Salvatore Muscolino PRIMI SAGGI Osservazioni rosminiane_alla concezione giuridica di kant

A partire dagli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale si è aperta una terza fase degli studi rosminiani, fase che ha avuto come obiettivo quello di riportare alla luce un Rosmini diverso da quello conosciuto dai suoi contemporanei e, soprattutto, dalla tradizione storiografica idealista che ha avuto nell’opera dello Spaventa e del Gentile due punti di riferimento fondamentali. Se sulla prima interpretazione storica del Rosmini pesa negativamente un giudizio di condanna della Chiesa nei confronti del Roveretano, accusato di essersi allontanato dal "tomismo ufficiale", l’opera dello Spaventa (1) apre invece un indirizzo di studi destinato a snaturare il pensiero del Roveretano e anzi, per usare le parole di M. F. Sciacca, uno dei massimi interpreti del Rosmini, a "fargli dire di proposito diversamente da quel che ha pensato" (2). A partire dalla metà degli anni ‘30 si apre una fase nuova: autori come Solari, Bulferetti, Piovani, il già citato M. F. Sciacca e altri ancora, cercano di fornire un quadro del pensiero rosminiano basato quanto più possibile su una visione d’insieme degli scritti del Roveretano, dalle opere giovanili alla Teosofia. Rosmini viene letto e studiato in un contesto più ampio, quello della Restaurazione, con lo scopo di chiarire sia le matrici storiche del suo pensiero, sia di coglierne i caratteri originali. E’ soprattutto grazie a questi studi che il pensiero del Roveretano, con il suo accento sul concetto di "persona", viene inserito e valutato alla luce della più genuina tradizione cristiana da S. Agostino a S. Tommaso. Sono proprio i valori cristiani che Rosmini vuole recuperare e riproporre in un mondo ormai cambiato, sconvolto dalla Rivoluzione francese e dall’età napoleonica. Per difendere la "persona" cristianamente intesa, egli non esita a combattere tutto ciò che ad essa si oppone: razionalismo, sensismo, empirismo, idealismo Autori come Locke, Hume, Rousseau, Condillac, Kant sono oggetto di puntigliose critiche volte a mettere in luce gli aspetti più "empi" delle loro dottrine le cui conseguenze erano il soggettivismo morale, la negazione dell’esistenza di Dio e, in ultima analisi, la negazione della dignità umana come testimoniano gli esiti politici e sociali della Rivoluzione. "Abbiamo estremo bisogno di una filosofia che possa appagare i bisogni del tempo, di una filosofia sostanziosa insieme e cristiana. Egli è estremamente difficile congiungere queste due qualità; ma mi conforta ad ogni modo anche quello che in arduis voluis sat est" (3).

Ed è questa dimensione squisitamente cristiana del suo pensiero quella che, forse, è sfuggita alla storiografia idealista, cioè tutti coloro che hanno visto o si sono sforzati di vedere un possibile accostamento di pensiero tra Rosmini e Kant (4).

Rosmini, consapevole della grandezza del pensatore tedesco, esprime tale giudizio nei suoi confronti: "Il contagio del suo secolo e il protestantesimo lo pervertì: egli condusse gli assurdi del suo tempo alle forme più filosofiche e più perfette; dotato sì di gran possa di mente, che qualora si fosse aiutato dei principi cattolici, poteva erigere un immortale monumento scientifico alla verità" (5). Alla critica intellettuale si affianca un giudizio di grande stima, ma l’ammirazione per una mente che in "potenza" avrebbe potuto fornire un valido contributo alla causa cattolica non trasforma gli apparenti punti di contatto tra i due pensatori in una sostanziale omogeneità.

In questa sede ci occuperemo della problematica giuridico-politica e di come quegli aspetti, che a prima vista potrebbero sembrare comuni ai due pensatori, in realtà sono il frutto di due progetti filosofici radicalmente diversi: la difesa della proprietà, la separazione dei poteri, il suffragio elettorale censitario, tutti elementi presenti in entrambi i sistemi ma frutto di esigenze profondamente diverse.

Siamo convinti di queste differenze e lo era anche Rosmini, ma siamo anche convinti, e cercheremo di dimostrarlo, che, spesso, le accuse mosse dal Roveretano al grande pensatore tedesco in sede giuridica siano il frutto di parziali fraintendimenti del sistema filosofico kantiano, specie dei rapporti esistenti tra il diritto e la morale. Le critiche mosse da Rosmini alla dottrina giuridica kantiana, nella Filosofia del diritto, non costituiscono un tutto organico, una trattazione sistematica: sono osservazioni, appunti che il Roveretano dissemina nella grande opera e che abbiamo raccolto e utilizzato anche come base per un discorso critico sul pensiero giuridico-politico di Kant.

Storicamente il problema del rapporto diritto-morale nella filosofia kantiana è ampiamente controverso. Alcuni (6) ritengono che tra la morale e il diritto nel sistema kantiano non vi siano soluzioni di continuità e che anzi essi siano in netta opposizione. Altri (7), invece, sono convinti che non esista una contrapposizione forte tra i due ambiti e che anzi morale e diritto svolgano tra loro una funzione complementare (8).

Noi ci inseriamo in questo secondo filone, ritenendo che morale e diritto siano, nel sistema di Kant, due ambiti contigui e anzi cercheremo di dimostrare, tramite le critiche rosminiane, come le contraddizioni interne al pensiero giuridico-morale kantiano siano dovute alle premesse stesse del sistema.

Come punto di inizio della nostra analisi è bene considerare la definizione di diritto che i due autori rispettivamente forniscono. Così Rosmini: "Il diritto è una facoltà di operare ciò che piace, protetta dalla legge morale, che ne ingiunge ad altri il rispetto" (9), laddove la famosa definizione kantiana suona: "Il diritto è dunque l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro" (10).

