"La logica deve curarsi di se stessa."
L. Wittgenstein
"0=0. Das ist richtig, aber es hilft uns nicht weiter."
Radon
I. La logica, come tradizione di ricerca sospesa tra l’indagine (metafisica) delle più generali leggi del pensiero e lo studio (linguistico-formale) delle configurazioni formalmente corrette dell’enunciato apofantico, si staglia su un orizzonte storico-teoretico disteso lungo i declivi aporetici di oltre due millenni di riflessione analitica. Ma - specie sotto l’influenza di uno dei punti di suggello e, al contempo, di flesso del pensiero moderno, Kant - essa tende a racchiudersi negli esclusivi confini di un ambito operativo caratterizzato dalla codificazione di modelli teorici volti a chiarire le condizioni per le quali un ragionamento risulta corretto, qualunque sia l’universo di discorso cui esso appartiene. Dopo le grandi sintesi medioevali e nonostante il "sogno" del progetto leibniziano di un Calculus ratiocinator e di una Characteristica universalis come alfabeto simbolico del pensiero, un olimpico ed impassibile Kant, nella Critica della Ragion pura, era ancora intento a ritenere la logica tradizionale del giudizio - distinta dal trascendentalismo dell’a priori - una scienza "chiusa e completa", orientata a chiarire le modalità formalmente valide del "pensiero discorsivo"; una scienza capace di elaborare, sin dai tempi di Aristotele, una topica del ragionamento, ma ad uso soltanto di "maestri di scuola ed oratori"(1) in quanto priva di qualunque autentica tensione euristica. La tradizione formale, continuava Kant, conserva una propria natura modulare, perciò "non ha dovuto fare nessun passo indietro"(2) da quando ha ricevuto una prima codificazione sistematica dalla "mente acuta" dello Stagirita, per quanto preservi, a suo avviso, alcuni noti limiti ed una serie di "false sottigliezze" che hanno reso epocalmente necessario un sistema critico delle forme dell’intelletto e delle figurazioni logiche di sé nelle configurazioni possibili del giudizio. Kant, reinterpretando Leibniz e Wolff, rappresenta in ciò uno snodo assieme emblematico ed epocale, senza con ciò dimenticare il ruolo di "filo conduttore"(3) assunto dalla logica formale nell’elaborazione della filosofia trascendentale. Anche Cartesio, del resto, aveva espresso una valutazione in larga misura omologa nel celebre Discours, intendendo "la logica, i suoi sillogismi e la maggior parte delle sue regole" atti soltanto "a spiegare agli altri le cose che [già] si sanno […] piuttosto che a impararle"(4).
Ma la solenne immobilità della tradizione logica denunciata da Descartes e da Kant equivale alla predicazione del ruolo meramente giustificativo della forma dell’argomentare da parte della stessa o piuttosto si scontra con le ritrovate ragioni di una disciplina orientata al chiarore baluginoso ed all’algida emozione della scoperta? E se il fascino del secondo corno del dilemma tende a spezzare le catene del giogo di una lunga tradizione di statico ossequio formale verso schemi di connessione proposizionale, cosa deve intendersi oggi per versione logica del classico problema epistemologico della scoperta? E, ancora, figurandosi la logica come sistema pluridirezionale, quale visione della scienza può discenderne ed imporsi? In definitiva, che cos’è la logica? Quali sono le ragioni del suo esserci?
A questi classici quesiti, profondandosi nella "variegata e per certi versi ambigua" natura della disciplina e muovendo dalla posizione di crinale assunta da Frege - per cospicui aspetti l’esecutore diretto del programma di Leibniz -, cerca di offrire una risposta critica il recente studio di Cellucci, Le ragioni della logica. In esso l’autore, senza mai separare il rigore della prudenza storica dalla dynamis di una raffigurazione ermeneutica, produce un intenso quadro esplicativo delle motivazioni fondative della logica formale contemporanea sino al limite di "una nuova visione" (p. VII) della stessa. Ciò attraverso il recupero dei significati del classico metodo analitico in funzione della ricerca di un significato fondante dell’ipotesi e mediante l’argomentazione dei limiti della identificazione attuale, da più direzioni condivisa, del metodo matematico con il metodo assiomatico. Questo comporta il superamento sia della prospettiva ontologico-gnoseologica del soggetto e delle sue facoltà, tipica del razionalismo moderno (da Descartes a Kant), sia del riduzionistico orizzonte autotetico del linguaggio logico dotato di regole morfo-sintattiche di strutturazione del significato, come il neopositivismo aveva proposto.
Il processo di rigorizzazione concettuale verso cui si era condotta la ricerca matematica in ordine alle nozioni fondamentali del calcolo infinitesimale (limite, derivata, continuità, infinitesimo, infinito matematico, etc.) - dal riduzionismo di Cauchy sino all’"aritmetizzazione dell’analisi" di Weierstrass e della sua Scuola - aveva condotto a focalizzare l’attenzione sul tema dell’analisi dei suoi fondamenti al fine di "assicurarne la certezza assoluta" (p. 3). L’individuazione di assiomi, di regole d’inferenza era quanto aveva intrapreso Frege e quanto ancora convinceva Gödel, secondo cui "[i metodi dimostrativi della matematica] devono essere ridotti a un numero minimo di assiomi e regole primitive d’inferenza, che devono essere formulati nel modo più preciso possibile"(5). La ricerca di un numero limitato di assiomi induce a classificare in termini assiomatici il metodo della logica matematica. Ciò nell’accezione più largamente formale del termine, secondo una planimetria d’intenti che è possibile scorgere sin nella proposta di Leibniz a suggello del cosiddetto "metodo assiomatico formale" rispetto a quello analitico classico. Nella proposta leibniziana - che rivive, poi, persino in Hilbert - il nuovo metodo doveva giungere a coincidere con un certo atteggiamento sintetico, capace di elaborare "un inventario delle verità già note", per poi, in nome "dell’ordine che viene prodotto", volgersi ad indagare qualcosa di nuovo. In questo modo superando la venatura intuizionistica di cui era pervaso il metodo di Descartes, e rendendo il metodo assiomatico formale "quasi un modo meccanico, [che] rende la verità stabile e visibile e (per così dire) irresistibile". In definitiva, sottolinea Cellucci, "il metodo assiomatico-formale ci dà un algoritmo che permette di decidere se una questione sia solubile solo in base ad assiomi dati" (p. 48). Va anche detto, però, che una logica formalizzata come quella di Leibniz non si sottraeva dal prevedere in sé una via per la scoperta. Non per l’invenzione, per precise ragioni anche di natura metafisica. Leibniz è, in fondo, un platonista in matematica e ritiene che i suoi enti abbiano una consistenza in sé che si può teorematicamente (linguisticamente) descrivere. Questa è la ragione per cui la prospettiva d’indagine intorno all’emblematicità del filosofo-matematico tedesco andrebbe ancor più circoscritta. E questo, ancora, è il motivo per il quale può risultare utile interrogarsi sul senso di un ripensamento del paradigma della logica matematica in funzione del tema dell’invenzione oltre che della giustificazione, intento a chiarire, quest’ultimo, la possibilità di un concetto rispetto ad un contesto formale determinato ove non porti a contraddizione, ponendosi come esistente in nome del criterio logico della coerenza.
