifico e musicale. Il Presidente Jefferson fu un grande ammiratore dei musicisti italiani al punto tale da far reclutare alcuni di loro per formare nell’ambito delle forze armate la prima banda musicale americana, dalla quale nacque in seguito la famosa banda della marina degli Stati Uniti.
Tra gli intellettuali immigrati bisogna poi ricordare i rifugiati politici arrivati nel 1849 in seguito ai moti mazziniani del 1848. Gli USA furono per loro un rifugio sicuro da cui continuare ad osservare la situazione politica della madre patria, talvolta anche organizzandosi con l’intento di ritornarvi e lottare per l’unificazione(7). All’inizio tali gruppi politici non furono ben accolti dagli americani che videro considerare il loro paese come un luogo cui deportare persone indesiderate altrove e dalle attività sovversive. La stessa chiesa americana non condivise l’ospitalità data ad anticattolici, sostenitori di Mazzini e Garibaldi.
Alla seppur "benevola tolleranza" si aggiunse, poi, un’ infelice integrazione degli intellettuali italiani nella cultura e società americana. Condizionamenti e pregiudizi caratterizzarono il comportamento di questi immigrati creando loro non poche difficoltà. Una di queste fu l’apprendimento della lingua inglese, tanto per gli analfabeti quanto per gli intellettuali. Essi continuarono a svolgere le loro attività come continuarono a parlare la lingua madre o le lingue morte. Bisognerà aspettare fino agli anni venti dello scorso secolo affinché intellettuali, figli di immigrati, rivestano ruoli di prestigio e svolgano professioni come quella di avvocato o magistrato, per le quali la padronanza della lingua inglese era necessaria.
Tra i Pionieri le fonti ricordano Joseph Sirica che occupò dopo gli anni venti le massime cariche della magistratura e Peter Giannini fondatore della più grande banca americana(8). Altre categorie di professionisti vennero richieste per sopperire ai bisogni delle comunità italiane cui necessitavano dottori che parlassero in italiano. Paradossalmente, la conoscenza della lingua inglese sembrava non essere necessaria!
Intorno alla seconda metà del XIX secolo, il movimento migratorio assunse la consistenza di un vero e proprio fenomeno di massa. Nonostante soltanto nel 1876 si cominciasse a rilevare l’emigrazione con regolarità, tuttavia tra il 1869 e 1875 si registra una media annua di 123.000 persone che lasciano l’Italia per raggiungere altri lidi quali l’America. Nei primi venti anni Argentina e Brasile assorbono la maggior parte dell’emigrazione transoceanica, ma dal 1887 favorevoli condizioni del mercato del lavoro nel Nord America fanno raddoppiare la media annua complessiva di immigrati italiani negli USA(9).
Dapprincipio, ad emigrare sono soprattutto gli abitanti delle regioni settentrionali. Le liste di bordo(10), in cui veniva registrato il comune di provenienza di ciascun passeggero, permettono di quantificare statisticamente il contributo che ciascuna regione ha dato al fenomeno migratorio verso le Americhe.
Lo storico Ercole Sori, 1979, parla a questo proposito di una "marcatissima specializzazione regionale dei flussi migratori per paesi di destinazione"(11). Dalle statistiche più o meno attendibili si evince che nelle regioni meridionali il fenomeno fu per lungo tempo poco rilevante. Causa di ciò erano sicuramente l’isolamento e l’attaccamento di queste popolazioni ad una vita esclusivamente basata sull’agricoltura e sui legami patriarcali della famiglia.
Nella tavola sotto, riporto la distribuzione dei connazionali sbarcati negli Stati Uniti tra il 1880 e 1897 per regione di provenienza secondo i dati del Balch Institute di Philadelphia, 1985:
Alcuni decenni dopo l’Unità d’Italia, tra il 1880 e il 1897, il rapporto emigratorio tra regioni settentrionali e meridionali si invertì. Per cause tra le più svariate, quali povertà dilaganti e delusioni politiche, le regioni del vecchio stato borbonico si spopolarono progressivamente fino alla prima guerra mondiale. Solo la Puglia rivela una bassa propensione dei suoi abitanti ad emigrare mentre la Campania al contrario presenta la quota di emigrazione più elevata.
Per quel che concerne gli scali nazionali da cui gli italiani partirono verso la rotta degli Stati Uniti d’America i porti più importanti del periodo erano Genova, per gli emigranti delle regioni centro-settentrionali, e Palermo raggiunto soprattutto dai siciliani. Non mancavano, certamente, altri scali, ma si trattava, per lo più, di situazioni in cui i piroscafi prima di prendere la rotta per la destinazione finale, toccavano anche altri porti italiani, tra i quali quelli di Napoli, Trieste e Messina. Vi erano anche gli approdi esteri che però vennero sfruttati dal 7,0% di connazionali per ragioni incerte, forse precedente emigrazione o convenienza economica. Secondo quanto afferma il Sori(12) nel 1885 un biglietto per traversare da Amburgo a New York costava solo 8 dollari. Una somma molto bassa anche rispetto a quella necessaria che permetteva il trasporto via terra dal centro Europa a un suo porto atlantico.
Le spese degli emigranti, naturalmente, non si risolvevano solo nel biglietto. Svariati erano i modi in cui i viaggi potevano essere sovvenzionati. I piccoli proprietari terrieri, solitamente, vendevano tutto quello che avevano, mentre i contadini usufruivano di un sistema creditizio che, spesso, finiva per assoggettarli "all’odiosa trama dell’indebitamento" usuraio(13). Altri godevano dei vantaggi generati dal flusso migratorio stesso. Amici e parenti mandavano a chiamare gli aspiranti emigranti inviando loro i risparmi o i cosiddetti prepaids, dei biglietti di viaggio prepagati a un costo minore, che vennero soprattutto sfruttati nel mezzogiorno. Apparentemente il costo minore dei prepaids avrà coinvolto un gran numero di persone, soprattutto quelle più sprovviste nelle capacità organizzative, ma i vantaggi delle loro vendite andavano tutti alle compagnie di navigazione che riservavano ai clienti in questione le peggiori condizioni di viaggio.
"Le compagnie ricavavano dai prepaids sia un flusso di entrate nei periodi morti che intervallavano le fisiologiche punte stagionali di espatrio, sia la possibilità di dislocare nel tempo la partenza del prepagante in funzione dell’esigenza di raggiungere il pieno carico dei bastimenti"(14).
3. Le partenze dal Sud
Secondo i dati del Balch Institute di Philadelphia, i connazionali sbarcati in America entro 1897 furono 56.268; si tratta di un campione pari a circa il 10% della totale emigrazione italiana verso gli Stati Uniti, per cui è stato possibile individuare l’anno di sbarco, i dati anagrafici, il comune di provenienza, l’occupazione, l’analfabetismo, il tipo di viaggio affrontato. Sempre riferendoci all’intervallo 1880-1897 è, infatti, opportuno sottolineare che solo il 14,3% degli emigrati italiani si dirigeva verso l’America mentre la maggior parte dell’emigrazione italiana verteva preferibilmente verso i paesi europei e del bacino mediterraneo.
Tenendo conto del flusso migratorio verso gli USA, i primi a partire furono uomini, soprattutto giovani che si muovevano individualmente; un altro gruppo riguardava, invece, i nuclei familiari che potevano emigrare in una sola soluzione o, come spesso accadeva, in più fasi successive. Inutile sottolineare che la prevalenza di partenze maschili in età adulte è riconducibile a molteplici motivazioni tanto economiche quanto sociali. Una tale discriminazione del sesso si riscontra anche nelle fasce d’età tra i zero e quattro anni e, soprattutto, per le età anziane.
Le donne furono quelle che più piansero le conseguenze della prima emigrazione. Affrante dalle separazioni familiari, quasi entravano in lutto percependo l’America "come una terra maledetta dove i loro mariti, figli e fidanzati erano alla mercé di un’atmosfera infetta che faceva loro dimenticare il passato italiano"(15). "Per le donne con il marito in America, il trauma della separazione era aggravato dal problema di come mantenere se stesse e i bambini. I soldi inviati dall’America erano spesso insufficienti a sostenere la famiglia".(16)
In mancanza di altro l’unica alternativa alla fame era per loro effettuare lavori agricoli da sempre considerati faticosi. Se, nel frattempo, la moglie riceveva una lettera del marito che le chiedeva di raggiungerlo, l’invito era interpretato come un segno d’amore, significativo del fatto che nessuna donna si era frapposta tra loro, ma ciò creava una serie di problemi che la donna di solito non era abituata ad affrontare. Avrebbe dovuto, in breve tempo, procurarsi i documenti necessari per lei e i figli, vendere tutti i beni e fare qualsiasi cosa fosse necessaria per il viaggio.
Non tutte le donne erano, pertanto, disponibili a raggiungere i mariti; era frequente che alcune di loro inventassero scuse ripetute per rimandare la partenza, fino a far perdere la pazienza al marito che minacciava l’abbandono. Quest’ultimo fu "uno degli aspetti più cupi della storia degli emigrati". Le più sfortunate, a riguardo, furono le donne giovani lasciate dal marito, senza più notizie, dopo la nascita del primo figlio. Ma gli effetti della massiccia emigrazione maschile si ripercossero anche tra le nubili; l’obbligo della dote per il matrimonio e l’assenza protratta del padre o di un fratello maggiore condannò molte ragazze allo zitellaggio.
Molte di queste vicende andarono a sostegno di coloro che ritenevano che l’emigrazione mettesse a rischio l’integrità morale delle popolazioni meridionali. L’assenza di capi famiglia maschi e di figli adulti faceva venire meno il dovere tradizionale di questi a vigilare sull’onestà delle sorelle nubili.
Fino al 1870, periodo in cui si invertì il rapporto tra emigrazione del Nord ed emigrazione del Sud, opinione comune era che i meridionali fossero irrimediabilmente attaccati alla loro terra e al proprio sistema di vita. Ma alla proclamazione dell’Unificazione già i dati parlavano chiaro: gli italiani cominciavano a lasciare il paese in numero consistente, non più e non solo alla ricerca della ricchezza ma anche e soprattutto per sopravvivenza. Le camere di commercio del Nord e del Sud chiedevano si bloccasse qualsiasi emigrazione: le campagne erano sempre più deserte e necessitava più manodopera. "La promessa di un viaggio per mare pagato e di un lavoro garantito all’arrivo erano incentivi sufficientemente forti a superare l’istintivo timore del lavoratore di lasciare il paese natale per una terra sconosciuta"(17).
La stampa di sinistra vide nell’emigrazione la conseguenza della rivoluzione sociale. La nuova entità politica dell’Italia come nazione evidenziava l’esistenza di due civiltà, quella del Nord e quella del Sud, tra loro diverse e pur racchiuse in un "unico corpo statale". La classe politica italiana adottò, a tal riguardo, la politica del laissez faire, considerando il fenomeno quasi alla stessa stregua di una valvola di sfogo per i disagi che il Sud del paese comportava al nuovo stato. Le sole preoccupazioni del parlamento erano, allora, gli interessi settentrionali contro un meridione che poneva resistenza alle nuove leggi e fatto di scansafatiche, incompetenti e criminali.
Dal punto di vista dei contadini il nuovo regime aveva solo reso i vecchi e nuovi proprietari terrieri più avidi. Secondo ragguardevoli storici, tra i quali il siciliano Francesco Renda, a scatenare l’esodo dal Sud fu la ferocia con cui il governo italiano reprimette il movimento popolare di cooperazione dei Fasci Siciliani. Come afferma Jerre Mangione, che, per molti aspetti, si rifà allo stesso Renda, l’Unificazione italiana per i siciliani "iniziò con una rinascita della speranza contro la fame e finì con un esodo di massa". L’interruzione dei rapporti commerciali con la Francia nel 1887 e la conseguente depressione dell’economia siciliana rese i poveri sempre più radicali e pronti a ribellarsi in virtù delle loro aspirazioni.
La rivolta dei fasci rese per la prima volta i lavoratori siciliani consapevoli della loro forza collettiva ma segnò anche l’inizio della loro rovina. Non furono capaci di affrontare efficacemente l’opposizione e la situazione sfuggì, presto, loro di mano. L’appello della piccola nobiltà, spaventata a che i fasci fossero aboliti e l’intervento dello stato prima moderato e poi radicale si risolvette nella dura repressione del movimento con lo stadio di assedio dell’isola cui seguirono arresti di massa e deportazioni nelle colonie penali(18). In poche parole, la mancata promessa di Garibaldi di dare un avvenire migliore ai contadini siciliani, il disinteresse crescente del nuovo governo e la sconsiderata repressione dei fasci uniti ai disastri naturali (siccità, eruzioni vulcaniche e terremoti, epidemie di colera)(19) lasciarono al popolo siciliano una sola speranza: l’America.
Nello stesso periodo (1861-1880) in America, nello stato della Lousiana, l’abolizione della schiavitù nel 1861 e, quindi, l’emancipazione dei negri aveva comportato l’abbandono di numerose piantagioni e soprattutto una forte carenza di manodopera lavorativa. I padroni delle piantagioni cercarono di rimediare importando manodopera dalla Cina e dalla Scandinavia ma le condizioni di clima dello stato americano privarono di successo questo primo tentativo. Un altro esperimento fu fatto importando lavoratori dalla Spagna e dal Portogallo ma presto i governi spagnolo e portoghese fermarono l’emigrazione dei loro Sudditi denunciando le inaccettabili condizioni del clima, la mancanza di igiene e la miserevole retribuzione di 75 centesimi al giorno. Un altro tentativo fu così rivolto all’Italia. Tutti i giornali italiani pubblicizzarono l’inaugurazione di compagnie navali tra New Orleans ed il Sud della penisola che avrebbero permesso di raggiungere l’America con appena 40 dollari a persona.
Al principio dell’ultimo decennio del secolo XIX, dopo i fasci siciliani, più di tre navi ogni mese lasciavano le coste siciliane con destinazione New Orleans. Immagino che anche allora, sebbene in un clima di maggiore legalità e di controllo, sia accaduto ciò cui oggi assistiamo di fronte alle masse migratorie che si spostano dai paesi orientali verso il ricco occidente. Tra le une e le altre la sostanziale differenza sta nella distanza, in quanto attraversare terre ferme o mari chiusi, come l’Adriatico, è cosa ben diversa dall’affrontare l’Oceano.
Alcuni emigrati trovarono lavoro direttamente a New Orleans mentre un gran numero venne reclutato per lavorare nelle piantagioni da zucchero. Le condizioni di lavoro nelle piantagioni erano realmente misere, anche per gli stessi contadini siciliani scappati alla fame. Secondo quanto, più dettagliatamente, afferma Mangione si lavorava dall’alba al tramonto guadagnando una miseria(20). Le condizioni di vita erano primitive e, tuttavia, i lavoratori, incoraggiati dai padroni, mandavano a chiamare mogli e figli. Presto i siciliani scoprirono che, rompendo le tradizioni del vecchio mondo e portando nei campi le donne a lavorare fianco a fianco, avrebbero potuto muoversi oltre le barriere della vita di sussistenza(21). E anche per intere masse di isolani fu una svolta decisiva di civiltà.
NOTE
1 Cfr. W. Salomone, Una rilettura dell’emigrazione, in AA.VV. Le Società in transizione: italiani e italoamericani negli anni ottanta, Atti del convegno (Balch Institute, Philadelphia, USA 11-12 ottobre 1985), Ministero degli Affari Esteri, Roma, s.d. p.33.
2 Cfr. A. Colletti, La questione meridionale, Torino SEI,1977
3 Cfr. E. Sereni, Capitalismo nelle campagne, Torino Einaudi,1947, p.368ss
4 Delille, Agricoltura e demografia nel regno di Napoli nei secoli XVIII e XIX, Napoli, Guida, 1977, p.123
5 Cfr. E. Franzina, Merica! Merica!..., Milano, Feltrinelli, 1974, p.220
6 Cit. E. Franzina, Dall’Arcadia in America, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1996, p.70.
Pertanto, sebbene studi recenti abbiano colmato qualche lacuna, in realtà in Italia è mancata una vera e propria letteratura verista sull’emigrazione dagli anni 1890-1930, sembra quasi che il paese subisse la questione migratoria senza conoscerla da vicino, mentre la letteratura straniera, attraverso la descrizione degli emigranti italiani, mostrava i caratteri del fenomeno attribuendogli una valenza sicuramente negativa. Da alcuni romanzi russi, per esempio, si evince un immagine etnico-somatica degli italiani, quali cafoni meridionali, i cui tratti comuni sono: melodia nel parlare, linguaggio sconosciuto, indolenza.
7 Alcuni tra i rifugiati più giovani si unirono alla guardia italiana, un corpo militare di New Yosk che si addestrava per tornare in Italia e partecipare alla lotta per l’unificazione. Cfr. J. Mangione B. Morreale, La storia, Torino, Società Editrice Internazionale, 1996,p.17
8 cfr. D. Salvatori, Tu vuò fa l’americano, Napoli, Tullio Pironti Editore,1995,p.16
Peter Giannini ha fondato all’inizio del secolo scorso la Bank of Italy (in seguito Bank of America), che già negli anni venti era fra le più quotate in assoluto.
9 Dal 1887 al 1900 si registrano 269.000 unità annue a causa dell’aumentata offerta di lavoro del mercato americano.
10 Tali liste di sbarco sono, oggi, conservate nel National Archives del Balch Institute di Philadelfia che ha fornito i dati necessari allo studio generale del fenomeno migratorio, considerato nella sua globalità e dell’emigrazione italiana verso gli Stati Uniti ad opera di Luigi Di Comite ed Ira Glazier, 1984.
11 E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979, p.294.
12 E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna Il Mulino, 1979.
13 Ivi, p. 296.
14 Ivi, p. 297.
15 J. Mangione B. Morreale, La storia, Torino, Società Editrice Internazionale, 1996, p.94.
16 Ibidem.
17 Ivi, p. 73.
18 A tal proposito cfr.anche F.Renda, L’emigrazione in Sicilia, Palermo, Ed. Sicilia al lavoro, 1963, p.37, laddove si legge che: "Disattese le speranze di un ordinamento autonomistico isolano, prese corpo e sostanza, infatti, quella politica esasperatamente centralizzata e autoritaria dei governi militari luogotenenziali, che era un modo singolare di applicare alla rovescia il principio di decentramento politico ed amministrativo rivendicato dalla maggior parte dei siciliani. A Torino si credette che non vi fosse altro mezzo di governare l’isola se non quello degli stati di assedio, dei tribunali straordinari, dei provvedimenti punitivi indiscriminati, delle leggi speciali di pubblica sicurezza. Persino le leggi amministrative, finanziarie ed economiche del vecchio Piemonte furono estese alla Sicilia quasi con la convinzione che i siciliani non fossero abbastanza evoluti per saperne apprezzare tutti i benefici che ne avrebbero potuto ricavare....Fu nel contesto di questo grave travaglio che l’emigrazione cominciò a svilupparsi nelle forme sociali oggi note".
19 Tra il 1884-87 vi furono in tutto il meridione una serie di epidemie di colera, cui si aggiunsero le eruzioni vulcaniche del Vesuvio e dell’Etna e nel 1908 il terremoto e maremoto che coinvolse la provincia di Messina e la Calabria.
20 J. Mangione B. Morreale, La storia, Torino, Società Editrice Internazionale, 1996, p.188. Gli uomini guadagnavano in media un dollaro al giorno, mentre vecchi, donne e bambini tra i 25 e i 50 centesimi.
21 Ibidem.
Tra i grandi maestri della letteratura contemporanea - europea e mondiale quali Th. Mann, Joice, Musil, Rilke, Zweig, Schniztler, Trakl, Kafka, Kraus e altri -, un nome spicca per originalità, modernità, genuinità e comune appartenenza alla temperie letteraria mitteleuropea: quello di Italo Svevo (1861-1928). Il quale, insieme con Luigi Pirandello, almeno per quanto riguarda l’Italia, rappresenta l’autore più in vista per l’indubbia capacità di aver saputo elevare ad altezze mondiali il suo messaggio così carico di inquietudini esistenziali e così ricco, insieme, di stimoli culturali. E ciò, soprattutto, in un periodo in cui - dopo la stagione del grande Verga, Fogazzaro, De Roberto, per citare qualche nome - la prosa narrativa italiana sembrava alquanto esangue e in ritardo rispetto alle rimanenti esperienze europee.
Pirandello e Svevo hanno colmato tale lacuna anche se bisognerà attendere la pubblicazione del ‘Gattopardo’ per assistere ad un evento letterario di portata europea sebbene, giova sottolinearlo, non siano mancate nel panorama delle lettere italiane del Novecento, altre voci degne di attenta considerazione come quelle di Brancati, Landolfi, Buzzati, Calvino, Gadda, e tanti altri. La formazione di Svevo, com’è noto, si svolse in un clima prettamente mitteleuropeo quantunque l’appartenenza dello scrittore sia tutta nella letteratura italiana. La fortuna - anche questo è notorio - non arrise subito al futuro del capolavoro ‘La coscienza di Zeno’ (1923); egli, anzi, a causa dei progetti del padre che voleva farne un ottimo commerciante, non sembrava che potesse trovare le migliori gratificazioni nelle prove letterarie visto che solo gli affari dovevano costituire il naturale sbocco dei suoi studi economico-commerciali.
Studi che egli intraprese e concluse, sempre per volontà del padre, in un austero collegio di impronta economica, in Germania, per proseguirli, dopo, nell’Istituto Superiore Commerciale ‘Revoltella’ di Trieste. Ma il richiamo delle lettere era troppo forte, per il giovane Schmitz, per potervi rinunciare anche se il lavoro d’impiegato - e la stessa cosa era successo a Franz Kafka - lo terrà inchiodato in banca per ben diciotto anni. La città di Trieste viveva, in questo periodo, unitamente al suo territorio, un’atmosfera di irredentismo al quale Svevo non fu estraneo visti i suoi sentimenti profondamente italiani; la collaborazione a fogli di sentimenti patriottici come, ad esempio, ‘L’Indipendente’ e ‘Il Piccolo’, ne sono la riprova più evidente.
Naturalmente, i suoi sono articoli culturali, recensioni e saggi, benché, come scriverà, in seguito, un suo amico ad estimatore triestino, Silvio Benco, con "questa rude rinuncia agli studi regolari che la sorte gli inflisse". Il critico e storico si riferiva, evidentemente, agli studi economici compiuti dal futuro scrittore italiano anche se, dal 1881 in poi, Italo Svevo si dedicò "toto corde" allo studio dei classici italiani con preferenze che andavano da Boccaccio, Machiavelli e Guicciardini a Carducci e De Sanctis, sempre per limitarci ai principali.
Sull’ ‘Indipendente’, l’Autore si era cimentato con uomini del calibro di Nordau, Zola, Verga, Wagner, Schopenhauer ed altri - segno, questo, anche delle sue inclinazioni per la letteratura tedesca -, ma da questo momento, siamo nel 1892, egli dette una svolta all’attività di uomo di lettere pubblicando, finalmente con lo pseudonimo di Italo Svevo, la sua prima opera, il romanzo ‘Una vita’ quantunque, qualche anno prima, avesse già dato alle stampe altri lavori. Nella fattispecie, si trattava di una lunga storia avente come interprete un giovane triestino, Giorgio che, dopo aver abbandonato gli studi e dissipato il patrimonio paterno, uccise un amico per denaro. Ma siccome lo scrittore, da tempo, nutriva predisposizioni per il teatro, iniziò, in questi anni, a redigere opere drammatiche e una di queste, ‘Un marito’, ebbe un notevole successo - ancora oggi è molto rappresentata - ad onta dei toni della gelosia e della passione in essa contenuti.
Dopo il matrimonio e la ripresa della collaborazione a giornali e riviste - ad esempio ‘La critica sociale’ di Turati - uscì il primo importante romanzo dell’Autore, ‘Senilità’ (1898), in cui iniziarono ad emergere i motivi di fondo della problematica sveviana anche se la critica e l’opinione pubblica erano ancora impreparate a recepire le novità del messaggio. Il libro passò, quando apparve, quasi inosservato e lo stesso scrittore - nella prefazione all’edizione del 1927 - nel considerare che "il romanzo non ottenne una sola parola di lode o di biasimo della nostra critica", non faceva altro che confermare che senza gli autorevoli giudizi di Joice, Duijardin e altri la rassegnazione sarebbe stata definitiva. Ciò perché, secondo Svevo, non esisteva e "non esiste un’unanimità più perfetta di quella del silenzio"; e, infatti, per quasi venticinque anni egli non toccò più la penna. Qualche critico, però, intuì la novità del verbo sveviano e sempre il Benco definì ‘Senilità’ "un’opera proporzionata meglio, più omogenea, più fine, ed è anche illuminata da quel senso dell’impressione pittorica". Ma i critici citati non furono gli unici a percepire che ci si trovava al cospetto di un grande narratore perché oltre agli italianisti Crémieux e Larbaud, un italiano, Eugenio Montale, avvertì la novità insita nel romanzo dedicandogli un acuto saggio sulla rivista "L’Esame’ del 1925.
Ed ecco qualche brano del saggio montaliano il quale, dopo aver premesso che "Svevo potrà darci altri frutti del suo ingegno e noi ne abbiamo speranza", così proseguiva, riconosciuti altri meriti dell’autore triestino, come ad esempio "l’adeguazione tra premesse e conseguenze" in lui presenti. "In quest’uomo rinasce l’antica e sempre rara qualità dell’arte ispirata, che ha volto e cuori umani, semplici forme e talora dimesse". Anche la trama di ‘Senilità’ è nota e in questo libro è, per la prima volta, in modo esplicito, delineata la figura dell’ ‘inetto’ o dell’ ‘inerte’; figura presente pure nel romanzo ‘Una vita’ nella persona di Alfonso Nitti, sotto mentite spoglie, il medesimo Svevo.
I protagonisti, Angiolina - "donna viva e cocente sofferenza di Svevo giovane" -, sempre a detta di Silvio Benco - Emilio, Amalia e Balli intrecciano una serie di rapporti dai quali emergono l’incapacità di Emilio, l’inerzia di Amalia, l’esuberanza di Balli e, infine, l’imprevedibilità e la stravaganza di Angiolina. Emilio innamorato di quest’ultima deve subire i capricci della donna, ma quanto più essa lo umilia e lo tradisce, tanto più egli le resta attaccato. Chiarisce sempre Silvio Benco: "Svevo, nella sua giovinezza bersagliata di sventure domestiche e minacciata di ruggine, dovette provare davvero il timore che tutto il suo destino potesse essere quello dell’impiegatuccio oscuro, intimamente sconfitto". Ecco perché volle delineare due figure di inetti o abulici o incapaci: l’uno, il Nitti, con maggiore nobiltà e vigore, l’altro, il Brentani, malato, incapace e preparato alla sconfitta perché non in grado, parole di Svevo, di "compromettersi in una relazione troppo seria". E veniamo al capolavoro ‘La coscienza di Zeno’ (1923). Redatto in forma di diario - diario, naturalmente, inventato dall’io narrante, cioè dal paziente in terapia analitica, e pubblicato per ripicca dal Dr. S., lo psicanalista - il grande romanzo ripercorre, nei suoi otto capitoli, le vicende di Zeno Cosini che, poi, altro non è che l’autore stesso del libro.
I motivi e le novità dell’opera sono, come la critica più stimata ha dimostrato, moltissimi ed essi vanno dalla nuova forma dell’ordito del lavoro - che stravolge i vecchi canoni del romanzo - agli stati d’animo dello scrittore che, esplica il Lucchini, "scandiscono il ritmo del racconto, ora lento sino a rasentare l’immobilità della più stagnante autoanalisi, ora rapido e travolgente al punto di suggerire la sceneggiatura di una commedia". Ma le novità non finiscono qui perché l’Autore stravolge tutte le antiche strutture del racconto alterando anche i nessi cronologici; e, infatti, sempre per Montale, Svevo non si sofferma sulle ragioni della condotta dei personaggi, bensì sulla ‘non motivazione’ della loro inerzia.
E veniamo A Zeno personaggio. Questi non è un interprete definito, nel senso che si costruisce mentre opera; di lui sappiamo, ad esempio, che è vecchio e calvo ad appena cinquantasette anni e che è malato; talmente ‘malato’ che egli rappresenta il vero e proprio prototipo dell’ ‘inetto’. inetto, cioè, come Nitti e Brentani dei libri precedenti, ma anche mentitore quando rievoca le fasi della sua vita che affonda le radici nell’inconscio. Quell’inconscio appreso da Freud e Schopenhauer e sperimentato su se stesso anche se, chiarisce sempre il Benco, "in modo non ortodosso, sì piuttosto da protestante". L’esperienza diretta - sottoponendosi alle cure di Freud - la fa, invece, a Vienna il cognato Bruno Veneziani il quale ne resta, però, molto deluso. È pacifico, ad ogni modo, che la psicoanalisi pervade l’opera di Svevo né la cosa deve meravigliare se pensiamo quanto grande sia stata l’influenza di Bergson in Proust.
Tutti i rimanenti personaggi sono dall’Autore delineati sì nella loro giusta dimensione, ma, obbietta lo scrittore e critico Francesco Grisi, essi restano dei ‘minori’, cioè "in funzione strumentale e, nelle loro varie disponibilità, di mettere in luce gli insostituibili Alfonso, Emilio e Zeno". Ada, Augusta, Guido, Carla e gli altri protagonisti giocano il proprio ruolo anche in prospettiva intercambiabile visto, per fare un altro esempio, che, appunto, Guido - all’inizio, sicuro di sé, esuberante e uomo di mondo - alla fine diventa anch’egli uno sconfitto dominato, com’è, soltanto dagli interessi commerciali e meramente economici.
E ciò vale anche per Ada, Augusta e Carla che, ad un certo punto, appaiono anche sotto altra veste, la prima, col suo ‘odio et amo’ per Zeno, la seconda, meno sgradevole e meno brutta dell’inizio, la terza, infine, imprevedibile e misteriosa.
Anche la teoria dell’impersonalità è presente nell’Autore, benché egli non la dichiari; essa, osserva ancora Grisi, "è solamente un procedimento tecnico per Svevo. Consiste nella intenzione dello scrittore, in uno schema non improvvisato, ma necessario per scartare la vuota ricerca". Ecco perché il Lucchini scrive giustamente che "Svevo si forma senza dubbio nel solco di questa esperienza letteraria, ne assimila quantomeno una certa idea di romanzo d’ambiente e d’indagine psicologica". Tale esperienza è la lezione naturalistica i cui autori egli tiene presenti nelle recensioni sull’ ‘Indipendente’ e su altri fogli dell’epoca. ‘La coscienza di Zeno’ si chiude con la celeberrima professione di fede pacifistica, ma, pure col timore che "quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli". Hanno scritto, rispettivamente, il Benco e Mario Fusco - quest’ultimo sulle colonne del giornale francese ‘Le monde" (1981) - che "si può dire di Svevo che egli scrisse sempre, e fino all’ultimo, quello che imparò vivendo" e che, infine, "les dernières pages de ‘La conscience de Zeno’ ne laissent guère d’illusions sur la manière dont Svevo considerérait la hantise de la maladie et de la mort".
La sapienza etimologica che nel Cratilo s’impossessa improvvisamente di Socrate possiede caratteri divini (396c 7-397a 1); non soltanto perché i nomi che vengono analizzati e giustificati sono spesso nomi di divinità, ma soprattutto per lo sconfinare dell’indagine platonica al di là delle possibilità della dialettica, intesa come strumento specificatamente umano di conoscenza. Il concetto platonico di nome si mostra in tal modo connesso ad un movimento epistemico che tenta di oltrepassare i limiti imposti all’uomo dalla mediazione dialettica. Lo studio dei nomi condotto da Socrate nella lunga sezione etimologica non è volto ad escogitare un metodo di ricerca della verità che mostri la propria validità nella fondazione di un’epistème: non avviene qui ciò che si verifica nel Sofista, nel Teeteto, nel Parmenide o in altri dialoghi(1). La daimonìa sofìa viene associata ad immagini e situazioni che la allontanano dal sapere argomentativo per portarla in prossimità di una dimensione del comprendere che oltrepassa o addirittura rifiuta le scansioni della mediatezza per intuirsi nella regione chiara dell’immediato. La natura di tale sapienza, abbandonata la misura terrestre e umana della diànoia, si muove ormai nell’ulteriorità soprasensibile della nòesis, si stacca dal piano della successività del tempo, elemento proprio della divisione, per guadagnare l’insieme panico della totalità nell’istante indiviso dell’eterno. Questo sbalzo verso l’alto, naturalmente, riflette se stesso e si compensa antifrasticamente nell’ironia: "SO. […] E se ricordassi la genealogia di Esiodo(2), quali a suo dire, andando ancora più indietro, siano stati gli antenati di questi, non finirei più di mostrare con quale correttezza siano stati posti loro i nomi finchè non avessi sperimentato ciò che sarà in grado di fare, se verrà meno oppure no, questa sapienza che ora all’improvviso mi è caduta addosso, non so da dove. ERM. Infatti, Socrate, sembra che ti sia messo a cantare oracoli improvvisamente come gli invasati. SO. E ritengo, Ermogene, che mi sia caduta addosso soprattutto a causa di Eutifrone il Prospaltese: stamattina infatti, per ascoltarlo, mi sono intrattenuto molto tempo con lui. E c’è il rischio che, essendo invasato, non mi abbia soltanto riempito le orecchie di questa sapienza divina ma che addirittura me ne abbia contagiata l’anima. Mi sembra dunque opportuno fare in questo modo: per oggi utilizzarla e fare ricerca intorno alle altre cose riguardanti i nomi, domani se anche a voi sembrerà opportuno, la allontaneremo mediante scongiuri e ci purificheremo avendo trovato chi sia esperto nell’eliminare certe cose, sia che si tratti di un sacerdote sia che si tratti di un sofista" (396c 3-397a 1). I riferimenti alla poesia omerica ed esiodea(3) fatti nel seguito sono una prova del tentativo platonico di scardinare gli schemi rigidi del metodo dialettico nel momento stesso in cui lo va sperimentando. In questo doppio movimento del costruire e del distruggere, del negare e dell’affermare, la poesia, il mito e la religione alimentano tutta la problematicità di un testo che continua attraverso i millenni ad esercitare intatto il proprio fascino filosofico.
L’afflato della daimonìa sofìa non è umanamente controllabile: Socrate non sa se essa verrà meno misteriosamente e improvvisamente così come è venuta; non sa da dove viene e cosa farà. Invasato dal dio, ma al tempo stesso influenzato dal superbo e grossolano spirito profetico di Eutifrone, Socrate sospende il giudizio anzitutto sulla bontà di tale ispirazione: la pratica etimologica sembra persino necessitare di esorcismi e purificazioni. Questa stessa rinuncia da parte di Socrate a decidere per la liceità o l’illiceità della ricerca etimologica è segno dell’adialetticità dell’uso delle etimologie(4), dunque del carattere noetico della verità che si ricerca nei nomi. I nomi su cui si sceglie di fare ricerca, tuttavia, non vengono presi a caso: la natura divina dell’afflato epistemico avrà un oggetto di conoscenza altrettanto divino, i nomi sottoposti ad analisi concettuale mediante derivazione etimologica saranno infatti i nomi degli "enti eterni", ossia i nomi delle divinità e quelli che designano i concetti fondamentali della filosofia platonica. I nomi degli "enti eterni" vengono presi in esame perché è naturale che in tali casi l’imposizione del nome sia avvenuta in modo sommamente conveniente (màlista preèpei dynamis), tale imposizione è in alcuni casi opera di una ònoma(5) più divina che umana (397 b7-c 2).