Ed è già dalla definizione di diritto che Rosmini prende le distanze dal pensatore di Kšnigsberg, sia nella sua Storia comparativa e critica dei sistemi morali intorno al principio della morale sia nella Filosofia del diritto la quale, come abbiamo detto, ci interessa più direttamente. Il "principio di coesistenza", così come viene chiamata da Rosmini la definizione del diritto in Kant, viene criticata nella Filosofia del diritto prima sul versante della sua "essenza" poi come strumento da cui ricavare gli altri diritti, cioè quello che l’Autore chiama "principio di derivazione dei diritti". Le stesse argomentazioni vengono usate per criticare la definizione di diritto sotto i due punti di vista, quindi, per comodità di esposizione, tratteremo solo delle seconde. Innanzitutto, il "principio di coesistenza" non includerebbe necessariamente un carattere morale sia che esso valga come "regola logica" per non cadere in contraddizione con il "fatto" della società, sia che esso sia il frutto di una "regola di mera prudenza"per rispondere all’esigenza di sopravvivenza reciproca: in entrambi i casi, sostiene Rosmini, la morale rimane esclusa. Soprattutto nel secondo caso, che Rosmini ritiene l’esatta interpretazione della formula kantiana, la fondazione morale del diritto viene sostituita da un movente meramente utilitaristico, cioè l’interesse egoistico a conservare la propria esistenza. Tale accusa di utilitarismo (sebbene Rosmini non si esprima in questi termini) sembra colpire nel segno per le seguenti ragioni: Kant afferma che ciò che caratterizza l’agire morale è il "dovere", poiché l’azione è compiuta solo per suo rispetto e non per altro fine; ma il diritto è ciò che caratterizza lo stato civile come contrapposto a quello di natura. Kant afferma che "l’uomo deve uscire dallo stato di natura, e unirsi con tutti gli altri (coi quali egli non può evitare di trovarsi in relazione reciproca) sottomettendosi a una costrizione esterna pubblicamente legale; vale a dire che ognuno deve, prima di ogni altra cosa entrare in uno stato civile" (11). Tale dovere di entrare nello stato civile è chiamato da Kant "postulato del diritto pubblico": "tu devi, grazie al rapporto di coesistenza che si stabilisce inevitabilmente tra te e gli altri, uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato giuridico" (12). Celato sotto la nozione di "dovere", vi sarebbe un motivo utilitaristico scaturente dalla distinzione che egli opera tra stato di natura e stato civile, distinzione valida, non in virtù di differenti doveri o diritti, ma solo per la differente forma giuridica del vivere comune: "Le leggi dell’ultimo [lo stato civile] riguardano dunque soltanto la forma giuridica del convivere degli uomini tra di loro (la loro costituzione), relativamente alla quale esse leggi debbono necessariamente venir pensate come pubbliche" (13). In sostanza, l’uomo sarebbe motivato utilitaristicamente ad entrare nello stato civile non per tutelare la propria vita, come afferma Rosmini, ma per essere sottoposto a leggi coattive pubbliche che gli assicurerebbero un possesso giuridicamente "perentorio" che, altrimenti, resterebbe "provvisorio" nello stato di natura. D’altronde a rendere contraddittorio il discorso kantiano è, nell’ottica del Rosmini, la stessa distinzione fra stato di natura e stato civile; è proprio a proposito della legittimazione dell’acquisto esterno che Rosmini nota come Kant, volendo negare l’esistenza di una proprietà stabile nello stato di natura, ritenga di poter legittimare la proprietà esterna facendo ricorso ad una convenzione reciproca, cioè il contratto originario. Ma tale contratto sarebbe obbligatorio non arbitrario ed "É evidente che una tale convenzione non potrebbe esser altro, se non il riconoscimento di un diritto in natura, di una cosa cioè moralmente necessaria e non indifferente egli è evidente del pari, che questa convenzione, che dovrebbe determinare le proprietà di ciascun uomo, avrebbe uopo di partire da un principio di giustizia col quale si supporrebbe già antecedentemente la legge della proprietà; e non si tratterrebbe più, colla indicata convenzione, che di dare esecuzione nel fatto alla proprietà disegnata dal diritto" (14). In un’altra sezione della Filosofia del diritto Rosmini riprende la critica alla fondazione kantiana della proprietà sotto un altro punto di vista. Kant, a detta del Roveretano, fa derivare la proprietà dall’assunto che, essendo l’uomo malvagio per natura, è necessario nello stato civile sottoporlo a leggi coattive che tutelino la proprietà personale. Ma, nota acutamente il Rosmini, "mentre richiede garantiti i diritti con la forza, non indica poi il modo di garantirli contro l’abuso della forza stessa" (15). Già Rosmini stesso intuisce quella contraddizione interna al pensiero politico kantiano, cioè l’affermare da un lato la necessità di uno stato di diritto per proteggere gli interessi individuali, ma dall’altro definire lo Stato fondato sul diritto "un fine avente valore assoluto" (da ricordare, a proposito, la famosa "negazione del diritto di resistenza", in opposizione, ad esempio, a Locke e, paradossalmente, anche ad Hobbes, sebbene questi autorizzi il diritto di resistenza solo in casi estremi). Nella riflessione giuridica rosminiana, invece, la "persona" continua ad essere il fine di tutto, ivi compreso lo Stato, e a tutela di questa egli pone l’originalissimo istituto del Tribunale Politico su cui ritorneremo.

Kant, dunque, non riuscirebbe a fondare moralmente la proprietà. Ma tale problema, che include il rapporto tra diritto privato e pubblico sarà trattato più avanti.

Tornando al "principio di coesistenza", la seconda critica rosminiana verte su una presunta astrazione kantiana (tenere presente che Rosmini cita il testo di Zeiller, giurista tedesco) e cioè che gli uomini non vengono considerati per le loro differenze reali, empiriche, bensì per la loro "essenza", il che li renderebbe eguali perché di fatto i loro caratteri accidentali vengono eliminati (16). La conseguenza di questa astrazione, secondo Rosmini, sarebbe una distribuzione aritmetica della libertà in parti eguali tra gli uomini i quali, però, essendo diversi gli uni dagli altri, finirebbero col fruire della libertà in quantità diverse, dipendendo tale diversità dalla capacità naturale di ognuno di soddisfare identici bisogni in maniera differente; si finirebbe quindi con il contraddire il principio stesso della ripartizione, cioè che tutti usino sempre la stessa quantità di libertà. Ma questa seconda critica non è convincente perché l’ambito giuridico è proprio l’ambito in cui Kant espressamente considera non più l’uomo noumenico bensì l’uomo concreto, empirico, con le sue inclinazioni sensibili e i suoi desideri.

La terza critica va più lontano: se anche si attribuisse un carattere morale alla coesistenza, vista la necessità che nessuno violi la libertà altrui, essendo la libertà, intesa come "indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui" l’unico "diritto innato", il problema permarrebbe per le seguenti ragioni: o c’è un diritto innato ad usare le nostre facoltà e allora il dovere morale già presuppone il diritto stesso; o l’uso delle facoltà è solo un fatto fisico che deve ricevere una limitazione da tutta la legislazione morale e non solo da quei precetti relativi alla coesistenza (17). Tale critica viene ripresa e chiarita a proposito di quella che Rosmini chiama "relativa libertà giuridica", terza classe dei diritti umani. Se tutte le azioni che in "potenza" potremmo compiere fossero lecite, la coesistenza (intesa dal Rosmini come possibilità stessa della società umana e non come stato civile da Kant) non sarebbe più possibile perché, ad esempio, potremmo appropriarci di tutto ciò che ci aggrada senza rispetto alcuno per gli altri. Ma, dice Rosmini, dovrebbero pure essere considerate lecite quelle azioni le quali, pur non invadendo la proprietà altrui (cioè la coesistenza kantiana), limitassero per puro capriccio la libertà altrui, quegli atti che nel Codice Civile italiano attualmente in vigore vengono definiti "atti di emulazione". In una nota fondamentale per il nostro discorso Rosmini ricollegandosi, come abbiamo detto, alla terza critica al principio di "coesistenza kantiano" chiarisce che il limite della visione kantiana è di ritenere che la libertà umana possa essere limitata solo dalla proprietà intesa come puro e semplice possesso empirico. Ecco le parole dell’Autore: "Si osservi che Kant trasse il suo principio della coesistenza dalla veduta parziale delle azioni libere. Egli non s’accorse, che a queste azioni non si possono ridurre tutti i diritti, ma che ci sono dei diritti precedenti i quali consistono nella proprietà, e sono i fonti originali dei diritti che ha o può aver l’uomo alle azioni. Oltre di che, in quel principio non è determinato, come abbiamo osservato, "il limite" da porsi alle azioni, acciocché non levino la coesistenza. Noi all’incontro abbiamo trovato questo limite nella proprietà, cioè nel possesso giuridico dei beni o delle azioni" (18). Questa lunga citazione è necessaria perché ci porta non solo al cuore della dottrina giuridica kantiana, ma anche al cuore della critica rosminiana a detta dottrina. La posizione rosminiana riguardo al concetto di coesistenza kantiano sembra possa essere riassunta nel modo seguente: l’errore di Kant sarebbe quello di considerare la proprietà semplicemente come relazione tra il soggetto e la cosa posseduta e, quindi, fondandosi il possesso sull’occupazione, la libertà d’azione finirebbe con l’incontrare un limite solo nella "cosa" altrui, cioè appunto nel possesso materiale di beni da parte degli altri. Rosmini invece ritiene di fornire un concetto di proprietà molto più ampio del rispettivo concetto kantiano (19), il che, come abbiamo già visto, lo porta in parte a respingere il principio di coesistenza come "principio di derivazione dei diritti".