Ad esser messo in discussione nella lettura di Cellucci è, in termini inconfondibilmente kuhniani, il paradigma stesso della logica matematica, ritenuto ad un passo dalla crisi e soggetto ai contenuti erosivi dovuti all’assalto di una nuova figurazione visiva. Varie espressioni testimonierebbero l’essere in ceppi di tale paradigma: la circolarità chiusa delle linee della ricerca, l’assenza di nuove idee capaci di tracciare inediti sfondi e di operare alla maniera del pungolo euristico della torpedine, l’angustezza dei suoi ambiti operativi dopo le ineludibili decretazioni dei teoremi limitativi di Gödel, quello della completezza semantica della logica dei predicati del primo ordine (1930) e quello della decretazione dell’impossibilità logica di una descrizione assiomatica compiuta ed effettiva della teoria dei numeri (1931). "Si ha sempre più la sensazione - scrive Cellucci - che, come nel Seicento la logica aristotelica, così anche la logica matematica abbia imboccato una via di crescente futilità in fondo alla quale non può esservi che_l’inevitabile decadenza e infine l’estinzione" (p. XV). In verità induce, da subito, a riflettere quest’impostazione tacitamente kuhniana. Essa, infatti, risulta in grado di segnalare le ragioni motivazionali della polemica del Cellucci contro il monismo logicista, ritenuto in condizione di disgregazione euristica a causa dei prorompenti effetti di un macroscopico processo d’implosione. Va ravvisato, tuttavia, che nell’opera di Kuhn la ratifica dell’oltrepassamento dello stadio paradigmatico della "scienza normale" in direzione della "crisi" - e delle iniziali peregrinazioni dell’anfanante periodo successivo di "scienza straordinaria" - è dovuta all’irrompere, entro il quadro del modello d’osservazione della natura condiviso da una data comunità di ricerca, dell’eversione dell’"anomalia" come risultanza euristica capace di violare le previsioni del paradigma dominante. È sempre, dunque, l’insufficienza del modello interpretativo dei fenomeni - o della Gestalt visiva - a sancirne la crisi sotto la minaccia di nuove inspiegabilità provenienti dai voraginosi meati del sistema dei fenomeni naturali. E, se questo schema è ritenuto valido anche in relazione alla tradizione logica dal Cellucci, si carica d’interesse l’osservazione secondo cui, in relazione alla logica matematica, il suo tuttora vigente paradigma celebra la propria crisi per lo stato d’inconcludenza di sé, non per la sfida di un’imprevista oscurità che ha da essere illimpidita con l’ausilio di nuove regole d’osservazione e di valutazione. Kuhn - non troppo velatamente - aveva innanzi il modello dello sviluppo storico della fisica nella sua incessante venatio ignoti, ma l’imperioso esordio di Cellucci, nel rievocare la dinamica della struttura delle rivoluzioni scientifiche, investe soltanto la perduta estensione di un novero di possibilità aporetiche che la logica matematica correttamente intesa non sarebbe prona a cogliere. Quanto all’anomalia apportatrice di crisi ed eterotetica rispetto al modello paradigmatico, non se ne vede, in verità, traccia. La logica matematica conserva pure una dimensione chiusa e puramente giustificativa (si ricordino le parole di Radon, riferite da Feyerabend, poste ad esergo); ma quale elemento può mai metterne in crisi la consistenza e la visibilità?
Ricorda Russell che la logica matematica, muovendo dalla rivoluzionaria impostazione formalista di Boole (1842), sino alla Begriffsschrift di Frege (1879) ed ai Gründzuge di Hilbert ed Ackerman (1928), ha acquisito piena identità di metodo in posizione d’alterità rispetto alla sillogistica classica, secondo un percorso simile alla stessa maniera in cui il metodo sperimentale ebbe ad imporsi sulle retrive speculazioni intorno alla qualità della sostanza della scienza naturale aristotelica(6). Del resto anche Couturat, ed ancor prima Bernard Bolzano, avevano giustificato, confutandola, la convinzione kantiana secondo cui la ricerca logica non avrebbe più compiuto alcun progresso dopo Aristotele in quanto minata dalla surrettizia distinzione tra logica e matematica.
Questa valutazione complessiva Cellucci sottopone con rigore a critica avanzando talune incisive precisazioni. Lo spartiacque epistemologico rappresentato dalla logica matematica getta un ostinato cono d’ombra sulla rigogliosa tradizione proposizionale classica mediante la tacita supposizione in ordine a cui, essendo quest’ultima l’altro logico rispetto alla logica formalizzata moderna, risulterebbe l’altro del suo stesso raggiunto statuto scientifico. In altri termini, assumerebbe un carattere di avulsione di sé dall’orizzonte pienamente scientifico della disciplina, secondo un certo criterio di valutazione, tuttavia, in gran parte da giustificarsi. Lukasiewicz ha, infatti, ribadito - ma lo aveva colto già Leibniz - che la teoria della dimostrazione immanente alla sillogistica si erige anch’essa su una strutturazione assiomatica e consente un uso rigoroso e massimamente astraente delle sue lettere schematiche. Ciononostante la matematizzazione della logica, con finalità metodologiche, rappresenta un carattere storicamente inedito prima della fine del secolo XIX in ordine alla disciplina logica, ed inoltre costituisce una modalità onnipervasiva d’approccio - quantunque non a senso unico e senza asfittici intenti riduzionistici - ai vari ambiti della ricerca logica.