Il passaggio dall’analisi dei nomi propri (Oreste, Agamennone, Atreo, etc.) a quella dei nomi comuni (dei, demoni, eroi, uomini, anima e corpo) segna un’estensione del senso del termine xxxxxx, contestualmente, per la natura dei nomi presi in considerazione, tradisce le intenzioni più proprie della ricerca condotta da Platone nel Cratilo(6). L’analisi dei termini theòi, dàimones, èros àlthropos, psychè e sòma non è che l’insistenza da parte del filosofo sui temi classici della propria speculazione. Ora però questi temi sono colti da un punto di vista radicalmente differente – e forse è proprio questa originale variazione della prospettiva ciò che costituisce la novità fondamentale del Cratilo rispetto a tutti gli altri dialoghi platonici. Platone si accorge che la considerazione del significante in sé può costituire un buon punto di partenza per un’indagine che, al di là della formale considerazione linguistica, continua ad essere opera del pensiero dell’essenza, opera di quel pensiero cioè che oltrepassa la semplice considerazione dei nomi e delle cose per muoversi in prossimità delle essenze e trovare in queste la fonte comune tanto dei nomi quanto delle cose(7).
L’ordine imposto da Platone a questa teoria ossia a questa processione di nomi, heòi -dàimones -èros àlthropos - psychè -sòma, è già un’immagine, un èidos, della concezione platonica della realtà: chiusi fra gli estremi del divino (thèoi) e dell’umano (ànthropos) i semidei (dàimoles) e gli eroi (èroes); nella breve sequenza di questi nomi si dispiega l’intera gerarchia di un cosmo inteso come essere vivente perché formato da esseri viventi(8). Ma seguiamo passo passo le intuizioni concesse dall’ispirazione divina alla voce di Socrate. La prima etimologia di questo secondo gruppo riguarda proprio il termine theòi: "Ritengo che i primi uomini che abitarono la Grecia considerassero divinità soltanto quelle che ora sono considerate tali da molti barbari: il sole, la luna, la terra, le stelle e il cielo; poiché vedevano che tutte queste cose vanno sempre di corsa e corrono, li chiamarono "dei" (theoùs) da questa natura del correre (thèin); in seguito, avendo preso coscienza di tutti gli altri chiamarono anche quelli con lo stesso nome" (397c 8-d 6)(9). Naturalmente affermare questo significa porre il divenire eracliteo a principio di tutte le cose: fare cominciare il gruppo di etimologie con l’analisi del nome thèoi significa poi ribadire il primato ontologico del divino. Le etimologie platoniche, disseminate in tutti i dialoghi composti dal filosofo, non sono giochi senza scopo o vezzi ironici elaborati per mostrare l’inconsistenza delle teorie sul legame fra i nomi e le cose. Nelle intuizioni indotte dall’ispirazione divina bisogna riconoscere le tesi fondamentali del sapere filosofico, l’analisi etimologica assume in tal modo le fattezze di una strategia epistemica che possiede un proprio rigore e un propria efficacia pur non avendo nulla a che fare con la dialettica(10).
Ma quanto la daimonìa sofìa sia vicina all’ispirazione poetico-mitologica lo mostra l’analisi del nome seguente. L’analisi etimologica, inaugurata coi nomi di Ettore e Astianatte, si era aperta tramite un riferimento alla poesia omerica (392a-e), mentre le considerazioni riguardo al precedente gruppo di etimologie si erano chiuse con una citazione indiretta della Teogonia esiodea (396c 3): ora è una nuova citazione da Esiodo che fa da spunto alle osservazioni sul termine dàimones. Perché cercare nell’elemento poetico la ragione dell’imposizione dei nomi? Si potrà tentare una risposta soddisfacente a questa domanda solo quando sarà sufficientemente chiaro il valore e il significato filosofico che Platone attribuisce al nome, per il momento ci limitiamo a rilevare questa insistenza da parte del filosofo nel legare la correttezza dei nomi ai caratteri della poeticità.
La prima delle due specie di esseri viventi menzionata come intermedia fra gli dei e gli uomini, quella dei dàimoles, è chiamata così perché ai demoni appartiene in grado sommo la sapienza capace d’insegnare: Platone riconduce il nome in questione al termine dàimoles, la cui radice dà- è identica a quella del verbo didàsko: "E intende [Esiodo] soprattutto questo, almeno credo, quando parla dei demoni; poiché erano intelligenti e saggi (dàemoles) li chiamò demoni. E nella nostra lingua antica ricorre proprio questo nome. Quindi dice bene sia lui che molti altri poeti i quali sostengono che, dopo la morte, un uomo giusto si appropria con onore della grandezza del proprio destino e diviene demone secondo una nominazione causata dalla saggezza" (398b 5-c 1)(11). Il riferimento all’antichità della lingua è un richiamo all’origine, la vetustà del termine dàemoles indica la sua vicinanza all’atto dell’imposizione originaria. Tale circostanza è suffragata tramite un ennesimo riferimento alla dimensione poetica: la poesia infatti, come Heidegger continua a fare presente alla coscienza filosofica contemporanea, è il luogo del linguaggio eletto alla rivelazione di ciò che è originario(12). I dàimoles sono inoltre gli spiriti di quanti in vita ricercarono la sapienza, le anime dei morti divenute entità divine. L’accenno ai destini ultramondani dell’anima coinvolge un altro dei grandi temi della filosofia platonica: l’escatologia. Solo dopo la morte quanti hanno cercato la sapienza per tutta la vita otterranno di contemplare il volto della verità. L’etimologia di questo nome, come accade in molti altri casi, è sottesa ad una vera e propria tesi filosofica riguardante il concetto che il nome svela.
Facendo riferimento al tipo di vita condotta sulla terra da parte di coloro che dopo morti divengono dàimoles, si introduce la figura dell’eroe, seconda figura intermedia fra il divino e l’umano. Ma il nome hèros accenna suggestivamente al puro tendere delle anime verso la sapienza, al moto ascensivo dall’umano al divino ripercorso a ritroso dall’ordine imposto a questa teoria di nomi. Questo puro tendere è èros in persona, il tema fondamentale della filosofia platonica: "Senza dubbio tutti [gli eroi] sono nati o da un dio innamorato di una mortale o da un mortale innamorato di una dea. Quindi se rifletterai su questa circostanza in relazione alla lingua attica antica comprenderai di più; ti mostrerà infatti che dal nome di quell’amore (tù èrotos) da cui sono nati gli eroi, con una piccola modifica, al fine di farne un appellativo, hanno derivato il loro nome. A causa di questo si chiamano "eroi" o a causa del fatto che erano sapienti, oratori, molto intelligenti e dialettici proprio perché competenti nell’interrogare (erotàn): "dire" (èirein) infatti è lo stesso che parlare. Dunque, come abbiamo appena detto, quelli che in lingua attica sono chiamati "eroi" risultano essere oratori e abili nell’interrogare, di conseguenza il genere degli oratori e dei sofisti è insieme la stirpe degli eroi." (398d 1-e 3)(13).
Il doppio movimento, ascensivo e discensivo, psicagogico e catabatico di èros funge da spiegazione generale del termine hèros. Tutti i miti riguardanti gli amori fra dei e mortali rivelano l’essenza di èros(14): essa risiede nella forza che unisce l’umano al divino. Gli incontri fra le divinità e i mortali hanno generato gli eroi, semidei che stanno a metà fra l’umano e il divino: questo stare a metà è un andare e un riandare fra l’uno e l’altro. La differenza fra la parola hèros e la parola èros, poi, come Platone fa notare, rimane foneticamente nell’aspirazione e nell’allungamento della vocale iniziale, come se l’hèros, anche nella pronunzia, uscisse fuori dall’èros. Come accade altrove, anche in questo caso Platone ipotizza una seconda origine per il nome hèros: il termine potrebbe derivare da èiro ("parlo") ed erotào ("interrogo") perché gli eroi, sostiene il filosofo, erano sapienti, oratori e dialettici mirabilmente capaci d’interrogare. Solo apparentemente però questa derivazione è differente dalla prima, in realtà, in fondo, queste due etimologie dicono la stessa cosa: èros è infatti in senso platonico la dialetticità stessa, e la dialettica è l’essenza del linguaggio. Dire che l’hèros si chiama in questo modo perché generato da eros non è diverso dal dire che si chiama così per le sue abilità nel dire e nell’interrogare, perché appunto èros è in Platone questa divisione nell’unità, o questa unità dei divisi, che genera tutte le cose a partire dal domandare, il dire nel quale risuona il desiderio(15).
Prima di passare all’etimologia di àlthropos, termine che conclude questa pregnante teoria di nomi (l’analisi di psychè e sòma rappresenta infatti una continuazione dello studio dell’ànthropos condotto rispetto alle sue parti), Platone introduce un principio che nel seguito del dialogo si rivelerà fondamentale: "Come prima cosa sui nomi bisogna capire questo: nell’imporli in conformità a ciò che vogliamo spesso aggiungiamo lettere, spesso ne togliamo e trasformiamo gli accenti" (399a 6-9). Il principio, che ribadisce in sostanza ciò che era stato espresso alle righe 393d 2-4, viene espresso per consentire alla deduzione etimologica una grande libertà compositiva – con ciò si mostra in modo ancor più marcato il carattere piuttosto euristico che non storico-linguistico delle etimologie platoniche. Sostenere che le lettere possono essere maneggiate all’interno del nome con una certa disinvoltura significa concepire in maniera estremamente "poietica" sia il linguaggio sia i modi d’intervenire sul linguaggio. Il fatto che si cerchino nelle parole e nelle modificazioni delle parole pensieri degni di divenire oggetto della riflessione filosofica o, quantomeno, spunto per tale riflessione presuppone la credenza in una stretta vicinanza fra il pensiero, la conoscenza e il linguaggio: in queste etimologie, per così dire, il linguaggio è al lavoro su se stesso in un orizzonte nel quale il lògos più che divenire metafora del mondo si costituisce ormai come il mondo stesso della filosofia. È questo metodo di ricerca che Platone vorrà abbandonare quando alla fine del dialogo affermerà che per conoscere le cose è meglio rivolgersi alle cose stesse e abbandonare i nomi? Dal nostro punto di vista, al termine del Cratilo, il potere conoscitivo dei nomi non viene negato, ma semplicemente smorzato a paragone col potere conoscitivo delle idee.
Anche l’etimologia di ànthropos, in linea con le precedenti, è un occasione per pensare nel nome l’essenza della cosa evitando i passaggi e le macchinazioni della dialettica. Emerge in modo sempre più evidente il fatto che lo "sciame" delle etimologie è in realtà un affastellarsi di tesi filosofiche(16): se gli altri dialoghi, in generale, discutono ciascuno una tesi ben precisa o impostano un problema determinato, il Cratilo offre una panoramica vasta di concezioni filosofiche senza dilungarsi su nessuna in particolare; l’ambito dell’oggetto specifico di tale dialogo, l’ambito del linguaggio, si determina infatti come trasversale rispetto a tutta la filosofia: bisogna capire quale sia e quanta importanza abbia la funzione del linguaggio nella ricerca del sapere.
L’essenza dell’uomo, individuata da Platone nella differenza di specie fra l’uomo e gli altri animali, risiede nella memoria: "Questo significa il nome ‘uomo’ (ànthropos), che mentre gli altri animali non esaminano né considerano né riflettono su nulla di ciò che vedono, l’uomo, quando vede – cioè quando osserva (òpope) – riflette (alathrèi) e considera ciò che ha osservato. Da questo deriva il fatto che l’uomo è l’unico animale ad essere stato chiamato giustamente ‘uomo’ (àlthropos), poiché riflette su ciò che ha osservato (alathrèi ò opope)" (399c 1-6).
Da un punto di vista formale l’articolazione di quest’etimologia, più di altre, prepara il meccanismo della definizione aristotelica, consistente nell’unione del genere primo alla differenza specifica; in tal modo vediamo stringersi in maniera sempre più tecnica le relazione fra nome e definizione. L’uomo è quell’essere vivente che riflette su ciò che ha osservato: la tensione verso il divino che attraversa gli stadi intermedi dell’eroicità erotico-dialettica e della sapienza dei demoni comincia dalla semplice memoria dell’uomo. L’essenza dell’àlthrops viene articolata e specificata ulteriormente attraverso l’analisi dei nomi imposti alle due componenti fondamentali dell’uomo: la psychè e il sòma. Il metodo etimologico appare in tal modo assolutizzato: oltre ad indicare un nominatum il nome accenna ad altri nomi(17); se per conoscere la cosa non solo si ricorre al nome ma addirittura ai nomi delle parti dell’essenza della cosa il metodo rischia di immettere la ricerca nella via della cattiva infinità. In realtà, come è stato già assodato la genealogia di un termine non viene sfruttata come punto di partenza di un pensiero che riflette sull’intuizione etimologica in modo dialettico e dimostrativo. Un "metodo" non c’è, oppure estrapolarlo è difficilissimo: le etimologie si moltiplicano senza posa, si aggiungono l’una all’altra e si complicano, tenute insieme dal filo di una consequenzialità a tratti robusta a tratti invisibile, recano in maniera sempre più marcata i caratteri dell’ispirazione divina. Tale ispirazione, nell’ottica dell’equilibrio e dell’armonia dello stile platonico non è mai disgiunta dall’ironia e dall’autoironia. Ironia e comicità nascono infatti da quello stesso potere magico della parola che il tono sovrannaturale delle intuizioni etimologiche manifesta chiaramente.
Nella scomposizione dell’ànthropos in psychè e sòma si riesce a parlare dei componenti senza disintegrare l’intero; questo dovrebbe additare, in certo modo, una riconsiderazione del dualismo platonico fra anima e corpo: "Bene, così per improvvisare, credo che coloro che chiamarono l’anima (psychè) in questo modo abbiano pensato qualcosa del genere, cioè che quando questa è in composizione col corpo è causa del vivere di questo perché gli garantisce il potere di respirare e di rianimarsi (alapsychon), quando invece tale potere rianimante viene meno il corpo si distrugge e muore." (399d 10-e 2). La prima considerazione sul nome psychè è già un accenno all’impossibilità di distinguere l’anima dal corpo: in quanto respiro rianimante (alapsychon) l’anima è causa del vivere del corpo. Ma questa non sembra neanche un’etimologia di stile platonico, cioè di forte valenza euristica. L’identità radicale fra psychè e alapsychon impedisce qualsiasi riconduzione o spostamento del nome psychè; si tratta semmai dell’avvicinamento di due diversi significati della stessa parola. È invece etimologia platonica in senso pieno la seconda analisi di psychè, ed è etimologia densa d’interesse rispetto al problema centrale del Cratilo, perché contiene un riferimento alla physis: "Cos’altro credi che possa sostenere (èchein) e condurre (ochèin) la natura dell’intero corpo, di modo che esso viva e si muova, se non l’anima? […] A questa forza, che sostiene e conduce la natura, è splendido dare il nome ‘physèche’. E rendendolo più elegante è anche lecito dire ‘psychè’ " (400a 5-b 3). anche questa seconda etimologia, ma in modo più esplicito rispetto alla prima, accenna al fatto che l’anima è l’essenza dell’uomo: nell’intero (l’uomo) l’elemento ideale (l’anima) è principio dell’elemento materiale (il corpo). Ma dire così significa, ancora una volta, interpretare in maniera dualistica il rapporto che Platone istituisce fra anima e corpo: in realtà, ponendo nell’anima l’essenza dell’uomo si è detto che l’anima è l’uomo stesso, che il corpo è per l’individuo un semplice supplemento o al massimo uno strumento, perendo il quale l’essenza dell’uomo non viene minimamente intaccata.
L’etimologia del termine sòma è una conferma di tutto ciò. Anche qui si lavora per mostrare l’unità dell’intero: ciò che il corpo è lo è sempre in relazione all’anima: "Alcuni infatti sostengono che il corpo è la tomba (sèma) dell’anima, come se in vita vi fosse sepolta(18). Inoltre, poiché attraverso il corpo l’anima significa ciò che intende significare, viene denominato correttamente ‘segno’ (sèma). Io comunque sono convinto che questo nome glie lo abbiano posto gli orfici poiché, dovendo l’anima scontare la pena dei propri peccati, riceve questo rivestimento a somiglianza di un carcere affinchè si salvi (sòzetai). Il corpo dunque è per l’anima, finchè questa non abbia estinto i suoi debiti, ciò da cui prende il proprio nome: ‘uno strumento di salvezza’ (sòma), e non bisogna cambiare nemmeno una lettera." (400c 1-9)(18). Le tre derivazioni considerate, tutte di matrice orfico-pitagorica, illustrano in maniera estremamente sintetica l’escatologia platonica: la vita terrena è una morte per l’anima, la morte del corpo rappresenta l’inizio della vera vita. Sempre più il Cratilo ci appare come una straordinaria summa del sapere filosofico greco. La fede orfica conferma la propria centralità all’interno del sistema concettuale della filosofia platonica, ma i rapporti fra anima e corpo delineati in questa performance non sono che un ultimo accenno al tema del movimento fra l’umano e il divino che ha caratterizzato tutte le etimologie di questa sezione: l’uomo, in quanto anima, tende a separarsi dalla realtà materiale del corpo per ambire al ritorno nella regione della propria origine, il mondo delle idee.
C’è però nell’etimologia della parola sòma qualcosa di determinante ai fini della nostra ricerca sull’essenza del nome. Nel momento in cui Platone afferma che il corpo è segno dell’anima e mezzo di significazione di quanto l’anima vuole esprimere dice contestualmente che il nome, scritto o pronunciato, è in un certo senso il corpo materiale dell’idea della cosa, il sostituto mondano dell’èidos che dell’èidos conserva la traccia e apre alla conoscenza umana uno spiraglio del risplendere dell’essenza. In questo rapporto stretto fra l’idea e il nome, la cosa, per così dire, viene scavalcata: come corpo costitutivo del mondo terreno, del simulacro, la concrezione materiale dell’oggetto passa in secondo piano e, rispetto alla vera realtà, non può che scomparire.
NOTE
1 Si verifica semmai una situazione analoga a quelle che si presentano più volte nel testo platonico, cfr., ad esempio, Phaedr. 238 c4-d7: "Mio caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? Fedro Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola contrariamente al solito! Socrate Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, perciò non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi […]. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via." Trad. it. di G. Caccia, in Platone, Tutte le opere, a cura di E. Maltese, 5 voll., Roma 1997. L’edizione critica di riferimento per l’opera di Platone è Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica intruxit J. Burnet, Oxford, at the Clarendon Press, 5 voll., 1900-1907.
2 Insieme ad Omero, Esiodo rappresenta il punto di partenza di un percorso di riflessione sul concetto di nome che nel Cratilo, appunto come dimostrano le citazioni esplicite dei due poeti, viene registrato consapevolmente: "I fenomeni di autocommento interno [dei nomi] sono in Esiodo diversi da quelli omerici, e nel complesso meno numerosi, con una significativa eccezione: le etimologie, quantomeno all’inizio della Teogonia, dove Esiodo elenca i figli di Terra e Cielo, di Notte, di Mare, e le motivazioni di nomi si addensano." D. Gambarara, Alle fonti della filosofia del linguaggio, Roma 1984, p. 130.
3 Cfr. Crat. 391-392.
4 Anche Goldschmidt, a proposito dell’ispirazione d’Eutifrone che coglie Socrate, parla di un abbandono del terreno della dialettica: "Ainsi le ton meme de l’exposé nous avertit que Socrate a quitté le terrain de la dialectique pour s’aventurer, sous l’effet d’une inspiration, sur un domaine étranger.[…] Socrate n’est que le porte-parole d’une puissance irrésistible qui s’est emparée de son esprit." V. Goldschmidt, Essai sur le Cratyle, Paris 1940, p. 106.
5 A proposito d’imposizione dei nomi continua a ricorrere il termine dynamis; non dovrebbe sorprenderci scoprire un vero e proprio senso "tecnico" nell’uso platonico di questo termine in riferimento alla questione del nome.
6 Scrive Dionigi: "Il passaggio al vero e proprio smèlos [sciame] delle etimologie è segnato da una riflessione di Socrate. Egli si rende conto che i nomi propri degli eroi e degli uomini non sono testimoni attendibili della loro verità e della loro correttezza. Al contrario, è più facile che ci ingannino: molti di essi, infatti, sono stabiliti secondo la denominazione degli antenati […] molti invece sono dati per augurio. O risultano falsificati dalla vita o la loro verità rimane una speranza. La cosa migliore è abbandonarli e rivolgersi alle cose che permangono sempre per natura […]. Il passaggio dall’aleatorietà dell’individuo che cambia e passa alla necessità delle cose che restano e non mutano segna una svolta nella giustificazione della correttezza dei nomi. In fondo, ‘Agamennone’, ‘Oreste’, ‘Atreo’ sono soprannomi che gli individui si sono meritati per le vicende della loro vita o per il carattere della loro persona. L’eponimia del nome […], cioè il nome come soprannome, significa che il nome è giustificato o motivato dalla ‘natura’ del suo portatore." R. Dionigi, Nomi Forme Cose, Bologna 1994, p. 86 (corsivi dell’autore).
7 Le forme linguistiche costituiscono a parere di Heidegger la via d’accesso specifica al pensiero dell’essere, perché la parola non può non esprimere l’essere e l’essere, di contro, non può non dispiegarsi nel linguaggio: "La determinazione dell’essenza del linguaggio e il nostro stesso modo d’interrogarci su di essa si conformano, nei singoli casi, alla concezione dell’essenza dell’essente e dell’essere che ha finito per imporsi. Ma l’essenza e l’essere parlano nella lingua." M. Heidegger, Einfürung in die Metaphysik, Tübingen 1953; trad. it. Introduzione alla Metafisica, trad. di G. Masi, Milano 1968, p. 64. Sul rapporto fra essere e linguaggio in Heidegger mi permetto di rimandare al mio G. Licata, Heidegger e la differenza fra essere e linguaggio, in "Rassegna siciliana di storia e cultura", 11, Dicembre 2000, pp. 171-184.
8 Su questa serie di etimologie cfr. K. Gaiser, Name und Sache in Platons "Kratylos", in „Abhandlungen der Heidelberger Akademie der Wissenschaften" (philosophisch-historische Klasse), 1974, 3.
9 Cfr. Leg. 885e-886a, 899b.
10 Scrive Goldschmidt a questo proposito: "Cette interprétation, si l’on veut nous permettre une anticipation, voit dans la partie étymologique une vaste encyclopédie de théories théologiques, cosmologiques et morales ayant trait à la conception du flux perpeétuel. Que cette conception soit le thème dominant de la deuxième partie, Platon nous l’indique à plusieurs reprises, surtout au début de l’analyse des noms des notions morales (411 bc). On comprend ainsi le nombre prodigieux d’étymologies qui a tant dérouté les critiques et qui, en effet, se justifierait difficilement si les étymologies et les théories qu’elles exposent, inventées de toutes pièces par Platon, servaient uniquement à ridiculiser la méthode étymologique." V. Goldschmidt, Op. cit., p. 93. Sulle orme dell’interpretazione di Goldschmidt Baxter tenta di determinare con precisione la provenienza delle tesi esposte attraverso le etimologie isolando i luoghi nei quali Platone fa riferimento, esplicito o implicito, alle proprie fonti: "The etymologies are thus not a Platonic excursion, but an investigation into opinions of men, led by a natural doxographer. In turn this leads us to the encyclopaedic nature of the etymologies. Within this part of dialogue we are given in effect a sourcebook for various Greek ideas and thinkers, an aspect that Goldschmidt demonstrated in detail. Indeed there is no shortage of references by name to poets, philosophers and others: to Homer, Hesiod and Orpheus (Homer: 391 c8-393 b6 passim; 402 b4-5; 410 c1-2; 417 c8; Hesiod: 396 c4; 397 e5-398 a6; 402 b6; 406 c7; 428 a1-3; Orpheus: 402 b6-c1; 400 c5); to Anaxagoras and his followers (400 a8-10; 409 a7-b1; 413 c5-7; 409 b6); to Heraclitus (401d4-5; 402 a4-c3; 440 c2; e2) and of course to Cratylus and Euthyphro. T. Baxter, The Cratylus: Plato’s Critique of Naming, Leiden 1992, p. 91.
11 Cfr. Phaed. 68a-b.
12 Probabilmente, a causa delle riserve espresse nei confronti del valore conoscitivo ed educativo della poesia, Platone non abbraccerebbe questa tesi in modo programmatico. Rimane manifesto tuttavia il carattere, e a volte lo stile, poetico dei suoi scritti, le citazioni e i riferimenti continui alla poesia epica e a quella drammatica. È manifesta insomma un’ammirazione malcelata nei confronti dell’elemento poetico che affiora malgrado le dichiarazioni programmatiche esposte nella Repubblica.
13 Cfr. Phaedr. 261d, 269a.
14 Sulla concezione platonica dell’amore cfr. L. Robin, La théorie platonicienne de l’amour, Paris 1908; T. Gould, Platonic love, New York 1963; H. Buchner, Eros und Sein, Bonn 1965; J. Moreau, Platon et l’amour, in "Teoresi", 1974, pp. 19-40.
15 In una parte del proprio discorso su eros Diotima fa riferimento alle doti filosofiche e sofistiche, ermetiche ed apollinee insieme della divinità, cfr. Symp. 203 d4-8: "Secondo l’indole del padre invece sempre insidia chi è bello e chi è buono; è coraggioso, protervo, caparbio, cacciatore terribile, sempre dietro a macchinare qualche insidia, desideroso di capire, scaltro, inteso a speculare tutta la vita, imbroglione terribile, maliardo e sofista". Trad. it. di G. Giardini in Platone, Tutte le opere, cit.
16 Goldschmidt avanza l’interessante ipotesi che la sezione etimologica sia una sorta di bilancio che Platone fa dell’insegnamento ricevuto da Cratilo, ciò varrebbe sia per l’aspetto contenutistico (le tesi esposte tramite etimologia sono quasi sempre riconducibili all’eraclitismo) che per quello metodologico (a quanto pare Cratilo era solito servirsi del metodo etimologico): "Maintenant, purquoi la discussion de ces théories dans un dialogue intitulé "Cratyle" et pourquoi l’exposé sous forme d’étymologies? – Nous avons vu dans l’introduction que c’était précisément Cratyle qui avait mis à contribution la méthode étymologique, pour soutenir la thèse du flux perpétuel. Et c’était lui également qui, par éclectisme, puisait dans toutes les philosophies, anciennes et contemporaines, pour appuyer la doctrine d’Heraclite, en les exposant sous forme étymologique. Platon, élève de Cratyle, connaissait à fond cette méthode et les théories auxquelles Cratyle l’appliquait. Dans la partie étymologique, il fait le bilan de l’enseignement de Cratyle." V. Goldschmidt, Op. cit., p. 93.
17 Crat., 399 d1-3: "Una cosa, mi pare, vi fa seguito. Giacché dell’uomo c’è qualcosa che chiamiamo ‘anima’, psykhé, e qualcosa che chiamiamo ‘corpo’, sòma." Trad. it. di E. Martini.
18 Su questa etimologia cfr. Gorg. 493a, Empedocle 115 DK e Filolao 14 DK.
19 Per lo studio di questa triplice etimologia rimando all’esaustivo saggio di R. Ferwerda, the Meaning of the Word soma in Plato’s Cratylus 400c, in "Hermes" 113 (1985), pp. 266-279.
1. Il feudo ed il "castrum" dei cavalieri teutonici a Risalaimi
Abbiamo, dalla testimonianza diretta del Fazello (sec. XVI), la conferma che Guglielmo I assegnò alla Magione nel 1150 il casale denominato Mesrelme, corrottamente Mesalaime, distante 15 miglia a mezzogiorno da Palermo(1). Ci sembra, però, una forzatura da parte del Fazello, citato anche dal Pirro, la trasformazione del toponimo Mesrelme in Mesalaime e, quindi, in Risalaimi che in tempi più recenti B. Rocco, in un breve saggio filologico titolato Le origini di Risalaimi, riconduce alla originaria forma araba Ràs al àyn, cioè capo o testa della sorgente(2), certamente più propria al nome del luogo con cui si identifica la scaturigine d’acqua che denota tutto il territorio ricadente in questo feudo ed anche parte del fiume che scorre lungo la valle.
Questo è l’atto ufficiale, purtroppo non pervenutoci in originale, con il quale si vuole datare l’inizio del possesso dei beni della chiesa della Ss. Trinità, fondata dal Gran Cancelliere Matteo d’Ajello a Palermo ed affidata originariamente al culto dei cistercensi.
Risale al 1197 la concessione, da parte di Arrigo VI, della chiesa e del convento ai cavalieri teutonici, atto con cui l’imperatore esautorò i monaci benedettini dei loro antichi privilegi per l’appoggio che essi avevano dato alla causa nazionale in favore di Tancredi (†1194).
L’ordine teutonico si era conquistato la fama di paladino della fede cristiana per la nutrita partecipazione dei crociati alemanni alla liberazione del S. Sepolcro fin dal 1149; ma solo con l’approvazione di papa Celestino III e dell’imperatore tedesco fu fondato l’ordine di S. Maria di Gerusalemme e ne venne sancita la costituzione ufficiale come ordine ospedaliero durante l’assedio di S. Giovanni d’Acri nel 1190 e, successivamente, nel 1198 come ordine militare. L’acquisizione degli ampi benefici e delle cospicue rendite costituiti dal possesso di feudi, casali e tenimenti di terre con villani risultò di grande vantaggio all’accrescimento del prestigio che l’ordine militare conseguì particolarmente nello svolgere rilevanti impegni di milizia, oltre che in Europa anche in Terrasanta; questa affermata considerazione, nell’ambito dei servigi resi e dimostratisi indispensabili per l’assistenza e l’ospitalità nella mansio palermitana a favore dei pellegrini in transito per l’Oriente, servì da piattaforma di lancio prima di proiettarsi verso la sponda meridionale del Mediterraneo.
E di questi positivi contributi di cui l’ordine ospedaliero trinitario ebbe a beneficiare fu certamente la concessione nel 1206 da parte di Federico II Hohenstaufen di cospicui beni fondiari entro e fuori la città di Palermo, della quale riportiamo una breve trascrizione estrapolata dal documento originale esistente nel fondo archivistico palermitano la cui raccolta costituisce il Tabulario della Magione: Concedimus casale Miserelle in tenimento Cephale cum molendinis et omnibus justis tenimentis et pertinentiis suis concedimus preterea et imperpetuum donamus domus sacre trinitatis de Panhormo et (religionem) sacri ... hospitalis Jerusalem omnes villanos casalis Policii ubicumque sunt et terram que est prope domum sacre trinitatis que dicitur Arthelgidide et aliam terram in qua sunt masara que est inter jardinum predicte sacre trinitatis et murum civitatis nostre Panhormi in loco qui dicitur Alza. La pergamena porta la data del 6 aprile 1206(3).
Il 28 aprile 1328 venne stipulata una transazione con la Corte regia per la concessione di un’area ricadente nel viridarium della Magione per ampliare e rafforzare il circuito delle mura della città dalla parte di Sud-Est, ponendo in cambio il sollazzo della Favara di S. Filippo assieme a due mulini alimentati dall’acqua di Maredolce; l’atto fu ratificato nel 1339(4).
Con la bolla di papa Onorio III del 1215 i teutonici avevano ottenuto il privilegio di chiamare preti e monaci provenienti da qualsiasi ordine per officiare il culto nella loro chiesa; tra i primi ad accorrere furono i padri domenicani, che vi mantennero la loro permanenza sino al XVI secolo. Nel 1221 l’imperatore svevo pose sotto la sua diretta dipendenza l’ordine, arricchendolo così di ampi possedimenti che ne costituirono la cospicua rendita economica alimentata dalla concessione di numerose masserie e casali sparsi in diversi luoghi dell’isola. E tali concessioni furono confermate il 22 febbraio 1286 da re Giacomo, che pose sotto la sua protezione le case della milizia dell’ospedale di S. Maria dei teutonici esistenti in Sicilia ed in Calabria(5). I beni della Magione di Palermo furono gestiti da un precettore, che doveva render conto periodicamente del suo operato e riceveva gli ordini dal Gran Precettore, nominato direttamente dal Gran Maestro, posto a capo di tutto l’ordine in Italia.
In verità, è solo nel 1295 che si rileva per la prima volta l’indicazione dell’esistenza del casale di Risalaimi per un atto relativo alla fornitura di 7 salme di frumento dell’importo di 9 onze d’oro, che il precettore Sybeck doveva consegnare al convento di S. Agostino a Palermo, proveniente da un tenimento di terra juxtam casale Rasalayni, in cui la forma del toponimo viene registrata nell’accezione del nome originale che non ha nulla a che vedere con quella indicata da Fazello e riferita dal Mongitore(6).
In una memoria di Vincenzo Auria (1625-1710) riportata nel volume manoscritto Miscellanea de urbe panormitana, a proposito del corso del fiume Eleuterio così egli scrive citando il Fazello: Due miglia lontana dalla foce dell’Oreto in su la riva del mare si trovano due fonti che si chiamano l’acqua de’ Corsali, et in altra tanta strada si trova il campo de’ Ficarazzi con gli edifici ed appresso la bocca del fiume Bacharia dov’è un ridotto di piccole barche. Nasce questo fiume alla fortezza chiamata Resalayme, nome saraceno, circa 10 miglia lontana dal mare, da una fonte del medesimo nome che sgorga da una grotta e subito fatto fiume in un villaggio detto Miserella. Scorrendo poscia è accresciuto da altri fonti. Ma gionto ad un’hosteria chiamata Mirti, lasciando il nome di Resalaime piglia il detto nome di Mirti e scorrendo per tre miglia è accresciuto da un altro fonte chiamato Misilmeri. Indi ricevendo seco l’acqua del fiume Bujuto che son salse e tepide ed han virtù di rilasciare il ventre e sanar molte infermità come hanno sperimentato i Palermitani. Finalmente venendo nella contrada della Bacharia, nobile e famosa per la bontà de’ vini ed irrigando tutti quei terreni, lasciando il nome di Mirti, piglia quel della Bacharia, col quale si resta e sbocca nella spiaggia di essa Bacharia e de’ Ficarazzi(7).
Purtuttavia, anche se l’archivio storico della Magione è costituito da una ricca documentazione attinente ai possedimenti della sacra domus, il cui regesto venne pubblicato dal Mortillaro con il titolo Elenco cronologico delle antiche pergamene pertinenti alla real chiesa della Magione nel 1858, abbiamo però scarsi riferimenti riguardanti il castrum di Risalaimi ed altrettante esigue fonti fornisce il volume manoscritto del XVII secolo titolato Libro di privilegi della Commenda et Abatia della Magione sub titulo della Santissima Trinità olim hospitale delli teotonici Hierosolimitani et de novo exemplate per essere redutti et trasportati et de ordine del sig. Hippolito Massetti procuratore generale dell’Ill.mo et Rev.mo sig. cardinale D. Gioannettino d’Oria Abbate et Commendatore di detta Abbatia dell’anno 1627(8).