Anche per quanto riguarda la proprietà è fondamentale partire dal concetto di "persona" (20). Essa sola, sede dell’Idea dell’essere, ha valore di fine rispetto ai beni esistenti, al mondo circostante: "La percezione intellettiva non è semplice possesso conoscitivo della realtà, una espansione quasi della nostra soggettività in ciò che essa ha di individuale, ma importa un far rivivere il dato partecipando in uno noi alla vita dell’oggetto e l’oggetto alla vita nostra" (21). La persona, dunque, realizza se stessa tramite l’utilizzo dei beni a lei circostanti, i quali beni esistono all’inverso per permettere la realizzazione della "persona". Poiché il diritto viene definito come la "facoltà di agire liberamente" Rosmini afferma: "La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente" (22) cioè l’essenza stessa del diritto. Identificandosi la persona con il diritto, ne segue che il "principio di determinazione dei diritti" deve essere qualcosa di diverso dalla "persona" stessa. A questo punto Rosmini si volge alla proprietà "che è un vero e proprio prolungamento della persona" (23). I diritti speciali, infatti, "si specificano per la loro diversa materia, la quale non si può considerare in se stessa, ma solo in quanto ella è unita alla forma del diritto . Ora questa unione della materia del diritto colla forma di esso, questo nesso, che fa entrare la materia nella sfera del diritto, fu da noi chiamato proprietà" (24). Senza coincidere, la proprietà è allora in un rapporto strettissimo colla persona, la quale finisce con il coincidere con la libertà stessa. E anzi, proprio la proprietà diventa "condizione" della libertà: "Così la proprietà si dimostra essere condizione della libertà, non potendosi la libertà concepire senza di quella. Il concetto adunque della libertà non esiste privo al tutto di ogni qualsiasi proprietà. Fin anco nella libertà essenziale la persona, si rinviene un oggetto che tiene luogo di proprietà primitiva, l’essere ideale" (25).

La "persona" diventa proprietaria di qualcosa tramite due "congiunzioni": l’una fisica, l’altra morale. La prima, dice Rosmini, deriva dalla natura del soggetto, cioè la ricerca del bene (ossia essa è frutto della nostra facoltà eudemonologica), la seconda deriva invece dalla natura dell’oggetto cioè la sua possibilità a diventare proprietà della persona. La relazione tra le due "congiunzioni" viene così descritta da Rosmini: "La congiunzione fisica, come dicemmo, non è che la materia del diritto: la forma consiste nella congiunzione morale: fino che questa non si sopraggiunge, non ci ha diritto" (26). Il vincolo che si viene a creare tra l’uomo e la cosa è talmente stretto che si può definire violazione della proprietà ogni atto volto a staccare il bene dalla persona del cui "sentimento" il bene è divenuto parte integrante. Ma, ricordiamo, Rosmini ha ipotizzato che vi possano anche essere atti i quali, pur non violando la "proprietà", possono limitare la libertà personale e non esita a definirli contrari al diritto, dunque immorali.

Cosa pensa, invece, Kant della proprietà? Questo è uno dei punti più importanti e complessi di tutta la filosofia politica kantiana e, nei limiti della nostra trattazione, cercheremo di esporla il più chiaramente possibile.

Il problema della proprietà è trattato nell’ambito del diritto privato il quale, com’è noto, caratterizza lo stato di natura. Cominciando dalla definizione: "L’oggetto esterno, che in quanto alla sostanza è il suo di qualcuno, è una proprietà (dominum) di costui, sulla quale i diritti gli appartengono (come accidenti della sostanza), e di cui in conseguenza il proprietario (dominus) può disporre a suo piacimento (ius disponendi de re sua) " (27). Il problema fondamentale per Kant è il seguente: come è possibile affermare la proprietà di una cosa, il "mio" giuridico? La risposta chiara quasi logica è: la libertà di usarla liberamente senza impedimenti. Questa è quella che Kant chiama definizione nominale, mentre la definizione reale suona: "il mio esterno è quello di cui non mi si può impedire l’uso senza ledermi, quantunque io non sia in possesso della cosa (non sia il possessore dell’oggetto) " (28). Tale seconda definizione viene da Kant definita "deduzione", poiché non è altro che la conoscenza della possibilità degli oggetti. In sostanza, come in campo morale Kant ricorre alla teoria dei "postulati" i quali, derivando direttamente dalla legge morale, rappresentano per la volontà "condizioni necessarie dell’osservanza di ciò che la legge mi prescrive" (29), così anche in campo giuridico egli ricorre a un postulato il cui obbiettivo è quello di "definire le condizioni necessarie alla validità dell’obbligazione imposta da tale appropriazione [cioè l’occupazione di un bene]" (30). Tale postulato, chiamato postulato giuridico della ragione pratica, così recita: " possibile avere come mio un oggetto esterno qualunque del mio arbitrio; vale a dire è contraria al diritto una massima, secondo la quale (qualora diventasse legge) un oggetto dell’arbitrio dovrebbe essere in sé (oggettivamente) senza padrone (res nullius) " (31) perché, ovviamente, verrebbe meno la possibilità dell’uomo di adoperarlo facendolo "proprio": e in questo modo si verrebbe a negare la possibilità della stessa libertà esterna. A ragione Gonnelli parla di dimostrazione apagogica della "possibilità del possesso" (32), in quanto, per usare le parole dello stesso Kant "E’ dunque un presupposto a priori della ragione pratica il considerare e trattare ogni oggetto del mio arbitrio come un oggettivamente possibile mio e tuo" (33). Ma se il mondo esterno non appartiene a se stesso, a chi appartiene? Kant risponde parlando di una comunanza originaria del suolo (non intesa, comunque, come eguale ripartizione di proprietà) che funge, dunque, da presupposto per l’appropriazione privata tramite il "fatto" dell’occupazione "fatto che è frutto della mia volontà unilaterale. La quale volontà "non può tuttavia autorizzare un acquisto esterno in nessun altro modo se non in quanto esso è contenuto in una volontà collettiva a priori la quale comanda assolutamente" (34). Ed è tale volontà collettiva che garantisce ad ognuno ciò che occupa.

La proprietà, allora, si fonda sull’occupazione, cioè su un fatto puramente empirico, e come nota Tosel (35), questo punto sembra non solo essere difficilmente giustificabile, ma addirittura un passo indietro rispetto alla fondazione lockiana della proprietà basata sul lavoro. Anzi il lavoro "quando si tratta di primo possesso, non è altro che un segno esterno della presa di possesso, che si può sostituire con molti altri che costano minor fatica" (36).

Lo stato civile, in cui ognuno è "obbligato" moralmente ad entrare, ha, allora, il compito di garantire giuridicamente un "diritto" fondato su un’occupazione arbitraria del suolo, e se tale "diritto" è difficilmente giustificabile, le prerogative che esso attribuisce lo sono ancora meno.