Osserva ancora Cellucci: la pretesa compiuta utilità raggiunta dalla logica matematica è impredicabile se il suo esito estremo va ad individuarsi nella gödeliana dimostrazione dell’incompletezza necessaria di ogni tentativo sistematizzante ed esclusivo intorno alla tematica dei fondamenti di una teoria dei numeri. In questo modo Gödel non viene più inteso solo come il detrattore della legittimità del programma di Hilbert in virtù del secondo teorema del 1931, quanto alla stregua del fustigatore di ogni seduzione fondazionale di forza oltremodo estesa.
Un ingiustificato ardore, poi, cagionato da un’aura di adiacenza con il classico rigore matematico della dimostrazione, ha indotto a ritenere l’impostazione matematica (o formalizzata) della logica come "la forma definitiva" (p. XVII) assunta da questa disciplina. Si avverte, ex contrario, contrappunta Cellucci, un crescente senso di finitezza e limitazione della logica di tal fatta dinanzi all’accrescersi delle esigenze delle discipline informatiche o dei cosiddetti metodi quantitativi applicati alle scienze umane. La realizzazione del rigorismo analitico mediante formalizzazione, presentato con solennità da Frege, si è rivelata fragile ed univoca, poiché "quando la logica matematica è stata messa alla prova ne sono apparsi tutti i limiti" (p. XVIII). Da qui discendono i termini dell’intento iconoclasta dell’autore verso il paradigma formale. Atteggiamento, però, non del tutto giustificato. Esso si considerava volto a ridimensionare le garanzie d’esclusiva verità degli anapodittici schemi di classificazione logico-matematica, a favore di una tendenza più prudenzialmente confermativa dei risultati del pensiero, e "così le deficienze della logica matematica hanno finito per essere scambiate per limiti della logica" (ibid.). Ritenere, per converso, quello matematico, come uno dei modelli paradigmatici della logica, senza intenti olistici o pretese di possesso di uno statuto esclusivo di scientificità, conduce al doppio risultato di fluidificare le vie del concetto di scienza matematica e di sancire il carattere storicamente determinato di ogni corrente logica come modello di un paradigma nelle mani di una comunità di ricerca. Proprio come per Kuhn. Ed esattamente nell’ancipite senso dell’essere del paradigma, scisso tra la conferma della specificazione problematica e la ritrosia dinanzi a possibili anomalie apportatrici di crisi (si cita, al proposito, il caso di Post e del modo in cui fu accolta la sua previsione di esiti "informali" del teorema di Gödel). Intendendo con più estensione le implicazioni di una simile limitazione del formalismo, Cellucci concorda nel rintracciare proprio in Gödel le prime avvisaglie della crisi del paradigma formale: i suoi "teoremi d’incompletezza hanno posto i logici di fronte all’alternativa: o mettere la testa nella sabbia e fare come se essi non esistessero, trattandoli come scheletri nell’armadio da dimenticare il più possibile; oppure abbandonare l’idea che la logica possa garantire la certezza assoluta della matematica, ripensandone completamente le basi e indirizzandola verso nuove finalità" (p. XIX): la prima via ha praticato la logica matematica, la seconda tende confusamente ad affacciarsi nelle premesse-promesse di un riorientamento paradigmatico. Su questo punto s’innesta la proposta di Cellucci di un riavvicinamento della logica all’aporetica della scoperta in luogo della mera peregrinatio attorno alla giustificazione formale dei procedimenti di pensiero, riavvicinamento operato mediante il recupero del metodo analitico e la valorizzazione dell’induzione e dell’analogia come sentieri d’approdo all’ipotesi critica che dà avvio alla ricerca.
Ma come vanno intese l’induzione e l’analogia, procedure logiche comunque screziate dall’aleatorio? L’attacco di Cellucci è radicale e schietto: "Le nuove tematiche non si aggiungono a quelle della logica matematica ma si sostituiscono ad esse perché richiedono un radicale cambiamento di tutte le sue assunzioni fondamentali" (pp. XX-XXI). La richiesta di classificazione statistico-funzionale dei dati, proveniente dalle scienze umane, in definitiva, disarciona il re dal destriero su cui si asside con un’armatura troppo istoriata da gravose ed arrischiate insegne. Così, le soluzioni offerte dal costante impiego della logica dei predicati, ordinata assiomaticamente in un linguaggio rivolto a tali due estremi, si dimostrano "fallimentari" (p. XXI). Una conferma del sopraggiungere di tempi maturi per una resa dei conti con la logica matematica giunge dalle critiche rivoltele dalla sua area di elezione, la matematica pura, sempre più ritrosa a ricorrere al metodo assiomatico, in quanto incapace di rendere ragione di dati stratigraficamente complessi, quindi spesso in contrasto con l’esperienza o con l’esigenza di descrizione dei fenomeni (Forbus).
Inoltre, identificare l’integralità del ragionamento matematico con la sola procedura logica di tipo deduttivo risulta quantomeno fuorviante e riduttivo, per la costante possibilità di far ricorso ad altre forme di ragionamento (si pensi, per esempio, al modello di scienza sperimentale di Galileo rispetto al metodo induttivo). Museificare le configurazioni del ragionamento e celebrare i fastigi della strutturazione assiomatica equivale - osserva Cellucci - a "trascurare i processi reali della matematica" (p. XXII). Con l’inevitabile risultato di una perdita d’interesse per l’annessa filosofia della matematica ("disciplina inattiva all’incirca dal 1931" ha scritto perfidamente Mac Lane) e per le questioni da essa suscitate rispetto all’universo euristico del matematico, anche a causa di un certo saccente ruolo di primazia che essa ha talvolta assunto rispetto alla pratica algoritmica senza condizionarne oltremodo la ricerca. Ci si riferisce al logicismo maturo ed al controverso valore del suo contributo critico in sede di analitica matematica. Uno degli esponenti di maggiore autorevolezza della matematica francese contemporanea, J. Dieudonné, non ha esitato a definire, infatti, "scadente e molto carente" il ruolo assunto da Russell rispetto agli sviluppi della ricerca matematica propriamente detta, ed i suoi Principia mathematica sarebbero "un libro enorme, ma di poco valore"(7).
