Rassegna Siciliana di Storia e Cultura - N. 14

INDICE GENERALE DELLE ANNATE 1997-2001 a cura di Salvo Di Matteo

Rassegna Siciliana di Storia e Cultura

Anni I-V

INDICE ALFABETICO DEGLI AUTORI

Afflerbach Holger

Crispi come alleato dal punto di vista tedesco

N. 10, a. IV, 2000, pp. 5-20

Ardizzone Patrizia

Futurismo in Inghilterra. Echi sulla stampa inglese: 1910-1915

N. 6, a. III, 1999, pp. 89-101

Baldwin Thomas

Intervista a Leonardo Sciascia (Parigi, 1979)

N. 4, a. II, 1998, pp. 5-25

Balistreri Umberto

Julius Evola e la cultura palermitana degli anni Trenta

N. 1, a. I, 1997, pp. 27-31

Su alcune torri di "avviso" del palermitano

N. 2, a. I, 1997, pp. 5-12

La Lega tra i picconieri di Bagheria

N. 3, a. II, 1998, pp. 71-73

Sulle origini del teatro medievale

N. 5, a. II, 1998, pp. 145-148

Mariano Scalisi: epilogo di una vita "maledetta"

N. 6, a. III, 1999, pp. 103-104

L’archivio del giornale "L’Ora" [con Vincenzo Mazzola]

N. 8, a. III, 1999, pp. 147-160

L’Archivio della Compagnia dei Neri di Termini Imerese

N. 13, a. V, 2001, pp. 59-62

Blasco Stefano

Le associazioni culturali palermitane dagli inizi del Novecento alla seconda guerra mondiale (parte prima)

N. 1, a. I, 1997, pp. 127-142

Le associazioni culturali palermitane. (parte seconda)

N. 2, a. I, 1997, pp. 109-125

Branca Caterina

L’idea di Europa in Aldo Garosci

N. 9, a. IV, 2000, pp. 159-173

Bruni Pierfranco

La visione politica e culturale di Giuseppe Tatarella

N. 8, a. III, 1999, pp. 143-146

"La Destra al tempo dell’Ulivo", discussione sul libro di Gennaro Malgieri

N. 11, a. IV, 2000, pp. 145-149

Buccellato Dentici Rosa Maria

Porti, cantieri, navi, pesca in età federiciana

N. 1, a. I, 1997, pp. 33-42

Buscemi Mauro

Il perfettismo nella modernità: implicazioni rosminiane nella critica di Augusto del Noce (parte prima)

N. 1, a. I, 1997, pp. 143-156

Il perfettismo nella modernità (parte seconda)

N. 2, a. I, 1997, pp. 127-138

Il perfettismo nella modernità (parte terza)

N. 3, a. II, 1998, pp. 119-137

Calvaruso Francesco Paolo

La battaglia di Gorizia (4-17 agosto 1916)

N. 10, a. IV, 2000, pp. 109-154

I battaglioni dei giovani fascisti a Bir el-Gobi, giovinezza in armi

N. 14, a. V, 2001, pp. 101-141

Cancila Orazio

La Sicilia dei viaggiatori

N. 9, a. IV, 2000, pp. 105-112

Candido Salvatore

Moderati e antimoderati nella rivoluzione siciliana del 1848

N. 2, a. I, 1997, pp. 13-18

Crispi e la Sicilia. Dall’infanzia all’esilio (1818-1849)

N. 5, a. III, 1999, pp. 7-24

Caruso Paola

Marzo 1999: la prima crisi istituzionale dell’Unione Europea

N. 12, a. V, 2001, pp. 125-155

Castellana Ornella

Il rapporto fra Stato e Chiesa nel pensiero politico di Francesco Orestano

N. 12, a. V, 2001, pp. 157-182

Cavataio Nino

America: la ricerca di una strategia per il Duemila

N. 2, a. I, 1997, pp. 139-154

La nuova Irlanda. Un modello per la Sicilia?