Punto fondamentale della dottrina kantiana è la distinzione tra diritto e morale, distinzione causata dalla differenza tra dovere giuridico e dovere morale. Mentre la legislazione morale richiede che il comportamento si adegui interiormente (cioè l’impulso a rispettare la legge deve essere il dovere per il dovere), la legislazione giuridica prevede solo un adeguamento esteriore del comportamento (quella che Kant definisce "legalità"), adeguamento che non può essere previsto per la legge morale. Bobbio definisce giustamente tale criterio distintivo tra diritto e morale "formale" in quanto relativo solo alla "modalità", o meglio "la forma", con cui un’azione viene compiuta. Egli però ritiene che dietro la distinzione tra i due ambiti vi sia una più profonda e incisiva differenza riconducibile alla differenza operata da Kant tra libertà interna, o morale, e libertà esterna, o giuridica. Mentre "la libertà morale si esaurisce nel rapporto tra me e me cioè di quell’azione io sono responsabile soltanto di fronte a me stesso (cioè nella mia coscienza), parimenti, quando dico che la libertà giuridica si estende al rapporto di me con altri, voglio dire che di quell’azione sono responsabile di fronte agli altri" (37). Per non confondere la nozione di dovere verso gli altri con quello che di dovere giuridico, giustamente, Bobbio precisa che nel secondo caso gli "altri" esistono non solo come "oggetti" di un’azione il cui valore morale dipende solo da noi, bensì come "soggetti" i quali possono esigere da me l’adempimento dell’azione. Ciò che caratterizza l’ambito del diritto-coazione è la presenza di ciò che si chiama "rapporto giuridico" cioè una relazione tra due soggetti in cui al dovere di uno corrisponde il diritto dell’altro di richiedere l’adempimento dell’azione: "dal diritto degli altri di esigere l’adempimento del mio obbligo deriva la caratteristica propria dell’esperienza giuridica di dar luogo a rapporti intersoggettivi dei diritto-dovere, cioè a rapporti giuridici" (38). Ma se tale distinzione sembra valida per distinguere l’essenza del diritto da quella della morale in realtà quando agiamo concretamente le modalità con cui il diritto viene realizzato sembrano contraddire il criterio distintivo introdotto da Bobbio.

Soffermandoci più attentamente, notiamo che non è, come sostiene Bobbio, l’"altro" in quanto "soggetto" del rapporto giuridico che mi impone l’adempimento del dovere bensì l’"altro" in quanto membro di una volontà generale e legislatrice universale di cui anch’io faccio parte. Quando, allora, nello stato civile veniamo obbligati ad adempiere un "dovere giuridico" siamo obbligati in primo luogo da "noi stessi" che, uscendo dallo stato di natura, abbiamo dato vita ad una volontà collettiva che garantisca ad ognuno, noi compresi, i propri diritti. Paradossalmente, seguendo il criterio adoperato da Bobbio, nello stato civile l’adempimento dell’azione da parte del singolo non è imposta da un altro bensì dal singolo stesso che si è impegnato con il contratto. Potremmo in questo vedere un’eco del Contratto Sociale quando Rousseau dice che ognuno sottomettendosi col Contratto alla volontà generale "pur unendosi a tutti gli altri [entrando cioè nel rapporto giuridico descritto da Bobbio], non obbedisce che a se stesso e resta libero come prima [laddove la libertà di Rousseau, che si caratterizza come "autonomia", viene proprio recuperata da Kant in sede morale]" (39).

Rosmini critica la distinzione operata da Kant tra i due ambiti perché finisce col non riconoscere come fondamento indiscutibile del diritto la morale. Kant finirebbe col privare il diritto della sua "origine" naturale, cioè la morale; di qui tutte le contraddizioni della sua concezione giuridica. Ma nel sistema filosofico kantiano morale e diritto sono realmente antitetici?

Kant afferma esplicitamente che, premessa la distinzione tra doveri giuridici e morali "la legislazione interna [cioè quella morale] trasforma anche tutti gli altri [cioè quelli giuridici] in doveri indirettamente etici" (40). L’obiettivo kantiano si evince chiaramente dal brano seguente: "Il concetto del diritto, in quanto si riferisce ad un’obbligazione corrispondente (cioè il concetto morale di esso), riguarda in primo luogo soltanto il rapporto esterno e precisamente, pratico di una persona verso un’altra, in quanto le loro azioni possono avere influsso le une sulle altre (immediatamente o mediatamente) come fatti. Ma in secondo luogo non significa il rapporto dell’arbitrio con il desiderio (quindi con il semplice bisogno) dell’altro, come ad esempio negli atti di benevolenza o di crudeltà, ma semplicemente con l’arbitrio dell’altro. In terzo luogo, in questo reciproco rapporto dell’arbitrio non si prende affatto in considerazione la materia dell’arbitrio, ossia il fine che uno si propone con l’oggetto che egli vuole ma solo secondo la forma nel rapporto dell’arbitrio bilaterale, in quanto esso sia considerato libero, e se l’azione di uno dei due si possa unificare con la libertà dell’altro secondo una legge universale" (41). Kant vuole si operare una differenza tra legge morale e giuridica, ma non disconoscere un rapporto oggettivo esistente tra leggi politiche e moralità. Egli vuole unificare tutte le leggi politiche sotto un principio, quello del diritto-coazione, "per rendere omogeneo un ambito soggettivamente incommensurabile" (42) cioè l’ambito delle relazioni empiriche degli uomini. Le quali relazioni ("l’insocievole socievolezza") vengono sottomesse all’imperativo categorico "che si dà forma giuridica" (43). In sostanza, l’imperativo categorico si adatta ad un ambito dal quale l’uomo non può prescindere cioè "l’essere in rapporti con altri esseri razionali".

In realtà il "diritto" per Kant non è una categoria completamente autonoma. La riflessione giuridica costituisce un momento fondamentale di una riflessione molto più ampia riguardante la "storia" della specie umana e il fine dell’uomo. Non a caso, in tutti gli scritti politici le questioni di filosofia del diritto sono strettamente intrecciate con le questioni di filosofia della storia e, anzi, ogni analisi giuridica non può prescindere da esse. Già nel 1784, un anno prima della pubblicazione della Fondazione della metafisica dei costumi, Kant si interroga sul possibile fine dell’uomo, sul "filo conduttore" della sua storia naturale. Egli crede di individuare tale fine nell’ "uso completo delle sue disposizioni naturali" (44), la quale cosa può essere resa possibile solo da una graduale realizzazione del diritto nella storia. Solo il diritto, che, come conseguenza immediata ha la realizzazione della pace, può permettere il pieno sviluppo della disposizione umana al bene morale, così come esso viene definito negli scritti religioso-morali.

A questo punto possiamo comprendere realmente la distinzione tra diritto e morale, tra comportamento giuridico e morale. Negli scritti morali Kant riconosce l’impossibilità da parte dell’uomo di comportarsi moralmente e le teorie dei postulati, come già chiarito prima, hanno come fine quello di spingere l’uomo al rispetto del dovere e di permettergli il raggiungimento della perfezione morale. Dal momento che nel mondo in cui ci troviamo a vivere, il nostro comportamento è sempre influenzato dalle inclinazioni, paradossalmente, nella storia, la legge morale non troverebbe mai perfetta applicazione nella vita dei singoli individui: Kant dovendo uscire da questa ambiguità concettuale che nasce da una riflessione, inevitabile, sul fine della storia umana ("Il mondo va di male in peggio" (45), si serve del diritto: tramite esso è possibile sottomettere l’uomo malvagio per natura (ritorna a questo punto la critica rosminiana) e permettere che "...quelle disposizioni naturali che sono finalizzate all’uso della sua ragione si sviluppano completamente nel genere, non nell’individuo" (46). Il diritto viene considerato strumento propedeutico per un ideale che in questo mondo (se mai ne esista un altro) è impossibile realizzare e tutti, in quanto membri del "genere umano" siamo moralmente obbligati a obbedire.

Adesso è pienamente comprensibile il passo prima citato secondo il quale la legislazione etica trasforma tutti gli altri doveri in doveri indirettamente etici. E’ moralmente necessario ubbidire alle leggi!