L’intero complesso della filosofia della matematica era sorto, come è noto, dalla riflessione di Frege che, meditando sull’aritmetizzazione dell’analisi a fondamento di un’esaustiva teoria dei numeri, aveva condotto la matematica stessa alla logica per giustificarne la natura. Da qui l’elaborazione di un programma di ricerca dalla fisionomia alquanto unitaria, quantomeno sino alla svolta decretata dalla celebre antinomia di Russell, capace di scuotere sin dai primi basamenti l’originario programma logicista (Frege, com’è noto, parlò al riguardo di "tremori aritmetici"). Ne segue un intenso e variegato dibattito che giunge ad investire il confronto intorno alla "natura degli oggetti matematici", le cui voci di maggior rilievo vanno dal realismo platonistico dello stesso Frege al formalismo di Hilbert sino all’intuizionismo di Brouwer. Ma dopo il fallimento (totale o parziale) di tali programmi, la filosofia della matematica ha trascurato - secondo Cellucci - taluni temi di urgente cogenza problematica per il matematico stesso. Raccolti dall’autore con commendevole spirito di sintesi, essi investono problematiche quali il rapporto fra dimostrazione e risultanza di un’istanza tetica, il modo in cui si ottengono nuove conoscenze matematiche, il significato logico della deduzione nell’atto del ragionamento matematico, il ruolo dell’annotazione e della definizione, il ruolo dell’errore nella dimostrazione, il significato della matematica come linguaggio di strutture da applicarsi, secondo certe condizioni, alla descrizione della fenomenologia del mondo fisico. Un lungo filone teorico, di ascendenze neopositiviste, ha considerato di natura metafisica l’esigenza di risoluzione di tali temi, ma il loro valore rimane invariato e solo l’auspicato cambiamento di paradigma - insiste Cellucci - può indurre a rifocalizzarne i termini. Come dinanzi ad ogni prospettiva di mutamento di punto di vista, le resistenze si rincorrono, con il rischio - rileva l’autore - che "le nuove idee, piante ancor esili e delicate, appassiscano e muoiano invece di fiorire rigogliosamente grazie al concorso di molti" (p. XXIV). Così, lo scopo del libro può riassumersi nel proponimento di "riconsiderare le ragioni della logica matematica mostrando quanto poco esse siano ancorate alla realtà, presentare le ragioni della nuova logica" (p. XXV). Ciò secondo un organigramma teoretico che si riconduce ai grandi e decisivi snodi, rintracciabili nella storia del pensiero, della discussione intorno alla natura della conoscenza, tra verità e certezza, logica e linguaggio. Il tutto al fine di escogitare risposte plausibili intorno alle dette domande, inesplorate tanto dalla logica matematica quanto dalla filosofia. Una rivoluzione della logica nella logica è quanto invocato da Cellucci, con la radicalità e la spregiudicatezza tipiche con cui una rivoluzione determina la sostituzione del paradigma dominante.
L’autore argomenta le ragioni di questo percorso esaminandone le principali cellule di raccordo, riflettendo sulle modalità con cui, muovendo dall’algebra della logica di Boole, Frege è giunto a trattare il concetto di numero in termini di classi, ritenendo la matematica "logica travestita". In tal modo spettava soltanto alla speculazione logica trattare, in chiave giustificativa e fondazionale, conoscenze acquisite, di contro al paradigma analitico che aveva avuto nell’antichità classica, con Aristotele, il suo primo e forse più alto punto di fulgore.
Frege viene ritenuto anticipato, pur fra mille cautele, da Pascal, e la sua prospettiva relata alla logica classica per dimostrare quante linee ininterrotte di continuità possano intravvedersi. Cellucci sottolinea, poi, il decisivo ruolo assunto dall’intuizione in seno alla conoscenza matematica, capace di offrire un ulteriore elemento di contatto tra Pascal e Frege. Intuizione intesa come sinonimo non poi tanto lontano di "immaginazione scientifica", nel senso della celebre tripartizione delle sue forme teorizzata da Holton (visiva, metaforica e semantica). Ma anche al modo di "invenzione" alla maniera di Poincaré, da sempre perplesso dinanzi alla presunzione della logica di poter rendere ragione del continuo sviluppo della ricerca matematica. Una lunga disamina, a seguire, conduce Cellucci ad appianare i complessi articolati teorici a suggello della concezione della matematica come sistema concettuale chiuso (Kant, Frege, Hilbert). Non senza giungere a riflettere, con ciò, sulla posizione dell’analisi in un’impostazione teoretica di tal fatta, allo scopo di una rivisitazione rigorosa del significato emblematico dell’opera di Tarski, di Gödel e di Zermelo. A tale altezza, la raffinata struttura assiomatica dei sistemi logici chiusi viene valutata al lume dei suoi complessi limiti, gravitanti tutti in larga misura attorno al problema della scoperta, all’incapacità d’intendere sistemi di conoscenze in evoluzione (capp. 6-7) o alle trascuratezze in merito al ruolo dell’ipotesi e delle interazioni dinamiche fra sistemi e parabole aporetiche. Per sottolineare la polisemica valenza del metodo analitico, Cellucci ne rievoca le origini in Ippocrate e Platone, mostrando come già la logica di Port-Royal costituisse la prima vivida espressione del suo accantonamento storico ed epistemico (cap. 8). L’auspicato riorientamento paradigmatico viene identificato nella rivalutazione del metodo analitico, interpretato come un tentativo di concepire la matematica alla maniera di un sistema concettuale aperto, integrando lo stesso con le strumentazioni logiche dell’induzione e dell’analogia onde codificare i termini d’espressione dell’ipotesi in funzione di un ragionato sviluppo della scienza (cap. 10). Con ciò contemperando un’analisi strutturale delle vicende analitiche della ricerca logica con un’indagine dello sviluppo storico del suo itinerario euristico, quantunque risulti di frequente screziata, quest’ultima, dall’applicazione dello schema interpretativo del precorrimento.