Certamente notizie relative a maestranze edili impegnate in opere di edificazione nei possedimenti teutonici ci vengono testimoniate sin dal 1427 da rari documenti, inerenti anche il castrum nel feudo della Pietra della Margana, situato tra Vicari e Prizzi, di cui si conosce l’esistenza in un atto di conferma del 10 aprile 1353 concesso da re Ludovico ad Ermanno Reis, precettore dei teutonici in Sicilia(9).
Nicola Altamilia muratore si alloga nel 1427 con il precettore Corrado Hunk per prestare la sua opera, locacio serviciorum pro Mansione, oltre che a Palermo, alla Margana ed a Risalaimi per tutto il mese di agosto, con un compenso di once 3.3 d’oro(10). I giudei Braxon e Xibitan Miseria padre e figlio si allogano nel 1430 con il luogotenente della Magione Giovanni Hasserbarch per tre mesi come muratori in castro Margane, testimoni sono Antonino Columba e Leonardo Sista(11). Il 16 marzo dello stesso anno il magister Tommaso Fadaluni ebreo trapanese si alloga per circondare di mura il baglio oltre che disporre una torre di difesa sull’ingresso del recinto fortificato(12). Il 25 febbraio 1436 viene fatto l’inventario dei beni esistenti alla Margana ed a Risalaimi(13).
Certamente si tratta di un periodo, questo, di rilevante importanza storica soprattutto perchè fu eletto da papa Eugenio IV nel 1435 come amministratore e precettore dell’ordine in Sicilia il reverendo Astolfo Zugerunt a causa di forti contrasti generati col re Ferdinando per la mancata conferma alla casa di alcuni privilegi. La situazione generale dell’ordine teutonico in Europa però cominciava a volgere al peggio particolarmente nelle vaste regioni baltiche e slave in cui si era attuata la massima espansione dello stato teutonico. In questo momento di crisi generale venne eletto nel 1471 precettore e commendatore della casa il tedesco Enrico Hoemeister, il quale si rivelò ben presto uno spirito ambizioso ed uomo dotato di pochi scrupoli.
L’agire poco corretto ed insensato del reverendo Hoemeister dovette suscitare vibranti proteste da parte dei confrati della Magione, i quali si rivolsero ad Innocenzo III ed al Gran Maestro per cercare di frenare gli abusi perpetrati dal precettore. Il papa incaricò l’arcivescovo di Palermo Giovanni Paternò di tentare una mediazione allo scopo di frenare la cattiva condotta del reverendo; parallelamente venne intrapresa un’azione persuasiva da parte del precettore generale Andrea Grimbach, il quale inviò a Palermo due visitatori, il reverendo Guglielmo Wijblingen balivo della Lombardia ed il frate teutonico Adolfo de Gerolzegh con un ordine emanato dal castello di Hornech il 18 giugno 1492(14). Con una mossa a sorpresa Hoemeister tagliò la corda, portandosi via anche il mal tolto ed evitando l’incontro con gli emissari dell’ordine. Nel frattempo, il papa aveva nominato precettore il cardinal Roderico Borgia, di lì a poco eletto papa con il nome di Alessandro VI, il quale dovette rinunziare alla carica ed al compenso di un capitale annuo di 1500 fiorini d’oro; al suo posto subentrò il cardinale Sanseverino. Di tutta la questione cercò di approfittare, prendendone personalmente le redini, il re Ferdinando d’Aragona, che pose a capo della casa dei teutonici il figlio Alfonso, arcivescovo di Saragozza, il quale ne curò gli interessi sino alla nomina ad arcivescovo di Monreale nel 1505.
Una serie di documenti della fine del XV secolo ci fornisce dati interessanti relativi alla consistenza delle strutture fortificatorie ed edilizie ricadenti nell’antico castrum di Risalaimi, sede dell’amministrazione di quel vasto territorio sottoposto all’ospedale di S. Maria dei teutonici di Gerusalemme a Palermo.
Il reverendo Hoemeister aveva concesso a gabella nel 1487 il mulino soprano a Pino Convicino. Questo è uno degli antichi mulini ubicati sulle sponde del fiume Scanzano, tra Marineo e Risalaimi; ad epoche più recenti risale il mulino alimentato dalle acque della Dragonara, di cui rimangono alcuni resti nell’area della masseria di Risalaimi, all’interno del baglio.
Giovanni Lombardo da Cernobbio fabricator si alloga nel 1488 con il reverendo Hoemeister per opere di costruzione; il compenso doveva essere pagato nel banco di Pietro Agliata.
L’11 marzo dello stesso anno Giovanni Del Porto, lombardo, figlio di Romeo, si alloga con Giovanni Sau procuratore della Magione per costruire alcune strutture a solaio in feudo et domo Rysalaimi. Il 3 agosto il calcararo Domenico Di Michele s’impegna a fornire calce proveniente dalla calcara di Risalaimi.
Il 14 agosto Girolamo Di Stasio, napoletano, si obbliga con il procuratore della Magione a costruire una torre a solaio vicino la torre grande del castrum, forse, in prossimità della porta d’ingresso al recinto fortificato; i pagamenti dovevano essere effettuati nel banco di Giovan Battista Lambardi, attivo a Palermo dal 1488 al 1497.
Il 6 luglio 1489 Palmeri Palumbo si alloga per costruire la nuova torre con gettatori (caditoie).
L’8 gennaio 1494 viene fatto l’inventario di tutti i beni della Magione da parte del regio tesoriere Alferio Leofante ed è inviato Goffredo Alia al castrum di Risalaimi per redigere l’inventario degli immobili, di cui riportiamo la trascrizione delle parti essenziali della relazione:
La magestà dilu signuri re nostru signuri per soi letteri secreti ordina providi et comanda si digia prendiri la reali et corporali possessioni per R.C. dila commenda dila casa dila Maxuni et di tutti soi renditi interessi et pertinencii.
Apud castrum Rasalaym.
Hec sunt bona existentia in dicto castro inventa per ipsum Goffridum dicto nomine et primo intus cappellam.
Item conettam unam cum quodam in medio in qua est imago gloriose Virginis Marie cum filio in brachio.
Quatrettum unum cum imagine S. Hieronimi.
In cammara vocata dila stiva
Item plactos duos de mursia (...)
In cammara collaterali predicte.
Item plactum unum de musia magnum et bonum (...)
In cammara armorum.
Item targas duodecim pictas.
Item lancea octo.
Item spingarda unam de brunzo (...)
In dispensa parvula (...)
In dispensa exteriore (...)
In cammara vocata dila turri nova (...)
In sala (...)
In astraco turris nove et magne.
Item spingardas tres cum uno cafullatorio.
Item spingardas duas coniuntas in unam.
Item scalam unam novam gradini 12 (...)
In cammara prope salam (...)
In cammara supra horreum (...)
In cammara dila turri vecha alias dela campana(...)
In horreo (...)
In coquina (...)
In cortili.
Item anatras 7
Item ocas 5
Item gallittos 21
Item columbarum paria 12 prope gallinarium (...)
Bona stabilia.
Item molendinum unum existens in dicto feudo prope dictum castrum.
Item molendinum alium existens in eodem feudo(15).
Dall’inventario descrittivo sulla consistenza del castrum abbiamo la conferma definitiva che la nuova torre venne effettivamente realizzata oltre che dell’esistenza della cappella e di tutti gli altri corpi edilizi che costituivano l’assetto originario della masseria a quella data.
Dalla cappella di Risalaimi (m. 4,64 x 4,20 di lato e m. 4,90 di altezza) provengono gli splendidi affreschi conservati nella Galleria di Palazzo Abatellis.
Abbiamo notizia di altri frammenti di affreschi, probabilmente del XV secolo, provenienti dalla cappella della masseria del Parco vecchio, a pochi chilometri da Marineo verso S. Cristina, che raffigurano S. Domenico, S. Giovanni Battista e S. Bernardo, tutti santi legati all’ordine teutonico. Nel 1476 questa masseria era in possesso di Giovanni La Matina, fratello di Marino barone di Campobello di Licata (1453); nel 1568 essa appartenne a Francesco Di Giovanni e nel XIX secolo era del marchese De Gregorio.
Di un altro ciclo di pitture, forse andato perduto, si ha traccia in un documento del 1478 in cui viene fatta, dalla Magione, una concessione enfiteutica per 29 anni a Giovanni Canino da Corleone di una masseria e di un possedimento di terra, con l’obbligo di restaurare la cappella dedicata a S. Elisabetta e di far dipingere, entro due anni, l’immagine della santa assieme al Ss. Crocifisso ed alla Vergine Maria. Questo era un antico possedimento del monastero di S. Elisabetta a Corleone che si chiamava Ragalzinet (1277), forse l’attuale masseria della Magione, posta vicino al castrum di Busammara (ar. Busamar), l’omonima masseria nel territorio di Rocca Busambra, a Ficuzza(16).
Del dispositivo edilizio del castrum di Risalaimi rimangono oggi soltanto i volumi di alcuni ambienti coperti a solaio che costituiscono un corpo di fabbrica in linea con la porta di accesso decentrata su cui spicca, in asse con l’arco ogivale, l’emblema della famiglia Ram (o Ramo), inciso su una targa quadrata in marmo bianco, di cui è rimasto un frammento in loco così come ce lo descrive il padre Calderone: Uno scudo a croce di Malta, posto alla sommità, va fregiato al centro da un ramoscello d’ulivo o di quercia in campo bianco ed è sormontato da una testolina ignuda di persona virile, in realtà si tratta di un angelo(17). Segno evidente, questo, del possesso del feudo e della masseria da parte di Benedetto Ram (†1561), d’origine aragonese, cui furono concessi il 20 agosto 1519, per un censo annuo di 80 onze, dall’arcivescovo di Valenza Alfonso d’Aragona, il quale lo aveva nominato procuratore generale della Magione il 25 agosto 1514 assieme a Giovan Pietro Formica. Dobbiamo qui ricordare che Domenico Ram, vescovo d’Ossea e di Lerida, fu vicerè di Sicilia assieme a Martino La Torre nel 1418.
Il 27 agosto 1532 Benedetto Ram vendette un tenimento di case a Ludovico Vernagallo nella contrada della Magione, nel cortile detto di Pettineo, corrispondente all’attuale vicolo del Caccamo all’Alloro. L’anno successivo, lo stesso Ram acquistava da Pietro Afflitto procuratore di Girolamo Lanza e del figlio Blasco barone di Ficarra un tenimento grande di case nella vanella che va verso il monastero di S. Chiara, antistante l’attuale piano dei Bologna, oggi palazzo Ugo delle Favare.
Il 9 luglio 1498 Gabriele Giudeo e Giovan Pietro Como fabricatores si allogano con Uberto Carbone per costruire 40 canne di muratura nei magazzini delle terre del Mulinello vicino Risalaimi, strutture edilizie a servizio di uno dei due mulini che dipendevano dalla Magione, citati nell’inventario.
Il 18 dicembre 1464 il precettore frà Leonardo Hordestorfer aveva concesso a Guglielmo e Nicola Vitale per 22 salme di frumento il Mulinello, nella contrada dei Mortilli, vicino le terre del Ss. Salvatore di Palermo(18).
Il 7 agosto 1450, agli atti del notaio Giorlando Virgilito, la badessa del monastero basiliano suor Anastasia Russo aveva locato ai Vitale molendinum di la Batissa, nel tratto di fiume detto dei Mortilli; l’esistenza di questo mulino è testimoniata fin dal 1318. Nella pergamena relativa alla stipula del contratto del XV secolo si trovano i simboli teutonici, cioè lo scudo con la croce nera e l’emblema del precettore. Nel 1477 veniva registrato nella cancelleria del protonotaro l’atto con cui era dichiarato nullo il contratto d’affitto del Mulinello stipulato tra la Magione ed i Vitale(19).
La masseria o mulino dell’Abbadessa apparterrà nel XVIII secolo ai padri di S. Teresa ed assieme ad altre quattro masserie faceva parte del feudo di Bongiordano, posto a levante sulla sponda opposta del fiume di Risalaimi lungo la strada che conduceva da Bolognetta a Misilmeri (contrada Ponte dei Mortilli); nel XIX secolo era in possesso dei marchesi Turrisi-Balestreros.
Gli altri insediamenti agricoli ricadenti in questo territorio erano: la masseria di Arcoleo (Filippo Arcoleo, 1549); la masseria della Guerrera (Elisabetta Guerrera e Teresa Pellegrino); la massariotta di Eleonora Ferrero; la masseria o fegotto di Scozzari (Francesco Scozzari, 1629).
Sull’esistenza di masserie fortificate, di un fondaco e di mulini ubicati nella contrada Mortilli si rilevano numerose testimonianze documentarie attestanti l’appartenenza ad alcuni monasteri palermitani delle strutture agricole sparse nel territorio, dislocate lungo la vallata del fiume Eleuterio percorsa dalla via di penetrazione che da Misilmeri conduceva a Marineo e proseguiva per Vicari, di cui si riconosce l’antico tracciato viario per la presenza di alcuni ponti ad arco in muratura del XVI secolo: il ponte dei Mortilli o di Vicari (1573) ed il ponte di Risalaimi o della Fabbrica (1581).
Il 30 dicembre 1544 Bartolomeo Cappellano concede ad enfiteusi a Giovanni Mastrogiovanni un vigneto con alcune abitazioni, alberi, canneto, ricadenti nel possedimento di proprietà del Ss. Salvatore di Palermo, vicino il feudo del Patellaro confinante con il fiume e le terre del barone di Cutò(20).
Il 14 giugno 1549 Antonino Platamone barone di Cutò vende per onze 622.12.10 a Filippo Arcoleo un luogo dotato di una masseria con baglio, torre, stanze per abitazione ed altro, soggetto al censo di 10 salme di frumento e 2 e mezzo di orzo al monastero palermitano.
Il 19 aprile 1603 l’ospedale di S. Bartolomeo di Palermo assieme a suor Antonina Arcoleo monaca del monastero di S. Chiara, eredi dei beni di Arcoleo, concedono ad enfiteusi a Vincenzo Trigona per onze 122.6 la masseria che nel 1629 verrà data pure ad enfiteusi al sacerdote Luigi Nicosia, beneficiale di S. Nicolò all’Albergheria.
Per quanto attiene al mulino della Badessa, il 13 gennaio 1550 Giacomo Spallitta concede alla madre Tommasa il mulino dei Mortilli confinante con il luogo di Giovanni Messina, di Domenico Nobili ed il vigneto di Giovanni Antonio Montalbano; il 25 settembre 1564 mastro Spallitta avanza le proprie lamentele alla badessa perchè Giovan Martino Grasso voleva costruire un mulino adiacente al suo. Nel 1531 Antonio Messina, marito di Antonia Mango (1505), aveva soggiogato due onze di censo a favore di Benedetto Messina, pro fabrica eorum fundaci existentis in feudo delli Mortilli(21).
Il 23 novembre 1557 Melchiorre Messina enfiteutica a Giovanni Platamone il fondaco assieme al baglio ed alla torre: Fundacum nominatum delli Mortilli in multis corporibus consistens ac aliis domibus et stantiis cum dicto fundaco aggregatis turri balio et aliis ac vineis canneto arboribus et aliis, fundacum ipsius mag.ci concedentis consistentem: l’intrata con lo scarricaturi di detto fundaco/ Item una stantia terrana appresso di detto scarricaturi / Item unaltra stantia solerata suso et iuso trasendo la porta dello fundaco a mano dritta / Item la panetteria / Item dui stalli grandi / item la paglialora / Item lo magasenotto la porta di detto magasenotto conrespondi dentro la stalla di detto fundaco.
Il 6 luglio 1562 viene stipulato un atto di transazione tra Giovanni Aloisio Garillo aromataro, tutore di Fabrizio Marino, con il presbitero Pietro Mango. Nel XVIII secolo questa masseria detta del Patellarotto o di Garillo, ricadente nel territorio di Misilmeri, era soggetta a censo al principe della Cattolica. Pare che la torre esistesse fin dall’inizio del XVI secolo, come si rileva dalla licenza di costruzione accordata dal vicerÈ La Nuza ad Antonino Cangialosi il 18 luglio 1499.
Nel 1485 Enrico Xillia chiede il consenso di costruire un mulino ai Mortilli, nel feudo appartenente al monastero di S. Spirito di Palermo; questi nel 1476 aveva acquistato da Pietro La Grua barone di Vicari e di Carini il feudo di Bizzoli. La moglie di Enrico, Bartolomea, ottiene dalla Corte nel 1493 la licenza di costruire una torre ed il baglio nel suo luogo ai Mortilli vicino il fiume(22).
La nuova documentazione, ora acquisita, smentisce le considerazioni svolte da Trasselli nel suo saggio Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V, a proposito della masseria appartenuta ai Del Maistro, di cui riportiamo un brano significativo: Domenico del Maystro fortifica una masseria situata tra le gole dei monti presso le sorgenti di Risalaimi. Il luogo apparteneva ai Teutonici e vi era una cappella con affreschi ben noti di Tommaso di Vigilia (NdA, †1499, attribuiti - ma non documentati - da Giuseppe Meli nel 1857, ora custoditi a palazzo Abatellis, nella sala Risalaimi). In questo caso la fortificazione trova una spiegazione ovvia anche se complessa. A Risalaimi nasceva l’Eleuterio, allora chiamato fiume di Bagheria che irrigava le colture di canne da zucchero di Ficarazzi: i Campo, gli Imperatore, gli Speciale avevano costruito un acquedotto (ancora esistente e funzionante, come la masseria di Risalaimi) per assicurare l’acqua. Il padrone delle sorgenti doveva fortificarsi se non voleva essere estromesso.
Il Trasselli fu tratto in inganno dalla richiesta avanzata alla Regia Corte da parte di Del Maistro per ottenere la licenza, poi concessa il 3 maggio 1499, di edificare una torre cu merguli in una masseria nel feudo di Risalaimi, adiacente a quella di Giorgio Garrone, al fine di dare sicuro rifugio a sé ed agli uomini che vi risiedevano; questa masseria era soggetta al terraggio annuo di 5 aratate alla Magione, cioè di 4 salme di frumento ed una salma d’orzo ad aratata oltre che alla decima per il vigneto, con l’obbligo di apportari ad castrum Risalaimi. Ciò conferma definitivamente la nostra ipotesi che la masseria dei Del Maistro non si identifica con quella di Risalaimi.
Sul mercante Giorgio Garrone rileviamo due annotazioni, una risalente al 1487, da cui egli risulta creditore di Domenico Gagini marmoraro e del fiorentino Francesco di Giuliano faberlignarius per onze 11.10, l’altra del 13 ottobre 1491 relativa all’atto di acquisto di una casa grande nella contrada del Garraffo vendutagli da Francesco di Clemente.
Domenico Del Maistro doveva essere imparentato col banchiere Giovanni, e forse ne era il figlio, di cui Matteo Di Silvestro risulta il procuratore degli eredi nel 1476, come è testimoniato da una lettera di cambio di 550 fiorini proveniente da Valenza ed accreditata nel banco di Pietro Agliata(23). Giovanni Del Maistro, già defunto nel 1473, era forse in rapporti di società con i banchieri Guglielmo Aiutamicristo e Giovanni Costanzo (†1482); nel 1486 l’Aiutamicristo acquistava la baronia di Misilmeri da Guglielmo Talamanca e Giacomo La Grua signori di Carini. E va detto che i Del Maistro erano probabilmente di origine veneta; infatti, in un documento del 1477 depositato nella Cancelleria viene concesso al veneziano Marco Giorni, erede dei Del Maistro, di prelevare grano dai caricatori dell’isola tranne che da Girgenti; un Michele Giorgi fu custode del porto di Palermo nel 1407.
Sigismondo Mulfigil precettore della Magione concede nel 1470 a Gaspare Di Silvestro alias Gargano una masseria nel territorio di Risalaimi. Egli possedeva una casa nella ruga viridi a Palermo, l’attuale via Scavuzzo, nell’area del giardino della Magione, come si rileva da un contratto stipulato l’8 luglio 1473 con il fabricator Giovanni Grasso (†1497) teutonicus, cioè famiglio dell’ordine; Di Silvestro affitta metà dello stazzone in contrata pontis Admiratus a Manfredi Gallo nel 1490.
Il 27 giugno 1499 Domenico Del Maistro loca a Marco Lanza neofita una casa solerata posta nel Cassaro, nella vanella detta di Bundo Campo, di fronte la casa di Matteo Lo Vecchio. I Del Maistro possedevano a Palermo diverse proprietà, che avevano acquisito dagli ebrei prima della diaspora nel 1492; e infatti Francesco acquistava per 18 onze da Abram Salomon due botteghe ed una casa solerata nel Cassaro, mentre Domenico aveva comprato per 120 onze da Aron Azen, ricco mercante ebreo, una casa grande sempre nel Cassaro oltre una vigna ai Colli(24).
Il 25 febbraio 1511 lo stesso Domenico permuta con Giovanni Nava, maestro notaro della Regia Corte, massariam dicti d.ni Dominici sitam et positam in territorio Risalymi cum turri stanciis magasenis teguriis et vinea canneto bobus septuaginta vel circa stivilibus vegetibus vino tini stringitorio aceto gallinis columbis cum magaseno unite et agregate ditte massarie dila turri, il quale l’aveva acquistata il 6 giugno 1510 dando in cambio il marcato del feudo della Mandra di Mezzo, che il funzionario regio aveva comprato per 400 onze da Girolamo Lampiso dottore in leggi e barone di Gibellina nel 1509; nel 1486 Giovanni Morso aveva acquisito la terra e castrum di Gibellina da Calcerano e Vincenzo Corbera e questi nel 1475 da Giovan Giacomo Ventimiglia. Il dottor Lampiso aveva comprato per 600 onze nel 1490 la baronia di Galati da Guglielmo Raimondo Lancia barone di Ficarra (†1498).
Alla morte di Domenico Del Maistro, il 27 agosto 1516, subentrano come eredi la moglie Bartolomea ed Antonia sua figlia, la quale sposa Nicola Pollastra il 23 gennaio 1519. Bartolomea moglie Del Maistro era la figlia del mercante pisano Simone Aiutamicristo († 1515), appartenente ad un ramo collaterale del più noto Guglielmo, banchiere.
Simone nomina erede universale il nipote Simonello, disponendo che egli doveva assumere soltanto il cognome della sua famiglia, escludendo quello del padre.
Mi sembra interessante avanzare l’ipotesi che le attività di lucro derivate dall’esportazione mercantile di prodotti minerari siciliani siano stati la principale fonte economica da cui si traeva la disponibilità per la trasformazione nell’acquisto di beni immobili e per l’investimento in proprietà agricole.
Ciò viene testimoniato dalle forti esportazione di allume e di salnitro, uno dei componenti la polvere da sparo, che si registrava frequentemente nell’ultimo trentennio del XV secolo, esercitate da parte dei mercanti pisani, Agliata, Rosolmini, Del Tignoso, Orlandi, Buondelmonti e compensate dall’importazione di "ferro pisanisco" che veniva impiegato nella fusione dei pezzi di artiglieria.
Nella relazione originale, mancante nella parte iniziale del documento, sulla stima della masseria dei Del Maistro, redatta dai periti Antonio Di Francesco e Paolo Guastapane, abbiamo un riferimento al magazzino posto nella massaria di lu Oglastro, dal che si può ipotizzare che l’ubicazione dell’insediamento di questa struttura agricola si trovava nel territorio che prendeva il nome da un’antica chiesa denominata S. Maria dell’Ogliastro nella contrada di Roccabianca; trattasi della stessa masseria fortificata con la torre che Vincenzo Settimo, figlio di Giuseppe, assieme al genero Francesco Lanza ingabellerà a Marco Mancini il 21 marzo 1607. Il 6 maggio 1574 Giliberto Bologna chiedeva la concessione di popolare il feudo Casara (Bolognetta)(25).
Inizia con il Mancini l’attività di popolamento del feudo dell’Ogliastro conseguente all’assegnazione individuale di una salma e mezza di terre a vigneto, incentivata dall’obbligo di costruire anche le abitazioni (case terrane). Le quote assegnate furono ripartite tra Leonardo Sileci, Giuseppe Catalano, Pietro e Francesco Zuccaro, Mariano Chirco, Filippo Nuccio, Gandolfo D’Elia, Francesco Geracane, Vincenzo Bonanno, Vincenzo Gazzana e Vincenzo Rocco, tutti provenienti da Marineo.
Nel 1706 mastro Antonino Puglisi fabricator riceve da Pietro Agliata 8 onze per il compenso di alcuni restauri eseguiti nella masseria di Roccabianca alla torre ed alla chiesa, segno tangibile sulla permanenza dell’antico nucleo edilizio: Item per una carrozzata di calcina per havere ripigliata a fare la mangiatura e mettere altri dui rombagli di tavola nella stanza di supra et haverci murato sopra li detti rombagli et havere ripigliato le due incosciature della porta dello baglio et havere fatto dui pilastrini alla porta sotto la cammara della torre et havere posto li canali della chiesa in calcina et havere allattato la chiesa dentro et fuori e consarci li scaloni dell’altare(25).
La masseria di Roccabianca nel XIX secolo apparterrà ai principi di Linguaglossa.
2. Il feudo di Risalaimi e le masserie fortificate nella valle dell’Eleuterio
Si è d’accordo certamente sulle considerazioni di carattere generale formulate dal Trasselli circa la presenza delle torri di difesa, che divennero parte integrante delle masserie e furono erette più frequentemente a partire dalla seconda metà del XV secolo, come si desume dalle numerose concessioni sottoposte a licentia edificandi da parte dell’autorità regia, date anche a semplici borghesi purché ne avessero fatto richiesta, al fine di garantire la sicurezza degli uomini addetti alle colture agricole, oltre che essere centri organizzati per la gestione economica del territorio.
Da un atto dichiaratorio redatto il 14 aprile 1523 da parte di Benedetto Ram sulla concessione del feudo di Risalaimi stipulato in notar Giovan Francesco Formaggio il 27 maggio 1519 possiamo conoscere quali fossero i territori circostanti: secus pheudum vocatum de Marineo versus xilocco et secus pheudum deli Borgesi versus meridiem et secus pheudum del Parco vecchio ... et secus pheudum delo Chianetto versus occidentem et secus pheudum dilu Casali versus maistrali et secus pheudum di Misilmeri versus septentrionem et secus pheudum delo Patillaro versus greco et secus pheudum vocatum di Buongiordano versus orientem et secus pheudum di Casacca verso livanti et scirocco(26).
Questo è l’unico documento in cui viene descritta puntualmente la perimetrazione dei confini territoriali del feudo di Risalaimi, mancando altre precedenti definizioni in assenza di mappe topografiche da cui si sarebbe potuta precisare meglio la localizzazione degli insediamenti rurali.
Quindi ci dobbiamo orientare sulle fonti manoscritte tratte da documenti coevi registrati prevalentemente negli atti notarili. In un volume del fondo Magione in data 30 aprile 1550 vengono emanate lettere viceregie per la concessione in enfiteusi del feudo di Risalaimi in cui sono elencate le masserie ricadenti in quel territorio:
- la masseria di Giovannella La Manna (1470)
- la masseria di Simone Caravello (1520)
- la masseria di Paolo Bontempo (1470)
- la masseria di Antonino D’Antonio
- la masseria di Giovanni Caruso (1525)
- la masseria di Nicolò Amari (1547).
L’8 agosto 1549 in notar Cataldo Tarsino venne stipulato l’atto di compravendita tra Antonuzzo Amari e l’acquirente Vincenzo Bosco barone di Vicari(27).
Il 3 novembre 1524 Benedetto Ram aveva un credito di onze 6.29, dovute da Giacomo Ganci per l’affitto di una masseria, detta appunto di Ganci.
Dobbiamo precisare che le date apposte in parentesi nel precedente elenco sono state desunte dagli atti notarili attestanti il primo possesso o le concessioni a gabella soggette al pagamento di un censo alla Magione di Palermo.
Registriamo di seguito alcuni documenti relativi a locazioni o vendite di beni nel territorio di Risalaimi a partire dalla seconda metà del XV secolo.
Il 13 dicembre 1473 viene rilasciata dai teutonici una concessione enfiteutica a Nicola Palermo da Castelbuono per una quantità di terre vicine la sua masseria allo scopo di impiantarvi un vigneto.
Il 22 novembre 1479 viene dato in gabella il mulino soprano (Mulinello) a Francesco Bono per 40 salme di frumento.
Il 3 gennaio 1498 fu stipulata la vendita di un luogo con casa terrana vicino il castrum di Risalaimi da parte di Paolo Catignano a Nicola Palermo.
L’11 ottobre 1498 viene confermata l’assegnazione della masseria di Filippo Palermo ai figli Nicolò e Bernardo.
Il 26 ottobre 1525 Bernardo Palermo vende a Pietro Palmeri la sua masseria, ubicata vicino la masseria di Simone Caravello, la masseria di Matteo Cinquemani e quella di Giovanni Caruso al confine con il bosco di Roccabianca: cum domibus magaseno stabulo vineis olivis et arboribus domesticis et silvestribus cum tegurio novalibus restuchiis bobus animalibus stivilibus et aliis omnibus et singulis in eo tunc existentibus.
Nel 1547 Angelo Macrì sposa Antonella Palermo figlia di Bernardo, la quale rivendica la quota spettante dalla vendita della masseria che confinava con le terre di Nicola Amari castellano di Cefalà (1520) e con il castrum di Risalaimi.
Il 20 aprile di quell’anno Francesco Narsilio rinuncia il possesso di una masseria ad Antonino Giardinello: massariam cum vineis et viridario in eis existentibus sitas et positas in territorio Risalaymi secus feudum seu territorium nuncupatum di Marineo ex una parte et secus terras Petri Palmeri ex altera et alios confines, soggetta a 4 salme di frumento ed una salma d’orzo annuali dovuti a Girolamo Settimo per contratto stipulato in notaio Antonino Lo Vecchio il 24 novembre 1544(28).
Dei passaggi di proprietà della masseria di Matteo Cinquemani abbiamo notizia fin dall’1 settembre 1489 per la vendita fatta da Giuseppe Polito giudeo a Pietro Antonio Iacopinello; la massria, soggetta a censo alla Magione per due aratate, precedentemente era stata concessa a Giovanni La Ferla.
Elisabetta Iacopinello figlia di Pietro Antonio e Bartolomea sposava nel 1510 Giacomo Scorsone. Il 26 ottobre 1480 moriva Leone Iacopinello lasciando eredi i figli Pietro Antonio e Masi Andrea, omonimi del notaio Federico Iacopinello (1515).
Il 14 agosto 1520 Tommaso Giangrasso stipula un contratto di compravendita in notaio Antonino Pisano con il genero Michele Cinquemani per l’acquisto di una masseria a Risalaimi di due aratate di terra, soggetta a 4 salme di frumento e una d’orzo ad aratata, posta vicino la masseria di Bernardo Palermo e la masseria di Simone Caravello(29).
Nel 1525 Federico Abbatelli junior vende la baronia di Cefalà a Francesco Bologna tesoriere regio e barone di Capaci, delimitata da un vasto territorio che racchiudeva il feudo del castello (Cefalà) a sud, il feudo della Suvarita a sud-ovest, il feudo di Currioli a nord-ovest, il feudo di Casara (o Casaca) a nord, il feudo della Torretta a nord-est, il feudo del Molinazzo a levante, il feudo delle Mendole a sud-est; quindi, tutto l’attuale territorio ricadente nei comuni di Cefalà Diana, Villafrati e Bolognetta (cfr. appendice 1)(30).
Il 18 febbraio 1406 Pietro Raimondo Falgar aveva venduto a Giovanni Abbatelli la terra e castrum di Cefalà(31).
L’Abbatelli ed il Bologna erano imparentati tramite le rispettive mogli con i Mastrantonio; infatti il primo aveva sposato Elisabetta, mentre Francesco Bologna aveva preso in moglie (1506) Antonella, figlia di Aloisio Mastrantonio signore di Iaci e di Sambuca (†1505) e di Laura Bracco. La presenza di un Antonio Mastrantonio milite viene registrata in un contratto stipulato con il luogotenente della Magione il 31 agosto 1487 per l’affitto del feudo della Gulfa (Alia).
Nel 1531 Antonino Bologna, figlio di Francesco e di Antonella, richiede l’attestato di nobiltà per entrare nell’ordine gerosolimitano. Il 6 settembre 1530 un altro figlio di Francesco, Girolamo, sposa Vincenza Agliata, figlia di Giacomo barone di Castellammare del Golfo; il 7 novembre 1536 egli dispone nel suo testamento di essere seppellito nel convento di S. Francesco di Palermo. È probabile che il suo memento sepolcrale fosse stato eseguito da Giacomo Gagini, perchè alla stessa data lo scultore si alloga per 10 onze con il padre Francesco per la realizzazione di un’analoga opera recante gli emblemi dei Bologna e dei Mastrantonio.
Il 12 giugno 1537 un altro figlio del tesoriere, Pietro, sposa Giovanna Bologna, figlia di Antonino dottore in leggi e di Fiorenza.
Salvatore Mastrantonio, fratello di Antonella, aveva venduto a Vincenzo Imbarbara, padre di Polisena, vedova di Giovanni Ingo (testamento in notaio Vincenzo Admare del 9 settembre 1545), la masseria di Marineo, di cui Giliberto Bologna suo nipote chiedeva la restituzione: quandam massariam cum stanciis viridario vineis et aliis diversis juribus et pertinenciis universis sitam et positam in feudo Marinei suis confinibus limitatam.
Nel 1549 Francesco Bologna (†1552) barone di Cefalà e di Capaci chiede lo jus populandi sul feudo di Marineo. Il 3 febbraio 1553 viene registrato l’inventario dei beni del defunto barone di Cefalà(32).
La concessione per edificare la nuova terra di Marineo certamente sarà stata utilizzata nel tempo con ampia facoltà e di questo si ha conferma attraverso documenti che attestano gli atti di locazione di terre ed abitazioni già costruite date a censo a numerosi coloni nel 1568 da parte di Giliberto Bologna barone di Marineo; il 3 febbraio 1571 Giliberto vende ad Aloisio Scavuzzo Russo, figlio del notaio Giacomo, il feudo e castello di Cefalà assieme al fondaco, balneas et alias stancias ed al feudo delle Mendole (cfr. appendice 2)(33).
Il 15 gennaio 1601 viene fatta richiesta di fondare una nuova terra da parte di Vincenzo Spuches barone di Amorosa, dopo aver acquisito i feudi delle Mendole e del Molinazzo, cui sarà dato il nome di Villafrati da Aloisio Villafrates (1577)(34). Giliberto Bologna aveva sposato Elisabetta Ram, figlia di Benedetto e di Giovanna Levi, esponenti di facoltose famiglie spagnole oltre che di banchieri; nel 1518 il Ram era socio di Giovanni Sances; ricordiamo pure che nel 1497 esisteva a Palermo un banco Sances-Levi e che Alfonso Sances fu castellano di Cefalù nel 1489.
I figli di Giliberto erano: Giovanna, sposata con Fabrizio Valguarnera (†1589) di Simone barone di Godrano, il quale ricoprì la carica di pretore di Palermo; Vincenzo, investito del titolo di marchese di Marineo, che sposò Emilia Aragona Tagliavia; Susanna, che andò a nozze con Tommaso Gioeni Cardona marchese di Giuliana; infine Maria, prima moglie di Mariano Migliazzo marchese di Montemaggiore nel 1570, il quale sposò in seconde nozze la vedova Fiammetta Paruta.