D’altronde se l’uomo fosse di per sé "buono" non ci sarebbe bisogno di ricorrere al diritto. Di qui il famoso passo kantiano: l’uomo ha bisogno di un padrone il quale lo educhi "che spezzi la sua volontà particolare, e lo costringa ad obbedire ad una volontà valida secondo cui ognuno possa essere libero" (47)

Sembrerebbe allora che il diritto possa essere inteso come un’esigenza interna alla premesse del sistema morale il quale necessita pur sempre di un’applicazione concreta al mondo fenomenico, avendo qui come punto di riferimento non più l’uomo ma il genere umano. Inoltre, Kant precisa che lo stato civile è un fine da raggiungere in un futuro indeterminato verso cui il mondo, che è ancora nello stato di natura, deve tendere.

Ma se l’affermazione del diritto è così importante per dare un senso all’agire dell’uomo, in quanto unico essere razionale, come avverrà tale affermazione? Il primo esempio di realizzazione del diritto, o meglio, di presa di coscienza della necessità di tale realizzazione, è stata la Rivoluzione Francese. Tale evento è talmente importante per comprendere la filosofia kantiana che Tosel non esita ad esprimersi nel seguente modo: "Se c’è una filosofia che si è trovata in corrispondenza con il più grande evento storico della modernità, la Rivoluzione Francese, è proprio quella di Kant" (48). Se Kant considera l’evento rivoluzionario del 1789 un fatto nuovo, assolutamente diverso da qualsiasi altro evento precedente perché passaggio fondamentale per comprendere razionalmente la storia dell’uomo, Rosmini non esita, invece, a condannarlo senza possibilità di appello (49). Il Roveretano non può accettare la Rivoluzione e le teorie portate avanti dai rivoluzionari perché esse sono il frutto di una filosofia "empia", l’illuminismo. Anzi, com’è noto, il progetto filosofico rosminiano è proprio quello di creare un’enciclopedia del sapere da contrapporre a quella illuminista. Il filosofo italiano non può restare inattivo, o addirittura, acclamare le atrocità rivoluzionarie frutto di una filosofia che rifiutando Dio e il cristianesimo ha finito col fare dell’uomo il centro di tutto. E gli esiti politico-sociali sono stati ben visibili nell’esperienza rivoluzionaria: guerre, tirannia della maggioranza sulla minoranza, lesione della dignità personale. Inoltre, la Rivoluzione, con il principio del suffragio universale ha gettato le basi per teorie come il socialismo e il comunismo che hanno come fine ultimo l’annullamento della persona a vantaggio della collettività. Per Rosmini tutto ciò è inaccettabile, mentre Kant fa della Rivoluzione un evento fondamentale della storia umana. A livello teorico per Kant come in parte abbiamo già visto, il diritto di resistenza, da cui deriva logicamente la rivoluzione, è giuridicamente inaccettabile perché contraddittorio con l’idea di sovranità ceduta al sovrano con l’atto costituzionale. Ma il giudizio cambia a proposito dell’esperienza francese, fatto reale e non teoria giuridica. Essa è un evento fondamentale perché frutto di una situazione storico-culturale in cui l’uomo è uscito dal suo "stato di minorità": essa rappresenta la prova storica di un fine che la storia deve realizzare, ma essa è anche la prova della genesi antinomica del diritto (già individuata dal Rosmini), cioè l’impossibilità di fondare il diritto prescindendo dal "fatto": "Se la Rivoluzione Francese è il segnale storico della tendenza al progresso del genere umano nella sua totalità, con essa il diritto si inscrive nei fatti; ma questo avvento del diritto, soprattutto in quanto segue ad una rivoluzione violenta, necessariamente non si verifica sulla base del diritto, e non utilizza gli strumenti del diritto" (50). Nonostante ciò, la Rivoluzione rappresenta il primo passo verso quel fine ultimo che è l’affermazione del "diritto" cui seguirà inevitabilmente la "pace perpetua", situazione giuridica internazionale nella quale l’uomo potrà finalmente sviluppare appieno le proprie disposizioni morali.

Dal momento che tale situazione giuridica internazionale (51) si può verificare qualora tutti gli Stati adottino forme costituzionali consone all’idea di diritto, è opportuno analizzare, seppur a grandi linee, la teoria dello Stato kantiano e la relativa teoria rosminiana per vedere la presenza di eventuali analogie e differenze.

Le due teorie presentano vari punti di contatto: il principio della separazione dei poteri, la concezione negativa dello Stato, la distinzione tra cittadini attivi e passivi

Come già abbiamo accennato all’inizio della nostra trattazione, gli elementi costituzionali che possono sembrare comuni ai modelli elaborati dai due pensatori, in realtà rispondono ad esigenze differenti.

Il principio della separazione dei poteri, storicamente, si è affermato con la diffusione dei principi liberali a partire grosso modo dalla "Gloriosa Rivoluzione". Tale principio è stato pienamente accolto da Kant. Egli ritiene, inserendosi così pienamente nella tradizione liberale a lui precedente, che la volontà generale, frutto del contratto sociale, debba articolarsi in tre poteri distinti al fine di creare una situazione di equilibrio senza possibilità di abuso di un potere a danno di un altro. Ovviamente Kant ritiene che i cittadini debbano partecipare alle elezioni dei membri dell’organo adibito alla promulgazione delle leggi: solo così, infatti, è possibile garantire che la volontà collettiva provenga direttamente dal popolo rispettando i principi di libertà, uguaglianza e indipendenza. A questo punto sorge un problema all’interno della riflessione kantiana: non tutti hanno diritto di eleggere i propri rappresentanti. L’elemento discriminante tra i cittadini attivi e passivi non risiede nella libertà o nell’uguaglianza, dovute, la prima, alla qualifica di ognuno come uomo, la seconda, al fatto che tutti siamo sudditi in condizioni di uguaglianza di fronte la legge, bensì nell’indipendenza economica. Kant chiarisce tanto nel saggio Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale nella prassi (1793) quanto nella Dottrina metafisica del diritto (1797) che non devono disporre del diritto di voto coloro che, per quanto riguarda la loro sopravvivenza materiale, dipendono da altri (non considerando donne e bambini). Solo chi "sia suo proprio signore (sui iuris), e cioè abbia una qualche proprietà che lo mantenga di conseguenza che egli non serva, nel senso proprio della parola, nessuno se non il corpo comune" (52) dispone del diritto di voto che sarà eguale per tutti, grandi e piccoli proprietari senza distinzione: tutti cioè avranno a disposizione un voto. Ma anche se l’esclusione dei "non indipendenti" sembra difficile da giustificare in quanto sembrerebbe contraddire l’assunto che tutti sono cittadini dello Stato senza distinzione, Kant ritiene nonostante tutto che tale distinzione non contrasti con i principi di libertà e di uguaglianza di cui godono tutti in quanto "uomini". D’altronde se tali "non cittadini" non hanno, ovviamente, il diritto di partecipare alla promulgazione delle leggi, hanno però il diritto di esigere che la volontà generale (espressa solo tramite i proprietari!) non emani leggi che impediscano al popolo di elevarsi da uno stato passivo ad uno attivo. La volontà generale dovrebbe legiferare secondo istanze universali pur essendo essa frutto di un’ineguaglianza di base dovuta ai requisiti richiesti per eleggerne i rappresentanti. Il problema allora è alla radice: " il contratto originario non è stato realmente universale: alcuni, non importa a quale punto, sono stati interamente esclusi dall’acquisto" (53). E’ il riproporsi di quel problema cui abbiamo accennato prima a proposito del "presunto" utilitarismo kantiano: è certo che, come appare dagli scritti morali, una dimensione collettiva che sfugge, almeno nelle intenzioni, ad ogni finalità egoistica è sempre presente nella mente del filosofo tedesco, ma così non sembra negli scritti politici: sembrerebbe anzi che Kant (e come vedremo Rosmini) finisca con il contraddire determinate premesse elaborate in sede pratica; facciamo riferimento all "autonomia" del soggetto, categoria fondamentale di tutto il discorso kantiano. Abbiamo già notato l’influsso di Rousseau sul pensiero di Kant, anzi si dice che proprio la lettura del Contratto sociale e dell’Emilio abbiano spinto Kant ad elaborare una dottrina morale basata sulla ragione. Bene, la definizione che Kant fornisce in sede morale della libertà è chiaramente mutuata dal ginevrino: "cosa può allora essere la libertà della volontà se non autonomia, ossia la proprietà della volontà di essere legge a se stessa?" (54). Ora è implicito che in campo politico tale definizione di libertà non valga e che dopo la conclusione del contratto originario, vista la distinzione tra cittadini attivi e passivi, alcuni potranno essere soggetti a leggi alla cui formazione non hanno contribuito; nulla tutela il non cittadino dalle ingerenze di una volontà generale che ha la sua origine dalla proprietà. In sostanza Kant non riesce, ma fondamentalmente non può, garantire che tutti vedranno garantiti i loro diritti e che anzi tutti potranno godere di uguali libertà ed uguaglianza dipendendo esse inequivocabilmente dalla proprietà.