In entrambe le accezioni assumibili dal concetto di analisi - come "scomposizione di un composto nelle sue parti" e come "riduzione di un problema ad un altro" (pp. 349-350) - si riscontra la difficoltà d’individuare un ruolo per l’ipotesi. Ma anche di pensare il metodo che vi inerisce come via per giungere ad essa, per quanto questa seconda accezione addotta offra non poco rilievo alla tecnica dell’analogia. Cellucci sottopone a verifica la probatività di procedimenti quali l’analisi, l’astrazione e l’abduzione come processi di scovo dell’ipotesi. Gran rilievo viene offerto nel libro a quella forma singolare di deduzione debole che è l’abduzione (di peirceana memoria, ma, in fondo, già del tutto aristotelica), sebbene la diafana rigorosità insita nell’"atto creativo" (p. 346) della scelta imponga la valutazione di altre possibilità.
"Altro candidato" potrebbe essere l’"induzione (a particulari ad universale)": assai noto è il dibattito che questa modalità logica di cogliere la definizione dell’universale ha alimentato nella storia del pensiero (da Aristotele a Bacone a Popper, da Euler a Russell e Quine), con il costante riconoscimento dei suoi limiti, salvo sporadici entusiasmi; Cellucci induce a rifocalizzare l’attenzione su tale procedimento, dal momento che esso consta "di più tipi di ragionamento": v’è la proposta di Mill, l’accumulazione graduata di casi di Russell, ma anche la messa in guardia contro la doppia negazione da parte di Hempel, pertanto la varietà semasiologica del termine, proprio in quanto non univoca, non è suscettibile d’immediata falsificazione in quanto non immediatamente identificabile.
L’ultima parte del volume tratta del ruolo dell’analogia. Scriveva Kant nella Logik Dohna- Wundlacken: "[…] se due cose concordano sotto tante determinazioni quante ne ho potuto apprendere, allora io inferisco che esse concordano anche nelle altre determinazioni. Io dunque inferisco, da alcune determinazioni che conosco, che anche le altre apparterranno alla cosa"(8). Schematizza Cellucci l’inferenza analogica: "se P(a) e b è simile ad a, allora P(b)" (p. 367). Segue l’illustrazione della veste semantica del concetto di similarità, retto, di volta in volta, sul criterio dell’eguaglianza della forma, sull’uguaglianza della proporzione e sulla vicinanza degli attributi degli enti analoghi. Si descrive, in tal modo, la relazione che lega induzione ed analogia: se "ogni inferenza induttiva è analogica in quanto presuppone una somiglianza fra i casi" ed "ogni inferenza analogica è induttiva in quanto inferisce che, se due cose concordano tra loro rispetto a certe proprietà, dovranno concordare anche rispetto ad altre proprietà" (pp. 375-6). Naturalmente la detta connessione perde legittimità nella considerazione dell’analogia negativa, ma rimane viva e fulgida nella constatazione che due dei procedimenti di elaborazione dell’ipotesi, la generalizzazione e l’analisi delle dimostrazioni, s’imperniano proprio su induzione ed analogia.
In quest’itinerario "verso una logica della scoperta" (p. 379), Cellucci ritrova Laplace e riscopre la possibilità della scoperta, quantunque assuma esile carattere logico il tipo di risultanza che la modalità della loro inferenza offre. La certezza della regola ingessa la logica nella mera conferma di un eterno già-dato. "Basarsi su processi fallibili - scrive Cellucci - come l’induzione e l’analogia, rinunciando alla certezza propria delle regole logiche, non è un limite, anzi è una scelta necessaria se si vuole che la logica sia ampliativa e feconda" (p. 380). L’esser stati influenzati dall’autorità del rigore della regola, secondo l’autore, ha impedito a Cartesio e a Leibniz, nonché a Hilbert, di offrire qualcosa di più che un semplice baluginio alla logica della scoperta. Ma l’aleatorio immanente ai sistemi logici di rilievo dell’ipotesi non può nemmeno, secondo un ordine di confronto schiettamente epistemologico, dirsi l’antipode della logica fregeana della giustificazione, quella logica dell’esigenza "di porre la verità di una proposizione al di là di ogni dubbio"(9). Quest’ultima non è riuscita ad evitare di soccombere sotto la scure per così dire idoloclasta del secondo teorema di Gödel, quello dell’impossibilità di una giustificazione assoluta di alcuna delle teorie fondamentali della matematica: "parlare di certezze del metodo assiomatico - osserva Cellucci - è un non senso perché nessun sistema assiomatico può essere più certo dei suoi assiomi, e di questi non si può dare alcuna giustificazione assolutamente certa" (p. 381). Una logica matematica della scoperta, secondo l’autore, per coordinare logica della scoperta e logica della giustificazione, sopperisce alla sua fallibilità con l’ampiezza dello spettro della scoperta. Essa traccia, integrandosi dall’interno di sé, una terza via. Essa, inoltre, "ammette il carattere strutturale ed ineliminabile dell’incertezza e cerca di costruire su di esso" (p. 382), non più segugio di vetusti sogni di sistematica esaustività, ma strumentale nonché fedele Acate dell’insopprimibile seduzione dell’espansione indeterminata dei confini del conoscere.
Cellucci effigia, in questo prezioso e controverso volume, l’immagine di una logica in movimento, capace di rispondere alle esigenze vive e poliedriche di un’epoca retta dalla categoria della complessità. Ciò senza dimenticare, tuttavia, il ruolo della storia e la necessità di comprendere i legami delle influenze teoriche elongatesi lungo i secoli per cogliere appieno tutti gli ardui elementi di una tematica. La sterminata ricchezza di una massa di riferimenti di amplissima latitudine e la notevole capacità di tenere fermo il punto di vista, contemperando le linee dell’interpretazione con i tratti dell’identità storica dei problemi, caretteristiche proprie dello studio di Cellucci, evitano spiacevoli naufragi verso la deriva di preponderanti e sterili schemi unilineari d’interpretazione o perdite d’equilibrio tra i punti aporetici in tensione dello studio.