L’altro fratello di Giliberto, Aloisio barone di Montefranco, si unì in prime nozze con Costanza Settimo (†1557); i figli di questi furono: Giulia, sposata nel 1551 con Ludovico Galletti figlio di Lorenzo e di Antonia Centelles, e Francesco, marito di Giulia Accascina figlia di Tommaso (†1547) e di Brigida. La seconda moglie di Aloisio fu Eleonora Grifeo, sposata nel 1559. Un altro ramo dei Bologna si imparentò con i Leofante; Girolamo, figlio di Nicolò, fu il suocero di Francesco Bologna senior (†1515), il quale ricevette in dote dalla moglie il territorio di Balestrate. Il figlio di questi Baldassare Bologna (†1544) generò Francesco junior (†1553), Elisabetta che divenne la moglie di Antonuzzo Amari, e Mariano, maestro razionale. Questo, in sintesi, il quadro degli imparentamenti gravitanti attorno ai grandi casati che agiranno come il motore di una macchina in vorticosa rotazione per acquisire il possesso dei beni ed accaparrare un considerevole numero di proprietà appartenenti ai vasti feudi.
Per comprendere meglio questo complesso meccanismo di interessi economici che gravitavano attorno ad alcune famiglie feudali vengono riportati tutta una serie di contratti di compravendita di immobili che ne attestano i numerosi passaggi di proprietà, compresi quelli relativi al feudo e castrum di Risalaimi a partire dal 1533, anno in cui Benedetto Ram lo cede ad Antonino Diana Settimo per 3000 onze, soggetto a censo alla Magione(35).
Il 9 novembre 1544 viene stipulata una società fra il ciantro della cattedrale Nicola Vincenzo Bologna, Antonuzzo Amari e Francesco Bologna figlio di Baldassare per la gestione del trappeto di cannamele di Partinico. L’attività di questa impresa economica è testimoniata fin dal 1525, anno in cui lo stazzonaro mastro Silvestro D’Antonio si obbligava con i Bologna di fornire 6000 forme d’argilla per la conservazione dello zucchero, che dovevano essere consegnate in eius stazono retro S. Antonii porte Termarum a Palermo, cioè nell’area vicino la porta di Termini; il pagamento doveva essere effettuato nel banco Sances-Ram.
L’11 marzo 1545 Giovanni Aloisio Settimo, tutore di Baldassare Diana Settimo, erede universale del padre Antonino, enfiteutica a Leonardo Di Trapani per 18 tarì una salma di terra a Risalaimi nel vallone del Landro (Oleandro), vicino le terre di Nicola Papisco, per poter impiantare un vigneto; il 13 settembre 1547 Tommaso Caruso calabrese lo vende a Pietro La Vigna habitator Marinei; il 30 gennaio 1569 egli acquista per 4 onze un mulo da Francesco Lo Duca palermitano ed il 6 dicembre 1571 la moglie Francesca, procuratrice della confraternita del SS. Rosario, compra dal marchese di Marineo una casa terrana per 10 onze in strata magistra: ciò attesta l’avvenuta edificazione del nuovo centro. Il 12 ottobre 1547 Girolamo Diana Settimo concede in enfiteusi a Francesco Di Raimondo un terreno compreso nel territorio del feudo di Risalaimi, secus feudum nominatum lu Parcu vecho et secus viam publicam quod pecium terre ut dicitur pigla dila finajta di ditto Parco et va ala via et nexi fina undi Cola Capunetto et a baxio nexi alu xiumi. Trattasi di quello stesso terreno coltivato a vigneto consistente in due salme di terra che Vincenzo Bosco, luogotenente del maestro giustiziere e pretore di Palermo, concede a censo nel 1554 ad Andrea Calvo alias Monaco di Noto per onze 2.12.
Il 12 dicembre dello stesso anno vengono concesse ad enfiteusi a Francesco Campisi 5 salme di terra ad opus et effectum in dittis terris plantandi vineas, vicino al vigneto di Nicola Guardabasso e a quello di Marco D’Agostino.
Certamente la coltura della vite nel XVI secolo subirà un notevole incremento in questo territorio e di ciò testimoniano i numerosi contratti che attestano il sorgere di nuovi impianti agricoli. Alcune concessioni vengono fatte da Giliberto Bologna il 23 agosto 1568 in contrata de lo passo de la Dayna (ar. Ayn, fonte d’acqua) ad onza 1.6 la salma di terra nel feudo di Buceci, in cui era l’antico monastero di Scanzano, ora distrutto, da cui proviene la tavola dipinta della Madonna della Dayna; i concessionari furono Giovan Battista Lo Giudice, Salvatore Imbarbato, Bartolomeo Pinto, Bernardo Badami, Giacomo Scicli, Antonino Gianferraro, Cono Quadaruni, tutti abitanti di Marineo.
Sicuramente questo sarà stato il motivo che porterà molti coloni provenienti da altre zone ad acquisire possedimenti per poter impiantare e sfruttare in maniera intensiva le colture agrarie, con l’opportunità anche di risiedere nelle nuove abitazioni che si andavano costruendo nei centri di nuova fondazione: le concessioni di terreno agricolo erano vincolate con la clausola commorandi et habitandi in perpetuo cum eius domo et familia, così come avverrà per il popolamento del feudo di S. Maria dell’Ogliastro incentivato dal fiorentino Marco Mancini agli inizi del XVII secolo.
Il 7 agosto 1545 Baldassare Diana vendeva ad Antonuzzo Amari il feudo di Risalaimi per 3150 onze ed il 29 ottobre dello stesso anno Francesco Bologna barone di Cefalà acquistava dall’Amari una masseria di 4 aratate e mezzo nel feudo delle Mendole(36).
L’11 agosto 1546 Antonino e Girolamo Leone vendono al barone di Soria una masseria di 5 aratate e mezzo nel feudo di Balletto, appartenente all’arcivescovado di Monreale, vicino alla masseria di Francesco Di Giovanni e a quella di Alfonso Ruiz.
Nel dicembre di quell’anno l’Amari loca ai fratelli Giovan Antonio e Stefano Pisano le stanze terrane della masseria di Risalaimi per impiantarvi una vetriera, cioè una fabbrica per la lavorazione del vetro: trattatasi di imprenditori genovesi che avevano dato luogo a questo nuovo tipo di attività insediandosi nell’area della Kalsa a Palermo, l’attuale via Vetriera(37).
Sull’esistenza della nuova strada abbiamo una testimonianza pervenutaci attraverso un documento del 19 maggio 1545 in cui Antonuzzo Amari enfiteutica a Sebastiano Luciano per onze 18.6 annuali due cortili di case consistenti in otto case terrane ed un magazzino in cui a cantonera era dipinta l’immagine di S. Cristoforo, nel terreno in cui era impiantata la vigna della Magione, in ruga noviter constructa in dicto terreno per quam itur ad ecclesiam S. Marie de Spasimo, vicino il cortile di case di Antonino Leone, a fronte della casa di Giovan Battista Li Muli.
Il 13 giugno 1548 Antonino Landolina, pittore catanese, si alloga con l’Amari per dipingere un S. Cristoforo simile a quello che si trovava nella casa del barone di Cefalà; l’Amari aveva la casa nella strada dell’Alloro, vicino alla vecchia chiesa di S. Maria della Pietà.
Il 10 aprile di quell’anno vengono eseguiti lavori da parte di Luca La Manna fabricator per costruire un dammuso cioè una volta sopra l’ingresso del castrum di Risalaimi, oltre alla scala d’accesso che doveva condurre alla sala della torre; da qui possiamo dedurre che l’attuale vano posto sopra l’arco d’ingresso introduceva al punto alto di difesa, ormai scomparso, evidenziato da un sistema di feritoie in basso.
Sull’armamento del castrum abbiamo una conferma indiretta pervenutaci attraverso un documento del 16 settembre 1524 in cui Benedetto Ram ordina a Pietro Arena bombardiere di fondere due colubrine di bronzo lunghe 12 palmi (circa 3 metri) e di 20 cantara (circa 1600 Kg); non abbiamo però indicata la dislocazione dei pezzi dell’artigliera, ma ertamente Ram voleva difendere la sua proprietà. Gli Arena furono i componenti di una famiglia di rinomati fonditori di campane e di artiglierie originari di Tortorici, residenti a Palermo fin dalla seconda metà del ‘400.
Il 26 gennaio 1547 Elisabetta Sances, vedova di Alfonso Ruiz, protonotaro del Regno, concedeva a Federico Amari barone di Melia, sposato con Laurea Calvello figlia di Simone (1550), fratello di Antonuzzo, una masseria cum parco seu mandra nel territorio di Monreale, in feudo di Roccazzu russu feudum di Molinello ex una et confinantem cum vallone feudi di Archivocali et vallonem di Chicala, e il 10 settembre venne redatta la relativa relazione di stima. Lo stesso Federico vendeva al sacerdote Andrea Gambino due masserie nel feudo Currioli, territorio di Cefalà(38); certamente l’attività economica degli Amari, in quel periodo, si dimostrava molto dinamica nell’acquisto e nella vendita di immobili agricoli.
L’8 agosto 1549 Vincenzo Bosco, barone di Vicari, Misilmeri e Baida, acquista da Antonuzzo Amari (†1556) per 3200 onze il territorio di Risalaimi(39); e sarà significativo a questo punto constatare quanto costituirà l’ammontare della vendita che Francesco Bosco effettua l’1 ottobre 1587 a Girolama Ferrero, baronessa di Pettineo e Migaido, figlia di Paolo (†1575) savonese, per onze 11802.17(40).
I coniugi Marc’Antonio e Girolama Ferrero, assieme al figlio Giovanni Bernardo, soggiogano il 16 agosto 1612 al genovese Antonio Bartolotto 100 onze, imposte sul territorio e sul castrum vetus di Risalaimi oltre che sul loro palazzo sito nella strada Toledo, nella contrada dei Lattarini (attuale palazzo Larderia).
Il 27 aprile 1637 il feudo di Risalaimi veniva ceduto da Francesco Ferrero, donatario di Girolama, a Giovanna Ferrero Arrighetti(41) ed era posto in deputazione nel 1655, passando sotto l’amministrazione del Tribunale nel 1702 alla morte di Eleonora Ferrero baronessa di Pettineo, vedova di Marco Mancini, terzo marchese dell’Ogliastro. Il feudo di Risalaimi venne stimato in salme 1707, comprendenti molino, bosco, acqua da circa 12 zappe, castello, paratore, vigne, oliveto, massarie e giardini.
In una relazione descrittiva del territorio di Palermo del 17 aprile 1807, eseguita dall’agrimensore Paolo Vitale per conto di Salvatore Notarbartolo conte di Priolo, troviamo indicati i possedimenti dei feudi ed i confini di Misilmeri, Pagliarazzi, Risalaimi, Ogliastro, Marineo, S. Cristina e Mezzano: Stato e territorio di Risalajmi proprio dell’illustre principe di Valguarnera consistente nelli feudi di Gulino, Scalambra, Raffi, Amendola, Roccabianca, Giampaolo e Scalia confinante feudo del casale di Scorso, stato di Menzagno (N), stato di Misilmeri (N-E), stato di Marineo (S), feudo del Parco vecchio e feudo del Pianetto (O)(42). L’intero feudo consisteva in 900 salme di terra pari a circa ha. 2357. Un riscontro visivo del vasto sistema territoriale si trova rappresentato in un dipinto conservato presso l’Archivio Storico del Comune di Palermo, in cui si descrive la Pianta topografica del territorio con tutte le dilucidazioni (1809); il compilatore fu Giovan Battista Porcari, redattore della topografia l’architetto camerale Luigi Speranza(43).
La vasta e complessa rete di interessi legati allo sfruttamento delle risorse agricole di questo territorio nel XVI secolo stimola certamente a una ricerca archivistica minuziosa e capillare, che metta in evidenza le complesse situazioni legate all’evoluzione dei rapporti economico-sociali che si intersecano con una continua e frenetica acquisizione di beni, tramite gli imparentamenti, da parte di alcune famiglie nobili, protese a mantenere saldo il proprio prestigio attraverso l’ascesa alle cariche civiche e attestandosi sulle cospicue proprietà dei feudi e sulle risorse economiche provenienti dallo sfruttamento delle colture più redditizie oppure fondando nuovi centri abitati.
Appendice Documentaria:
N. 1. Descrizione dei confini territoriali della baronia di Cefalà per la vendita effettuata con il consenso della regia Corte a Francesco Bologna il 21 luglio, XIII ind., 1525 (ASPa, FND, 3796, f. 118).
5 aprile, XIV ind., 1526
"Le finaite della baronia di Cefalà sono lo ditto fego dilo Castello lu quali confina cù lo fego di Mezzo jusufo et cù lo fego di Scorcha vacca incomenza dila via dila portella di Blasi et va ala mandara supra la vigna di Corbino et dillà cala a drictura dila chersa che è intro ditta vigna di Johanni Corbino et dillà si metti la via via che tornia la detta vigna che nexi ala punta di buretto intra lo valluni undi affinaita cu Scorcha vacca et acchana lo valluni valluni che nexi a dritto lu pizo di Longu beccu ala serra et va la serra serra versu muntichu undi in mezzo di dicta serra chi è uno roccazzo cù una troffa di alastri cù uno ruetta circum circa che finixi detto fego di lo Castello et incomenza lo fego dila Suvarita lu quali confina cù lo fego preditto di Scorcha vacca et cù lo fego dilo Gudurano et cù lo fego dilo Cappilleri et cù lo fego di Marineo lu quali fego dila Suvarita incomenza dilo ditto roccazzo et va ala petra di Cargimuna et mettisi alo valluni di supta di ditta petra et nexi susu alo yhalinchi che nexi alu frapino grandi che affinaita cù lo fego dilo Gudirano et va suso ali finaiti et alo taglu deli rocchi supta dila Cannamasca et respundi alu gurguletti et nexi ali serri serri alo chano dila valli dila Chanca affinaitando cù lo fego dilo Cappilleri et respundi a drictura ala portella dila Suvarita et confina cù lo fego di Marineo et dillà si metti la serra serra che va ali Currioli et va la serra serra fina ala portella dili Currioli undi finixi ditto fego dila Suvarita et incomenza lo fego dili Currioli incomenza dila ditta portella et mettisi la serra serra confinando cù lo fego di Marineo sempri li serri serri che calano ali fontanazzi che confinano cù Marineo et illoco finixi lo fego dili Currioli et incomenza lo fego di Casaca lu quali confina cù lo fego di Marineo et cù lo fego di Rocca blanca et cù lo fego di Bonjardino et cù lo fego dili Bizoli lu quali fego di Casaca incomenza dili ditti fontanazzi et cala la via via di lacqua dili fontanazzi et mettisi intro lo valluni che va lacqua dili fontanazzi lu quali valluni affinaita cù Rocca blanca et cala alo cugno dilo contrasto intro lo valluni di ditto cugno dilo contrasto lu quali cugno è uno cavallo di terra chi è comuni di ditta baronia et dilo fego di Risalaimi et nexi a drictura ala via grandi undi chi su multi suvari et alastri et cala intro lo valluni affinaitando cù lo fego di Bonjordano et nexi lo valluni valluni ala portella di serra undi sunno li finaiti et dillà va ala via via affinaitando cù lo fego dila Turretta et dillà incomenza lo ditto fego dila Turretta affinaitando cù lo fego dili Bizoli et cù lo fego dila Nagaria et cù lo fego di Traversa di Cani et la finaita incomenza dilo ditto valluni et va la serra serra la via via et in menzo ditta serra affinaita cù lo fego dili Bizoli et sequta la ditta serra serra la via via perfina ala via che va alo spiruni girando dilu spiruni in mezzo tutti quilli vii et intro lo fego dila Turretta lu quali ancora affinaita cù lo fego dila Nagaria et dilà si metti e cala la via via fina ala via chi va ala via dila Traversa di Cani ala via che ci è uno xarrubbo et dillà si metti alo valluni allacqua et veni dilo chippuneri et mettisi lacqua acqua fina alo valluni di l’omo morto che achana susu verso li serri che affinaita cù lo fego dila Traversa di Cani undi si chiama la valli dili rosi et nexi la serra serra ala portella dilo piro et nexi alo chiano dilo pulero lu quali affinaita cu la tumminia lu quali chiano è dilo fego dila Tumminia et va fina al serra et in ditta serra finixi ditto fego dila Turretta et incomenza lo fego dilo Mulinazzo lu quali confina cù lo fego dila Tumminia et va la serra serra et cala ala trazera et va trazera trazera che ci è lu valluni alo piraynello et nexi all’acqua dili junchitelli et dillà achana suso et mettisi lo valluni valluni di l’acqua confinando cù ditto fego dila Tumminia et va sindi a nexiri suso intra la serra la via via la serra serra undi lo roccazzo dili suvari intro la portella et illoco finixi lo fego delo Molinazzo affinaitando cù lo fego dili Mendoli lu quali fego dili Menduli affinajta cù lo fego di Bauchina et cù lo fego dili Chiani di Vicari et cù lo fego di Mezzojuso lu quali fego dili Menduli incomenza dilo ditto roccazzo dili suvari et nexi la serra serra nixendo ali ficarazzi et dili ficarazzi si metti la serra serra perfina ala serra dili ogliastri et dili alastri et va di roccazzo in roccazzo a drittura dila petra di largilla restando lo marcatello dilo puzzillo infra lo fego dili Menduli et dila detta petra di largilla che è in mezzo lo valloni supra lo quali chi è uno agliastro va a drittura ala serra di scarpa ala quali chi è uno pirajno in mezzo et certi petri che nexino a drittura alo agliastro supra lo quali chi sunno certi poyatelli di petri cù pirajni in ditta serra et va la serra serra et respundi ad uno poyo che ci sunno multi pirajni et petri et va ad uno ogliastro che va la schina schina la via via che nexi alo taglio dili ginestri lo violo violo supta Munti frumento che nexi ala fontana di Chiarello restando detto Munti frumento intra ditto fego dili Randuli et va la via via che nexi alo roccazzo dilo gisso et va lo violo violo et nexi ala via che veni dili vagni chi va a Chiminna che duna supra la valli dilo Contrasto et dillà si metti la serra serra per mezzo li ginestri et pirajni et nexi ala via che veni dila funtana di Capizza che va verso la funtana dilo Salachi et dillà va la via via fina ala ditta fontana dilo Salachi et va la via via verso Chiminna perfina ala portella et dilà gira a man dritta ala trazzera la via via et nexi ala portella di Bonjorno et va la via via che nexi ala portella di Critazzo et dillà si metti li bausi bausi seu tagli di rocchi undi va perfina a portella di Blasi calando ala via grandi all’acqua darreri lo fundaco di portella di Blasi et cala la via grandi a drittura dili roccazzi et iungisi cù lo ditto fego dilo Castello dila ditta baronia dundi incomenzano li ditti finaiti.
Testes Leonardus Bancheri, nobilis Antonius Carbuni, Antoninus de Parisi alias Lo Scavuzzo et nobilis Johannes Franciscus de Homodeis".
N. 2. Il 12 ottobre 1596 Vincenzo Spuches barone di Amorosa acquista da Vincenzo Bologna marchese di Marineo il feudo delle Mendole con la masseria di Aloisio Villafrades e nel 1599 il feudo del Molinazzo, che accorpati daranno luogo alla fondazione di Villafrati (ASPa, Cancelleria, 561, a. 1600-01, f. 111v.)
"Philippus rex. Il marchese di Marineo D. Vincenzo Bologna vassallo di V.M. nel regno di Sicilia dice che per degni et giusti respetti per ordini di vicerè e presidenti di quel regno e di deputati a questo dati ha venduto al Dr. Vincenzo de Spuches baron di Amorosa doi soi feghi et baronie nominati delli Mendoli, massaria di Villafratis et del Molinazzo al qual ha permesso la licenza di potere edificare una terra in detto luogo delle Mendole e Villafratis e del Molinazzo con suo castello et altre cose necessarie nel modo e forma ch’altri baroni e titolati tengono in detto regno e non la facendo perde certa parte del prezzo fra certo termine tra loro accordato e perchè S.M. l’edificasse una terra in detto luogo e gran servitio di Dio et di V.M. et beneficio publico di questo regno per molti raggioni primo perchè sarà molto vicina al passo publico chiamato della Portella di Blasi, dove è passo de ladri discursori di campagna, li quali assassinano e rubbano li poveri viandanti il quale passo è confine con dette baronie delle Mendole et anco in detto fego del Molinazzo congiunto et contiguo con detto fego delle Mendole c’è un altro passo di ladri nominato la Scaletta, nelli quali di giorno e di notte si commettino diversi e vari delitti, furti, assassinii, homicidii et notabili danni et maltrattamenti alli vassalli di V.M. e facendosi detta terra in detto luogo che sarà nel mezzo cesseranno detti delitti per esseri lochi tanto convicini existente dentro et appresso detti feghi, di più detto loco dove s’harà da fabricare et construere detta terra sarà lontano da detta città di Palermo da circa 16 miglia che sarà riposo et albergo di tutti viandanti, tanto di quelli che vengono in detta città come di quelli che si partino, essendo loco molto atto et commodo di boni acqui, quantità di vini, di legni di fromenti e di altri cosi necessarii al vitto humano sarà anco assai commodo per detta città di Palermo poichè li villani che habitiranno in quella terra s’adattiranno di portarce a vendere in detta città pollami, legni, formenti, orgi et altre vittovaglie, stante essere cossì appresso et cossì anco detti villani venire ad operarsi nell’edificii, cultura di lochi et altri cosi che sarria con gran commodità di detta città et oltre si dona tal facultà a persona tanto benemerita come è detto di Spuches che ha servendo a V.M. per anni 35 in circa in diversi piazze del consiglio di questo regno con tanta limpiezza, virtù et habilità come è notorio.
Palermo 15 gennaio, XIV, 1601. Il duca di Maqueda".
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2 Rocco B., 1992, p. 239; Caracausi G., 1993, vol. II, p. 1363.
3 Archivio di Stato di Palermo (ASPa), Tabulario Magione, 15, a. 1206.
4 Biblioteca del Comune di Palermo (BCPa), 3.Qq.E.63, f. 37v.: 28 aprile, XI, 1328. Privilegium Fiderici confirmationis et acceptationis certi cambii facti a dicto rege et domo Mansionis per quod domus habuit solarium Fabarie S. Philippi et maris dulcis per terreni in quo ad presens sunt constructa muris urbis.
5 G. La Mantia, 1918, doc. CXLIII, p. 309.
6 ASPa, Tabulario Magione, 277, a. 1295.
7 BCPa, Qq.C.83, f. 29.
8 BCPa, 3.Qq.E.63.
9 ASPa, Misc. Arch. II, 7, f. 54: 10 aprile, X, 1353. Privilegium regis Ludovici confirmationis castri Margane. ...constructum et fabricatum fuisse per eum tamquam locumtenentem preceptoris dicti ordinis in dicta insula nostre Sicilie quoddam fortilicium sive castrum ad expensas ordinis supradicti in feudo eiusdem ordinis vocate Margana in loco qui dicitur petra di Margana.
10 ASPa, FND, 342, f. 85r., 16 aprile 1427.
11 ASPa, FND, 773, f. 271r., 22 febbraio 1430.
12 ASPa, FND, 773, f. 313 r., 16 marzo 1430.
13 ASPa, FND, Sp. 273, 25 febbraio 1436.
14 Archivio Storico del Comune di Palermo (ASCPa), Atti bandi e provviste, 101/17, f. 197v.-198r.
15 ASPa, FND, 1407, f. 186.
16 Mongitore A., 1721, p. 203.
17 Mugnos F., Teatro genologico delle famiglie illustri nobili, feudatarie et antiche, Messina 1670, in cui afferma che l’arme dei Ram era un ramo d’albero verde in campo d’oro.
18 ASPa, FCRS, Ss. Salvatore, 249.
19 ASPa, Protonotaro del regno, 83, f. 257v.
20 ASPa, FCRS, Ss. Salvatore, 247.
21 ASPa, FCRS, S. Giuseppe dei Teatini, 379.
22 ASPa, Conservatoria, 75, f. 26.
23 ASPa, FND, 1136, f. 895v.
24 Giunta F.-Sciascia L., 1995, p. 220.
25 ASPa, Cancelleria, 442, f. 401v.
26 ASPa, Fondo Trabia, S. I, 725, Risalaimi e Roccabianca.
27 ASPa, Real Commenda della Magione, 13, f. 67.
28 Idem, 24, f. 214.
29 Idem, voll. 13, 14, 21, 24, 26, 33.
30 Idem, 24, f. 125.
31 ASPa, Conservatoria, 120, f. 567v.-573.
32 ASPa, Cancelleria, 43, f. 180; Idem, 46, f. 87.
33 ASPa, Conservatoria, 142, f. 21.
34 ASPa, Tribunale del real Patrimonio, Lettere viceregie, 571, f. 535.
35 ASPa, Cancelleria, 561, f. 111v.
36 ASPa, FND, 29 novembre, VII, 1533, nr. Giacomo Scavuzzo.
37 ASPa, Real Commenda della Magione, 21, f. 63.
38 ASPa, FND, 5385, 10 dicembre, V, 1546.
39 ASPa, FND, 1803, 29 novembre, III, 1544.
40 ASPa, Cancelleria, 353, f. 526v.
41 ASPa, Real Commenda della Magione, 21, f. 1.
43 ASPa, FND, 16573, nr. Vincenzo Belando.
44 ASCPa, Territorio di Palermo, Atti vari, vol. LXXIX (1803).
"... perché dolersi se Machiavelli tende quasi a divenire il carceriere del suo interprete? Potrebbe, dopo tutto, quest’ultimo godere di una migliore compagnia?"
(Gennaro Sasso)
I. Machiavelli e la morale
1. Etica e politica
La questione fondamentale che inevitabilmente ricorre ogni qual volta si accenna all’opera di Niccolò Machiavelli riguarda la relazione tra etica e politica(1)#, sbrigativamente esemplificata dal celebre aforisma machiavellico del fine che giustifica i mezzi, che pure l’autore de Il Principe mai formulò e per il quale addirittura viene sovente citato.
"La politica afferma: "siate prudenti come serpenti", la morale aggiunge (come condizione limitativa): "e semplici come colombe"(2). Politica e morale possono veramente convivere in un unico comando, come pensava Kant, o la antinomia è irrimediabilmente insuperabile? E se lo fosse, Machiavelli avrebbe incoraggiato questa inconciliabilità?
O ancora, esiste un’etica per la vita pubblica e una per quella privata? La morale tradizionale cristiana (il discorso della montagna) può essere assunta a sistema etico vincolante per l’agire politico così come è praticato per la salvezza personale dell’anima? O piuttosto per la politica, per la salute dello Stato, occorrono altre regole da cui poi discendono nuovi criteri di valutazione del comportamento dell’uomo politico?
La distinzione che Weber prospetta tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, che sembra legittimamente applicarsi a (o desumersi da) quanto Machiavelli delinea nella sua politica, è in definitiva l’esatta relazione tra politica e morale che il fondatore del discorso moderno sulla politica individua percorrendo quella strada nuova mai prima da nessuno trita?
Ciò che fa del Segretario della repubblica fiorentina il pensatore politico più frequentato dagli studiosi, la figura rinascimentale che non cessa di suscitare un interesse approfondito, "nella vita e nelle opere", per cui ulteriori biografie più minuziose vengono pubblicate#(3), nuove edizioni dei suoi scritti, sempre più accurate filologicamente, continuano ad essere prodotte(4)#, è dovuto al fatto che la sua "originalità" deriva anche dalla disarmante lucidità e mancanza di reticenza con cui i problemi fondamentali che la politica pone alla coscienza morale sono stati trattati.
La tesi di questo saggio risiede nella convinzione che una simile questione implica l’esplicitazione della idea di uomo e degli uomini che Machiavelli semina lungo i diversi suoi scritti con puntuale, inequivocabile chiarezza. Nella sua filosofia politica ricorre infatti con assiduità il riferimento all’essere umano. Non è una frequenza indifferente. Dietro tale ripetizione sta una precisa antropologia, essenziale per la riflessione politica che il solitario scrittore di San Casciano vuole "ridurre" nell’opuscolo de principatibus.
Per quanto sia un legame naturale quello tra uomo e politica, tra zoon politicon e polis, essendo la città il luogo della politica, nel senso che quest’ultima è la violenza umana regolata dalle leggi che consentono la convivenza civile(5)#, occorre sempre tenere presente che la politicità dell’uomo (il suo appartenere alla politica), ha il proprio fondamentale presupposto nell’umanità della politica: il fine di quest’ultima, la più eminente attività umana, che sussistendo permette tutte le altre, sono gli uomini stessi. Tutta la riflessione sulla politica parte da ciò, e sotto questo duplice profilo Machiavelli offre spunti che non smettono di costituire un’esemplare e provocatoria analisi.
Dicevamo "nella vita e nelle opere", come recita il titolo di una nota biografia: Niccolò Machiavelli sentì in modo talvolta perfino ossessivo la dimensione politica della propria umanità. Chi studia il suo pensiero politico è fatalmente attratto(6)# da questa vocazione, che ispira le opere storiche, politiche e letterarie del Segretario fiorentino. È obbligatorio lasciarsi provocare da una simile dimensione, a cui si perverrà dopo che avremo tentato di capire come è risolta la relazione tra antropologia e politica - gli uomini e la loro polis - dallo stesso Machiavelli. In questa prospettiva, come detto, ci sembra di porre un approccio adeguato al problema etico che ci siamo posti all’inizio.
Lo scandalo de Il Principe è racchiuso nei suoi capitoli centrali, laddove iniziano le pagine della "realtà effettuale" contrapposta polemicamente alle repubbliche immaginarie dei filosofi: è adesso che viene presentata l’essenza della sua dottrina, in quell’ammonimento così contrario alla mansuetudine evangelica che invita a porgere l’altra guancia: "uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono"(7)#.
Il presupposto di questo precetto#(8) è esplicitato immediatamente prima in una contrapposizione che rimarrà paradigmatica per la sua evidente, e temeraria, confutazione della morale cristiana: "Perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua". La morale machiavelliana si adegua perfettamente all’esistente, non scaturisce da imperativi superiori o interiori. La descrizione del comportamento umano già offre tutte le regole per l’agire degli uomini.
E al XV capitolo, per l’appunto, troviamo homines. Questa parola compare una volta soltanto in un testo machiavelliano, dato che è sempre la lingua fiorentina quella usata dallo scrittore, ad eccezione proprio dei titoli dei capitoli de Il Principe. Ciò su cui ci imbatteremo sarà invece la sua esatta traduzione, il plurale uomini.
Nel momento culminante del machiavellismo c’è dunque il riferimento agli homines, praesertim (specialmente) ai principes, è vero, ma si tratta dei diversi livelli dell’unica realtà della politica: "dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti..."(9)#. L’attenzione di Machiavelli si concentra sui reggitori dello Stato, perché hanno maggiori responsabilità, ma ciò che lo scrittore ha da dire è valido per tutti. E allora, "discorrendo quelle cose che sono vere", qual è questa verità? Che le condizioni umane non consentono di essere buono, ripete in queste brevi ed intense pagine che introducono i tre capitoli successivi insieme ai quali si è determinata la fortuna, nel bene o nel male, di chi la ha scritti. Anzi, "non si curi di incorrere nella fama di quelli vizii, sanza quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà et il bene essere suo"(10).
Gli usuali criteri morali, evangelici, ma anche "dei doveri" ciceroniani, e in sostanza umanistici, sono dunque sbalzati via?
2. L’Uomo Machiavelliano: homines e vires
2.1. Per le condizioni umane che non lo consentono, ecco dunque da dove nasce la nuova via machiavelliana alla politica, qual è la sua lacerante intuizione. Gli uomini dunque, questa riflessione sulla natura umana viene svolta parallelamente al discorso politico e non a caso culmina laddove questo discorso è cruciale, decisivo.
Riguardo al discorso antropologico i riferimenti più celebri sono quelli del capitolo XVII de Il Principe e nel primo libro dei Discorsi; poi ovunque si trovano una serie di frasi incidentali che ribadiscono il giudizio secco che è espresso in questi due passi fondamentali, perché è lì che la riflessione ha in sé intenzione e compiutezza. Leggiamoli:
Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figlioli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina(11)#.
È necessario a chi dispone una republica e ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione(12)#.
Già si desume attraverso il conforto del contesto in cui viene inserita la parola, che l’accezione è negativa, se non palesemente spregiativa. L’uso indefesso e naturale del plurale denota un approccio qualunquistico, una generalizzazione che lascia poco spazio al discernimento obiettivo delle qualità della persona. Il singolare è piuttosto il numero dell’individualità, del giudizio di merito. Si può anche usarlo per esprimere la pluralità, l’uomo nel senso di genere umano ed in questo caso l’approccio è più sereno, neutro; ma il termine è raramente usato da Machiavelli e quando ciò avviene, come in questo emblematico caso, è per l’appunto con questo senso.
Del resto è la stessa tradizione umanistica a fornire all’intellettuale fiorentino un lessico specifico che ritaglia una cornice ideologica ed ermeneutica ben precisa. Gli umanisti, infatti, ha dimostrato Quentin Skinner(13)#, capovolgono la concezione agostiniana della natura corrotta dell’uomo che risale a San Paolo. Ci sono due testi significativi. Petrarca scrive il De viris illustribus nel 1373 e Pico della Mirandola il De hominis dignitate nel 1484, in cui il riferimento all’uomo è declinato già nelle parole con una prospettiva post-medievale. Il primo, per riferirsi a uomini illustri, ad un’insieme di straordinarie individualità, adopera il termine vires e non homines; e il secondo usa la parola homo, al singolare, per rilevare quale sia la natura umana.
Gli homines allora non sono i vires (come il vulgo non è il popolo), e poiché sia homines che vires hanno in volgare un’unica traduzione, quando Machiavelli, non scrivendo in latino, intende vires, aggiunge al termine "uomini" un aggettivo che sia significativo come "virtuosi", "eccellenti", "meravigliosi", quasi a voler sottolineare che di per sé gli uomini non sono virtuosi, appunto vires.
Se l’umanista Machiavelli sia stato un attento conoscitore della lingua che adoperava per esporre la sua teoria politica, una lingua utilizzata anche in funzione politica, allora l’uso delle parole non è mai stato casuale. Si pensi non tanto ad una prova evidente che dimostra una competenza specifica - il Discorso sulla lingua - ma ad una imprevedibile ed improvvisa spiegazione che tra parentesi introduce in quel XV capitolo, in cui si sofferma sulle ragioni che lo hanno indotto ad usare un determinato vocabolo al posto di un altro. Ed i termini che adopera per significare in modo diretto l’essere umano ci sembrano altrettanto centrali quanto quelli più frequentati dagli studiosi del Machiavelli, quali "stato", "virtù", "fortuna".
È una tale ripetuta chiarezza che già dice quanto questa idea sia presente a Machiavelli con estrema nettezza e debba pertanto essere considerata come tratto tra i più coerenti e portanti della sua teoria politica. L’antropologia machiavelliana, come altri aspetti salienti del suo pensiero politico, non appare mai sviluppata come invece avviene in altri filosofi o scienziati della politica. Piuttosto è data per cenni; eppure sono punti essenziali al pensiero politico che lo scrittore intende fondare.