Il problema è allora quello del rapporto proprietà-rappresentanza ovvero del rapporto proprietà-potere e la posizione del pensatore tedesco è simile ma non uguale a quella del Rosmini. Anche il Roveretano rifiuta il suffragio universale, ma critica Kant perché il criterio di esclusione dal voto non risiede nell’indipendenza economica bensì nel pagamento di un’imposta diretta allo Stato (55). Egli ritiene che il voto debba essere attribuito in relazione alle imposte pagate allo Stato: maggiore è l’imposta, maggiori saranno i voti di cui il contribuente potrà usufruire in sede elettorale. Tale sistema fu criticato aspramente anche dagli amici più intimi del Rosmini: Manzoni, Tommaseo. Ma il Roveretano rimase sempre sulle sue posizioni: se chi non è proprietario può amministrare le cosa altrui, ovviamente, tendere a legiferare a suo favore: ma la società civile è una creazione artificiale la quale "non può esistere se non mediante il danaro" (56). Quindi, dal momento che "tutti quelli che fanno la legge la fanno per sé" (57), per evitare che i nullatenenti attentino alla ricchezza altrui, minando alla base il fondamento materiale della società, Rosmini li esclude dal diritto di voto.

Il filosofo italiano non accettò mai il suffragio universale auspicato da tutti e tale rifiuto è frutto di un errore, a nostro dire, logico. "Il socialismo ed il comunismo è conseguenza logica del voto universale ed eguale nell’elezione dei deputati. Poiché se questo diritto elettorale è giusto, è giusto altresì che chi non ha nulla od ha poco metta la mano nella borsa di chi ha molto e disponga di ciò che vi si trova a suo pieno arbitrio senza controllo o riscontro di sorta" (58).

La storia ha smentito tale identità logica tra suffragio universale e instaurazione del comunismo, ma la paura che Rosmini nutre nei confronti di queste teorie è tale che lo porta a respingere qualsiasi cosa possa favorirne, a suo parere l’instaurazione, senza rendersi conto che la sua teoria elettorale finisce con l’identificare i diritti politici con i diritti di proprietà (59). E se la sua difesa dei diritti della persona è molto attuale (grazie all’originalissimo istituto del Tribunale Politico), la sua difesa della proprietà è sembrata ad alcuni molto anacronistica, anzi una riproposizione, seppur in forme diverse, del patrimonialismo halleriano (60). A proposito del problema del rapporto ricchezza-rappresentanza o meglio ricchezza –persona così Rosmini si esprime nella Costituzione secondo giustizia sociale: "Al complesso delle ricchezze, se ben si considera, tiene dietro il complesso delle altre qualità valutabili nella bilancia sociale, come sarebbe la coltura, l’educazione, l’indipendenza, la nobiltà ereditaria (dovendosi qui tralasciare le singolari eccezioni) e però non si sbaglia né pure a prendere la ricchezza come il segnale di tutte le altre qualità indicate, onde attribuendo ad ognuno un potere di suffragio proporzionale alla ricchezza, si viene generalmente ad attribuirlo altresì a tutte quelle altre qualità che colla ricchezza vanno connesse e, come suol dirsi, alle capacità" (61). Ci sono tentativi di smorzare i toni delle affermazioni rosminiane che da tale passo sembrerebbero giustificare un suffragio elettorale ristretto in virtù di una concezione della ricchezza quale indice delle qualità personali di individuo. Ad esempio D’Addio così commenta la proposta elettorale del Roveretano: "La proposta di Rosmini, apparentemente conservatrice, si basa sulla sua concezione della proprietà che, come abbiamo visto, "smaterializza" il rapporto fra l’uomo e la cosa, nel senso che si riferisce non tanto alla cosa quanto al soggetto come persona, cioè alla sua attività. La proprietà rappresenta il limite positivo all’altrui invadenza ed a quella del potere politico, ed è quindi il vero perno del sistema delle libertà politiche e giuridiche" (62). Se a questo si aggiunge che il Rosmini propugna il libero movimento delle ricchezze per permettere a tutti di fruirne in relazione alle proprie capacità, una riforma del sistema fiscale che annulli addirittura le imposte indirette per non gravare sui poveri, la possibilità di un voto corporativo per le persone collettive (dunque anche i proletari) (63), della qual cosa osserva giustamente Gray "è superfluo rilevare l’importanza quando si pensi che il Rosmini dovette scrivere fra il 1823 e il 1827" (64) sembra che il Roveretano non si faccia assertore di posizioni eccessivamente conservatrici. Ma, a nostro avviso, è proprio nella Costituzione secondo giustizia sociale, opera in cui egli sintetizza le conclusioni delle opere maggiori cioè la Filosofia della politica e la Filosofia del diritto, che emerge il limite di tutta la riflessione politica-giuridica del Rosmini. La sua proposta politica è attraversata da una tensione continua che ha una chiara origine nei rapporti materiali della società civile. Rosmini è preoccupato dall’aspirazione delle masse all’acquisto della ricchezza ma non si è reso conto di essersi, viceversa, eretto a difensore della ricchezza stessa, e vano è il tentativo, se pur originale, di salvare i diritti dell’uomo tramite il ricorso al Tribunale Politico. Esso rappresenta nelle intenzioni dell’Autore uno strumento con il quale ogni cittadino può essere tutelato nei suoi diritti naturali, uno strumento, dunque, per garantire il "primato del giusto" sulla politica. Per questo motivo egli prevede che tutti i cittadini in quanto uomini, senza distinzioni di censo, eleggano i membri di tale Tribunale esprimendo un voto uguale e possano ad esso appellarsi ogni qualvolta i loro diritti vengano lesi (65).

Tale istituto è molto importante, ma è lungi dal risolvere i problema dei nullatenenti i quali, addirittura, non vengono ritenuti da Rosmini elementi costitutivi della società a differenza di Kant il quale ritiene che tutti, anche i non proprietari, partecipino, tramite il contratto originario, alla nascita della società civile. Per Rosmini i nullatenenti fanno parte della società civile solo a titolo di beneficenza nell’accezione più alta del termine: "Che la società civile riconosca per suoi membri anche quelli che nulla contribuiscano al fondo sociale onde ella trae l’esistenza e l’attività, non viene prescritto dal diritto di natura o di ragione, ma insinuato dallo spirito del Vangelo che esclude dal mondo la schiavitù" (66).