Nella delineazione dei percorsi di costituzione della prospettiva logico-matematica scandita dai suoi epocali allogamenti euristici, Cellucci induce ad osservare che esistono certamente padri (Aristotele, Frege), ma non numi tutelari al cui cospetto recarsi per offrire la propria dose quotidiana di genuflessioni. Ed in questa visione assieme storica ed epistemica delle ragioni della logica il tragitto che conduce verso il sostegno di un sistema concettuale aperto oltre il grande baluardo della logica matematica appare non solo anelato, ma addirittura inevitabile, quasi metafisicamente necessario, alla luce del modo in cui risulta essere presentato. La vigile persuasione dell’intrisione diacronica delle aporetiche realizza un raro equilibrio in una simile rigorosa rappresentazione dell’immagine multiforme della disciplina logica. Eppure sembra che la logica non abbia storia, quantunque possano risultare datate - e, dunque, cariche di valenze diacroniche - le esigenze dei punti di movenza delle sue elaborazioni. La logica matematica è la principale responsabile di quest’impressione, ma la sua tautologica ricerca della validità delle regole dimostrative in chiave meramente giustificativa trasforma la sottrazione di senso alla successione storica in nome di un definitivamente raggiunto punto d’approdo in un’arida museificazione. Il paradigma che essa rappresenta rimane tuttavia un luminoso esempio, lacerato dai suoi stessi limiti, di costruzione di una scienza corretta della dimostrazione. Non in assenza di quel senso (filosofico) di rassicurazione che la certezza offre entro angusti e controllati spazi, immemore ed incommossa dinanzi al guanto di sfida lanciatole da un ordine più intricato di complessità. In questo senso il volume presenta un singolare connettersi di epistemologia e di storia, in relazione stretta ai risultati più conclusivi della logica moderna che, secondo un largamente condiviso disegno, con Boole e Frege celebra la propria cesura rispetto alla tradizione. Con lo studio di Cellucci tali stereotipie vengono meno. Nella corsa alla logica della scoperta sono Leibniz e Kant a fare da tratto d’unione tra due tradizioni logiche pur sostenute da costitutive finalità differenti. Ciascuno degli apportatori di contributi viene letto alla luce della complessità relazionale delle tematiche che, vivide nella loro opalescente identità, pur variano. Nel variare risultano inesaustive per le richieste di un altro tempo, ma continuano a condizionare le ricerche di chi si fa carico delle "esigenze di verità" di una nuova temperie spirituale. Così, pensare la logica significa realizzare la rappresentazione degli strati delle sue aporetiche, senza preconcetti e sceveramenti, quantunque edotti della variabile significatività del loro valore euristico. Ed in ciò si concretano i tratti di un’ermeneusi complessiva dell’intero fronte tematico della logica.
II. Nel tracciare le linee di una nuova logica della scoperta, Cellucci ricorre expressis verbis a termini quali paradigma e mutamento che, secondo la nota scansione ordinata di Kuhn, richiamano nel loro interstizio il concetto di crisi. A quest’altezza, però, dopo aver esposto gli articolati orientamenti del testo di Cellucci, giunge il momento di consentire a qualche rilievo di vedere la luce.
Il paradigma della logica matematica è ritenuto in crisi di stallo, ma non risulta del tutto chiaro, sul piano epistemologico, se la nuova via auspicata di apertura concettuale all’ipotesi ed all’ampliamento sintetico di conoscenze sia collocabile nei parametri espressivi di un nuovo paradigma o se, piuttosto, vada intesa come un adeguato ammodernamento della solida piattaforma della stessa logica matematica. Tutto ciò alla luce del fatto che quest’ultima tradizione di ricerca non sembra aver totalmente trascurato il contesto della scoperta visto che è riuscita, per molti versi, a modificare il proprio dogmatismo originario attraverso il coglimento degli adeguati stimoli provenienti da note esperienze epistemologiche più direttamente orientate a meditare sulle dinamiche logiche della scoperta scientifica. Ed altresì inquieta alquanto la generalizzazione dei termini scienza e logica matematica. Pur intendendo, per tacita convenzione, cosa debba intendersi prima facie per scienza, sebbene, di solito, la complessità del termine scoraggi dinanzi alla velleità d’offrirne una definizione, si carica di maggiore difficoltà la scelta di denominare con un solo termine la poliedrica e polisemica tradizione moderna della logica matematica. Risultano vigorosi i capitoli dedicati da Cellucci ai suoi principali nodi problematici. Ma è alquanto problematica la condivisione, in questo quadro delle prospettive epistemologiche della logica contemporanea, della convinzione dell’autore di poter creare una categoria unitaria di riferimento (il paradigma della logica matematica, per l’appunto) che, per la coerenza del restringimento entro sé, finirebbe con il trascurare le costitutive differenze in nome dell’unità del quadro teorico.