N. 4, a. II, 1998, pp. 119-132

Ciurlia Sandro

L’immagine della scienza oltre realismo e relativismo

N. 8, a. III, 1999, pp. 161-171

La logica come sistema concettuale aperto

N. 14, a. V, 2001, pp. 165-181

Cook Bernard

Augusto Del Noce, Walter Lippmann e Reinhold Niebuhr: parallelismi e convergenze

N. 7, a III, 1999, pp. 5-15

Corradini Anna Maria

Federico III ad Enna, "urbs inexpugnabilis": risvolti storici, politici ed economici

N. 13, a. V, 2001, pp. 63-68

Correnti Santi

La parola segreta del Vespro siciliano

N. 6, a. III, 1999, pp. 87-88

Corselli Manlio

Regionalismo ed unità nazionale in Sturzo

N. 1, a. I, 1997, pp. 103-111

Cottone Giuseppe

Giovanni Gentile e la sua cultura

N. 13, a. V, 2001, pp. 73-76

D’Antonio Arcangelo

attualità dello Statuto siciliano

N. 1, a. I, 1997, pp. 113-115

D’Asaro Franz Maria

Evola, profeta del futuro

N. 10, a. IV, 2000, pp. 43-57

De Luca Maria Amalia

A proposito di un fanale con iscrizione araba dedicato a Ferdinando IV di Borbone

N. 2, a. I, 1997, pp. 19-35

Una proposta di rilettura dell’iscrizione araba della Cuba

N. 9, a. IV, 2000, pp. 59-74

De Rosalia Antonio

L’impegno narrativo di Pietro Mazzamuto

N. 5, a. II, 1998, pp. 53-62

Dess" Giovanni

Ugo Spirito e la contestazione del 1968

N. 6, a. III, 1999, pp. 125-140

Di Giovanni Piero

Note sulla "Storia della filosofia" di Renato Composto

N. 11, a. IV, 2000, pp. 133-136

Di Matteo Salvo

Accademie e cultura accademica nella Sicilia del Sei e Settecento

N. 2, a. I, 1997, pp. 37-56

Il viaggio in Sicilia di Eugne Viollet-le-Duc

N. 8, a. III, 1999, pp. 5-18

Idea e immagine di Palermo barocca

N. 10, a. IV, 2000, pp. 21-42

Di Pasquale Armando

Renato Composto (1914-1994) storiografo siciliano del Risorgimento

N. 11, a. IV, 2000, pp. 121-126

Di Stefano Lino

Dalla cultura siciliana a quella nazionale (da Pitré a Pirandello e a Gentile)

N. 3, a. II, 1998, pp. 63-69

A vent’anni dalla morte di Ugo Spirito - Il filosofo della ricerca

N. 6, a. III, 1999, pp. 141-143

Pirandello e Gentile

N. 7, a. III, 1999, pp. 59-64

Filosofia e moda attraverso i secoli

N. 11, a. IV, 2000, pp. 85-92

Luigi Pirandello, narratore, poeta, drammaturgo e coscienza critica del Novecento

N. 13, a. V, 2001, pp. 77-80

Di Vita Pierfrancesco

Associazionismo e democrazia a Salemi dall’Unità d’Italia al primo Novecento

N. 11, a. IV, 2000, pp. 185-205

Efficace Adalgisa

Il commercio dei grani e la tecnica negoziatoria in Sicilia dalla seconda metà del Settecento

N. 7, a. III, 1999, pp. 73-131

Fagone Valeria

La Sicilia e le istituzioni comunitarie

N. 2, a. I, 1997, pp. 155-170

Favognaro Germana

Prigioni e prigionieri nella Napoli borbonica: l’intervento inglese

N. 7, a. III, 1999, pp. 163-177

Fundar˜ Antonio

L’ontologismo rivoluzionario nella Logica di Benedetto D’Acquisto

N. 11, a. V, 2001, pp. 73-104

Furiozzi Gian Biagio

Crispi e l’irredentismo

N. 9, a. IV, 2000, pp. 5-16

La tradizione balbiana sull’inorientamento dell’Austria

N. 11, a. IV, 2000, pp, 5-16

Gargano Rodolfo

Il federalismo in Italia e la costruzione della società federale (prima parte)