Così come Kant anche Rosmini sembra tutelare più i proprietari che non i poveri. Per il primo, come abbiamo dimostrato, il problema deriva da determinate premesse del sistema filosofico. Il fatto che la teoria giuridica sia strettamente intrecciata alla filosofia della storia implica per Kant la speranza che, in un futuro interamente dominato dal "diritto", dove l’uomo avrà pienamente sviluppato le sue disposizioni morali al bene e dove si sarà sviluppata perfettamente la sintesi di coazione e di diritto, si verificherà il massimo sviluppo della libertà umana cui seguirà il fatto che ogni uomo occuperà il posto che gli spetterà in relazione alle sue qualità personali. In virtù di questa speranza egli, forse, si è sforzato di giustificare la distinzione tra cittadini attivi e passivi (distinzione che riflette chiaramente la sfiducia di Kant nei confronti delle masse come soggetti politici attivi), poiché alla lunga essa dovrebbe scomparire ossia quando il diritto, di cui la coazione è parte integrante, "verrà, al limite, a coincidere con la morale" (67).

In Rosmini, invece, come abbiamo cercato di dimostrare, il problema non dipende dai presupposti del sistema filosofico ma dipende da una considerazione di carattere politico: egli, infatti, volendo garantire la proprietà come modo di manifestazione reale della "persona" ha finito col tutelare gli interessi materiali della "persona" finendo, addirittura, col confondere i diritti di proprietà con i diritti politici della persona, e poco valgono certi accorgimenti costituzionali da lui elaborati per garantire una certa "equità di opportunità" tra gli uomini. Anche il Tribunale Politico, se da un lato è un organo importante che permette a Rosmini di fare un passo in avanti rispetto a Kant che, come abbiamo notato, presenta una teoria costituzionale a metà tra lo stato di diritto e lo stato etico-giuridico, dall’altro è indubbio, come notato da più parti (68), che tale Tribunale non può realmente incidere nella società per eliminare le tante ingiustizie sociali presenti. La sua caratteristica "è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere" (69); solo un massiccio intervento dello Stato potrebbe garantire un reale riequilibrio delle disuguaglianze materiali (queste riflessioni sono comunque in parte frutto della nostra coscienza moderna), ma tale intervento dello Stato uscirebbe dalla semplice "regolazione delle modalità dei diritti" fine della società civile nella concezione del Rosmini. L’istituto del Tribunale Politico è da intendere, allora, come uno sforzo, un tentativo originale da parte di Rosmini sia di rispondere a determinate esigenze di giustizia sociale provenienti da una società dove i poveri, i nullatenenti, cominciano ad avanzare richieste a poco a poco sempre più pressanti, sia di rispondere ad esigenze interne al suo stesso sistema, cioè la necessità di tutelare la "persona" non solo a livello teorico bensì anche pratico con il limite oggettivo di tutelare più coloro che sono proprietari che coloro che non lo sono.

NOTE:

(1) -Cfr. B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, La Terza, Bari 1926.

(2) -Cfr. A. Rosmini, La persona, il diritto e la società, scritti scelti e annotati a cura di Michele F. Sciacca, Principato, Milano 1962, p. 4.

(3) -Cfr. Rosmini a Don Giuseppe Eccheli a Milano, 16 ottobre 1827, in A. Rosmini, Epistolario filosofico, a cura di G. Bonafede, CELEBES, Trapani 1968, p. 73.

(4) -Per i rapporti tra Kant e Rosmini si veda M.F. Sciacca, Il pensiero morale di Antonio Rosmini, L’Epos, Palermo 1990, p. 41-49.

(5) Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, CEDAM, Padova 1967, vol. II, p. 291.

(6) -Si veda ad esempio N. Bobbio, Diritto e stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli, Torino 1969.

(7) Si veda ad esempio G. Lumia, La dottrina kantiana del diritto e dello Stato, Milano 1960.

(8) -Per una esposizione più esauriente del problema si veda: A. De Gennaro, Un problema storiografico: diritto e persona in Rosmini e Kant, in Rivista Rosminiana, Fasc. II-III aprile-settembre 1968, pp. 252-253.

(9) Cfr. A. Rosmini, Filosofia, cit., vol. I, p. 107.

(10) Cfr. I. Kant, Metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1989, p. 133.

(11) Ivi, p. 140.

(12) Ivi, p. 134.

(13) Ivi, p. 133.

(14) Cfr. A. Rosmini, Filosofia, cit., vol. II, p. 279.

(15) Ivi, vol. II, p. 283.

(16) Ivi, vol. I, p. 164.

(17) Ivi, vol. I, p. 162-163.

(18) Ivi, vol. I, p. 244, nota n. 1.

(19) -Anche la definizione di libertà sembrerebbe a questo punto diversa. Per quanto riguarda Kant, Bobbio spiega come in lui coesistano due visioni della libertà: quella positiva, mutuata da Rousseau , che intende la libertà come "autonomia", la possibilità di essere sudditi di una legge emanata da noi stessi; quella negativa, tipica della tradizione liberale, che vede la libertà come " non impedimento" dell’arbitrio altrui. L’influenza di Rousseau è visibile proprio quando Kant parla del contratto originario, atto con il quale ognuno cede la sua libertà naturale per acquistare quella civile ed essere sottoposto alla "propria volontà legislativa" (cfr. I. Kant, Metafisica, cit., p. 145). Alla concezione positiva della libertà, nota Bobbio, Kant sovrappone la concezione negativa della libertà, tipica dello Stato di diritto. Nella teoria kantiana è possibile, allora, operare una distinzione di valore tra le due libertà, poiché "È quando si dice, come dice Kant, che lo stato ha come fine ultimo il riconoscimento ed il promovimento della libertà, è della libertà come non impedimento che si parla e non della libertà come autonomia" (cfr. N. Bobbio, Diritto e stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli, Torino 1969, p. 227). Rosmini, in teoria, vorrebbe definire la libertà in senso positivo come manifestazione dell’io e, come vedremo, fornire una nozione di proprietà diversa da Kant; i risultati in campo politico saranno invece molto simili.

(20) -Sull’importanza del concetto della "persona" nella riflessione giuridica rosminiana si veda G. Capograssi, Il diritto secondo Rosmini, in Opere, Giuffré Editori, Milano 1959, vol. IV, pp. 321-353.

(21) Cfr. G. Bonafede, Il dialogo, CELUP, Palermo 1967, p. 88.

(22) Cfr. A. Rosmini, La filosofia, cit., vol. I, p. 191.

(23) -Cfr. F. Conigliaro, La politica tra logica e storia. Il pensiero politico di Antonio Rosmini, Ila Palma, Palermo 1984, p. 94.

(24) -Cfr. A. Rosmini, Filosofia, cit., p. 194.

(25) -Ivi, p. 595.

(26) -Ivi, p. 283.

(27) -Cfr. I. Kant, Metafisica, cit., p. 86.

(28) Ivi, p. 60.

(29) Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, Bompiani 2000, p. 267.

(30) Cfr. F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant, Laterza, Bari 1996, p. 183.

(31) Cfr. I. Kant, Metafisica..., cit., p. 56.

(32) Cfr. F. Gonnelli, La filosofia, cit., p. 183.

(33) Cfr. I. Kant, Metafisica..., cit., p. 57.

(34) Ivi, p. 78.

(35) Cfr. A. Tosel, Kant Rivoluzionario, Manifesto, Roma 1999, p. 59 e sg.