Si tratta, è bene ribadirlo, di un’interpretazione a largo raggio, la quale si propone come un progetto in divenire, sostenuto da un fronte vario di esperienze pregresse; così la micrologia della prudenza storica potrebbe anche produrre l’effetto di un qualche stridore perso fra gli echi di una possente voce. Ma dalle esili sonorità discendono, spesso, proficui accordi. Tuttavia, permanendo nell’alveo dello schema di Kuhn adottato da Cellucci, permane ancora qualche ostinata oscurità intorno alla direzione del proposto riorientamento del punto di vista. Ciò dal momento che se un nuovo paradigma, i cui virgulti sono incoraggiati dalle anomalie, travolge quello precedente, com’è possibile parlare simultaneamente di nuovo paradigma e, nello stesso tempo, di ampliamento di quello in actu? Scrive al riguardo Cellucci: "[…] il nuovo paradigma logico deve aprire una via più comprensiva della logica matematica, per affrontare i problemi che essa ha ignorato o non ha saputo affrontare". E di seguito: a fronte di "soluzioni innaturali, goffe, contorte, inefficienti e in ultima analisi fallimentari […], per trovarne di più soddisfacenti occorre un nuovo paradigma logico" (p. XXI). Cosa rappresenta, dunque, il nuovo paradigma? Cosa c’è di nuovo nell’ammodernamento del vecchio? Se si tratta di "aprire una nuova via più comprensiva della logica matematica", la stessa non sarebbe più tanto sorda al contesto della scoperta, visto che ad essa si volge la "nuova via", o, quantomeno, v’è, nella sua vocazione alla semplice giustificazione, il seme euristico fondante un sistema concettuale aperto. Ma, se è così, non ci si intende del tutto intorno all’abusato termine paradigma, il significato addotto del quale tradisce una non remota fiducia di Cellucci nella capacità, da parte della logica matematica, di autoreformarsi alla luce delle nuove richieste di concettualizzazione della nuova temperie di ricerca del nostro tempo, richiedendole, in tal modo, forse, uno sforzo estraneo alla sua natura.
Nella predicazione della rilevanza fondativa della logica matematica, al cui sviluppo generazioni congiunte di logici puri (Frege, Church) e di matematici (Hilbert, von Neumann, Gödel) hanno fornito energie, e nell’indicazione della condizione di stallo in cui versa lo stato attuale delle sue ricerche, tende ad evidenziarsi una non del tutto corretta sua coerenza rispetto alla filosofia della matematica, dal momento che si presume che la perdita d’interesse per la logica imponga un conseguente scadimento d’attenzione verso la medesima area della ricerca filosofica. Il suo sviluppo, in senso moderno, è stato necessitato dall’esigenza matematica di evidenziare la certezza dei fondamenti di sé, a seguito di quel programma di rigorizzazione concettuale delle nozioni fondamentali del calcolo infinitesimale che aveva impegnato Cauchy e, poi, Weierstrass e Dedekind con la detta soluzione dell’aritmetizzazione dell’analisi. La riduzione dell’intera matematica all’aritmetica originerà, come è noto, un folto dibattito che troverà uno dei suoi esiti più originali nell’elaborazione dei cinque assiomi fondazionali di Peano. Su questo nodo - costituito dalla irreduttibilità del numero naturale e, per conseguenza, dell’aritmetica tutta - s’impernia il confronto sulla fondazione logica della teoria dei numeri secondo la soluzione logicista di Frege e quella insiematica di Cantor e, nel Novecento, secondo le prospettive del formalismo di Hilbert e dell’intuizionismo di Brouwer. Dunque, la logica matematica sorge da esigenze fondazionali di tenore schiettamente filosofico. Questa convergenza legittimista e rigorizzante fra logica e matematica non può essere trascurata nel processo di comprensione delle aree disciplinari di pertinenza dell’aporetica della logica matematica contemporanea.
Quest’ultima ha davvero fatto il proprio tempo? La posizione di Frege, pur riconosciuta da Cellucci nella sua grandezza e ritenuta un rigoroso baluardo di fortezza, è del tutto annullabile in ordine al rilievo della sua valenza euristica? Il punto di vista proposto dall’autore appare, forse, espresso con eccessiva radicalità. Ciononostante esso risulta, in definitiva, una brillante interpretazione degli sviluppi della logica postfregeana ed un promettente momento epistemologico di problematizzazione, eretto su una profonda conoscenza dei suoi sviluppi storici e strutturali. Anche al lume della persuasione dell’autore della possibilità d’integrare la logica in funzione di una più ampia teoria dell’invenzione e della scoperta, superando di slancio, così, rigidi schemi di bivalenze veritative, in nome del proficuo allentamento di quella tensione fondazionale che già Quine si era proposto di realizzare nel ripensamento, esposto in termini di "stratificazione", della scala gerarchica della tipica russelliana. Ed in ciò sottolineando le diverse modalità linguistico-sintattiche di elaborazione del significato e dei suoi modelli rispetto alla struttura dei vari linguaggi.
Si è già osservato, a proposito della proposta di variazione paradigmatica, che lo studio di Cellucci risulta lacerato dall’indecisione circa l’opportunità, da un lato, di un ricupero del retaggio di una florida tradizione inchiodata al suo statuto di mera giustificazione e, dall’altro, del salto nel vuoto in un’ancora troppo incoativa logica dell’invenzione. Già la nascita della teoria delle "funzioni ricorsive", sorta in seno al programma di Hilbert, ed il successivo sviluppo della logica combinatoria (Schönfinkel) avevano aperto nuove vie all’indagine logica (come le "varianti combinatorie" di Haskell Brook Curry ed il calcolo della "l-conversione" di Church), e, dopo Gödel, la teoria dei modelli non ha tardato a celebrare la complessità di sé. Premesse tutte di una costante tensione all’accrescimento delle tradizionali aree problematiche delle applicazioni logiche, specie a seguito dello sviluppo degli studi sull’intelligenza artificiale, alle cui interazioni con le tematiche logiche si devono i successi delle logiche modali, delle logiche temporali, delle logiche epistemiche o delle teorie della dimostrazione automatica, in costante Auseinandersetzung con il teorema di Church del 1936 sull’indecidibilità del concetto di legge logica, per dare senso alla ricerca dei cosiddetti "dimostratori automatici". L’universo tematico della logica contemporanea è caratterizzato da un piano teoretico che è possibile definire metametalogico, dal momento che studia proprietà di classi di logiche. È in discussione, infatti, il problema della classificazione tipologica della varietà di logiche possibili con la relativa ricerca della semantica adeguata agli elementi costitutivi di ciascun tipo. A questo proposito va citato Kripke e la sua "semantica dei mondi possibili" che ha trovato applicazioni in vari campi della linguistica (Grammatica di Montague) e delle logiche intensionali, volte a costituire, queste ultime, teorie intensionali degli insiemi (Feierman, Aczel, Bealer).