N. 4, a. II, 1998, pp. 49-67

Il federalismo in Italia... (seconda parte)

N. 5, a. II, 1998, pp. 93-110

Giurintano Claudia

Il modello di associazione operaia in Auguste Ott

N. 1, a. I, 1997, pp. 43-59

La riflessione di Angelina Lanza sulla donna nella chiesa e nella società

N. 2, a. I, 1997, pp. 57-64

L’idea di Europa nell’età carolingia

N. 2, a. I, 1997, pp. 175-182

Luigi Sturzo a Jacksonville: "l’esilio nell’esilio"

N. 6, a. III, 1999, pp. 145-149

Gaetano Mosca e Antonio Gramsci: al di là della Destra e della Sinistra le convergenze di due teorie politiche

N. 7, a. III, 1999, pp. 191-195

Concetto di storia e impegno sociale in Angelina Damiani Lanza (1932-1936)

N. 12, a. V, 2001, pp. 45-57

Un’approfondita e originale opera di Sergio Caruso sull’epoca e il pensiero di John Selden (1584-1654)

N. 12, a. V, 2001, pp. 193-201

Grammatico Dino

Il Fondo di solidarietà nazionale dello Statuto siciliano: attualità

N. 1, a. I, 1997, pp. 117-125

La fase "costituente" dell’Autonomia regionale siciliana e il governo Alessi della I legislatura

N. 8, a. III, 1999, pp. 19-42

Grazia Ketta

Leopoldo di Borbone conte di Siracusa: gli anni della Luogotenenza siciliana (1830-1835)

N. 5, a. II, 1998, pp. 163-176

Guccione Alessia

L’organizzazione della propaganda nella Repubblica Sociale Italiana: il ruolo del Ministero della Cultura Popolare (prima parte)

N. 8, a. III, 1999, pp. 173-226

L’organizzazione della propaganda (seconda parte)

N. 9, a. IV, 2000, pp. 113-139

Guccione Eugenio

Giuseppe Tricoli, l’uomo, lo storico, il politico

N. 1, a. I, 1997, pp. 23-26

Federalismo mancato e Regionalismo tradito

N. 2, a. I, 1997, pp. 19-68

Un inedito del 1883 anticipatore del liberalismo cattolico italiano_[G. Ventura]

N. 5, a. II, 1998, pp. 79-91

Luigi Sturzo esule negli Stati Uniti

N. 7, a. III, 1999, pp. 137-154

Gli anni belli e brutti della "Corleone Novecento" di Nonuccio Anselmo

N. 11, a. IV, 2000, pp. 151-154

Gulotta Maria Tiziana

Il crimine d’onore in Libano

N. 7, a, III, 1999, pp. 179-181

Ingrassia Gaetano

Embrioni umani e "dolce culla"

N. 3, a. II, 1998, pp. 111-113

Ingrassia Michelangelo

La crisi italiana del ’43 ed il fenomeno del Fascismo clandestino. L’episodio di Trapani

N. 3, a. II, 1998, pp. 29-45

Eurodestra vent’anni dopo. L’idea d’Europa dal punto di vista del fascismo e della destra

N. 4, a. II, 1998, pp. 105-117

Il fascismo antiborghese del giovane Guttuso

N. 7, a. III, 1999, pp. 133-136

La sconfitta dell’autonomismo e la mancata integrazione nazionale alle_origini della mala intesa fra Sicilia ed Italia

N. 9, a. IV, 2000, pp. 75-81

Il libro come missione civile: Filippo Ciuni nel centenario della nascita

N. 12, a. V, 2001, pp. 63-72

La Loggia Margherita

Le ragioni storiche della NATO

N. 5, a. II, 1998, pp. 111-134

"Banjul Charter on Human and Peoples’ Rights"

N. 8, a. III, 1999, pp. 43-80

Landolfi Enrico

Suggestioni "popolari nazionali" in Luigi Sturzo alla luce di una vocazione all’imperium

N. 3, a. II, 1998, pp. 5-13

L’idea di nazione e la politica espansionistica in un grande interprete del marxismo: Antonio Labriola