(36) Cfr. I. Kant, Metafisica, cit., p. 80.

(37) Cfr. N. Bobbio, Diritto e stato, cit., p. 99.

(38) Ivi, p. 101.

(39) Cfr. J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, BUR, Bergamo 1997, p. 63.

(40) Cfr. I. Kant, Metafisica, cit., p. 23.

(41) Ivi, p. 34.

(42) -Per questo ragionamento ho seguito il già citato F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant, p. 170.

(43) Cfr. A. Tosel, Kant..., cit., p. 36.

(44)- Cfr. I. Kant, Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolita, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Bari 1999, p. 31.

(45) Cfr. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, TEA, Milano 1997, p. 17.

(46) Cfr. I. Kant, Idee per una, cit., p. 31.

(47) Ivi, p. 35.

(48) -Cfr. A. Tosel, KantÉ, cit., p. 7.

(49) -Su Rosmini e la Rivoluzione francese si veda: Rosmini e la cultura della Rivoluzione francese, Atti del XXIII Corso della "Cattreda Rosmini" 1989, Sodalitas, Stresa 1990.

(50) -Cfr. A. Tosel, Kant..., cit., p. 11.

(51) -Rosmini in una nota al testo critica l’espressione kantiana "diritto cosmopolitico" preferendogli quella di "diritto umanitario" (A. Rosmini, Filosofia, cit., vol. IV, p. 984).

(52) -Cfr. I. Kant, Sul detto: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Kant, Scritti di storia, cit., p. 142.

(53) Cfr. F. Gonnelli, La filosofia, cit., p. 190.

(54) Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1997, p. 127.

(55) Cfr. A. Rosmini, Filosofia, cit., vol. V, p. 1232, n. 2.

(56) -Cfr. A. Rosmini, La costituzione secondo giustizia sociale, in A. Rosmini, Scritti politici, a cura di M. D’Addio, Ed. Rosminiane Stresa 1997, p. 200.

(57) Ivi, p. 178.

(58) Ivi, p. 113.

(59) Si veda su questo punto G. Bonafede, Il dialogo, cit., p. 96.

(60) -Su questa ripresa del pensiero di Haller da parte del Rosmini si veda: Mario Sancipriano, Il pensiero di Haller e Rosmini, Milano, Marzorati Editore 1968.

(61) Cfr. A. Rosmini, La Costituzione, cit., p. 174.

(62) -Cfr. M. D’Addio, Libertà ed appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Edizioni Studium, Roma 2000, p. 208.

(63) –C’è detto dal Rosmini sia nell’opera Della Naturale Costituzione della Società Civile_(p. 94 e ss.) che nella successiva La Costituzione secondo giustizia sociale (art. 57).

(64) -Cfr. C. Gray, Sulla teoria degli equilibri in A. Rosmini, in Rivista Rosminiana, Fasc. IV, Dicembre 1930, p. 287.

(65) -Si è molto discusso sull’origine teorica del Tribunale Politico nel pensiero rosminiano. Influ" l’esempio della Costituzione americana sul modello elaborato dal Roveretano? La risposta sembra essere negativa: Rosmini teorizza per la prima volta il Tribunale Politico negli scritti giovanili, cioè nell’opera intitolata Della naturale costituzione della società civile (1827); menziona alcuni progetti riguardanti la possibilità di una pace perpetua internazionale precedenti il suo, tra i quali quelli di Enrico IV, dell’Abate di S. Pierre, di Leibniz. Tali progetti prevedevano l’istituzione di organi simili al Tribunale Politico; erano presieduti, come nel caso di Leibniz, dal Papa. Il Rosmini non menziona affatto il caso americano, indubbiamente più prestigioso, quindi se ne deduce che probabilmente non lo conosceva e d’altronde Tocqueville scrisse il suo La democrazia in America solo nel 1835 (cfr. A. Rosmini, Progetti di costituzione, introd. a cura di C. Gray, Fratelli Bocca Editori, Milano 1952, p. XV e sg.). Ovviamente, come dimostrano sia la Filosofia della politica che la Costituzione secondo giustizia sociale, una volta conosciuta l’opera del Tocqueville egli la medita a lungo riflettendo soprattutto sul problema del rapporto tra maggioranza e minoranza e il Tribunale Politico così come è descritto nell’opera politica matura si arricchisce del confronto con la Corte Suprema americana così come viene descritta dallo scrittore francese.

A proposito dell’elezione del Tribunale Politico notiamo che se nell’opera Della naturale costituzione della società civile Rosmini prevede che tutti siano chiamati a votare senza distinzioni censitarie (cioè un suffragio elettorale universale maschile), nella Costituzione secondo giustizia sociale (1848) invece egli dice che i suoi membri "sono nominati dal popolo con voto universale ed uguale Intendo per voto universale che siano chiamati a dare il voto tutti i cittadini che hanno l’esercizio del diritto elettorale [secondo l’art. 39 della Costituzione sono ammessi al voto solo coloro che pagano almeno un’imposta diretta allo Stato]: gli uomini, i padri di famiglia non interdetti" (Costituzione, p. 200). Quindi sembrerebbe che nella Costituzione egli preveda un voto uguale fra tutti coloro che pagano le imposte (a differenza delle votazioni per i rappresentanti delle Camere per le quali il contribuente dispone di più voti variabili in base alle imposte pagate); ciò sembrerebbe in contraddizione con quanto scritto nell’opera Della naturale costituzione della società civile. In realtà, come si evince dall’epistolario rosminiano, tale errore fu una "disavvertenza". Leggiamo la lettera di risposta al Manzoni il quale aveva probabilmente notato la contraddizione nei testi facendone un appunto all’amico: "Ella mi fa accorgere nella carissima sua (e me ne ha scritto anche l’ottimo Pestalozza) d’una omissione rimasta nel Progetto di Costituzione. Fu una vera disavvertenza, avendo io avuto sempre nell’animo che i membri del supremo tribunale politico dovessero eleggersi, con voto universale ed uguale, dal popolo, com’è coerente ai principi dai quali la Costituzione fu derivata Supplirà al mancamento in una ristampa quando m’occorra di farla" (cfr. Rosmini a Don A. Manzoni a Milano, 14 maggio 1848, in A. Rosmini, EpistolarioÉ, cit., p. 562). E’ chiaro che il Rosmini aveva la volontà di correggere l’errore, ma, probabilmente, dato che la Costituzione fu messa all’Indice poco tempo dopo, non ebbe modo di curarne un’altra edizione.

(66) Cfr. A. Rosmini, La Costituzione, cit., p. 201.

(67) -Cfr. Mario A. Cattaneo, Metafisica del diritto e ragion pura. Studio sul platonismo giuridico di Kant", Giuffré, Milano 1984, p. 205.

(68) -Si veda Sancipriano, Il pensiero, cit., p. 232.

E anche Traniello analizzando l’istituto del Tribunale Politico e le sue relazioni con la società politica ammette un certo "garantismo" di fondo del Rosmini: "Ma appunto perché la società politica, secondo Rosmini della Naturale Costituzione, non è chiamata ad esprimere un sistema di giustizia ma soltanto a garantirlo, ricevendolo, per così dire, dall’esterno già definito e sostanzialmente precostituito, minor rilievo assume il problema che parrebbe decisivo, dell’effettiva origine dell’organo di giustizia, della sua configurazione strutturale e dei suoi strumenti operativi, a livello propriamente politico" (cfr. F. Traniello, Società religiosa e società civile in Rosmini, Il Mulino, Bologna 1966, p. 126).

(69) -Cfr. A. Rosmini, Della Naturale Costituzione della Società Civile, Rovereto 1887, p. 321.