Da una parte abbiamo l’etica, un sistema di norme che si impone alla coscienza dell’uomo e ne ispira il comportamento. Ma su questo comportamento interviene in modo decisivo la politica, le relazioni di potere tra gli uomini. In uno scritto esemplare del 1503, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, il Segretario fiorentino preannuncia il pensatore politico dei Discorsi:
Io ho sentito dire che le historie sono la maestra delle actioni nostre, et maxime de’ principi, et il mondo fu sempre ad un modo habitato da uomini che hanno havute sempre le medexime passioni, et sempre fu chi serve et chi comanda; et chi serve malvolentieri et chi serve volentieri; e chi si ribella et è ripreso#(14).
I motivi che abbiamo rinvenuto ne Il Principe hanno già qui la loro radice: uomini che comandano e altri che obbediscono. In questa anatomia semplice ed eterna del mondo umano la politica si specchia sull’antropologia, elementi entrambi naturali, fatti irriducibili ed immutabili della storia:
Come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini fussino variati di moto, di ordine e di potenza da quello che gli erano antiquamente#(15) .
Tutti i giudizi sugli uomini, le frasi lapidarie dal sapore inconfutabile - "li uomini sono sempre nimici delle imprese dove si vegga difficoltà"(16)# -nascono "per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo"(17)#. Come nella dedica dei Discorsi, Machiavelli è esplicito e chiarissimo in quella de Il Principe: "la cognizione delle azioni delli uomini grandi imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique"(18)#. La pratica o la esperienza diretta degli uomini trova conforto nelle sentenze degli antichi scrittori. Si perviene così alla conoscenza della perenne natura dell’essere umano su cui si fonda la riflessione politica, legata intrinsecamente ad una prospettiva programmatica:
Non sia pertanto nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato conseguito da altri: perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre con uno medesimo ordine#(19).
2.2. L’analisi dei due testi maggiori citati ci fornisce preziosi spunti intanto perché esprimono lo stesso concetto e la medesima ansia (così emerge il problema agli occhi dello scienziato della politica). Questi sono talmente collegati che "E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina", è proprio l’eco di "è necessario a chi dispone una republica e ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei". Ma se possibile, più grave sembrerebbe il giudizio dello scritto "repubblicano": presupporre gli uomini colpevoli ha una radicalità che il "si può dire generalmente" dell’opera "maledetta" attenua.
Giudizio aprioristico e senza appello, Machiavelli sembra dunque predestinare gli uomini all’inferno: una dannazione, certo, dal punto di vista del Leviatano, del dio mortale.
Ma la loro è una colpa pubblica, connessa cioè al vivere politico, alle relazioni che tra loro instaurano in società?
Sulla condizione presociale dell’uomo Machiavelli non si esprime, mai ricorre allo stato di natura, ma piuttosto accenna nei Discorsi agli albori della storia immaginando un’evoluzione del tutto aliena da congetture filosofiche o religiose#(20). Da ciò non sappiamo se l’uomo privo di relazioni sociali sia incorrotto (sebbene qualche capitolo dopo esprime l’opinione che la lontananza dalla "civiltà" è condizione favorevole alla istituzione di uno Stato saldo e ben ordinato#(21)), ma possiamo dire che quest’uomo passa da una condizione ferina ad uno stadio in cui si unisce ai suoi simili per necessità ed utilità, scegliendo il più adatto e forte al comando e dopo, avuta "cognizione della iustizia", quello "più prudente e più giusto". Con questo passaggio fondamentale verso la civiltà Aristotele è significativamente abbandonato: le origini della storia sociale umana divergono da quelle della Politica. La questione della naturale socievolezza dell’uomo è in tal modo trattata e risolta.
Sappiamo infatti da quel che leggiamo ancora in tutta l’opera machiavelliana, che l’uomo ha in sé una naturale tendenza a fare del male appena ne abbia l’occasione. Di rimando ai Discorsi, sempre nel medesimo passo de Il Principe, ribadisce: "per essere gli uomini tristi [il vincolo tra loro] da ogni occasione di proprio utilità è rotto"(22)#. Così nasce l’uomo sociale machiavelliano, con quest’ombra sull’anima, con una singolare tristizia; qui risiede il peccato originale dello zoon politikon secondo Machiavelli. I Discorsi si aprono con parole che ne portano melanconicamente il segno: "Ancora che per l’invida natura degli uomini..."(23)#. Una natura che deve essere violentata perché sia volta alla virtù: gli uomini, Machiavelli ne è convinto, non operarono mai il bene se non necessitati, costretti, che è un modo di dire speculare e rafforzativo del passo già citato.
Ma la gravità del presupporre gli uomini rei merita un’ulteriore riflessione.
Se si prendono tutti i passi in cui Machiavelli si sofferma sull’essere umano ne viene fuori sempre e complessivamente un’immagine desolante. Se ne Il Principe manca il carattere perentorio e definitivo dei Discorsi e il giudizio si fa più argomentato, il disprezzo diviene incontenibile e non è più trattenuto in una sola battuta; per questo probabilmente l’autore ha bisogno di un freno che gli fornisce all’inizio quel generalmente: "ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno". Il quadro dato nei Discorsi è completato ne Il Principe: la tendenza al male dell’uomo scaturisce dalla sua viltà: non agiscono apertamente gli uomini, attendono il momento favorevole per usare la malignità del loro animo, perciò sono simulatori, cioè ipocriti e di un’ipocrisia che Machiavelli vuole tratteggiare nel particolare, con implacabile precisione e con un biasimo che si copre di un impareggiabile sarcasmo: "e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figlioli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano"(24)#. Non è soltanto ingratitudine. Non è soltanto cupidigia, attaccamento viscerale al denaro e alla roba che perfino un principe crudele, solo per quel calcolo dettato dalla prudenza politica, deve astenersi dall’intaccare, dato che "gli uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio"(25)#. Questi sono tutti tratti che convergono in una generale e sconfortante doppiezza, una fondamentale meschinità che rimane incisa in più passi dell’opuscolo immortale. Già prima, nel capitolo sul "principato civile", troviamo un simile, quasi identico ammonimento dato al principe che ancora una volta "non può fondarsi sopra a quello che vede ne’ tempi quieti, quando e’ cittadini hanno bisogno dello stato, perché allora ognuno corre, ognuno promette, ciascuno vuole morire per lui, quando la morte è discosto; ma ne’ tempi avversi, quando lo stato ha bisogno de’ cittadini, allora se ne truova pochi"(26)#. Per quanto sia un’amara e desolante raffigurazione, rimane gustosa la parodia che ricorda i toni della Mandragola: ognuno corre, ognuno promette, ognuno offre addirittura i propri figli, anzi lui stesso vuole morire per lo stato; ma solo quando, postilla Niccolò, il pericolo è lontano. Al momento in cui deve venire fuori la virtù, la patria ne trova pochi di vires.
È miseria quella umana, è questa la materia (il soggetto) della politica. Perciò l’antropologia machiavelliana diventa imprescindibile per la comprensione della politica stessa. Laddove si sviluppa l’essenza del machiavellismo si riversa incontenibile il giudizio dello scrittore sugli uomini. Lo specchio del principe su cui si riflette l’immagine del potere ha prima dato una triste visione dell’uomo. Principato o repubblica, governo tirannico o licenza, tutto inizia da quella decisiva premessa.
Allora non è una simile innata malignità dell’uomo una condizione che il legislatore, l’uomo di Stato, deve considerare in via ipotetica e preliminare per non trovarsi nudo di altre preparazioni successivamente, pronto cioè a fronteggiare situazioni difficili nate da ragioni impreviste. È proprio la conoscenza della natura umana che non consente di fare affidamento sulle loro parole. Qui non si tratta più dell’usuale prudenza politica, poiché sarebbe bastato un riferimento ad altre formule precise di accortezza e lungimiranza che sempre Machiavelli adopera senza mettere in risalto quella malignità dell’animo umano.
Presupporre gli uomini rei è un’anticipazione ancora più forte dell’hobbesiano homo hominis lupus, che pure non manca in Machiavelli. La differenza è che il pensatore fiorentino non ricorre al sostegno di un ipotetico stato di natura, ma gli basta fermare il dato costante su una antropologia decisamente negativa: questa è la prima realtà effettuale. Da tale postulato, la cui evidenza non ha bisogno di dimostrazioni, inizia il discorso politico; con questo postulato si intreccerà sempre il discorso politico.
3. Etica pubblica o morale privata
3.1 Dopo questi passaggi si può legittimamente osservare che ci si trova di fronte ad un’ambiguità di fondo. Se da una parte c’è un peccato originale che riguarda l’uomo, dall’altro sembra delinearsi una situazione in cui il male dell’uomo diviene una reazione al male altrui, ovvero una colpa acquisita in società: la cattiveria dell’uomo è causata dalla cattiveria dell’uomo. Quella naturale tristizia genera cioè delle condizioni umane che non permettono agli uomini, e soprattutto agli uomini di Stato, che hanno la responsabilità della comunità, di essere buoni. Da una parte quindi si è rinvenuto un giudizio assoluto, che prescinde dalla dimensione pubblica dell’uomo; ma è in società che gli uomini hanno occasione di farsi del male, esprimendo comunque una inclinazione naturale. Tuttavia, per non soccombere di fronte a quest’ultimi, Machiavelli invita i buoni ad essere cattivi. E se c’è questa preoccupazione, ciò significa che anche la bontà sembra essere una possibilità naturale dell’uomo, benché pericolosa per chi la possiede.
Immagini appropriate per descrivere una simile situazione possono venire da Manzoni. L’uomo sembra essere un vaso di terracotta in mezzo a tanti di argilla, per cui, per sopravvivere, "non resta che far torto o patirlo", con le parole dell’Adelchi morente.
Questo circolo vizioso che esaspera la malvagità umana facendola apparire dilagante, presenta delle implicazioni importanti per la questione da cui si era partiti.
Alla questione iniziale, se sia esatto individuare in Machiavelli un doppio sistema di regole morali che si divide in un’etica pubblica per la vita politica e in una moralità per i "privarti cittadini", si può ritornare con nuovi elementi.
Anche qui si deve ricorrere a un passo fondamentale dei Discorsi:
Sono questi modi crudelissimi e nimici d’ogni vivere non solamente cristiano ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere, conviene che entri in questo male#.(27)
La prima annotazione non è apparentemente ed immediatamente di merito, ma si ferma alla stile, che è un altro modo di entrare nel cuore dell’intenzione che sorregge ed ispira il periodo. Il testo riportato ricorda da vicino "il pudore" dell’autore de Il Principe laddove premette ad una affermazione estremamente impegnativa e drammatica la celebre incidentale: se del male è licito dire bene. Lì Machiavelli sta svolgendo la spinosa questione delle "crudeltà male usate o bene usate". È uno dei casi in cui lo scrittore sembra che giochi di sponda e con ironia sullo scandalo ipocrita che suscitano simili dilemmi. In tali frangenti il genio di Machiavelli vola. Ogni qual volta ci sono di mezzo i preti - i ministri dell’etica tradizionale, quelli "che hanno disarmato il cielo" - la sua arte diviene ineguagliabile. È lo stesso clima di altri passi dei Discorsi, per esempio sui fiorentini che non si ritengono né rozzi né ignoranti eppure furono persuasi da Savonarola che egli parlasse con Dio proprio come presso gli antichi Romani Numa simulò - il parallelo è perfido - di avere dimestichezza con una ninfa. O ancora dell’obbligo che abbiamo noi Italiani con la chiesa romana, di essere diventati cattivi e senza fede e di essere politicamente divisi e facile preda delle potenze straniere.
In quell’espressione capitale dei Discorsi apparirebbe netta pertanto la distinzione tra due sistemi di regole morali: una per la città, un’altra per la vita personale. Il circolo vizioso non si compone, né è spezzato. Una via comoda, tranquilla perché privata, consente la pratica delle virtù cristiane e conduce alla santità: il "dover essere" può essere praticato senza pericolo. Un’altra rischiosissima, diabolica, è affatto alternativa alla "via del bene" e al bene stesso si oppone in modo addirittura confliggente. Stando così le cose, non si intravede alcuna redenzione per la società; né - e questo vuole sottolineare lo scrittore - la santità personale sembra essere preziosa per benedire il prossimo. Quel male dilagante ne giustifica un altro, la crudeltà del principe, e su questo sarebbe costruita la politica.
È dunque possibile che le cose stiano veramente in questo modo? È sul serio questo il pensiero profondo del Machiavelli? O la verità che vuole svelare al principe si cela dietro ad una prima concessione formale al moralismo diffuso ("sono questi modi crudelissimi...") per poter entrare in un discorso complesso e scottante - dove è possibile, tragico e doveroso, dire bene del male - la cui conclusione sarà la confutazione e il capovolgimento dell’assunto iniziale?
3.2. Ciò che rende plausibile quest’ipotesi ce lo dovrebbe suggerire innanzitutto la irresistibile e confessata passione per la politica di Machiavelli, proprio per quella "via del male" per la quale il Segretario fiorentino sente una vocazione specifica che nel tempo si esprimerà con l’azione e con la riflessione, con l’ufficio in cancelleria e con il continuo ragionare dell’arte dello stato. È questa vocazione, questa irrequieta passione che è alla base di tutta la sua vita e di tutti i suoi scritti, da Il Principe ai Discorsi, dall’Arte della guerra alle Istorie; è il riferimento sotterraneo o aperto delle commedie e nel Discorso sulla lingua, è il tema centrale delle lettere familiari, da cui si ricava la sua biografia autentica. È tale irresistibile vocazione che unisce tutte le parti del variegato discorso politico machiavelliano. Non è assolutamente possibile che chi dichiari, in tono quasi mistico: "mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui"(28)#, immagini in definitiva per se stesso una comunione demoniaca con la politica. Non è proprio pensabile che una simile radicale fedeltà conduca alla dannazione.
Allora si intravede un altro significato in quella espressione perentoria dei Discorsi, un’altra prospettiva nasce dalle medesime parole, che eleva la politica nell’ambito che le è proprio, dove una crudeltà necessaria - ecco il sacrificio - conduce ad una particolare, nuova forma di santità: che lascia irrisolto il problema del male e perciò produce la tragedia della politica. Ad un simile sacrificio gli uomini (quegli homines tanto disprezzati) non sono affatto capaci. È l’uomo virtuoso, in grado all’occorrenza di essere non buono, di volgersi al peggio, pronto a perdere la propria anima, perché più di quella sua anima ama la patria, a cui Machiavelli pensa con ammirazione. Sarà la sua abnegazione a porre un freno e il rimedio al male e ad innestare un nuovo circolo virtuoso.
Così, in una selva di uomini mediocri e miserabili, si staglia l’eroe machiavelliano a cui il Leviatano, quel dio mortale o mostro che si muove negli abissi del potere, chiede l’olocausto dell’anima: "Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre saranno iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati"(29)#. Non c’è più differenza tra il trattato sulle repubbliche e il libro sui principati, il fine è adesso la salvezza della patria: "perché dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà"(30)#. Così nei Discorsi viene sviluppato lo stesso concetto, e però questa volta liberando l’ideale democratico, poiché se nell’analisi della monarchia il discorso si limitava ai modi della conservazione dello Stato, o alla gloria del principe che ne accresceva la potenza con beneficio dei sudditi (se la potenza dello Stato del principe si separa dall’utilità del popolo il principato civile sale a quel grado assoluto di tirannia deprecato dallo scrittore), qui - nei Discorsi appunto - si aggiunge e diviene decisiva la preoccupazione per la libertà. "Le salvi la vita e mantenghile la libertà": è affermato una volta per tutte il fondamento della morale machiavelliana della politica: la libertà è la salvezza della patria.
Qui nasce la religione civica del Machiavelli(31), in questa fede per la patria che consente, anzi prescrive a un principe (ma adesso, potendo invertire la piramide de Il Principe, l’esortazione si estende ai vires), laddove è necessario, non "osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione [...] e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato"(32)#. Così del resto fece Cesare Borgia, che era ritenuto crudele: "non di manco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagnia, unitola, ridottola in pace et in fede"(33)#.
3.3. Non vi è più alcun dubbio, i ritratti dei vires, da Il Principe ai Discorsi, sono illuminati dal medesimo giudizio. E quando vuole prevenire le accuse moralistiche, o si giustifica esplicitamente ("se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono"#(34)), o, con ironia e astuzia veramente machiavelliane, offre come modello e giusto esempio di condotta politica adeguata alle condizioni umane da lui descritte un papa ["Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini, e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che l’osservassi meno; non di meno, sempre li succederono l’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo"(35)#] e quel re detto per antonomasia il Cattolico: "Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare [Ferdinando il Cattolico], non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato"(36)#, così è concluso il capitolo XVIII in cui si invitano i principi a non osservare i patti, se la "fede" nuoce allo Stato.
E da immagine in immagine, attraverso anche un sotterraneo itinerario psicologico, si perviene al memorabile e appassionato profilo che dà a più riprese su Pier Soderini, "anima sciocca"(37)#, che non seppe essere severo come Bruto che condannò i propri figli per avere attentato alla libertà di Roma.
Da questo straordinario (e probabilmente unico nella storia della filosofia politica) intreccio di passione politica, ricostruzione storiografica di una travagliata stagione politica e rielaborazione filosofica delle vicende della propria patria in cui proprio lui, Niccolò Machiavelli, fu protagonista e vittima, nasce una magistrale pagina di lezione in cui ci sono tutti i motivi dell’etica e della politica machiavelliana: "e benché quello [Soderini] per la sua prudenza conoscesse questa necessità, e che la sorte e l’ambizione di quelli che lo urtavano gli dessi occasione a spegnerli, nondimeno non volse mai l’animo a farlo"(38). La preoccupazione del Gonfaloniere era ("e molte volte ne fece con gli amici fede"(39)) che un’eccessiva autorità nelle sue mani avrebbe compromesso dopo la sua morte l’istituzione suprema della repubblica e causato gravi disordini nella città. "Il quale rispetto era savio e buono; nondimeno e’ non si debbe mai lasciare scorrere un male rispetto a uno bene, quando quel bene facilmente possa essere da quel male oppressato. E doveva credere che, avendosi a giudicare l’opere sue e l’intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l’avessi accompagnato, che poteva certificare ciascuno come quello aveva fatto era per salute della patria e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in modo che uno suo successore non potesse fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma lo ingannò la prima opinione, non conoscendo che la malignità non è doma da tempo né placata da alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e’ perdé insieme con la patria sua lo stato e la reputazione"(40)#.
Siamo di fronte all’apice della riflessione politica machiavelliana. Il destino del Gonfaloniere di Firenze è accomunato a quello di un altro illustre personaggio della vita politica fiorentina, Girolamo Savonarola, il "profeta disarmato" de Il Principe. Entrambi, per quella "bontà" che alla fine nuoce a se stessi e alla Stato, andarono in "rovina". Entrambi, per seguire quelle cose che sembrano virtù, persero tutto. Tuttavia - questa è l’audace e nervosa conclusione dell’autore dei Discorsi - perfino la Bibbia prescrive il dovere tragico di un’azione violenta diretta contro quelli che per "la loro perversità d’animo sarebbero contenti vedere la rovina della loro patria"(41)#. È una necessità a cui non ci si può sottrarre per il bene di tutti. Di qui il biasimo per Soderini più ancora che per il frate, il quale non disponeva delle "armi" a cui poteva invece ricorrere il capo dello Stato di Firenze:
A vincere questa invidia non ci è altro rimedio che la morte di coloro che l’hanno. E quando la fortuna è tanto propizia a quell’uomo virtuoso ch’e’ si muoiano ordinariamente, diventa sanza scandolo glorioso, quando sanza ostacolo e sanza offesa e’ può mostrare la virtù. [...] E chi legge la Bibbia sensatamente vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini i quali non mossi da altro che dalla invidia si opponevano a’ disegni suoi. [...] Questa necessità conosceva benissimo fra Girolamo Savonarola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze. L’uno non potette vincerla per non avere autorità a poterlo fare (che fu il frate) e per non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbero avuto autorità. [...] Quell’altro credeva, col tempo, con la bontà, con la fortuna sua, col beneficiare alcuno, spegnere questa invidia; [...] e non sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna varia e la malignità non truova dono che la plachi; tanto che l’uno e l’altro di questi due rovinarono, e la loro rovina fu causata da non avere saputo o potuto vincere questa invidia#.(42)
3.4. Se continuano a levarsi sullo sfondo le due morali, una privata, quella per cui gli uomini sono ritenuti buoni (ma che non può adesso, di fronte alle sfide della storia e alle forze oscure della fortuna, non apparire minore) e una politica, che salta la prima per ritrovarsi a reggere la terribile responsabilità dello Stato, è ancora un’apparenza: nel valore supremo e grandioso della patria, chi ha perso l’anima la ritroverà perché sarà ritenuto quasi un dio; la sua opera tragica di sacrificio sarà recuperata nella gloria e nella reputazione dei cittadini: nella memoria della libertà non possono dimenticarsi gli eroi che l’hanno conquistata e preservata dai nemici e dai tiranni. Ciò che non comprese o non si risolse a fare Soderini, a differenza di Ferdinando il Cattolico e Cesare Borgia, se non addirittura di Mosè: salus publica suprema lex esto, l’antica lezione di Cicerone riceve da Machiavelli un suggello attuale ed imperituro. La legge delle leggi non è un’astratta norma fondamentale, lo Stato non è ordinamento formale: la legge suprema spinge la politica su un altro piano etico, quello virtuoso, a cui pochi sono chiamati, e tragico, perché bisogna sapere bene usare le crudeltà, ma il fine - la salvezza pubblica - rettamente perseguito, se non giustifica il male ("non si può ancora chiamare virtù ammazzare li sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza relligione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria"(43)#), segna di una colpa che si tramuterà nel bene dei concittadini: le crudeltà bene usate "si convertiscono in più utilità de’ sudditi che si può"(44)#.
Ecco quindi la redenzione di chi ha operato il male per necessità, per la salvezza della comunità. Nell’ultimo capitolo de Il Principe un linguaggio inusuale evoca direttamente Dio: l’esortazione al valore dei Medici per "redimere" l’Italia ("farsi capo di questa redenzione"(45)); qualcuno della nobile casata fiorentina "ordinato da Dio per la sua [dell’Italia] redenzione"(46)#; finanche la stessa patria "prega Dio che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare"(47)#. Adesso si comprende come e quanto il valore personale possa essere prezioso per gli altri. Quel male che l’uomo porta con sé nella comunità può essere redento nella comunità stessa. La politica cessa con Machiavelli di essere il luogo della dannazione per divenire l’occasione d grazia: "Et, esaminando le azioni e vita loro ["Ciro e li altri che hanno acquistato o fondato regni"], non si vede che quelli avessero altro dalla fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma parse loro; e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano"(48).
A fronte di una incredibile pochezza, una eccezionale qualità ristabilisce un equilibrio necessario per sanare la collettività. Se è l’uomo la causa dell’incombente rovina della società a cui egli stesso dà vita, è affidata all’uomo la possibilità di mantenere quell’ordine. Un’impresa che richiede certamente una tempra d’animo fuori del comune, capace di resistere alle avversità della fortuna e alla stupidità del mondo, così nell’espressione weberiana risuona l’eco machiavelliano della sfiducia negli uomini. "Ciro e li altri che hanno acquistato o fondato regni", quei ritratti di vires sembrano appartenere ad una galleria mitologica più che alla storia: ma gli uomini veramente rari e meravigliosi non di manco furono uomini.
L’avvilimento impietoso si converte, forse anche per un gioco imprevedibile della necessità machiavelliana, in una fiducia nelle possibilità umane di creare l’ordine giusto per il vivere civile. Chi crede nella politica deve affidarsi agli uomini.
Allora dove prima era stato perfino crudele, l’ultima esortazione è un atto di speranza nell’uomo, non più astratto o mitico, ma storico, la cui concretezza è generata nel rapporto filiale con la propria patria: "l’uomo non ha maggior obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l’essere e di poi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto"(49)#. Inconcepibile è semmai l’uomo fuori della patria, e parricida chi osa lacerarla, per quello stesso processo di degenerazione antropologica che, lontano dalla polis e dalla politica, degradava l’uomo greco - se non era un dio - alla istintualità animale. Legando in modo indissolubile perfino l’identità individuale alla propria patria e alla politica, l’aspirazione all’onore è in funzione del bene che si può compiere per quella.
Morto nel 1519 il signore di Firenze, Lorenzo di Piero de’ Medici, il duca a cui fu indirizzato Il Principe, lo zio Leone X si pose il problema del governo della città. Tra le varie proposte di riforma pervenute al papa mediceo vi fu quella dell’ex Segretario della cancelleria: "Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che voluntariamente è loro dato dalla loro patria: credo che il maggior bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le republiche e i regni: questi sono, dopo quelli che sono stati Iddii, i primi laudati"(50)#.
Con puntualità e coerenza ritornano in queste parole del Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices tutti i motivi irrinunciabili dell’intero pensiero machiavelliano.
Il maggior bene che si può fare, quello che perfino Dio benedice ed incoraggia (Machiavelli lo ricorda al papa!), è quello che si fa alla patria. Ecco la santità civica: "dopo quelli che sono stati Iddii", i grandi legislatori, i veri politici, sono "i primi laudati"(51)#. Si tratta di un’esortazione antitirannica rivolta direttamente al capo della famiglia padrona di Firenze. I Discorsi avevano già compiutamente celebrato quest’ideale in termini simili, con quella gerarchia di valori che configura un paradiso e un inferno tipicamente umanistico nel quale gli uomini ricevono per sempre gloria o biasimo:
Intra tutti gli uomini laudati, sono laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso dipoi quelli che hanno fondato o republiche o regni. Dopo a costoro sono celebri quelli che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini letterati, e, perché questi sono di più ragioni, sono celebrati ciascuno d’essi secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il numero de’ quali è infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale gli arreca l’arte e lo esercizio suo. Sono pel contrario infami e detestabili gli uomini distruttori di religioni, dissipatori de’ regni e delle repubbliche, inimici delle virtù, delle lettere e d’ogni altra arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione, come sono gli impii, i violenti, gl’ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili .(52)
La politica come arte di buon governo(53)#, amministrazione giusta della città a cui Machiavelli aspira si sintetizza in un’espressione ricorrente: Giustizia ed armi. Più ancora di Hobbes, e con un significato che necessariamente cambia, il Leviatano machiavelliano si innalza in una sfera superiore di diritto. Non si tratta più della forza dello Stato, ricevuta utilitaristicamente da ciascun individuo per impedire a tutti di essere reciprocamente lupi. Proprio quest’ultima miseria umana, che Machiavelli ben conosce, "rende onesto" sul piano etico le fondamenta oscure del vivere civile(54)#, e santificano le armi - pie, nella citazione liviana dell’accorata esortazione finale de Il Principe - quando servono per assicurare la giustizia nello Stato e mantenere così la libertà alla patria. L’eroe machiavelliano è Bruto con la sua tragica virtù, che condanna a morte i figli (ed assiste all’esecuzione) per aver tramato contro la repubblica.
L’Italia "battuta, spogliata, lacera, corsa" aspetta un simile redentore, non un principe qualunque.
Così la redenzione dell’uomo, l’unica che indica l’autore de Il Principe, passa attraverso la patria: quella è l’anima che l’uomo deve amare.
Rozza materia e ideali, antropologia e patria, hanno generato la politica.
II. La politica come vocazione
1. L’ultima riflessione, oltre la conclusione a cui ci ha condotto questo discorso, è interna all’uomo Machiavelli.
È stato delineato fin qui un profilo della generale concezione machiavelliana della politica, e si è visto come in definitiva questa sia generata da un’idea, che è prima ancora una dolorosa esperienza, che l’autore de Il Principe aveva degli uomini, dei suoi concittadini, di Firenze, la sua patria, del gioco politico della "provincia" italiana nella trama storica europea.
In tutto ciò è assai noto - non c’è studioso che non lo sottolinei - come le personali vicende (dall’intensa attività diplomatica all’esilio a Sant’Andrea in Percussiva, presso San Casciano) abbiano prodotto le opere che renderanno colui che era stato il Segretario della Cancelleria fiorentina un autore cruciale nella storia del pensiero politico occidentale. Eppure, proprio alla luce di quanto sostenuto in queste pagine, rimane ancora uno spazio - individuato nell’umanità di Niccolò - su cui indagare, che illumina di un significato profondo la visione complessiva della politica machiavelliana.
Dal momento della sua assunzione negli uffici della repubblica, dei fatti della sua vita sappiamo pressoché tutto. Così come è pure certificata, nelle sue lettere innanzitutto, per trasparire in tutti gli altri scritti, quella vocazione per la politica nei termini di cui già si è detto. Quando Orazio dice: sento che non morirò del tutto (non omnis moriar), affidando il suo nome alla poesia, è posto per sempre il senso della vocazione intellettuale. La formulazione di questo sentire, preciso ed ineffabile, il passaggio dall’estasi poetica alla consapevolezza teorica, è data dall’umanesimo fiorentino in un’epistola tra due letterati: mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui. Il XX secolo, che pure conoscerà la degenerazione del machiavellismo nel "volto demoniaco del potere", li distinguerà in Beruf e Politik, i due principi della rinascita umanistica che cambiano l’orizzonte interiore dell’esperienza umana: l’autonomia del lavoro intellettuale ovvero la dedizione esclusiva all’arte (beruf), e l’autonomia dell’arte dello Stato come specifico impegno politico (politik), sono, non a caso, i primi segni e insieme i frutti della nuova epoca.
Nascere per la politica e di essa nutrirsi è la nuova fede per la possibilità di superare il limite di quanto vi è più caduco nella storia, ovvero l’edificazione della città dell’uomo, abbandonando la prospettiva escatologica che pone il superamento di quel limite in altri tempi che non appartengono più all’uomo, per affidarsi totalmente all’uomo e alla storia stessa. Ovvero agli dei mortali, i Leviatani.
Questa dichiarazione esprime allora il senso di una missione tutta umana che richiede la radicalità di una scelta, il sacrificio e l’abnegazione per essa. Vocazione e politica, Beruf e Politik, affiorano da questa nuova etica, si richiamano e iniziano un percorso comune, talvolta coincidente, per approdare al secolo di massima (e tragica) esposizione della politica nella lezione del "Machiavelli di Weimar", Max Weber. O nel contestuale discorso sulla vocazione intellettuale di Thomas Mann, laddove la beruf diviene il segno dell’esclusione: una struggente maledizione individuale (Tonio Kröger) o il destino terribile di un popolo per una missione spinta da un’irresistibile, infernale volontà di potenza (Doktor Faustus). Ma ormai i vires di Machiavelli hanno lasciato il posto ai superuomini di Nietzsche, e Cesare Borgia è divenuto un ideale straordinario e demoniaco.
La storia di Niccolò Machiavelli è quella di un figlio di un giureconsulto fiorentino della fine del secolo quindicesimo, appartenente ad una famiglia un tempo illustre nella propina città, che vuole essere dentro la storia con la responsabilità di chi deve prendere decisioni per il proprio Stato. In questo senso servire la patria era l’onore più grande a cui Machiavelli aspirasse. Essere privato di questo onore la maggiore lacerazione.
Nella sua personale gerarchia di valori si è visto quale considerazione riservasse per gli uomini di Stato, per quelli che gli Stati hanno fondato o li hanno riformati, i grandi legislatori o i grandi condottieri, che hanno redento (salvato) la patria o la hanno ampliato ed accresciuto in potenza. Questa è la politica a cui Niccolò chiedeva una partecipazione. Sentire nel proprio spirito le altezze di un vir virtutis ed essere costretto da una continua malignità della fortuna all’esclusione dalla storia che decideva le sorti di Firenze e dell’Italia. Questo il suo dramma.
L’esclusione. Eppure qui nasce alla storia il nostro Machiavelli, nelle parole (unanimemente condivise) di Charles Benoist, "Machiavelli ha perduto il posto, ma noi abbiamo avuto Machiavelli". Io mi logoro, lamentava nel triste epistolario l’ex segretario, e da quel travaglio saranno partoriti i grandi capolavori del pensiero politico moderno.
Come il Segretario della cancelleria di Firenze giudicava tutto questo? Quanto la sua umanità, e quel giudizio complessivo che oscilla tra una sconfortante sfiducia negli homines e una visionaria speranza nei vires che abbiamo individuato nei suoi scritti, è riversata nell’impegno pubblico e soprattutto, precluso dolorosamente questo, in quelle opere che rendono immortale il suo nome?
2. La lettura del testo ci guida a recuperare anche un’idea inconfessabile, che il nostro scrittore conduce all’interno del piano di lavoro delle specifiche riflessioni, che ci appare la forza vitale della parabola esistenziale post res perditas. Una lamentazione istintiva e naturale, che troviamo affidata alla lettera intima, o anche in modo più sublimato tra i prologhi o negli epiloghi delle varie opere, che persiste perfino come sfogo nella Mandragola, risolto comunque nel clima della commedia.
La personale malignità della fortuna, quella che per esempio colpì il Valentino o Castruccio Castracani, trova posto nella generale concezione della politica. Così, se direttamente capiremo il gioco di virtù, fortuna e occasione nelle vicende di Cesare Borgia o del tiranno di Lucca, abbiamo anche una chiave per accostarci quanto più vicino possibile all’idea che Niccolò Machiavelli ebbe della propria sorte, al di là di quella vena di autocommiserazione a cui si arrestò il Vettori.
Riprendendo la citazione là dove è stata lasciata nella prima conclusione, quella del Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, ci troviamo di fronte ad uno dei passi più significativi ed illuminanti non solo dell’intero percorso filosofico-politico machiavelliano, ma anche del suo itinerario psicologico e spirituale.
Lo straordinario Discursus è una lucida analisi della situazione storica dello Stato di Firenze dopo la morte del duca Lorenzo. Vengono spiegate le ragioni della instabilità politica della città che diviene pericolosa precarietà istituzionale. Viene prospettata quindi la soluzione repubblicana quale migliore forma di Stato secondo il modello del governo misto, che non discende da un gusto letterario o per seduzioni teoriche, ma ne è dimostrata la opportunità dalla rispondenza alla natura delle cose fiorentine. Il caso concreto regala a Machiavelli l’occasione unica, o meglio un’altra illusione, dopo quella che lo aveva spinto a comporre Il Principe, per coniugare il suo idealismo repubblicano, l’amor di patria che rifulge dalla lezione delle antiche cose, con la giusta, imprescindibile determinatezza realistica: "...io lascerò il ragionare più del principato, e parlerò della republica; sì perché Firenze è subietto attissimo da pigliare questa forma". E come ne Il Principe, il ricorso a Dio suggella l’esortazione finale:
Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che voluntariamente è loro dato dalla loro patria: credo che il maggior bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le republiche e i regni: questi sono, dopo quelli che sono stati Iddii, i primi laudati. E perché e’ sono stati pochi quelli che abbino avuto occasione di farlo, e pochissimi quelli che lo abbino saputo fare, sono piccolo numero quelli che lo abbino fatto; e è stata stimata tanto questa gloria dagli uomini che non hanno mai atteso ad altro che a gloria, che non avendo possuto fare una republica in atto, l’hanno fatta in iscritto; come Aristotile, Platone e molti altri: e’ quali hanno voluto mostrare al mondo, che se, come Solone e Licurgo, non hanno potuto fondare un vivere civile, non è mancato dalla ignoranza loro, ma dalla impotenza di metterlo in atto.