N. 5, a. II, 1998, pp. 63-78

Giovanni Amendola e il nazionalismo

N. 10, a. IV, 2000, pp. 91-97

Licata Gaetano

Heidegger e la differenza fra essere e linguaggio

N. 11, a. IV, 2000, pp. 171-184

Lillo Jacqueline

Un caso di pedofilia a Trapani nel 1875

N. 2, a. I, 1997, pp. 69-72

Lo Bue Salvatore

Tra finito e infinito il magistero di Renato Composto

N. 11, a. IV, 2000, pp. 127-128

Lo Franco Giusto

Regione Siciliana e Corte dei Conti

N. 2, a. I, 1997, pp. 171-174

L’agricoltura nel territorio di Misilmeri tra regolamenti e direttive CEE

N. 4, a. II, 1998, pp. 149-156

"La Montagna", una voce palermitana della stampa cattolica

N. 9, a. IV, 2000, pp. 101-103

Longo Donato

Hans Jonas e l’idea di responsabilità nei confronti delle diverse culture e delle generazioni future

N. 13, a. V, 2001, pp. 81-119

Lo Presti Luisa

Il principio di sussidiarietà

N. 13, a. V, 2001, pp. 121-143

Mandina Giuseppina

Ernst JŸnger, "Die totale Mobilmachung": la guerra mondiale e la rivoluzione

N. 1, a. I, 1997, pp. 157-174

JosŽ Ortega y Gasset: “L’uomo, la circostanza, la vita”

N. 5, a. II, 1998, pp. 135-143

Luigi Sturzo e il problema del finanziamento pubblico dei partiti

N. 7, a. III, 1999, pp. 155-161

Marino Giuseppe Carlo

Civiltà e barbarie nel mondo contemporaneo

N. 1, a. I, 1997, pp. 61-72

Marrone Antonino

Ebrei e giudaismo a Bivona tra Medioevo ed età moderna (1448-1547) (prima parte)

N. 6, a. III, 1999, pp. 25-58

Ebrei e giudaismo a Bivona... (seconda parte)

N. 7, a. III, 1999, pp. 27-57

Il Fascio dei lavoratori di Bivona

N. 10, a. IV. 2000, pp. 59-76

Marsala Rosanna

Luigi Sturzo e la nuova Europa

N. 3, a. II, 1998, pp. 75-81

Il cattolicesimo intransigente alle origini della Democrazia Cristiana

N. 9, a. IV, 2000, pp. 95-100

Il dibattito dei cattolici attraverso la stampa dall’unità d’Italia al fascismo

N. 11, a. V, 2001, pp. 105-115

Matranga Isabel

La cittadinanza europea: un’indagine conoscitiva

N. 10, a. IV, 2000, pp. 99-107

Mazzamuto Pietro

Salvatore Di Marco e Ignazio Buttitta

N. 10, a. IV, 2000, pp. 165-167

Mazzola Vincenzo

L’archivio del giornale "L’Ora" [con Umberto Balistreri]

N. 8, a. III, 1999, pp. 147-160

Melillo Antonio

Diritto, praxis ed istituzione. Per una interpretazione filosofico-giuridica di Carlo Pisacane

N. 4, a. II, 1998, pp. 69-104

La cultura filosofica e giuridica a Napoli nella prima metà dell’Ottocento

N. 9, a. IV, 2000, pp. 83-93

Murania Maddalena

L’idea di Europa nel pensiero liberale di Luigi Einaudi

N. 6, a. III, 1999, pp. 175-189

Muscolino Francesco

Evoluzione dell’istituto parlamentare siciliano dal XII al XX secolo

N. 3, a. II, 1998, pp. 55-62

Muscolino Salvatore

Osservazioni rosminiane alla concezione giuridica di Kant

N. 14, a. V. 2001, pp. 143-163

Nicosia Vera Maria

Il commercio della Francia con le Due Sicilie nel secolo XVIII

N. 11, a. IV, 2000, pp.155-170

Orilia Salvatore

La Sicilia nel cuore della civiltà mediterranea

N. 7, a. III, 1999, pp. 17-26

Orlando Maria Concetta

La riforma dei servizi pubblici locali nell’esperienza siciliana

N. 11, a. IV, 2000, pp. 93-118

Palmeri Giuseppe

Le zone franche e lo sviluppo delle industrie siciliane nel processo di_coesione economica e sociale dell’Europa