Ma nell’universo logico sono costellazioni definite anche la logica paraconsistente dello studio della "compatibilità con la contraddizione" di Jaskowski e da Costa, le logiche libere come sistemi svincolati dall’assunzione, di contro alla logica dei predicati classica, che ogni termine singolare possa esser denotante o le logiche polivalenti dell’allargamento dei valori di verità, tipicamente indeterministiche (Lukasiewicz, Post, Kleene, Bochvar). Il quadro, dunque, di tali vie risulta vario e vivace d’espressioni dinanzi all’incalzare della scienza informatica o alle richieste della traslazione in ordini formalizzati delle prescrizioni (logiche deontiche) o del controllo dei valori della possibilità. Al punto da esprimersi, dopo Rosser, Turing e Post, con categorie di elevato spessore epistemologico, oltre che strettamente formale, come analisi di "operazioni effettivamente eseguibili". E per quanto ciascuna di esse sia legittimamente sussumibile nello spettro cromatico del paradigma della logica matematica, ci si avvede di quanto complessa sia questa tradizione di ricerca e di quanto problematico possa risultare denominarla univocamente. Si fanno strada altre superfici d’applicazione della disciplina, si moltiplicano le logiche con inevitabili complicazioni d’ordine soprattutto filosofico, e di questa frammentazione è dolente Cellucci. Va, tuttavia, considerato che proprio un’estensione così vasta e proteiforme consente, in alcune sue direzioni, di gettare luce su sistemi linguistico-tematici ancora minati dall’aleatorio ed ingiudicabili con i classici schemi logici dicotomici vero-falso. Per simili ragioni e per l’ambivalenza di un rapporto con la tradizione ramificatasi con risultati, talvolta, di estrema proficuità euristica, si è parlato di progetto ad uno stadio ancora incoativo in afferenza alla logica dell’invenzione evocata da Cellucci.
In fondo l’opera di quest’ultimo presa qui in esame è complessivamente interpretabile come un’indagine orientata a centralizzare il ruolo dell’ipotesi facendo della logica un sistema concettuale aperto. È valsa, qui, la lezione d’apertura all’avventurosità della ricerca intellettuale di Popper nel seguire il valore della congettura, e l’ultima parte del volume vale come una prima vindemiatio critica delle modalità d’insessione di induzione ed analogia nel cuore di un rivitalizzato metodo analitico. La valorizzazione dell’analisi avviene mediante l’ampliamento del significato complessivo dell’inferenza, la delineazione dei limiti di realizzabilità della teoria della dimostrazione nei sistemi aperti e la valutazione dell’incompletezza intesa come un memento critico, non al modo di un momento di crisi o di circolare chiusura entro sé della ricerca. L’epilogo dello studio, per conseguenza, va inteso come il prologo di un promettente itinerario di ricerca ed in funzione polemica dev’essere letta la radicalità della tesi proposta, dal momento che solo il fuoco del polemos - argomentato e mai preconcetto - giunge a fluidificare i percorsi del pensiero. Proprio contro i pelasgici tesari o i rigidi mansionari che una certa lettura dell’arida natura della disciplina ha incoraggiato tuona Cellucci, al fine di suscitare quella radiosa ariosità tipica dell’apodissi e per integrare un’ormai anodina ricerca (murata in sé) delle certezze di una teoria univoca della dimostrazione, per renderla capace di seguire il divenire vorticoso dell’evento nel costante pericolo di perderne di vista le sfuggevoli fattezze. Nel suo rigore costitutivo la logica è la libera ricerca non tormentata ma pungolata dalla possibilità dell’errore, nell’abito ottimistico tipico di chi, persuaso di potersi imbattere in esso, dopo il disagio iniziale, trae vantaggio dall’averlo smascherato e riconosciuto per sancirne lo statuto ed evitare ricadute o ulteriori smarrimenti: la via della verità passa attraverso l’onere dell’errore e la fierezza del vero si sostiene proprio dal contrasto con il rossore dell’erroneo.
"La logica della scoperta […] ammette il carattere strutturale ed ineliminabile dell’incertezza e cerca di costruire su di esso" (p. 382) mediante un metodo analitico "dotato di procedure di controllo" dell’anomalia. Da qui la conclusione di Cellucci che vale come un elogio dell’imperfezione ed un inno alla potenza della ragione posta dinanzi ai suoi oggetti e, infine, a se stessa: "La logica della scoperta riconosce l’illusorietà dello scopo di garantire la certezza assoluta della matematica e lo sostituisce con quello di fabbricare strumenti per l’ampliamento della nostra conoscenza, soggetti all’alea dell’errore proprio di tutte le costruzioni umane. Lo scopo della conoscenza non è quello di eliminare l’incertezza ma è piuttosto quello di insegnare a diffidare delle proprie certezze, e a ciò deve mirare una logica della scoperta" (ibid.).
NOTE
* Note critiche a margine di C. CELLUCCI, Le ragioni della logica, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. XXVIII-408.
(1) -I. KANT, Critica della Ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, 2 voll., Laterza, Bari, 1972, v. I, p. 266.
(2) Ivi, p. 15.
(3) Cfr. ivi, pp. 104-5.
(4) -R. CARTESIO, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, 4 voll., trad. it. di G. Galli, E. e M. Garin, Laterza, Roma-Bari, 1991, v. I, p. 302.
(5) -K. G…DEL, The present situation in the foundation of mathematics, in Collected Papers, a cura di S. Feferman et al., Oxford, University Press, 1986-’95, III, p. 45.
(6) -Cfr. B. RUSSELL, Our Knowledge of External World, Allen & Unwin, London, 1926, pp. 68-69.
(7) -J. DIEUDONNƒ, "Logica e matematica nel 1980", in P. ROSSI (a cura di), La nuova ragione. Scienza e cultura nella societˆ contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1981, p. 16.
(8) -I. KANT, Logik Dohna-Wundlacken, in Gesammelte Schriften, hrsg. von Kšniglich Akademie der Wissenschaften, Berlin, 1900 ss., XXIV Bd., p. 772.
(9) G. FREGE, Die Grundlagen der Arithmetik, Olms, Hildesheim, 1962, p. 2.