Di chi sta parlando l’autore di questo scritto? Del Papa, al quale direttamente si rivolge? Certo l’appello è diretto a lui, come del resto ne Il Principe, alla potente casa Medici. Con la differenza che questa volta il precetto si muove per un tipo di governo non più monarchico ma democratico. Addirittura il capolavoro retorico, quasi temerario, dell’autore risiede nel tentativo di persuadere una famiglia principesca ad accrescere in gloria facendosi promotrice dell’instaurazione della repubblica in Firenze, la loro città. Sarà anche un azzardo, ma lo stesso tentativo, assai più dissimulato e certamente inconfessabile, era contenuto nel cosiddetto codice della tirannide scritto nel 1513(55).
Ma occorre scavare nella superficie di parole. E per questo ci serviremo di altre parole, quelle riposte qua e là negli interstizi delle sue argomentazioni. "Perchè gli è ufficio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo"(56).
Qui è chiaro che ritaglia all’ombra del grande commento liviano uno spazio per sé. Vi è la ragione d’essere di uno scritto politico destinato all’agire politico (alcuno possa operarlo) e non agli scaffali dello studiolo dell’esilio o agli ameni orti in cui, quasi clandestinamente, può essere letta. Vi è l’eco dello struggimento epistolare, vale a dire il caso avverso, i mala tempora, e (il salto rispetto alle lettere) quel suo malinconico dovere di uomo buono che passa la mano a qualcun altro prediletto dal Cielo. E questo dovere consiste nell’insegnare ad altri, ai posteri anche - tanta è la fede nella politica e l’amore per la patria per ciò che la natura gli ha fatto conoscere. La sua vocazione è vissuta fino all’estremo, nel sublimarsi in una missione che, anche contro una sorte che lo relega nella solitudine, all’incomprensione e all’impotenza, trascende la fortuna maligna e i tempi cattivi.
3. Forse la pagina più bella ed alta che Machiavelli abbia scritto fu quella finale dell’Arte della Guerra. In un gioco letterario che appartiene al romanzo e non già ad un trattato di cose militari, c’è (e si è avverte drammaticamente proprio alla conclusione del libro) la trasposizione dello scrittore nel proprio personaggio, ed è tale che questa diviene identificazione nella espressione che contiene ciò che non si esiterebbe a definire l’epitaffio machiavelliano, il senso di un’esistenza: "e io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire"(57)#.
Tra le citazioni considerate non esiste contraddizione. Tutt’altro. La disillusione è la genesi psicologica di due capolavori del pensiero e dell’arte machiavelliani. Così nell’Arte della Guerra non viene meno il dovere di uomo buono espresso nei Discorsi, perché anche Fabrizio Colonna-Machiavelli consegna il suo sapere militare e civile ai giovani. Ma l’accento ritorna alla vocazione personale; l’atmosfera è quella delle lettere dell’esilio, dove riconosceva in sé (la particella mi si ripete con un’infelice ossessione), al di là di ogni ragione (erano freschi i "sei tratti di fune in su le spalle"(58)#), l’irresistibile demone: "la Fortuna ha fatto che, non sapendo ragionare né dell’arte della seta et dell’arte della lana, né de’ guadagni nÈ delle perdite, e’ mi conviene ragionare dello stato, et mi bisogna o botarmi di stare cheto, o ragionare di questo"(59)#.
Cosa la natura gli ha fatto conoscere se non quello spettacolo grandioso della natura stessa della politica? Cosa gli ha messo nel cuore se non l’amor di patria su cui riversare quella conoscenza? E cosa gli impedisce adesso quella stessa natura se non la possibilità di amare la patria attraverso quelle conoscenze che possono salvarla?
È qui che la vocazione non trova sbocchi. Il momento più acuto della crisi è questo. Al di là delle lettere, più di esse, è qui che con forza inconscia viene fuori il dramma della vocazione impedita. E in questo non ci sarebbe rassegnazione se non sopravvenisse quel proposito buono (singolare contraltare a precetti non buoni); se lo sfogo insospettato della sua vocazione non trovasse la via d’uscita nella forza stessa della vocazione, da cui nasce l’opera machiavelliana.
E allora questa via, attraverso il passo dei Discorsi, ci riporta alla citazione da cui eravamo partiti. E scopriamo che Niccolò Machiavelli non ha atteso ad altro che alla gloria, quella degli uomini virtuosi, che spinge a fondare un vivere civile o a redimerlo. Era questa la virtù che ha costruito la sua politica, e la ritroviamo intatta nel suo animo, in un’eroica rivincita strappata alla fortuna, mentre intraprende addirittura una strada prima di lui da nessun altro trita.
Alla fine di questo viaggio solitario anche per lui ci sarà allora la gloria, proprio come Aristotele e Platone, che non per ignoranza (la conoscenza della natura della politica - la natura che gli fa conoscere questo - accomuna questi uomini) ma per mancanza di occasione "non hanno potuto fondare un vivere civile". E tuttavia lo hanno fatto per iscritto, risolvendo in un modo o nell’altro il passaggio dalla potenza all’atto. E come Licurgo e Solone, a cui la fortuna non negò la possibilità per dispiegare la loro virtù, celebrata per sempre dai posteri come soltanto gli dei immortali lo sono, questa gloria innalza "Aristotele Platone e molti altri" ad una lode perenne.
Tra quegli altri, tra cotanto senno, si potrebbe dire, c’è proprio lui, Machiavelli.
Dante ha conosciuto gli antichi saggi nel suo viaggio nella mente di Dio; con simulata superbia, rimane ultimo nella più dotta delle conversazioni. Alla sera, Niccolò viene accolto "amorevolmente" nelle antiche corti, proprio tra gli antichi uomini "che non hanno mai atteso ad altro che a gloria". Non c’è più spazio né tempo per chi è chiamato dalla virtù. Quel cibo che solo a lui appartiene è il viatico per un cammino impervio e sconosciuto verso la politica e la comunione per la gloria immortale. Non omnis moriar.
NOTE
1 Anche per il solo aspetto qui trattato - la relazione tra etica e politica - una nota bibliografica risulta impossibile o, come oramai osservano gli esperti, perfino inutile, tale è la mole degli studi machiavelliani. In ogni caso, per un’ottima panoramica sulla letteratura machiavelliana, suddivisa anche per aree tematiche, si rinvia a E. Cutinelli-Rendina, Niccolò Machiavelli, Bari-Roma, Laterza, 2002. Per la questione qui affrontata non si può fare a meno di menzionare F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi, 1993 (in particolare Metodo e stile di Machiavelli, pp. 371-388); il saggio di Isaiah Berlin, The Originalityy of Machiavelli, presentato al convegno "I Tatti" del 1969 per la celebrazione del V centenario della nascita del grande Fiorentino e adesso in I. Berlin, Controcorrente, Milano, Adelphi, 2000. Oltre a ciò, ovviamente, Sasso, Niccolò Machiavelli, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 19933, vol. I: Il pensiero politico, pp. 454-477, in cui è inserita un’apposita appendice per discutere le tesi del filosofo inglese. Vedi inoltre R. Fubini, Politica e morale in Machiavelli, in AA.VV., Cultura e scrittura di Machiavelli, Roma, Salerno Editrice, 1998, pp. 117-143.
2 I. Kani, Per la pace perpetua, in Id. Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto (1795), trad. G. Solari, G. Vidari, Einaudi, Torino, 1956, p. 302.
3 Particolare favore ha riscontrato la recente biografia, di carattere divulgativo, di Maurizio Viroli, Il sorriso di Niccolò, Bari-Roma, Laterza, 1999, che ha avuto più edizioni e diverse traduzioni.
4 L’ultima "impresa" editoriale è della casa editrice Saleremo, che ha iniziato a pubblicare in 8 volumi l’edizione nazionale dell’opera omnia di Machiavelli.
5 Cfr. N. Bobbio, Politica, in N. Bobbio-N. Matteucci-G. Pasquino (diretto da), Dizionario di politica (19832), Milano, TEA, 1990, pp. 800-809; G. Sartori, Politica, in Id., Elementi di politica, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 241-266.
6 L’epigrafe iniziale, tratta da una celebre prefazione di Gennaro Sasso (Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, p. IX), non è che un esempio della passione che suscita il Quondam Segretario tra i Machiavellisti.
7 N. Machiavelli, Il Principe, a cura di L. Firpo, con introduzione e note di F. Chabod, Torino, Einaudi, 1961, XV, p. 75.
8 Non sembra essere un caso che l’autore de Il Principe li chiami proprio così, precetti, quasi a volere evidenziare la contrapposizione di un codice etico, quello adatto alla politica e da lui indicato, ad un altro, insegnato dalla Chiesa.
9 N. Machiavelli, Il Principe, ibidem.
10 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XV, p. 76.
11 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII. p. 81.
12 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, con introduzione di G. Sasso e note di G. Inglese, Milano, Rizzoli, 1999, I,3, p. 69 (tutte le citazioni dei Discorsi si riferiscono a questa edizione).
13 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno (1979), trad. it. di G. Ceccarelli, ed. it. a cura di M. Viroli, Bologna, Il Mulino, 1989.
14 N. Machiavelli, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, in J-J. Marchand, Niccolò Machiavelli: i primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova, Antenore, 1975, pp. 428-429.
15 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, Proemio, p. 57.
16 N. Machiavelli, Il Principe, cit., X, p. 52. È soltanto una, a caso, delle innumerevoli espressioni del genere.
17 N. Machiavelli, Discorsi, cit., Dedica, p. 53.
18 N. Machiavelli, Il Principe, cit., Dedica, p. 3.
19 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, 11, p. 94.
20 "Nacquono queste variazioni de’ governi a caso intra gli uomini, perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori rari, vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi moltiplicando la generazione si ragunarono insieme": è il celebre capitolo II del primo libro dei Discorsi in cui è esposta la teoria polibiana del governo misto.
21 Cfr. N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, 11, pp. 91-94.
22 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII, p. 81.
23 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, Proemio, p. 55.
24 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII, p. 81.
25 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII, p. 82.
26 N. Machiavelli, Il Principe, cit., IX, p. 50.
27 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, 26, p. 121.
28 N. Machiavelli, Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini a cura di G. Inglese, Milano, Rizzoli, 1989, 10 dicembre 1513, p. 195.
29 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVIII, p. 88.
30 N. Machiavelli, Discorsi, cit., III, 41, p. 563.
31 Mi permetto di rinviare a G.E.M. Scichilone, Repubblicanesimo e religione, pensiero mazziniano, 3, 2000.
32 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVIII, p. 87.
33 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVII, p. 80.
34 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVIII, p. 86.
35 N. Machiavelli, Il Principe, ibidem.
36 N. Machiavelli, Il Principe, cit., XVIII, p. 88.
37 Il celebre epigramma di Machiavelli:
La notte che morì Pier Soderini
L’alma n’andò dell’Inferno alla bocca:
E Pluto le gridò: anima sciocca,
Che inferno? va’ nel limbo tra’ bambini.
38 N. Machiavelli, Discorsi, cit., III, 3, p. 467.
39 N. Machiavelli, Discorsi, cit., III, 3, p. 468. Non può non avvertirsi una nota di personale partecipazione a quegli avvenimenti. Tra quegli amici che raccolgono le confidenze del Gonfaloniere non vi è dubbio che ci sia proprio lui, Niccolò, il più fedele della cerchia del capo dello Stato.
40 N. Machiavelli, Discorsi, ibidem.
41 N. Machiavelli, Discorsi, cit., III, 30, p. 540.
42 N. Machiavelli, Discorsi, ibidem.
43 N. Machiavelli, Il Principe, VIII, cit., p. 42.
44 N. Machiavelli, Il Principe, VIII, cit., p. 45.
45 N. Machiavelli, Il Principe, XXVI, cit., p. 126.
46 N. Machiavelli, Il Principe, ibidem.
47 N. Machiavelli, Il Principe, ibidem.
48 N. Machiavelli, Il Principe, cit., VI, p. 27.
49 N. Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, a cura di B. T. Sozzi, Torino, Einaudi, 1976, p. 3.
50 N. Machiavelli, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in Id., Arte della Guerra e altri scritti politici, a cura di S. Bertelli, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 247.
51 Il Rinascimento condivise questa grandiosa visione del fondatore di uno Stato nella figura biblica di Mosè. Come Machiavelli, che lo prese a modello nelle sue opere politiche, Michelangelo raffigurò il patriarca con le tavole della legge che trattiene un moto di ira per l’infedeltà del suo popolo. Proprio l’immortale scultura avrebbe suscitato l’ammirazione di Freud ed ispirato Thomas Mann per il suo raccanto La legge.
52 N. Machiavelli, Discorsi, cit., I, 10, p. 88.
53 Cfr. M. Viroli, Dalla politica alla ragion di Stato, Roma, Donzelli, 1994.
54 Il discorso dell’anonimo Ciompo delle Istorie fiorentine (che usa l’espressione "adonestano") è un saggio magistrale della consapevolezza non solo machiavelliana ma umanistica (si pensi per esempio a Guicciardini) dell’origine violenta dello Stato.
55 Il principato civile munito di "armi proprie", vale a dire di cittadini che volontariamente servono lo Stato, apre un grande problema di interpretazione sulla natura del principato stesso (da Chabod a Sasso a Cadoni), per quanto gli uomini che corrono a difendere lo Stato non chiedano altro di non essere oppressi (da cittadini potenti e prepotenti) e di godersi pertanto in tranquillità i beni che gli appartengono. La questione conduce all’interpretazione del repubblicanesimo machiavelliano, tra "libertà positiva" e "libertà negativa" (sollevato da ultimo da Skinner, Pettit, Viroli).
56 N. Machiavelli, Discorsi, cit., II, Proemio, p. 292.
57 N. Machiavelli, Arte della Guerra, cit., p. 519.
58 Sono i versi tratti da una poesia indirizzata a Giuliano di Lorenzo de’ Medici durante la prigionia sofferta da Machiavelli tra il febbraio e il marzo del 1513 accusato di aver preso parte alla congiura del Boscoli. La lettera del 9 aprile successivo indirizzata al Vettori, con un’incredibile ironia che Machiavelli riversa su stesso oltre che sull’amico,si apre proprio con un diretto riferimento alla tortura subita: "Questa vostra lettera mi ha sbigottito più che la fune...".
59 N. Machiavelli, Lettere, cit., 9 aprile 1513, p. 110.
Tra il 1961 ed il 1964 fu pubblicato settimanalmente a Palermo il vivace e battagliero giornale "Semaforo".
Era, quell’arco temporale della storia del nostro Paese, il periodo in cui giunse al culmine il cosiddetto miracolo economico. In quel tempo, infatti, il reddito nazionale era aumentato dell’otto per cento nel 1961 e del sei per cento nel 1962. Si raggiungeva inoltre un regime di quasi piena occupazione ed alcuni settori industriali, specialmente quelli che producevano per esportare, registravano una notevole espansione produttiva e quindi un rilevante incremento nell’esportazione. Forte e continua era comunque ancora l’emigrazione dal sud verso il nord e persistente l’evidenza del divario socio-economico tra settentrione e meridione del Paese.
Sul piano politico veniva avvertita l’esigenza, proprio per adeguatamente supportare ed indirizzare la detta tendenza dell’Italia a proseguire nello sviluppo, di assicurare governi stabili e maggioranze che potessero affrontare in sede legislativa i grandi temi delle riforme necessarie.
In questo clima era cominciato il dibattito sulla possibilità di ammettere nell’area governativa il Partito socialista. Fallito, infatti, nel 1960 il travagliatissimo esperimento del governo di centrodestra presieduto da Ferdinando Tambroni e sostenuto dalla Democrazia cristiana, dal Movimento sociale italiano e da alcuni monarchici, ma fortemente avversato dalla sinistra, anche con violente e cruente manifestazioni popolari (Ravenna 1 luglio; Palermo 27 giugno; Genova 28 giugno; Roma 6 luglio; Reggio Emilia 7 luglio), si consoliderà la cosiddetta "svolta a sinistra". Questo orientamento, accettato anche dalle gerarchie della Chiesa cattolica, porterà gradatamente all’inserimento stabile del Partito socialista nelle compagini governative: prima mediante l’astensione di questo partito nella fiducia al quarto governo Fanfani, composto di esponenti della democrazia cristiana, del p.s.d.i. e del p.r.i. (1962), quindi con la costituzione del primo governo quadripartito, dichiaratamente di centrosinistra, presieduto da Aldo Moro (1963), del quale divenne vice-presidente Pietro Nenni, una delle figure più emblematiche nella storia del socialismo italiano.
In Sicilia, il processo per l’inserimento nelle maggioranze di governo del Partito socialista fu particolarmente difficoltoso.
Tra la primavera del 1959 e l’estate del 1961 la Regione aveva visto il succedersi in Assemblea regionale di diverse e contraddittorie alleanze governative che arrestarono per lunghi periodi sia l’azione amministrativa che la stessa produzione legislativa(1)#.
La quarta legislatura, iniziatasi dopo le elezioni del 7 giugno 1959, si era aperta con una maggioranza di tipo "milazziano", essendo stato, il primo governo dopo le elezioni, presieduto ancora da Silvio Milazzo, sostenuto dall’Unione siciliana cristiano-sociale, dai monarchici, dai socialisti e dai comunisti. Escluso ne era ormai il Movimento sociale, al quale non rimase che far parte di un’opposizione, dichiaratamente anticomunista, comprendente la Democrazia cristiana e i liberali(2)#.
Il 23 febbraio del 1960, a seguito delle manifestazioni di dissidenza di alcuni "milazziani" e dopo lo scoppio del noto "scandalo Corrao-Santalco", ossia della rivelazione in piena Sala d’Ercole che all’albergo delle Palme era stato tentato l’acquisto da parte di Ludovico Corrao, deputato dell’Unione siciliana cristiano-sociale, e del deputato comunista Marraro del voto mancante alla maggioranza milazziana, mediante la corruzione di un provocatoriamente compiacente deputato della Democrazia cristiana, era caduto l’ultimo governo Milazzo. Fu favorito allora il formarsi di un governo di centrodestra presieduto da Benedetto Maiorana della Nicchiara, in cui confluirono democristiani, liberali e monarchici con l’appoggio esterno del M.s.i, segnandosi così la conclusione definitiva dell’esperienza milazziana e dell’Unione siciliana cristiano-sociale che da questo momento declinerà fino a scomparire(3)#.
Del resto in quel tempo anche il governo nazionale si reggeva, come visto, sull’appoggio esterno del Movimento sociale e dei monarchici. A Palermo però il Governo Maiorana di centrodestra durerà fino al febbraio del 1961, quando i deputati del Movimento sociale, constatato che, sia a livello nazionale che a quello regionale, la Democrazia cristiana lavorava ormai per una definitiva apertura a sinistra, ritirarono il loro appoggio sperando forse di suscitare così una coalizione più decisamente ed apertamente di centrodestra.
Trascorsi invece quattro mesi di immobilità legislativa ed amministrativa, a causa delle insormontabili difficoltà incontrate dai partiti per trovare una nuova formula di alleanza, si aprì decisamente la via all’accantonamento definitivo della formula di centrodestra. Donde il governo-ponte di un mese (luglio-agosto 1961), presieduto da Salvatore Corallo, esponente dell’area maggiormente di sinistra del Partito socialista.
Questo partito, d’altra parte, svolgeva a livello nazionale il suo cammino ideologico verso la linea di un movimento socialista democratico, come era ormai a livello europeo, distaccandosi sempre più dal modello marxista e quindi dal Partito comunista.
Si arriva così, il 9 settembre 1961, al primo governo siciliano di centrosinistra presieduto dal democristiano Giuseppe D’Angelo, del quale fece parte anche un indipendente di sinistra eletto nelle liste del Partito comunista. D’Angelo avrebbe poi presieduto altre due giunte di centrosinistra.
Gli anni in cui "Semaforo" vide la luce furono, dunque, anni di drastico cambiamento di rotta nella concezione delle forze politico-ideologiche che avrebbero potuto governare il nostro Paese. E ciò, con decisa direzione verso la sinistra, della quale sarebbe permeata, negli anni successivi, nella società la cultura e la conseguente interpretazione della Storia più recente. Furono anche gli anni del più accentrato dirigismo economico nella politica, secondo la visione economico-statalista della sinistra del tempo, tendente alle nazionalizzazioni delle imprese di produzione di beni ritenuti strategici, alle regionalizzazioni delle imprese in difficoltà ed alle municipalizzazioni. Nel 1960 era stato istituito l’ente regionale di diritto pubblico "Azienda asfalti siciliani" e sarà appunto del 1963 l’istituzione dell’Ente minerario siciliano e dell’Istituto regionale per il credito alla cooperazione.
A voler poi dare uno sguardo più ampio al mondo ed alla società dell’anno in cui "Semaforo" vide la luce, va considerato che il 1961 fu l’anno in cui Kennedy si insediò alla presidenza degli Stati Uniti ed anche l’anno in cui si verificò un importante incontro e colloquio tra Kennedy e Kruscev con conseguente ostentazione di distensione; ma anche l’anno in cui Fanfani, in luglio, incontrò al Kremlino Kruscev. In agosto tornò dalla missione spaziale sovietica, dopo aver trascorso un intero giorno ed una intera notte nel cosmo, l’astronauta sovietico Titov, mentre, come aveva riferito in maggio il quotidiano "L’Ora" nello spirito di esaltazione dei primati della patria del comunismo, l’astronauta americano lanciato nello spazio era rientrato solo dopo 15 minuti(4). A dicembre Eichman, ex gerarca nazista, veniva condannato dalla corte penale di Gerusalemme all’impiccagione. E questo sembrò ancora una scoria del periodo bellico, i cui ricordi si facevano sempre più lontani, scolorendo nella realtà di un’Italia intenta a progredire ed a modernizzarsi. La pubblica accusa chiedeva, ad Agrigento, la condanna di Mario La Loggia per l’assassinio del commissario di pubblica sicurezza Tandoj, sollevandosi così attenzione e fantasia su un mondo di provincia che appariva, dopo le restrizioni del dopoguerra, non solo agiato ma anche allegramente corrotto. La Loggia, come è noto, sarà infine assolto, lasciando dubbi sull’opportunità di un processo così eclatante ma debole di prove nei confronti del fratello di un uomo politico di primo piano della Democrazia cristiana. Per il resto, agguati di mafia e guerra aperta tra le cosche dei vari quartieri palermitani; prosecuzione del processo Fenaroli con la scoperta dei suoi primi torbidi retroscena interessanti perfino la finanza pubblica; Enrico Mattei veniva a Palermo per trattare col governo regionale; Salvo Lima da tre anni sindaco della Città...
Fu in questo scenario di fondo che "Semaforo" svolse il suo ruolo di informazione e di commento della cronaca siciliana. Il settimanale fu diretto in un primo breve tempo da Alfredo Fallica; quindi da Mauro Turrisi Grifeo(5), che gli dette un taglio fortemente critico dell’andamento della politica del tempo, da un angolo visuale liberale, antimarxista ed antistatalista.
Il primo numero uscì il 4 novembre del 1961, recando sotto la testata l’indicazione "settimanale del sabato sera" e presentandosi quindi come un giornale dai contenuti politici ma completo anche di critiche culturali, racconti, cronache sportive ed indicazioni sugli spettacoli di Palermo; proponendosi insomma come un giornale completo da leggersi ad integrazione dei quotidiani (che allora per la maggior parte dei palermitani, non essendosi diffuso l’uso della lettura dei quotidiani nazionali, che oltre tutto non arrivavano di buon mattino, erano soltanto "L’Ora" ed il "Giornale di Sicilia") e rendendo netto, sin dall’inizio, nell’editoriale di presentazione il proprio ambizioso motivo di fondo: "Bisogna ridare fiducia al popolo restaurando un costume di moralità politico-amministrativa".
Già nel secondo numero (11 novembre 1961) si delineava il deciso anticomunismo del giornale commentandosi una mozione presentata dai comunisti per condannare esperimenti nucleari americani, in opposizione - a quanto pare- ad un documento già presentato, a scopo provocatorio, dalla destra: "La lunga serie di esplosioni nucleari sovietiche, concluse con quella della bomba da cinquanta megaton, ha spostato a destra l’asse della demagogia, dato che ha fornito ai partiti di destra la possibilità di rintuzzare, forse dando origine a nuovi tumulti, i comunisti. Questi ultimi hanno compreso la mossa e sono corsi ai ripari, presentando un’altra mozione in cui l’Assemblea regionale, profondamente allarmata per la spaventosa minaccia che pesa sull’intera umanità a causa dell’aggravata tensione internazionale, per la ripresa degli esperimenti atomici, per la drammatica corsa al riarmo nucleare e il conseguente pericolo di un conflitto atomico, riafferma il proprio voto unanime contro l’arma atomica...". Il presidente dell’Assemblea regionale, il quale ha il dovere di condurre in aula i lavori nel pieno rispetto dello Statuto, ha pure quello di non iscrivere all’ordine del giorno argomenti la cui competenza sfugge ai compiti che lo Statuto assegna alla Regione."
Dato il momento storico che abbiamo sintetizzato, gli articoli contro il centrosinistra nascente e quindi via via consolidantesi costituirono una vera battaglia accanita contro la maggioranza governativa della Regione e contro la politica pesantemente interventista nell’economia e delle partecipazioni regionali ai capitali di certe imprese, attraverso l’E.S.P.I., l’E.M.S., la Sofis, l’Azasi ecc. nonché contro gli interventi discriminatori in agricoltura dell’ESA.
A proposito dell’istituzione dell’Ente minerario che, dopo aspri dibattiti sia in sede parlamentare che nell’opinione pubblica, avverrà proprio in quegli anni mediante la legge regionale 11 gennaio 1963, n. 2, il settimanale osservava: "È un ente regionale che avoca alla Regione il controllo di tutte le miniere: l’altra, l’ultima ricchezza naturale della Sicilia. Ci avviamo al bis della riforma agraria. Spese enormi a carico della Regione, prevedibile totale fallimento delle imprese pubbliche che ne deriveranno; il motivo di tutto ciò: la demagogia del centrosinistra. Ma Ente Minerario vorrà dire anche "andate via" agli operatori economici privati, vorrà dire anche "andate via" alla Montecatini, alla Edison, all’Akragas, alla Gulf... . Complessi che hanno creato in Sicilia impianti colossali, che vi hanno investito centinaia di miliardi. Il governo di centrosinistra quindi, attraverso l’Ente Minerario, dimostra non solo di non volere più incoraggiare l’iniziativa privata, ma addirittura che ha intenzione di sopprimerla, di annullarla in favore di enti che esso amministra e che strumentalizzerà, secondo un costume ormai in voga, a fini elettoralistici e di potere, del tutto volutamente ignorando quelli che effettivamente sono i veri interessi della Sicilia"(6)#.
Ed, ancora, il settimanale si doleva della bocciatura di alcuni emendamenti presentati dai partiti di destra intesi ad introdurre elementi di socializzazione (modello caro alla destra missina) nell’ente che si andava a costituire: "Che cosa ha di rivoluzionario la socializzazione? Essa trasformerebbe il lavoratore da salariato in comproprietario delle aziende, in quanto avrebbe la compartecipazione agli utili netti, la cogestione con rappresentanza nei consigli di amministrazione. Ma le sinistre, a quanto si apprende, sarebbero contrarie a questi emendamenti; esse preferirebbero imbrigliare ancora i lavoratori sotto la rigida tirannia di asservimento politico che la gestione di un ente dalle sfumature dell’EMS comporta. Eppure si tratterebbe della attuazione di una importante norma della Costituzione. Ciò evidentemente non interessa ai socialcomunisti; ad essi, in clima di illegalità, di occupazione delle miniere, di mafiose minacce della CGIL, nuoce parlare di rispetto della Costituzione che peraltro stanno calpestando con la proposta di alcune folli pretese classiste. In queste condizioni oggi si affronta a Sala d’Ercole la discussione per l’Ente, una battaglia che ha assunto tutti gli aspetti della lotta politica, della conservazione del potere, della conquista del sottopotere"(7).#
L’episodio della istituzione dell’Ente minerario, sulla cui utilità si è finalmente dubitato nell’ultimo decennio, dopo che ha macinato inutilmente migliaia di miliardi e va alla liquidazione come ente riconosciuto dannoso per l’economia siciliana e per una normale crescita della libera iniziativa imprenditoriale, secondo i canoni liberisti dell’Unione europea ormai affermatisi, e per le stesse finanze della Regione, descrive la lungimiranza del giornale e dei suoi collaboratori, scomoda nell’allora montante clima di sinistra. Si vedeva già quale sarebbe stata l’amministrazione regionale di alcuni decenni dopo quando, sotto il consolidato binomio D.c.- P.s.i., in perenne concorrenza clientelare tra loro, si sarebbe determinato il pesantissimo e costosissimo apparato burocratico(8)# degli assessorati, di cooperative assistite, di enti superflui, di migliaia di forestali precari, di "articolisti", di "listinisti", ecc.
Il giornale titolava: "Il caos regionale incrementato dai socialisti" ed annotava: "Si dice addirittura che taluni assessori socialisti tengano due segreterie: quella ufficiale e una "segreta" ed imbottita di elementi fidatissimi di partito. Iddio solo sa come questi "galoppini" vengano retribuiti, non certamente con i soldi personali degli assessori socialisti. Si dice ancora che l’onorevole (...) non sia assolutamente in grado di abbracciare con sufficiente perizia e imparzialità il delicato settore dei lavori pubblici a cui è stato assegnato. Pare che detesti di essere quotidianamente negli uffici dell’Assessorato, al quale preferirebbe non meglio precisate sedi. Userebbe del rigore verso i dipendenti non di partito, lasciando la massima libertà ai suoi fedeli. Avrebbe elevato a posti di responsabilità addirittura dei dattilografi, sfornendo il delicato settore e mortificando la dignità di preparati funzionari"(9). Constatazioni del genere, nei decenni successivi, non avrebbero più scandalizzato nessuno; tanta sarebbe stata l’assuefazione allo strapotere di partiti, correnti e segreterie politiche.
Mentre la Storia italiana fluiva irrimediabilmente (come è possibile solo ora considerare) verso una duratura cogestione di cattolici e socialisti col benevolo assenso dei comunisti, "Semaforo" riteneva ancora reversibile il processo sì che, quando il 6 maggio del 1962 venne eletto Presidente della Repubblica Antonio Segni, con i voti dei democristiani, dei liberali, dei missini e dei monarchici, osservava: "Se ogni manifestazione del Parlamento rappresenta la genuina interpretazione dei sentimenti politici e morali dell’opinione pubblica d’Italia, dobbiamo ovviamente convenire che la Nazione si è orientata, tramite i suoi senatori e deputati, nel senso opposto in cui mesi or sono (i partiti di centrosinistra) hanno forzato la macchina governativa e che, pertanto, l’attuale Gabinetto Fanfani viene automaticamente a trovarsi in contraddizione con i nuovi fatti parlamentari. Partendo da siffatta premessa, anche i ciechi vedono che l’attuale governo di Roma è in crisi e non può più reggersi senza compromettere le sorti della giovane e debole democrazia italiana"(10).
L’avversione ai socialisti, ai comunisti ed al centrosinistra era manifesta e costantemente espressa. Dal punto di vista culturale generale, il giornale fu liberale nel senso più ampio che questa parola poteva avere in un momento in cui la cultura ufficiale (università, case editrici, stampa nazionale, sindacati, ecc.) marciava verso quell’egemonia paramarxista della sinistra che avvelenerà il clima degli anni Settanta e Ottanta. Del resto, si osservava che non bastava che i comunisti italiani sfoggiassero la loro fede in un pacifismo universale: "Non basta che l’Unità parli di coesistenza e di neutralismo in ogni pagina delle sue pregiate edizioni; l’ansia di pace è qualcosa che va dimostrata con i fatti... . Un muro è stato eretto, una notte, in mezzo alla città di Berlino e non è certo un simbolo di pace: sotto quel muro sono morti a centinaia i berlinesi, rei di volere vivere liberi. In Romania vivono seicentomila uomini, donne e ragazzi, nelle prigioni e ai lavori forzati; le polizie politiche minacciano quotidianamente trecento milioni di europei: russi, romeni, ungheresi, polacchi, estoni, ecc. e non è certo questo un sintomo di pace. Dei 63 mila dispersi dell’Armata italiana in Russia il governo sovietico ha rifiutato sistematicamente di rendere conto alla Commissione per i prigionieri di guerra dell’ONU".
In quanto all’ascesa dei socialisti al governo del Paese, della Regione e delle città, il 5 ottobre del 1963, il giornale titolava a grandi caratteri: "A Palermo gli scioperi dei comunali, netturbini, edili, dipendenti dell’acquedotto, dell’ospedale civico e psichiatrico, di una azienda vinicola, dei servizi alberghieri, dell’El.Si., del cantiere navale accusano il centrosinistra", e spiegava nel testo dell’articolo: "C’era stata in Italia una potente spinta economica... oggi si combattono i consumi, aumentano in modo vertiginoso i prezzi, aumentano anche, ma mai proporzionalmente, i salari... scioperi per aumenti di stipendio, scioperi per l’effettiva erogazione del diritto ottenuto, scioperi contro i licenziamenti da industrie costrette, dai costi maggiori, a restringere il fattore lavoro. Ogni sciopero è un pesante atto di accusa... e il centro sinistra continua...".
Attorno al direttore, Mauro Turrisi Grifeo, si formò, in armonia con la detta linea del giornale, tutta una classe di giovani giornalisti o aspiranti tali o comunque di giovani che iniziavano il proprio dialogo culturale con lo scorrere della storia, piuttosto liberi da condizionamenti di una vita passata e da attrattive attuali. Facevano parte, del resto, della prima generazione che non aveva alcuna esperienza diretta del fascismo e della guerra e che, avendo raggiunto l’uso della ragione negli anni successivi al 1945, ha avuto tutto il tempo di maturare nette convinzioni personali, anche nel senso di una valutazione non antifascista della più recente storia: il che allora significava non filocomunista. Ma questo anche perché, per quella generazione ed in quel momento storico, il fascismo era ormai entrato nella Storia e non era stato ancora inventato il "pericolo fascista" come collante tra i partiti di centro e quelli socialcomunisti.
Quei giornalisti constatavano viceversa la propria individuale libertà di fronte a nette alternative tra i modelli di società allora percepibili ed attuali nel mondo. E, del resto, forse quella generazione non pensava ancora tanto alla "qualità della vita" quanto al proprio ruolo nella vita comunitaria ed un poco anche al fine della vita in sé e, più che chiedersi di essere libera da regole e da autorità, si domandava a che cosa avrebbe potuto servire la propria libertà individuale nell’edificazione d’una società più giusta. E ciò confrontandosi nei temi più vicini, quali erano quelli della reale politica regionale, fino a quelli di fondo della concezione della società e del suo progressivo aprirsi verso civiltà ed etnie diverse: "Non è comunismo difendere i negri", titolava in prima pagina il numero del 15 giugno 1963, riferendosi a certe discriminazioni ancora presenti in U.S.A., e spiegava, come a volerne fare un manifesto del giornale: "Antirazzismo non è comunismo (anche se, dell’antirazzismo, i comunisti italiani di allora facevano un loro cavallo di battaglia); contro qualsiasi egoistico pregiudizio, esiste l’uomo. Un uomo bianco ed un uomo nero sono, al di sopra ed al di fuori del colore della pelle, al di fuori ed al di sopra delle civiltà diverse, soprattutto e solo uomini".