N. 4, a. II, 1998, pp. 133-148

La Provincia in Sicilia in mezzo secolo di travaglio normativo

N. 8, a. III, 1999, pp. 111-136

"I Vespri d’Italia": un settimanale palermitano degli anni Cinquanta nel_difficile ruolo di voce dei vinti

N. 13, a. V, 2001, pp. 27-40

"La Rivolta". Un settimanale di Palermo degli anni Sessanta fra_anticomunismo e valori risorgimentali

N. 14, anno V, 2001, pp. 89-99

Parlato Giuseppe

Spirito, Bottai e il corporativismo

N. 6, a. III, 1999, pp. 105-123

Pasqualini Maria Gabriella

L’Italia e la fine del regime delle capitolazioni in Egitto: la Conferenza di Montreux (1937)

N. 5, a. II, 1998, pp. 5-35

Stabilità e sicurezza nel Mediterraneo

N. 12, a. V, 2001, pp. 25-44

Patricolo Roberto

Dibattito sulla identificazione della terza salma nel sarcofago porfireo di Federico II

N. 12, a. V, 2001, pp. 7-24

Patrizi Antonello

La scuola di mistica fascista

N. 12, a. V, 2001, pp. 59-62

Portalone Gabriella

Giuseppe Tricoli, una biografia intellettuale

N. 1, a. I, 1997, pp. 7-21

Fernando Tambroni: l’ultimo Don Chisciotte

N. 2, a. I, 1997, pp. 73-96

L’influenza della cultura solidaristica albanese nella legislazione sociale crispina

N. 3, a. II, 1998, pp. 15-27

Sturzo e Mussolini

N. 6, a. III, 1999, pp. 59-86

La verità sul PCI negli ultimi due scritti di Massimo Caprara

N. 7, a. III, 1999, pp. 163-177

Adua: fine di un sogno

N. 9, a. IV, 2000, pp. 17-58

Una rivisitazione storica dei rapporti tra la Repubblica Sociale e il Terzo Reich

N. 9, a. IV, 2000, pp. 175-180

La politica giudiziaria del fascismo

N. 12, a. V, 2001, pp. 183-192

Un’autobiografia intellettuale: "L’Astuccio siculo" di Salvatore Costanza

N. 13, a. V, 2001, pp. 155-160

Mussolini nel 1914: il passaggio dalla classe alla nazione

N. 14, a. V, 2001, pp. 5-87.

Dall’Italia liberale all’Italia fascista nell’analisi di G.B. Furiozzi

N. 14, a. V, 2001, pp. 183-188.

Pintacuda Marco

La tutela dei diritti dell’uomo nell’esperienza dell’OSCE

N. 9, a. IV, 2000, pp. 141-158

Rallo Stefania

Le "Note sul Ramo d’Oro di Frazer" di Wittgenstein

N. 13, a. V, 2001, pp. 145-154

Rampolla del Tindaro Ida

Renato Composto, uomo di scuola

N. 11, a. IV, 2000, pp. 129-131

Riccobono Salvatore

L’esperienza etica della storia politica e giuridica di Roma

N. 1, a. I, 1997, pp. 73-85

Salvatore Riccobono [senior], accademico d’Italia, nella testimonianza del nipote

N. 13, a. V, 2001, pp. 69-72

Romano Tommaso

Il saggio "La rivolta siciliana del 1958" riapre il dibattito sull’Operazione Milazzo e il milazzismo

N. 3, a. II, 1998, pp. 83-110

Sarnelli Cerqua Clelia

I medici italiani in Egitto

N. 5, a. II, 1998, pp. 37-52

Scaglione Maurizio

Riannodare il filo spezzato – 1. Discorso sulla nazione italiana

N. 1, a. I, 1997, pp. 87-98

Riannodare il filo spezzato – 2. La prima Italia

N. 2, a. I, 1997, pp. 97-108.

Giuseppe Parlato, direttore della Fondazione Ugo Spirito, tiene a battesimo la nostra Rassegna