C’erano certo alcune evidenti spinte morali di fondo in tutta la linea del giornale che possono ora astrarsi dalle centinaia di articoli che pubblicò. E siccome, tutto sommato, la politica è un elemento strumentale per la produzione di un buon apparato pubblico, ossia di una giusta ed efficiente pubblica amministrazione, e un buono Stato si identifica sostanzialmente con una buona amministrazione, deve dirsi che i collaboratori di "Semaforo" espressero direttamente o incidentalmente i loro principi morali in molti dei loro articoli, in cui auspicavano che lo Stato che andava evolvendosi dopo la fine della guerra e la fondazione della Repubblica fosse di alto livello organizzativo e morale.
Quello che si rivela da una lettura sistematica di molti dei pezzi dei collaboratori di "Semaforo" è il modello di un’amministrazione efficiente, imparziale, non clientelare, economicamente vantaggiosa e senza misteri; e di una classe di funzionari professionalmente dotati ed autenticamente al servizio esclusivo della Nazione, come avevano appreso che ordinava la Costituzione della Repubblica. Si denunziavano così le inefficienze e le immoralità: dalle più comuni come quelle dei servizi di trasporto urbano(11)# e della distribuzione dei libri di testo agli alunni delle scuole elementari#(12) a quelle più profonde e generali incidenti nell’economia e nel benessere: "I concetti di produttività e di rendimento sono poco appropriati agli ambienti burocratici dello Stato: basse retribuzioni, confusione di leggi, discriminazioni ed influenze di carattere politico costituiscono già da tempo le cause prime del dissesto della pubblica amministrazione"(13)#.
E si commentava quanto un’amministrazione efficiente fosse utile anche alla soluzione della questione meridionale e quanto una maggiore spesa per la scuola potesse aiutare lo sviluppo di un popolo, notandosi con amarezza che forse "un popolo più colto rappresenterebbe un elettorato più cosciente, meno affamato (erano ancora quei tempi!), meno manovrabile e meno suscettibile alla facile demagogia che oggi impera in tutto l’arco politico"(14)#. E questo, parafrasandosi una frase di Ferenc Herezec a proposito di certi sacerdoti che nel Medio Evo non riuscivano ad infondere la nuova fede cristiana presso il popolo magiaro ma riuscivano ad uccidere la fede antica, induceva ad esclamare: "Politici, voi non riuscite ad infondere ideali nuovi in ogni cuore, però siete riusciti ad uccidere gli antichi"(15)#.
Ma la pubblica amministrazione e lo Stato marciarono poi per decenni in un senso molto poco entusiasmante, tanto che un trentennio più tardi, quando "Semaforo" non si pubblicava più da molto tempo, il suo direttore, Mauro Turrisi Grifeo, scrisse un libro intitolato "Il malgoverno nello stato padrone"(16), in cui, fra l’altro, osservava: "La corruzione è chiaramente il vizio di fondo del nostro sistema politico; una corruzione che comporta abusi o lentezze nella gestione della cosa pubblica, abusi e lentezze che finiscono col giustificare ogni particolare interesse nelle varie amministrazioni pubbliche...".
Questa tensione verso una rigenerazione morale della vita pubblica in Sicilia, che "Semaforo" esprimeva come sua ragione di fondo, giungeva fino all’abbattimento e all’avvilimento nella constatazione di una condizione che particolarmente noi siciliani ci siamo portati sulle spalle, innanzi al mondo, per secoli: la mafia. Nel luglio del 1963, Marina Pino, sotto un titolo di enormi proporzioni che diceva "Basta!", annotava: "una terra arsa di paura e di sangue"; "Siamo, ai primi di luglio, appena usciti da un giugno di sangue: 13 morti con adeguato contorno di feriti, e questo nella sola Palermo"; e riferiva: un vaccaro freddato con una pistola a tamburo; due uccisi in casa del capomafia Pietro Torretta; uno scarista ucciso al mercato Trinacria; un morto e due feriti per lo scoppio di una "Giulietta" a Villabate; e domenica 30 giugno sette poliziotti dilaniati a Ciaculli da un’altra Giulietta-bomba. "Con un bel funerale, donando un milione ciascuno alle famiglie, aprendo la tanto predicata inchiesta parlamentare sulla mafia, lo Stato si illude di mettere le cose a posto in Sicilia..."(17)#.
Mauro Turrisi iniziava dunque, nel novembre del 1963, un’indagine sulle ragioni storiche, sociali ed ambientali della mafia(18)#, quando il fenomeno non era ancora venuto all’attenzione della sensibilità della più numerosa opinione pubblica, come sarebbe stato a partire dagli anni Ottanta.
Scrissero per "Semaforo": Marina Pino, che ne fu, insieme al direttore e a Giovanni Ciancimino, l’anima e che dopo l’esperienza di questo giornale sarebbe stata una valorosa giornalista(19)#; Giovanni Ciancimino, appunto, che assicurava analitici pezzi sulla politica regionale e che, nell’ultimo anno, assunse la direzione politica del giornale(20)#; Gregorio Napoli, poi noto critico cinematografico; Girolamo Leto, esponente del partito liberale; Paolo Emilio Carapezza, poi professore nella facoltà di lettere dell’università di Palermo e noto musicologo; Enzo Aprea; Eugenio Guccione, poi professore universitario, studioso profondo dell’opera di Luigi Sturzo ed esponente del movimento federalista europeo; Vittorio Schiraldi, giornalista e collaboratore della Rai, nonché scrittore di un noto e simpatico libro "Siciliani si nasce"; Giulia Sommariva, giornalista e fine saggista in materia di cultura siciliana e turismo; Egle Palazzolo, giornalista e poi autrice di alcune opere di narrativa; Santi Valenti, che avrebbe ricoperto - ancora giovanissimo - la cattedra di analisi matematica nell’Università di Palermo e prodotto alcune interessanti opere letterarie, il quale scriveva anche sotto gli pseudonimi di Ulisse e di Holy Clever; Michele Guardì, prima di essere autore di testi e regista presso la Rai; il giornalista Antonio Ravidà, poi collaboratore del "Giornale di Sicilia" e quindi redattore dell’ANSA; Vittorio Giustolisi, archeologo e pubblicista; Alfredo Di Vita; Bianca Cordaro, poi nota giornalista della Rai; nonché Giovanni Zanasi, capocronista del "Giornale di Sicilia", che arricchiva "Semaforo" di profonde analisi sulla cronaca sportiva; Manlio Graziano, redattore del "Giornale di Sicilia"; ed ancora il professore di economia politica dell’Università di Palermo Giuseppe Frisella Vella, che, firmando con la sigla F. d. S. (pare: "Fedele di Sicilia"), affrontava settimanalmente in maniera scientifica temi come l’importanza del risparmio, la semplificazione del sistema tributario, i salari, la corresponsabilizzazione dei sindacati nella conduzione delle imprese, ecc.(21)# in una visione schiettamente e decisamente liberistica che dava al giornale la matrice scientifico-culturale di fondo.
Fatti i conti con l’anagrafe, sottratto qualche nome e lette le biografie di tutti, può dirsi che l’intero cast dei giornalisti di "Semaforo" si collocava tra i venti ed i trent’anni di età e che il settimanale, mentre da un lato fu una efficace scuola di professione, dall’altro, seppe raccogliere intorno a sé l’attenzione di una promettente parte della giovane generazione di palermitani di allora che credeva di poter concorrere a costruire la propria polis veramente libera, virtuosa e moderna.
"Semaforo" cessò d’essere stampato dopo il numero 1 del quarto anno in cui, facendosi gli auguri ai lettori, si osservava sconsolatamente che "la politica è degenerata in beghe e personalismi, l’economia è stata frenata da questi contrasti; i lavoratori del sud migrano verso terre più ricche; i capitali prendono la ... via dell’esilio, non ritenendosi più sicuri in patria..." e si preannunziava anche quello che sarebbe stato ufficializzato il 12 gennaio: la scissione dal Partito socialista della corrente di estrema sinistra filocomunista, che si sarebbe costituita nel Partito socialista di unità proletaria: "Tre socialismi: verso una chiarificazione densa di incognite" annunziava il giornale e prevedeva ancora una fonte di caos nelle giunte di sinistra presso gli enti locali, nelle segreterie di partito, nella C.g.i.l.#(22). Quindi tacque per sempre.
"Semaforo" cessò d’essere prodotto non perché non avesse più idee e collaboratori, ma probabilmente nell’ambito di una crisi generale della stampa locale. L’editoria giornalistica si sviluppava velocemente in quegli anni in senso imprenditoriale. Nel mondo complessivo dei cosiddetti media assorbiva sempre più attenzione la televisione, mentre il mercato siciliano della lettura andava recependo sempre più il prodotto giornalistico delle grandi edizioni nazionali. In un siffatto sistema, il giornale era entrato, come le terre di montagna o le piccole produzioni industriali di provincia, in un’area marginale in cui, a fronte d’una difficile diffusione, i costi erano divenuti insopportabili. Tutta l’editoria dei settimanali siciliani non finanziati dalla politica o dalle imprese avrebbe del resto, negli anni seguenti, seguito la stessa sorte. Probabilmente nessun imprenditore o politico di allora ritenne di potere sostenere "Semaforo" in qualche modo. Ma in quel momento "Semaforo" entrava nella storia di Palermo e della Sicilia, della cui documentazione costituisce, ora che il tempo gli ha conferito il valore aggiunto della testimonianza diretta di un’epoca, un assai interessante elemento per la comprensione della nostra storia di quegli anni.
Nella primavera del 1962 studiavo giurisprudenza con Marina Pino che, tendendo verso la professione di giornalista, scriveva su "Semaforo". Me ne fece conoscere il direttore Mauro Turrisi Grifeo, il quale, con immediata cordialità, mi offrì subito di collaborare con il suo giornale. Oltre che di Marina fui così per alcuni decenni amico profondo di Mauro. Entrambi sono morti prematuramente. Chiedo scusa ai lettori se sento di comunicare pubblicamente che - col pensiero alla loro irrevocabile assenza - mi è stato duro ripercorrere e rievocare i tempi in cui "Semaforo" veniva composto e che ho provato un affettuoso rincrescimento a non potere verificare con questi miei amici l’immagine che mi sono fatto del loro "Semaforo".
NOTE
1 R. Menighetti e F. Nicastro, in Storia della Sicilia autonoma (Caltanissetta 1998, pag. 123) riferiscono così il fenomeno: "La rottura dei fronti ideologici e la stravagante commistione a livello governativo di forze politiche antitetiche ha reso impossibile l’elaborazione di linee programmatiche comunemente gestibili. La produttività della politica si è ridotta al minimo e la Regione si è arenata in una grave paralisi legislativa ed amministrativa. Le spericolate operazioni dei partiti hanno dato al contempo luogo ad una serie di vicende da basso impero, che hanno affondato l’amministrazione regionale nel grottesco e provocato l’insorgere di una vera e propria questione morale".
2 Per i caratteri dei governi regionali presieduti da Silvio Milazzo, cfr. Grammatico D., "La rivolta siciliana del 1958", Palermo 1996.
3 F. Renda (Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Palermo 1987, vol. III, pag. 433) definisce il governo Maiorana "un governo milazzista alla rovescia" e nota che esso, definitosi normalizzatore, in realtà fu solo un governo restauratore.
4 Cfr. L’Ora del 3 maggio 1961 e del 9 agosto 1961.
5 Mauro Turrisi Grifeo è nato il 21 luglio 1930. Appartenente alla famiglia dei principi di Partanna, una delle più antiche casate siciliane, fu un gentiluomo di rara sensibilità ed un grande e veramente libero giornalista nonchè un profondo conoscitore della Sicilia, della sua storia politica, economica e sociale e particolarmente delle origini e della trasformazione della mafia. Scrisse numerosi libri in cui è costante lo scopo di capire come sia effettivamente la società siciliana. Fra le sue opere più interessanti, vanno ricordate: Democrazia in crisi; 1945 Era industriale; Karsa (racconti di vita siciliana); Quel fantasma chiamato mafia; Il malgoverno nello Stato padrone; una riedizione di Pubblica sicurezza in Sicilia nel 1864 del suo antenato Nicolò Turrisi Colonna. Prezioso riferimento per tutti i colleghi era la sua ricca biblioteca e soprattutto il vasto archivio personale con repertori aggiornati e dettagliati di eventi e personaggi della politica, dell’economia, della vita sociale, della criminalità mafiosa e dei grandi delitti. È stato tra i primi a rivelare gli intrecci affaristici, politici e mafiosi, progettati in occasione del finto sequestro di Michele Sindona nel 1979. Nel 1961, anno che precedette l’assunzione della direzione di Semaforo, diresse, insieme a Giulia Sommariva, Palermo d’oggi, rivista culturale di studi e attualità. Morì nel 1995.
6 Mauro Turrisi Grifeo, Chiare note, in Semaforo, n. 47 del 1961.
7 Giovanni Ciancimino, Inglorioso collaudo della "svolta storica", in Semaforo, n. 47 del 1961.
8 Per una analitica indagine sullo sviluppo dell’apparato burocratico della Regione, cfr. Palmeri G. Il fiume di Eraclito - L’Autonomia siciliana ed il suo divenire, Palermo 1996, pag. 107.
9 Cfr. Semaforo, n. 19 del 1962.
10 Cfr. Semaforo n. 19 del 12 maggio 1962. Eugenio Guccione, Antonio Segni quarto Presidente e Ugo Cenci, Pessimismo delle sinistre.
11 Valenti S. in Semaforo, n. 19 del 12 maggio 1962.
12 Pino M., Quei cari libri gratis, in Semaforo, n. 35 del 16 novembre 1963.
13 Uno Stato moderno non deve ignorare..., in Semaforo, n. 7 del 19 febbraio 1963.
14 La miseria degli insegnanti si riflette sul popolo, in Semaforo n. 11 del 23 marzo 1963.
15 Basile F., Politica senza ideali, in Semaforo, n. 35 del 16 novembre 1963.
16 Palermo 1991.
17 Semaforo, 6 luglio 1963, nn. 23-24.
18 Cfr. i nn. di Semaforo 34, 35, 37 e 38 del 1963.
19 Marina Pino è nata a Palermo il 14 novembre 1940 ed è qui morta il 17 settembre 2000. Iniziò la sua attività di giornalista presso il settimanale Semaforo prima del conseguimento della laurea in giurisprudenza. Successivamente scrisse per il quotidiano di Palermo Telestar e per il Giornale d’Italia. Fu redattrice del Giornale di Sicilia e quindi capo cronista del quotidiano L’Ora fino al 1991. Alcune inchieste su determinati fatti di mafia le suggerirono un interessante libro dal valore sociologico e letterario, Le signore della droga. Nel 1997 preparò e diresse per qualche tempo il quotidiano Oggi-Sicilia e sviluppò servizi sulla storia e la vita siciliana per la rivista Palermo della Provincia e per Cronache parlamentari siciliane. Negli anni ‘80 è stata presidente dell’Associazione siciliana della stampa.
20 Giovanni Ciancimino è nato a Belmonte Mezzagno il 10 ottobre 1931. Laureato in giurisprudenza, ha svolto una ricchissima carriera giornalistica , iniziando nel 1962 a collaborare con i Vespri d’Italia di Alfredo Cucco; collaborò contemporaneamente per qualche anno con il Picchio Verde, settimanale di destra filo m.s.i. di Catania; fu quindi corrispondente del Secolo d’Italia, redattore dell’Agenzia giornalistica "Il Mediterraneo", diretta da Carlo De Leva; corrispondente, dal 1958 del Giornale d’Italia, della Tribuna del Mezzogiorno di Messina e del Corriere di Sicilia di Catania; quindi redattore del quotidiano palermitano Telestar ed infine (1961) de La Sicilia di Catania, ove svolge attualmente, interessandosi particolarmente alle cronache ed ai commenti della politica regionale, la funzione di capo della redazione palermitana del quotidiano.
21 Cfr. particolarmente in Semaforo: Buona amministrazione, 15 dicembre 1962; Semplificare i tributi, 21 settembre 1963; Salari e sindacati, 11 gennaio 1964.
22 Osserva Renda (op. cit., pag. 460): "Il Centrosinistra, più che per le realizzazioni, si fece apprezzare per quella straordinaria capacità, che fu quasi una sua seconda natura, di produrre una permanente e quasi organica instabilità politica. Da quel punto di vista, le cose andarono in modo tale che in poco più di dieci anni, dal settembre 1961 al giugno 1971, ci furono ben 17 governi". Per una analisi oggettiva della stagione del Centrosinistra, dal punto di vista delle sue politiche legislative, cfr. Tramontana C., Il Centro-sinistra, Torino 1995.
È difficile comprendere la complessità della costruzione crispina in tema di politica estera e di relazioni internazionali senza soffermarsi sull’evoluzione dell’ideale nazionalitario nel pensiero politico di Crispi(1). In quest’ambito, il pensiero dello statista prendeva le mosse da un’idea di nazione che, sganciata dal fondamento volontaristico e dal carattere storico di derivazione democratico-russeauiana, si avvicinava piuttosto, attraverso la mitizzazione di elementi fisici e culturali, ad una metafisica della nazionalità con forti addentellati nell’elaborazione dottrinaria tedesca. La formula della natio quia nata, tanto cara a Crispi, di un’entità - la nazione, appunto - esistente a prescindere dalla scelta volontaria di un popolo e collocata al di fuori e prima dei prodotti della storia (gli Stati), si coniugava poi con lo "spirito del popolo" che, giunto finalmente a maturazione, aveva emancipato il territorio nazionale dallo straniero, restituendogli anche l’unità politica.
Da un lato, dunque, un dato naturale, ineliminabile, immanente - la Nazione - dall’altro l’Unità politica, lo Stato, consacrazione legale della rivoluzione nazionale, termine ultimo della volontà di un popolo cosciente che aveva dichiarato "necessità di vita e suo diritto, l’unità e l’indivisibilità"(2) della patria. Un binomio che aveva trovato incarnazione nei due uomini che Crispi considerava i grandi padri della patria: Garibaldi e Vittorio Emanuele.
Questi due termini - nazione e Stato - sempre compresenti nel pensiero di Crispi, si erano sempre più congiunti fino a sovrapporsi e sostanzialmente ad identificarsi(3) a partire dalla prima esperienza di governo che era coincisa con l’ ‘umiliazione’ italiana al Congresso di Berlino, dando vita ad una tortuosa teorizzazione in cui, in nome di uno Stato che reclamava il suo posto al tavolo delle grandi potenze, veniva posta una seria ed inedita ipoteca al principio di nazionalità. I motivi di questo ‘mutamento’ erano facilmente comprensibili; lo stesso Crispi li affermava dicendo che, per l’Europa, "l’era delle nazionalità fu chiusa a Berlino nel 1878"(4) quando cioè fu a tutti palese che d’allora in poi qualsiasi modificazione alla carta geografica sarebbe dovuta passare per le diplomazie dei singoli Stati, pena la guerra e la rovina per tutti. Si trattava ora di compendiare il principio di nazionalità, che pure tanta parte aveva avuto nella creazione dello Stato italiano, con le più moderne esigenze di equilibrio tra potenze; il che in breve significava che gli altri concetti, nella battaglia mazziniana strettamente connessi all’idea di nazionalità, quelli cioè di libertà, di fratellanza universale e di democrazia cosmopolita, pur formalmente mantenuti, passavano in secondo piano. L’esaltazione del principio di nazionalità si trasformava nel calcolo utilitaristico della forza disponibile e degli interessi preminenti di ogni entità nazionale, ciascuna chiusa nel suo proprio ‘egoismo’. Il timore che quello stesso principio al quale si doveva l’esistenza politica dell’Italia se spinto oltre ogni ragionevole misura conducesse follemente alla rovina diveniva punto di partenza per un attacco alle parole d’ordine irredentiste: la rivendicazione delle terre irredente avrebbe schierato contro l’Italia tutti quanti i governi europei e avrebbe condotto fatalmente alla guerra, ad una guerra davanti alla quale il paese si sarebbe trovato impreparato, inerme ed isolato. Saggezza politica consigliava invece non solo di "tenersi forti per virtù d’armi", ma anche di dare un deciso impulso alla competenza e all’efficienza delle diplomazie, e di procedere secondo una prudente e responsabile politica di alleanze. Quanto tale mutamento di prospettiva fosse gravido di conseguenze sarebbe solo parzialmente comprensibile se non si tenesse conto che esso andava di pari passo con il maturare di quell’altra idea che avrebbe inserito Crispi, a tutto diritto, nell’età dei nazionalismi, quella cioè che ciascuna nazione - o meglio, ciascuno Stato - avesse una propria missione da compiere(5). La qual cosa, sul piano della progettualità politica, aveva un duplice esito in politica estera e in politica interna. In politica estera, si apriva la strada a quella ‘megalomania’ che, a giudizio di Crispi, altro non era che l’assecondare il dato di fatto ormai acquisito per cui - e cito dal discorso di Palermo del 14 ottobre 1889 - "come al corpo dell’individuo, all’entità nazione occorre, per vivere, aria respirabile" e per cui "la lotta per l’esistenza altri confini non ha che quelli del mondo conosciuto". Di non minore entità erano gli effetti che la totale sovrapposizione dei concetti di nazione e Stato e la connessa rivendicazione di un ruolo attivo nel panorama internazionale avevano in politica interna. A supportare quello che era ormai divenuto un dogma, erano necessari infatti sia un rafforzamento - e, conseguentemente, un irrigidimento - delle istituzioni politiche sia l’eliminazione di tutto quanto poteva esser tacciato di essere antinazionale. E antinazionali ed antipatriottici erano, nella visione di Crispi, l’internazionale rossa e l’internazionale nera, "anarchici e preti [che predicano] le lusinghiere teorie della umanità nella quale si confondono i popoli di ogni razza, d’ogni lingua e d’ogni religione"(6), teorie che "sono la negazione della patria". Anello di congiunzione tra il sogno del prestigio internazionale e l’immagine di uno Stato forte e coeso era destinato ad essere un esecutivo la cui autorevolezza era da Crispi considerata la vera chiave di volta del destino d’Italia.
Si definiva in tal modo quella strettissima connessione tra politica interna e relazioni internazionali su cui Crispi da lungo tempo insisteva e la cui assenza egli addebitava alla mancanza di un uomo di genio in grado di dare al paese un saldo ordinamento politico, a suo parere, indispensabile non solo per farne una potenza, ma anche e soprattutto per accreditarne l’immagine presso gli Stati stranieri. Non solo essere potenti, quindi, ma anche apparire potenti. E se è vero che l’idea della missione storica dell’Italia si nutriva in Crispi di una ipervalutazione della forza e della grandezza della nazione e, parallelamente, dell’ansia di ‘far presto’, di non restare esclusi dai luoghi in cui si sarebbero decise le sorti del mondo, è anche vero che, proprio la lettura del Risorgimento come rivoluzione nazionale, impediva al siciliano di cogliere la sproporzione tra realtà e verità. Come spesso accadeva, quell’ ‘apparire’ che Crispi invocava, era in definitiva un ‘dover essere’, un ‘non poter essere altrimenti’: in politica estera come in politica interna, era inammissibile che la borghesia nazionale, eroica, civilizzatrice, rivoluzionaria, protagonista, si accontentasse di svolgere un ruolo da comprimaria e rinunziasse alle più logiche conseguenze del suo valore. Il nocciolo della questione, tornava dunque, ancora una volta, al giudizio storico-politico sul Risorgimento, su chi ne era stato il motore, su chi aveva ora il dovere di portarlo a compimento: la monarchia umbertina e il ceto politico moderato, per scarsa virtù o per malcelato servilismo verso lo straniero, non potevano arrestare il cammino della nazione(7), né tantomeno lo poteva intralciare un internazionalismo che sul criterio delle differenze di classe voleva fondare le proprie fortune o un irredentismo che volgeva lo sguardo solo al confine orientale.
La concentrazione nelle mani di Crispi della presidenza del Consiglio, del ministero dell’Interno e di quello degli Affari Esteri, era la migliore situazione perchè il tanto sospirato obiettivo della "patria grande, padrona di sé, amata e stimata dagli altri popoli"(8) potesse essere portato a compimento. Chi mi ha preceduto ha egregiamente illustrato quali furono gli indirizzi seguiti nel campo delle relazioni internazionali e della politica coloniale e quale fosse di volta in volta il valore attribuito a quelle che Crispi definiva ‘matrimoni di convenienza’, cioè alle alleanze. Nell’ambito della politica interna, invece, tre furono i pilastri su cui Crispi fondò il suo progetto di dare all’Italia il giusto prestigio internazionale:
1. l’educazione civile e militare del popolo perchè in ogni cittadino crescesse un buon soldato;
2. il potenziamento degli armamenti e l’efficienza dell’esercito;
3. la radicale riorganizzazione del ministero degli Affari esteri.
Il primo di questi obiettivi dà la misura di quanto il nuovo corso della politica estera inaugurato da Crispi non intendesse, almeno formalmente, esaurirsi in una ‘politica di potenza’ quale mero esercizio della forza o calcolato computo delle alleanze più vantaggiose, segnata, invece, come fu, dal perdurante tentativo di darle un fondamento democratico; il terzo - la riorganizzazione del dicastero degli Esteri - con lo spostare l’accento sulle strutture e sugli uomini chiamati a dar corso alla politica estera - chiarisce dal canto suo la volontà di affiancare alla politica di potenza una politica di ‘prestigio’ il cui sottinteso era la riqualificazione dello Stato-nazione e della sua immagine.
Quello dell’educazione civile e militare del popolo fu concetto che Crispi, se pure non giunse a dargli il carattere di norma dello Stato, richiamò sovente con coerenza e con logica conseguente nel corso dei suoi interventi, fuori e dentro il parlamento, imperniati sulla rivisitazione della garibaldina ‘nazione armata’. Milizia territoriale e tiro a segno nazionale, strutture che sarebbero dovute essere attive anche in tempo di pace(9), erano presentati quali correttivi ad una concezione ‘separata’ e non democratica dell’esercito. Passata attraverso il filtro dell’esaltazione dell’eroe dei due mondi e, con lui, di tutti gli eroi che avevano combattuto nelle patrie battaglie, l’idea della necessità di un potenziamento degli armamenti e degli strumenti di difesa nazionale era stemperata nella più accettabile prospettiva di una ‘educazione globale’ del popolo ai valori civili e militari. La preparazione fisica e militare della gioventù, nelle palestre e nei campi del tiro a segno, diveniva, in quest’ottica, un obiettivo primario, talmente importante che nel settembre del 1893 Crispi stesso lanciava, da Palermo, la proposta di creazione dell’Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo(10), un sodalizio cui il siciliano intendeva dare dimensione nazionale ed attraverso il quale riteneva di poter fondare quel rilancio del patriottismo, nel quale tante speranze riponeva e che pure mediante altri strumenti aveva cercato di vivificare.
Se in questo modo Crispi sembrava poter dare soddisfazione alla sua ‘teoria dell’apparire’, restava il vero e più urgente nocciolo della questione, quello cioè dell’ ‘essere’ nazione forte e potente. E qui, di fronte ad un’esigenza di riarmo sentita come indispensabile, la ‘nazione armata’ tornava ad esser relegata nell’armamentario della mitologia propagandistica, e il siciliano diventava più pragmatico, tanto pragmatico da perdere di vista le reali condizioni del paese e l’onere finanziario che le fortificazioni e la corsa agli armamenti avrebbero comportato. Nella vecchia e torbida Europa era impensabile che le nazioni potessero essere disarmate ed anzi che l’Italia avesse "un esercito ed un’armata pari alla sua importanza politica e conforme alle esigenze della sua posizione geografica"(11) era il presupposto stesso per realizzare le alleanze con i grandi Stati su un piano di pari dignità. E quando le alleanze furono fatte(12), le spese per esercito e marina, all’interno di una mutata concezione dei compiti dell’intero apparato militare, divennero necessarie come deterrente all’aggressività delle potenze avversarie - la Francia, naturalmente, ma anche, in potenza, la Svizzera e la stessa Austria - e come garanzia della pace in Europa(13). Queste almeno le giustificazioni fornite da Crispi alla dilatazione dei bilanci di guerra e marina, che sotto il suo primo Gabinetto raggiunsero cifre spropositate rispetto al passato(14) e che, con la parola d’ordine del patriottismo, egli dovette difendere non solo da chi contestava in via generale l’indirizzo di politica estera del ministero, ma anche da coloro i quali, ivi compresi anche alcuni ambienti militari e, per certi aspetti, lo stesso titolare del dicastero della guerra durante i primi due governi Crispi(15), Bertolé-Viale, pur non pregiudizialmente contrari alla scelta triplicista, non erano convinti dell’urgenza di un riarmo a tappe forzate o temevano una politica finanziaria dissennata. Sulla connessione tra questione finanziaria e spese militari, Crispi d’altro canto aveva da tempo esposto la propria opinione che si sostanziava nell’idea di una radicale riforma dell’esercito nel senso del sistema territoriale alla prussiana. Intoccabile era invece la marina cui Crispi, ma non solo Crispi, attribuiva importanza fondamentale per gli equilibri nel Mediterraneo(16) ed il cui ruolo era tornato nel 1890 di estrema attualità dopo l’inizio della fortificazione di Biserta.
E veniamo al terzo punto di fondamentale importanza, quello del riordinamento del ministero degli Affari Esteri(17). Compiuto a più riprese da Crispi nell’arco dei tre anni dei suoi due primi governi, esso si svolse sulla falsariga delle proposte contenute nelle relazioni che Abele Damiani espose in occasione della discussione sul bilancio della Consulta per l’anno 1880 e per il 1881(18) e nel progetto che Alberto Pisani Dossi, nel dicembre del 1885 presentò al direttore degli Affari politici ed amministrativi, Giacomo Malvano(19). L’idea più ‘dirompente’ contenuta in entrambi i documenti era quella della unificazione, almeno su base concorsuale, delle tre carriere del ministero (interna, diplomatica e consolare), cavallo di battaglia della Sinistra storica, più volte agitato quale passaggio indispensabile per conferire al ministro la possibilità di realizzare il tanto auspicato ricambio del personale, nel tentativo di romperne il tradizionale assetto fondato su criteri censitari e preservato dello stretto legame tra Destra storica, Corona e diplomazia. Ma, a parte quell’obiettivo che tanto scalpore e tante resistenze suscitava, altri punti erano destinati ad assumere in futuro una rilevanza fondamentale nel piano riformatore di Crispi, primo tra tutti quello dell’abolizione delle due direzioni generali(20) con l’implicito rilancio del ruolo politico centrale del segretario generale, punto di raccordo tra volontà ministeriale ed attività amministrativa. Quando Crispi giunse alla Consulta sembrò fosse giunto il momento in cui il progetto Dossi-Damiani avrebbe trovato immediata attuazione, attraverso un provvedimento ‘rivoluzionario’, ma il ministro, cauto quanto mai nella gestione di un dicastero così impegnativo e così geloso della propria tradizione e dei propri privilegi, agì, invece, con singole e centellinate misure speciali che tutte contribuirono al progressivo esautoramento e alla calcolata delegittimazione degli elementi ritenuti d’intralcio. Se l’obiettivo era pur sempre quello di una globale ristrutturazione degli uffici e di una vera e propria epurazione degli organici, Crispi preferì, prima di procedere alla demolizione dell’esistente, rodare il funzionamento di un’équipe di lavoro - che vedeva gli uomini a lui più fedeli collocati nelle posizioni chiave dell’organizzazione ministeriale - che, prima di ogni altra cosa, necessitava di credito sia all’interno del paese che all’estero. Nominato Edmondo Mayor Des Planches alla carica di segretario particolare e coadiuvato dallo stesso Dossi, segretario capo nel gabinetto del ministero dell’Interno, ma con analoghe funzioni alla Consulta, il neo ministro Crispi organizzava così il viaggio a Friedrichsruh(21) che, avaro di risultati eclatanti, fu emblema e passerella insieme del ‘nuovo corso’ che egli si apprestava ad inaugurare e di cui si ebbe piena coscienza col ‘licenziamento’, agli inizi di novembre, del conte Giuseppe Greppi, ambasciatore a Pietroburgo, e del conte Luigi Corti, ambasciatore a Londra(22). In un clima non certamente disteso, piovvero poi i due decreti del 25 dicembre 1887 che riordinavano gli uffici ministeriali e sopprimevano le direzioni generali: restava la carica del segretario generale, che diveniva però, con l’affidamento ad Abele Damiani, una carica prettamente politica da cui dipendeva l’avviamento delle pratiche di ogni divisione del ministero; gli uffici venivano riorganizzati in cinque divisioni, si ricostituiva infine il Gabinetto del ministro con attribuzioni riservatissime e di particolare delicatezza. Fin dall’inizio si delineò il peso enorme che l’ufficio di Gabinetto - a capo del quale fu designato Pisani Dossi - avrebbe esercitato non solo nella conduzione interna del dicastero, ma anche nel tracciare le linee della politica estera. Quando poi con la legge del febbraio 1888 furono aboliti i segretariati generali ed istituita la figura del sottosegretario di Stato, il più incolore Damiani fu ben presto sopravanzato in competenze e in potere decisionale(23), creandosi così la paradossale situazione per cui vero centro propulsivo e gestionale del ministero e dell’indirizzo di politica estera era, dopo il ministro, una figura formalmente sciolta da ogni responsabilità verso il parlamento ed il paese.
Ma ancor di più che sulla vigorosa opera riformatrice condotta nell’organizzazione centrale del ministero, vale la pena soffermarsi sulle innovazioni introdotte nell’apparato periferico, innovazioni che furono, anche queste, frutto dell’attiva e fertile collaborazione tra Crispi e il suo capo di Gabinetto, Pisani Dossi, il quale del presidente del Consiglio e ministro degli Esteri condivideva l’approccio energico e globale alle questioni internazionali ed anzi ne era intelligente e competente consigliere. La diplomazia, come dimostrò il grande movimento nelle sedi diplomatiche e consolari attuato nel primo triennio di gestione crispina(24), fu l’ambito che, per primo, risentì degli effetti di quella concezione globale della politica estera di cui i due erano originali assertori; il suo potenziamento e il suo rinnovamento in conformità del ruolo che il paese avrebbe dovuto giocare nello scacchiere europeo, si coniugavano con l’ambizione di adempiere, specie attraverso la rete consolare, a quegli obiettivi di promozione di immagine, di diffusione della cultura, di allargamento degli scambi commerciali, di tutela delle comunità italiane all’estero, che erano il nucleo forte e più caratteristico del grandioso disegno. Si trattava di introdurre, in quello che Crispi riteneva fosse un universo immobile, tradizionalmente supino al volere della Corona - il corpo diplomatico, appunto -, una diversa concezione della politica estera, informandola ai valori dell’italianità, del prestigio internazionale, dell’immagine ‘alta’ che dell’Italia si sarebbe dovuta dare presso le opinioni pubbliche straniere(25). Manifestazione evidente di questa volontà di mutamento finalizzata ad una concezione ideologica e astratta dei compiti spettanti ai rappresentanti italiani all’estero, fu l’estensione agli agenti diplomatici e consolari della legge 14 luglio 1887 che regolava l’aspettativa ed il collocamento a riposo dei prefetti(26): il provvedimento significava l’attribuzione al ministro di più ampi margini di discrezionalità nel forgiare un corpo che per le sue delicate funzioni era di cruciale importanza e, in generale, ribadiva la più profonda essenza dell’opera riformatrice crispina, la concentrazione cioè nelle mani proprie e degli uomini di maggior fiducia del controllo capillare di tutti i rami della pubblica amministrazione(27).
Parzialmente risolto, con la solita tecnica di provvedimenti d’autorità, il problema degli organici, Crispi potè dedicarsi al tentativo di ‘conquistare’ al suo progetto il corpo diplomatico-consolare, entrando ora nel merito dei compiti spettanti ai rappresentanti italiani all’estero. E qui la questione si rivelava sia di forma che di sostanza. Con una raffica di circolari emanate quasi tutte nei primi mesi del suo ministero, egli richiamava l’attenzione dei regi agenti su un’infinità di aspetti, talora apparentemente marginali, che nel complesso definivano il contegno e lo stile di vita cui si sarebbero dovuti uniformare: quello cioè di essere testimoni ed al contempo promotori del "sentimento di italianità". Solennizzare con feste e banchetti, con concerti ed inaugurazioni, le ricorrenze nazionali al fine di creare e mantenere, nelle comunità italiane di residenti all’estero, alto e vivo il ricordo della patria; essere punto di riferimento per i connazionali, sia con il rigoroso adempimento del proprio ufficio, sia con un esemplare comportamento nella vita privata e pubblica; scegliere sedi prestigiose ed arredarle con mobilio e suppellettili di stile spiccatamente italiano, in modo da offrire agli occhi dell’opinione pubblica dei paesi ospiti l’immagine di un’Italia grande e sicura di se stessa ed ai compatrioti la certezza di un lembo di patria in terra straniera. Questi alcuni degli accorgimenti, per così dire ‘esteriori’, vivamente raccomandati al personale delle legazioni, ma il ministro si spingeva ancora più in là e dava alcune istruzioni volte ad impedire che, causa la lunga permanenza all’estero, andasse perduto il genuino carattere italiano. Poco entusiasta dei matrimoni con straniere, invitava i diplomatici a dare ai propri figli un’educazione nazionale e - intendendo per educazione non solo la padronanza della lingua, ma l’assimilazione di abitudini, comportamenti esteriori, cultura nel senso più ampio del termine - di mandarli quindi a studiare nella madrepatria. Inoltre, perché il rappresentante all’estero avesse sempre il polso della situazione italiana, della vita quotidiana, della sua evoluzione, dei suoi problemi, delle nuove tendenze, lo consigliava di trascorre i propri periodi di vacanza nel regno. Riguardo poi all’espletamento dei doveri d’ufficio con Roma, Crispi disponeva l’uso dell’italiano nella corrispondenza diplomatica e l’adozione di un nuovo cifrario in italiano per la corrispondenza telegrafica.
Con questa determinazione, ma attraverso una selva di leggine, decreti, circolari, ordini del giorno, istruzioni che finiva spesso col disorientare i destinatari e, alla lunga, col renderli insofferenti verso un ‘centro’ così incalzante ed onnipresente, il presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, aveva affrontato il cruciale problema della ‘nazionalizzazione’ della diplomazia, e nel 1889 poteva annunciare soddisfatto alla Camera l’apprezzabile esito di quel lavoro di demolizione delle "false abitudini" inveterate nel corpo diplomatico e consolare, prima tra tutte quella dell’uso della lingua francese nelle corrispondenze, nei cifrari e persino nelle normali comunicazioni.
Se il lavoro di Crispi si fosse fermato qui, a questa pur sostanziale riforma dell’immagine, esso nè avrebbe seriamente impensierito un corpo profondamente arroccato sulle proprie abitudini e tradizioni, nè avrebbe significato una sterzata di contenuto nelle linee della politica estera. Fu infatti sul piano dei carichi di lavoro, e quindi delle nuove funzioni che diplomatici e consoli andavano ad assumere, che la ‘rivoluzione’ crispina veramente incise in maniera duratura e mostrò di essere il prodotto di una nuova sensibilità politica che cercava di adeguarsi ai tempi. Già il fatto stesso di toccare gli intoccabili, di ricondurre un settore della vita dello Stato sotto l’imperio del governo dello Stato, fu una iniziativa carica di importanti risvolti politici(28), ma più ancora la pretesa di ridefinire il metodo e le finalità del lavoro degli agenti all’estero ebbe un effetto dirompente, che, in via astratta, avrebbe potuto produrre un reale salto qualitativo per un paese che si fregiava del nome di ‘potenza’, ma che dai primi ministri delle altre nazioni era sovente dimenticato(29). La diplomazia, fino a quel momento inutile e dispendioso orpello, doveva divenire attivo strumento di conoscenza e di intervento che traducesse in atti ed in fatti le scelte politiche del ministero. In questo senso andavano le tantissime circolari che trattavano gli obblighi d’ufficio degli agenti all’estero: relazioni e rapporti, con oggetti e scadenze obbligatori, divennero il principale veicolo del rinnovato modo di intendere la politica estera. Con essi, il ministero intendeva essere informato sulla situazione economica e politica del paese di accreditamento, sulla sua evoluzione, sui rapporti con gli altri Stati; ma informato in maniera intelligente e proficua: non bastava, ad esempio, che, come disposto, si inviassero regolarmente statistiche commerciali, agricole, industriali sul paese ospite. Poiché scopo di quelle informazioni era di mettere il governo italiano in condizioni di definire via via la propria politica commerciale, i ‘ministri all’estero’ dovevano corredarle di proprie riflessioni, apprezzamenti, indicazioni, facendo parlare le cifre, evidenziando i fenomeni più rilevanti per gli interessi della madrepatria, indagandone e spiegandone le cause. Obblighi precisi erano poi posti per gli studi riguardanti l’analisi dei flussi migratori - i rapporti dovevano essere bimestrali - nel tentativo di costruire una politica nazionale dell’emigrazione cui la legge 30 dicembre 1888 cercò di dare sanzione(30). Oltre alle ‘biografie degli italiani di successo’ - che si inquadravano in una logica mirante a fare delle comunità italiane all’estero strumenti di penetrazione economica - ed oltre alle relazioni sullo ‘stato di salute’ delle collettività dei connazionali - in vista di una politica d’esportazioni calibrata ai bisogni che esse esprimevano - si richiedeva al corpo diplomatico-consolare un serio e vigoroso impegno nel senso sia della tutela e dell’assistenza dirette agli emigrati bisognosi, sia del coinvolgimento, a questo fine, dei trapiantati che avevano avuto maggior fortuna, quella borghesia nazionale in terra straniera che Crispi riteneva dovesse farsi anch’essa carico di ‘nazionalizzare’ e di rendere coese le ‘isole’ italiane. Non scevro da preoccupazioni antianarchiche ed antisocialiste, il controllo sugli emigrati che al personale di legazioni e consolati era affidato, oltre ad avere i suoi punti fermi nelle società di beneficenza, alcune parzialmente sussidiate dal governo, faceva leva anche sull’associazionismo mutualistico che, mentre funzionava da rete assistenziale parallela e talora surrogatoria dell’intervento statale, consentiva un controllo più capillare delle comunità. Il motivo dichiarato di tanta solerzia era appunto quello di tenere vivi tra gli italiani delle colonie il sentimento di solidarietà e il senso di appartenenza alla patria nonostante la lontananza; ad esso era però sottinteso il più generale obiettivo politico-ideologico di creazione ed organizzazione del consenso, sia all’interno delle comunità sia nella madrepatria, intorno alla linea di politica estera intrapresa dal governo. La normativa sulle scuole italiane all’estero fu, su questo piano, il principale risultato che Crispi riuscì a conseguire nel corso dei suoi primi ministeri.
In conclusione, il parziale fallimento della politica estera crispina, così come il presidente del Consiglio l’aveva immaginata, poco commisurando le effettive possibilità e capacità del paese con l’ambizione dei propositi, nulla toglieva alla modernità dell’impulso e dell’organizzazione dati al ministero, nella sua struttura centrale e nelle sue propaggini.
Note
* Il testo qui proposto riprende alcuni capitoli del mio Francesco Crispi. Un progetto di governo, Firenze, Olschki, 1999.
1 Sulla questione restano fondamentali le pagine di F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, vol. I, Le premesse, Laterza, Bari 1951, pp. 62-67; 74-79.
2 Non a caso Crispi riteneva di ‘qualità’ superiore la formula di plebiscito assunta nelle province meridionali, che a differenza dell’ "annettersi - verbo che allude ad una servitù", aveva significato la proclamazione di un diritto e di "un supremo dovere per tutte le genti latine", quello dell’unità e della sovranità territoriale della patria comune.
3 Cfr. E. Artom, L’uomo Francesco Crispi, in "Rassegna Storica Toscana", 1970, n. 1, pp. 15-16; U. Levra, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino 1992, pp. 311-317. Non a caso Crispi scriveva che "le Nazioni non muoiono. Muoiono i Regni, gl’Imperi, le Repubbliche, muore tutto ciò ch’è legale e convenzionale" (Francesco Crispi: Pensieri e profezie raccolti da T. Palamenghi Crispi, Roma, Tiber, 1920 - d’ora in poi Pensieri e profezie - CCLXXXIII), riferendosi cioè alla caducità delle forme costituzionali e non all’entità Stato "che è di vita naturale ed eterna quando rappresenta la nazione" (Discorsi Parlamentari di Francesco Crispi, pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1915, (d’ora in poi DP), vol. III, Camera dei deputati, tornata del 6 marzo 1890).
4 Lettera di F. Crispi a Saverio Fera da Napoli del 3 febbraio 1897 in Carteggi politici inediti di Francesco Crispi (1860-1900), estratti dal suo archivio, ordinati e annotati da T. Palamenghi Crispi, Roma, L’Universelle, s.d. [1912] (d’ora in poi Carteggi politici). Ma l’affermazione era già del 1890 (discorso di Firenze dell’8 ottobre 1890) quando Crispi sostenne che il trattato di Berlino era stato per il principio di nazionalità "più una sosta che una conferma" (Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi (1849-1890) Torino-Roma, Roux e Viarengo, 1890, - d’ora in poi Scritti e discorsi - p. 751).
5 È pur vero che l’idea non era originale: in Italia, lo stesso Mazzini e il Gioberti del Primato, ne erano stati caldi sostenitori; per non parlare poi dell’idea herderiana della missione del ‘genio’ tedesco. In Crispi tuttavia, poco propenso a subire il fascino di dottrine e di schemi teorici, la gravità di tale pensiero stava proprio nella sua concretezza e nella sua praticabilità che avrebbero spostato il baricentro dell’azione politica verso la volontà di potenza. Il che, tuttavia, non significava sposare automaticamente ansie espansioniste e mire egemoniche. La ‘missione’ cui Crispi sembrava costantemente riferirsi, era piuttosto quella della decisa affermazione di un prestigio e di una dignità dello Stato italiano pari a quelli delle altre potenze europee e tali da farlo partecipare a pieno diritto alla definizione degli assetti territoriali e degli equilibri internazionali. Già nel 1881 egli aveva espresso il nucleo di questo pensiero quando, dalla tribuna di Palermo, ammoniva: "Io voglio la libertà e l’indipendenza di tutti i popoli, ma non posso tollerare che sia calpestata la patria mia e che le sia impedito di tenere nel consesso europeo il posto che le è dovuto" (Scritti e discorsi, discorso pronunciato nella sede della società democratica di Palermo, il 13 novembre 1881).
6 Carteggi politici, lettera di Crispi a S. Fera da Napoli, del 3 febbraio 1897.
7 Sono note le accuse crispine a Cavour di aver ‘diplomatizzato’ la rivoluzione (cfr. Ultimi scritti e discorsi extraparlamentari (1891-1901), a cura di T. Palamenghi Crispi, Roma, L’Universelle, s.d. [1912-1913] - d’ora in poi Ultimi scritti - p. 275, In morte di Ottone di Bismarck, 1 agosto 1898; DP, II, Camera dei deputati, tornata del 18 maggio 1883, sebbene in quest’ultimo Crispi sottolineasse l’effetto positivo dell’opera cavouriana che mise un freno alla "impazienza" e all’audacia dei repubblicani come lui accusava la Destra (ma anche i ministeri di Sinistra) di aver gettato il paese nel discredito a causa di esitazioni ed incertezze (per tutte, le parole pronunciate nella famosa seduta del 31 gennaio 1891, quella della ‘politica servile’ verso lo straniero). Più complesso era invece l’atteggiamento verso l’istituto monarchico, esaltato come simbolo e garante dell’unità, ma, nella sua incarnazione in Umberto I, ridimensionato dalla pochezza di un ‘re borghese’. Secondo la concezione di Crispi "il re non può vivere come un umile borghese, il quale mangia e beve e lascia correre il tempo. Il re deve avere una missione di umanità e civiltà, se non vuole che i popoli ritengano inutile la sua esistenza" (Pensieri e profezie, CXLIII).
8 Discorso pronunciato allo scoglio di Quarto in occasione dell’inaugurazione di un monumento a Garibaldi a Genova nell’ottobre 1893, citato in Francesco Crispi: politica interna. Diario e documenti raccolti e ordinati da T. Palamenghi Crispi, Milano, Treves, 1924 (d’ora in poi Politica interna) p. 283.
9 Sull’importanza della milizia territoriale e della milizia mobile, Crispi aveva insistito ancora nel 1880 (cfr. DP, II, Camera dei deputati, tornata del 20 marzo 1880), due anni prima, cioè, che fosse varato il nuovo ordinamento dell’esercito messo a punto dal generale Ferrero che, sulla falsariga della ristrutturazione voluta da Ricotti, ministro della guerra dal 1870 al 1876, pur prevedendo sia la milizia territoriale che quella mobile non ne curava l’organizzazione in tempo di pace. Ma le affermazioni in quella sede fatte si dimostrarono essere semplici dichiarazioni d’intenti e negli anni che lo videro al potere, esse continuarono a rimanere sulla carta, salvo essere ripescate, non solo da Crispi, ma anche da alcuni vertici militari, con una chiara valenza antifrancese. Per quel che riguarda il tiro a segno, entrato a far parte delle istituzioni dello Stato con la legge 2 luglio 1882, l’impegno che Crispi profuse fu sicuramente maggiore tanto che l’istituzione registrò, durante i suoi ministeri, sensibili modificazioni che ne accentuarono quei tratti demagogici ed autoritari che mal si celavano sotto il pretesto di una forma democratica di ‘educazione civile’.
10 La documentazione d’archivio sull’Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo, sta in Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Carte Crispi (d’ora in poi CC), Deputazione Storia Patria Palermo (d’ora in poi DSPP), b. 82, f. 521 e ACS, CC, Reggio Emilia, b. 8, f. 16, sottof. 6, ins. 10, cui va aggiunta una lettera di T. Palamenghi Crispi allo zio in cui si salutava con fervore l’idea di far partire proprio dalla "città delle grandi iniziative patriottiche" la proposta associazione (ACS, CC, DSPP, b. 148, f. 1329 Tommaso Palamenghi Crispi, lettera di Palamenghi Crispi a Crispi, da Roma, del 10 settembre 1893). L’iniziativa della costituzione dell’Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo, era stata presentata a Palermo, il 10 settembre 1893: un luogo e una data particolarmente significativi (se si pensa a quali fossero le condizioni dello spirito pubblico in quella seconda metà del ‘93) che lasciano supporre un accorta valutazione preliminare. Il metodo Giolitti nei confronti della ‘questione siciliana’ si trovava in una fase di stallo; il problema del ricambio a palazzo Braschi era aperto; la Sicilia era al centro dell’attenzione nazionale; Crispi, in concorrenza con Rudinì e Zanardelli, preparava la sua successione non solo mostrando aperture verso il movimento dei Fasci e le problematiche economico-sociali che esso portava alla ribalta, ma offriva, anche attraverso l’ipotesi dell’Associazione, un’alternativa di potere, patriottica, unitaria, interclassista e, vagamente legata ad un obiettivo che era patrimonio storico della democrazia risorgimentale, quello, appunto della ‘nazione armata’. Il che naturalmente non significa che il valore di quella proposta fosse limitato all’uso strumentale che in quell’occasione potè essere fatto, poichè essa non fu episodio isolato, ma ebbe nel percorso ideale e politico di Crispi un ‘prima’ e un ‘dopo’. L’idea, come riferisce Tommaso Palamenghi Crispi, "accolta con grande favore nel primo momento, non ebbe pratica attuazione per gli avvenimenti che seguirono da lì a poco" (Politica interna, p. 282), ma le vicende legate alla riforma dell’istituto del Tiro a segno nazionale e l’adesione accordata a sodalizi ed iniziative volte alla educazione fisica e militare dei giovani, attestano la costante premura di Crispi su questo tema.
11 Scritti e discorsi, discorso pronunciato nella sala della Società democratica di Palermo il 13 novembre 1881.
12 Al rinnovo della Triplice nel febbraio del 1887, aveva fatto seguito nel gennaio del 1888 la convenzione militare in funzione antifrancese.
13 La documentazione archivistica relativa all’attività dei primi ministeri Crispi in ordine alla riorganizzazione di esercito e marina sta in ACS, CC, Roma, b. 6, f. 158 (che contiene il progetto di legge del 1888 sulle spese straordinarie) e ACS, CC, DSPP, b. 28, f. 226 Esercito e difesa nazionale, in cui, oltre al fascicolo Organizzazione del R. Esercito e difesa nazionale, relativo a proposte di legge e dibattiti parlamentari precedenti il 1887 (sottof. 1), sono conservate (sottof. 3) le corrispondenze con gli ambasciatori De Launay, Nigra e Menabrea circa l’entità delle spese militari in Germania (1872-1888), in Austria-Ungheria (1887-1889) e in Francia (1870-1883). Inoltre, al sottof. 4, sono le relazioni (del 23 ottobre 1890 e del 24 giugno 1891) che il Capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Cosenz, su richiesta di Crispi, redasse sulla consistenza delle forze militari in Italia, Francia, Germania, Russia ed Austria-Ungheria dal 1887 al 1891; e al sottof. 5, la memoria del generale Corvetto sull’ordinamento del R. Esercito dall’aprile 1887 al febbraio 1891, diretta a Crispi in data 4 febbraio 1891. Utili riferimenti generali sull’aumento delle spese militari e sull’importanza che Crispi ad esso attribuì, in G. Rochat, G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978, pp. 107-146; F. Venturini, Militari e politici nell’Italia umbertina, in "Storia Contemporanea", a. XIII, n. 2 (aprile 1982), pp. 167-250; R. Mori, La politica estera di Francesco Crispi (1887-1891), Roma, 1974, pp. 67-74.
14 Il disegno di legge per autorizzare spese straordinarie militari fu presentato dai ministri della Guerra e della Marina, Bertolè-Viale e Brin, l’1 dicembre 1888 e fu riferito alla Camera dall’onorevole De Renzi il 16 dicembre 1888. La discussione iniziò il 21 e si esaurì nell’arco di tre giorni; al Senato ne fu relatore il generale Mezzacapo. Con esso si chiedeva l’iscrizione nei bilanci straordinari di Guerra e Marina per l’esercizio 1888-1889, rispettivamente, di 90 e di 30 milioni da destinarsi all’acquisto di armamenti, di approvvigionamenti e alla costruzione di opere di difesa. Secondo quanto Crispi stesso avrebbe affermato a posteriori per scagionarsi dall’accusa di aver improvvidamente ed abnormemente accresciuto il bilancio della guerra del 1888, non si trattava di aumento delle spese ma di anticipazione: tra il 1884 ed il 1886, infatti, il Parlamento aveva approvato 240 milioni di spese straordinarie da ripartirsi tra gli esercizi successivi fino al 1892 e le cifre richieste col disegno di legge del 1888 erano in buona parte anticipazioni di spesa sui fondi destinati a quegli esercizi (DP, III, Camera dei deputati, tornata del 13 maggio 1894). In realtà le spese, anche attraverso lo strumento delle note di variazione, sfondarono il tetto delle anticipazioni approvate ed il bilancio dei ministeri di Guerra e Marina per l’esercizio finanziario 1888-1889, sfiorò la cifra dei 600 milioni.
15 Le occasioni di divergenza tra Crispi e Bertolé-Viale, quest’ultimo legato ad una concezione tradizionale dell’esercito e della politica estera, furono numerose: dall’opposizione esplicita del ministro della guerra verso l’espansionismo in Africa, alle riserve espresse sulla convenzione militare con la Germania stipulata nel gennaio del 1888, all’ostilità verso ‘corpi paramiltari’ (quale, ad esempio, il Tiro a segno mirava ad essere), all’atteggiamento stesso da tenersi nei confronti della Francia. Nota è poi la vicenda legata allo disegno di legge del 1888, in cui Bertolè-Viale, avvertendo di non trovarsi in sintonia col presidente del Consiglio circa l’entità dei fondi straordinari richiesti, si dichiarò disposto a rassegnare le dimissioni (A tal proposito la lettera di Bertolè-Viale a Crispi del 18 novembre 1888, riportata in Politica interna, p. 191 e in F. Venturini, Militari e politici nell’Italia umbertina, in "Storia Contemporanea", a. XIII, n. 2 (aprile 1982), p. 220).
16 Indubbio fu in età crispina il potenziamento della marina militare (che datava però già dal 1883), settore più fortemente dell’esercito legato agli interessi di alcune industrie nazionali di base che dalle spese militari trassero enormi vantaggi (Cfr. L. De Rosa, L’incidenza delle spese militari sullo sviluppo economico italiano, in "Atti del I Convegno di storia militare", (Roma 17-19 marzo 1961), a cura del Ministero della Difesa, Roma, 1969 e R. Mori La politica estera di Francesco Crispi (1887-1891), Roma, 1973).cit.). La stessa scelta di potenziare la flotta, più che le fortificazioni costiere, non era certamente scevra da implicazioni con un orientamento di politica estera non più esclusivamente difensivo e non più limitato alle acque del Mediterraneo (nel bilancio della Marina del 1889-1890 fu infatti previsto lo stazionamento di diciassette unità italiane in acque extraeuropee). Brin e Saint-Bon furono le figure intorno alle quali ruotò il rilancio della marineria italiana attraverso un vasto e ardito programma di costruzioni navali imperniato su unità con soluzioni tecniche d’avanguardia che talora andavano a scapito delle capacità difensive - come dimostrarono, ad esempio gli ‘arieti torpedinieri’ (versione italiana degli inglesi ‘incrociatori protetti’) e gli ‘incrociatori torpedinieri’ (di essi, della classe Partenope, ben 8 furono costruiti e varati in età crispina) concepiti essenzialmente per le acque metropolitane - oppure la cui costruzione richiedeva alla poco efficiente industria cantieristica italiana un tempo di costruzione talmente lungo da renderle obsolete al momento dell’entrata in servizio (Cfr. G. Rochat, G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano cit., pp. 118-121; G. Giorgerini, A. Nani, Le navi di linea italiane. 1861-1961, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1962; e ID, Gli incrociatori italiani. 1861-1975, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1976). Parallelamente al disegno di potenziamento della flotta militare si delineava in Crispi l’esigenza di rilanciare, col sostegno dello Stato, la marina mercantile considerata "un organo ausiliare dell’armata" da riguardarsi non solo come elemento di forza economica, ma anche come "elemento di potenza militare" (DP, II, Camera dei deputati tornata del 2 maggio 1885).
17 Sulla riforma crispina del ministero degli Affari esteriEsteri abbondante è la bibliografia di riferimento per la quale si rimanda a V. Pellegrini, Il Ministero degli Esteri: l’organizzazione, in Istituto Per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica, Archivio, n. 6, n.s., Le riforme crispine, Milano, Giuffrè, 1990 (d’ora in poi ISAP), t. 1, Amministrazione statale, pp. 167-269 (in particolare la nota 106) in cui si fa menzione, oltre che delle più recenti pubblicazioni, anche dei numerosi interventi apparsi ‘a caldo’.
18 La prima relazione fu letta da Damiani nella seduta del 22 gennaio 1880, la seconda in quella del 9 dicembre 1880. Esse, furono però stilate da Pisani Dossi, come risulta dalle minute manoscritte presenti nelle sue carte (ACS, Carte Pisani Dossi, b. 1, ff. 11 e 13) e dalla testimonianza dello stesso Dossi (C. DOSSI, Note azzurre, a cura di D. Isella, Milano, 1964, pp. 4748; 4758).
19 Il progetto Pisani Dossi, messo a punto su richiesta dello stesso Malvano, non ebbe alcun seguito e fu questo, probabilmente, uno dei motivi del rancore che il giovane letterato nutrì nei confronti del funzionario torinese e che, all’epoca del primo ministero Crispi, lo avrebbe spinto a patrocinare l’estromissione del Malvano stesso dall’amministrazione degli Esteri. Il progetto del 1885, non fu però una novità assoluta: esso riassunse e sistematizzò idee e proposte che Pisani Dossi aveva ripetutamente pubblicizzato dalle colonne de "La Riforma", soprattutto nel periodo dicembre 1882 - gennaio 1883, in concomitanza con i lavori delle Commissioni (istituite dal ministro Mancini con decreto 24 novembre 1881, ma funzionanti a partire dal novembre dell’anno successivo) incaricate di studiare una riforma globale del ministero e delle sue strutture periferiche.
20 Tra le proposte, in quel momento considerate ‘minori’, vi erano nella relazione Damiani del 1880, l’idea del bollettino consolare come strumento di politica commerciale e il rilievo da attribuirsi alla lingua e alla cultura italiana all’estero come strumenti di penetrazione politica ed economica; nella relazione del 1881, inoltre, si auspicava la creazione di un unico ufficio emigrazione che riunisse, non necessariamente sotto il controllo del ministero degli esteriEsteri, competenze e gestioni fino allora frammentate. Nel progetto di Pisani Dossi del 1885 l’abolizione delle direzioni generali rispondeva al duplice scopo di semplificare e razionalizzare i servizi ed era concepito in parallelo con la sottrazione al ministero di alcune competenze (come ad esempio la corrispondenza di Corte, l’ordine dell’Annunziata, le questioni di stato civile) ritenute gravose per un dicastero cui era richiesta snellezza burocratica e concentrazione massima sugli affari squisitamente politici.
21 In quel viaggio, Crispi fu accompagnato da Mayor, da Pisani Dossi e dal nipote Tommaso Palamenghi, segretario particolare alla presidenza del Consiglio. Significativa l’assenza di funzionari del ministero, che, appunto, anche in questo modo, venivano via via esautorati e delegittimati.
22 Greppi e Corti furono richiamati dalle rispettive missioni e collocati a riposo "per motivi di servizio". Ad essi fecero seguito, nelle destituzioni, il ministro plenipotenziario a Lisbona, Filippo Oldoini ed il ministro a Monaco di Baviera, Ulisse Barbolani a testimoniare la pesante sfiducia e disistima che Crispi nutriva per gli alti vertici del ministero cui, nel suo delirio accentratore, decideva di sottrarre perfino la possibilità di aver contezza delle materie di competenza.
23 In applicazione alla legge 12 febbraio 1888 e del decreto del 1° marzo successivo (la legge sui ministeri e le norme che abolivano i segretari generali), Damiani rassegnò le proprie dimissioni da Segretario generale e venne nominato, con decreto del 9 marzo, sottosegretario di Stato alla Consulta. In applicazione del successivo decreto 29 marzo 1888, che fissò le attribuzioni del sottosegretario agli Esteri, la distribuzione dei compiti tra Damiani e Pisani Dossi fu sostanzialmente paritetica, ma ben presto al siciliano rimasero solo gli affari relativi alla gestione del personale e ad alcuni aspetti amministrativi, mentre il capo di Gabinetto accentrò sulla sua persona funzioni politiche e diplomatiche nonché tutte quelle competenze amministrative in cui più spiccato era il contenuto politico-ideologico (scelta dei testi concorsuali, revisione delle pubblicazioni del ministero, ecc.). A partire dal 1890, inoltre, al Gabinetto venne aggregato l’Ufficio coloniale, allargando così le funzioni di controllo di Pisani Dossi anche agli affari relativi a possedimenti, protettorati e aree di influenza.
24 Le uscite dalla carriera diplomatica e da quella consolare, tra luglio del 1887 e febbraio del 1891, ma con un picco durante il primo ministero, riguardarono 49 funzionari, di cui 18 erano diplomatici e 17 consoli; l’incidenza di questo dato è apprezzabile se si tien conto che la consistenza media per le due carriere era rispettivamente di 88 e 154 unità cfr. F. Grassi, Il Ministero degli Esteri: la diplomazia, in ISAP, t. I, Amministrazione statale, pp. 145-146, n. 19).
25 Nelle intenzioni del presidente del Consiglio vi era, come si è detto, anche l’obiettivo di un deciso intervento sul personale, nel senso di una fusione delle tre carriere (diplomatica, consolare ed interna) e nel senso dell’immissione nei ruoli di forze nuove e giovani. Entrambi questi intenti furono, però, realizzati solo in parte: se pure si ottenne una maggiore intercambiabilità e omogeneizzazione di funzioni, all’unificazione delle carriere non si giunse; se, attraverso meccanismi come promozioni, messa in disponibilità o a riposo, pensionamenti, incentivi, si registrò un certo movimento interno negli organici che migliorò le prestazioni del personale e degli uffici, a Crispi non riuscì quel ricambio globale e radicale che si era prefisso. Vi erano d’altra parte, come lo stesso presidente del Consiglio ben sapeva, forti resistenze al mutamento, sia all’interno che all’esterno della Consulta, fondate non solamente sulla difesa corporativa delle funzioni ‘speciali’ che la diplomazia rivendicava, ma anche su timori più specificamente politici suscitati dalla maggior ingerenza del capo dell’Esecutivo e delle sue prospettive in politica estera. Sui nuovi compiti che Crispi, all’interno della generale riforma del ministero degli Affari Esteri, attribuì al corpo diplomatico e consolare, si vedano R. Mori, Francesco Crispi e la documentazione italiana sugli accordi segreti dal 1861 al 1887, in "Storia e politica", a. V, f. II, pp. 213-214; R. Mori, La politica estera estera di Francesco Crispi (1887-1891), Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1974, pp. 74-82; E. Serra, Alberto Pisani Dossi diplomatico, Milano, Angeli, 1987, pp. 31-35; F. Grassi, Il Ministero degli Esteri: la diplomazia, in ISAP, t. I, Amministrazione statale, pp. 81-165; M. Cacioli, La rete consolare nel periodo crispino, 1886-1891, Roma, 1988; F. Grassi, Il primo governo Crispi e l’emigrazione come fattore di una politica di potenza, in [Fondazione Brodolini], Gli italiani fuori d’Italia. Gli emigrati italiani nei movimenti operai dei paesi di adozione (1880-1940), a cura di B. Bezza, Milano, Angeli, 1983, pp. 49- 59.
26 Legge 11 luglio 1889 e successivo regolamento 28 novembre 1889. Già in precedenza, però, alcune norme relative alle libertà private del personale del ministero (Regolamento disciplinare per gli impiegati del Ministero degli Affari Esteri del 24 giugno 1888; circolare 12 novembre 1888) avevano cominciato a configurare sia un più marcato intervento del potere politico sugli organici amministrativi, sia il nuovo tipo di diplomatico che Crispi aveva intenzione di realizzare: veniva, infatti, fatto divieto ai dipendenti di ricoprire altri incarichi pubblici (se non dietro autorizzazione del ministro, rilasciata solo nei casi in cui egli avesse ritenuto quell’ufficio compatibile con gli interessi dello Stato); di tenere pubbliche conferenze o di pubblicare lavori di indole politica con la propria firma; di aderire a società italiane o straniere senza previa autorizzazione del ministro, di esercitare l’industria ed il commercio in qualsiasi forma; di ricoprire la carica di consiglieri d’amministrazione, o qualsiasi altra funzione, in società commerciali ed industriali. Norme che, se pure confermavano l’impronta accentratrice e personalistica dello stile crispino, avevano l’indubbio beneficio di sottrarre cariche particolarmente delicate (come quelle di diplomatici e consoli) dall’eventuale pressione di gruppi di potere economici o politici. Anche nel caso del corpo diplomatico, tuttavia, come per i prefetti, se l’iniziativa crispina rompeva effettivamente quell’osmosi tra politica ed amministrazione che aveva caratterizzato il sistema di governo precedente, essa, traducendosi in mera subordinazione del funzionario al politico, finiva col soffocare nascenti autonomie e professionalità dell’alta burocrazia.
27 Ancor più che per i prefetti, il dissenso tra ministro e rappresentante dell’Italia in terra straniera era, a parere di Crispi, motivo legittimo del ‘licenziamento’ del dipendente non allineato; molto meno che per i prefetti, però, il Parlamento, dato il carattere d’assoluta riservatezza del lavoro di ambasciatori, consoli e capi missione, aveva modo di verificare quando e fino a che punto l’agente all’estero fosse responsabile di un comportamento difforme dalle direttive ministeriali.
28 Da un punto di vista astratto, Crispi non negava nè il peso del popolo, attraverso i suoi rappresentanti, nel delineare le linee della politica estera, nè il ruolo della Corona, benché su quest’ultimo muovesse le proprie riserve e lo ammettesse solo in quanto connesso alla sopravvivenza stessa della casa regnante. Nè negava che anche l’esecutivo potesse avere una propria volontà in materia, ma dava per scontato che essa dovesse essere subordinata al principio della continuità nella condotta internazionale del paese. In tale prospettiva, proprio sul ministro doveva ricadere la responsabilità intera della politica estera, venendo questo a porsi contemporaneamente come garante di quella continuità e punto d’equilibrio tra interesse del popolo e interessi del re: "... la politica estera vive di tradizioni e non potrebbe essere rotta da mutamenti di Ministero. Se le cose internazionali interessano potentemente il popolo, interessano parimenti la dinastia, la cui esistenza può certamente dipendere da guerre, o da paci o da accordi più o meno abilmente stabiliti. Bisogna dunque trovare il modo di armonizzare le due volontà, quella del popolo e quella del re: e lo si può con l’intervento del Ministero responsabile, senza del quale nulla dovrebbe essere trattato e concluso (Scritti e discorsi, Vittorio Emanuele. La questione d’oriente, 9 gennaio 1884, da un Album pubblicato dal Circolo universitario Vittorio Emanuele di Bologna in occasione del pellegrinaggio nazionale alla tomba del Gran Re).
29 Come documenta Federico Chabod, Bismarck più volte, tra il 1879 ed il 1882, parlò infatti di "cinque grandi potenze", considerando l’Italia non essenziale ai pur precari equilibri europei (F. Charod, Storia della politica estera cit., p. 551 nota 2).
30 Come si vedrà, nel presentare quella legge, sottolineando il dovere del governo di indirizzare gli emigranti verso i luoghi ove avrebbero potuto trovare migliori condizioni di vita e maggiori possibilità di lavoro e di provvedere alla loro tutela nel paese ospite (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XVI legislatura, II sessione 1887, Documenti, disegni di legge e relazioni, n. 85, presentazione del presidente del Consiglio del disegno di legge sull’emigrazione, seduta del 15 dicembre 1887 e DP, II, Camera dei deputati, tornata del 20 maggio 1887), Crispi implicitamente elencava i compiti che ai rappresentanti diplomatico-consolari erano assegnati (cfr. F. Grassi, Il primo governo Crispi, cit., pp. 69-72).