N. 3, a. II, 1998, pp. 115-118

Riannodare il filo spezzato – 3. La seconda Italia

N. 4, a. II, 1998, pp. 27-47

Riannodare il filo spezzato – 4. La terza Italia

N. 7, a. III, 1999, pp. 65-72

La sinistra fascista nell’ultimo saggio di Giuseppe Parlato

N. 10, a. IV, 2000, pp. 155-164

Giovanni Borgese e la fondazione dell’Associazione Nazionalista a Palermo

N. 11, a. IV, 2000, pp, 17-51

Riflessioni sul percorso culturale e politico del nazionalismo italiano e sul rapporto fra Associazione Nazionalista Italiana e Fascismo

N. 13, a. V, 2001, pp. 5-26

Scuderi Giuseppe

Il Collegio Massimo dei Gesuiti a Palermo: architettura e opere d’arte perdute e ritrovate

N. 10, a. IV, 2000, pp. 77-90

Simon Fabrizio

Tramite carte inedite di Emerico Amari l’identificazione degli anonimi de "La Croce di Savoia"

N. 12, a. V, 2001, pp. 117-123

Siragusa Mario

Stato, scienza penale, poteri ed organizzazioni criminali in Sicilia tra Ancien RŽgime ed età contemporanea

N. 11, a. IV, 2000, pp. 53-84

Contratti agrari dell’università di Gangi in etˆ moderna

N. 13, a. V. 2001, pp. 41-58

Solitro Gino

Demografia: ieri e oggi

N. 13, a. V, 2001, pp. 161-168

Sorce Lucia

Giovanni Filangieri: un nobile nella Sicilia del Settecento

N. 4, a. II, 1998, pp. 157-180

Spadaro Maria Antonietta

Otamˆ Kiyohara: Eleonora Ragusa da Tokyo a Palermo

N. 3, a. II, 1998, pp. 47-54.

Il Palazzo di Giustizia di Palermo (1935-1957)

N. 8, a. III, 1999, pp. 137-141

Teresi Francesco

Le riforme costituzionali ad una svolta

N. 1, a. I, 1997, pp. 99-101

Tessitore Giovanni

Le vicende che condussero all’abolizione della pena di morte dopo la caduta del regime fascista

N. 8, a. III, 1999, pp. 81-109

Tricoli Fabio

Renzo De Felice nella testimonianza di due suoi allievi: G. Parlato e_G. Sabbatucci

N. 1, a. I, 1997, pp. 175-190

Lo Statuto della regione Siciliana, un modello per la Padania. Intervista a Roberto Maroni, Nicola Cristaldi e Massimo Ganci

N. 3, a. II, 1998, pp. 159-173

Tricoli Marcello

La Costituzione siciliana del 1812 in alcuni manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo (parte prima)

N. 5, a. II, 1998, pp. 149-162

La Costituzione siciliana del 1812... (parte seconda)

N. 6, a. III, 1999, pp. 151-173

Vincenti Lucia

"Comunità" ebraica palermitana

N. 3, a. II, 1998, pp. 139-158

INDICE ALFABETICO DEI SOGGETTI TRATTATI

Accademie siciliane (S. Di Matteo)

Africa e Diritto internazionale (M. La Loggia)

Amendola Giovanni (E. Landolfi)

America (N. Cavataio)

Austriaca, questione (G. B. Furiozzi)

Autonomia siciliana (N. Cavataio; A. D’Antonio; D. Grammatico;_M. Ingrassia; G. Lo Franco; F. Tricoli)

Bagheria (U. Balistreri)

Barocco palermitano (S. Di Matteo)

Bivona (A. Marrone)

Borboni (G. Favorgnaro; G. Ketta)

Caprara Massimo (G. Portalone)

Cattolici e politica (R. Marsala)

Ciuni Filippo, editore (M. Ingrassia)

Collegio Massimo dei Gesuiti (G. Scuderi)

Colonialismo (G. Portalone; F. P. Calvaruso)

Commercio siciliano nel Settecento (A. Efficace; V. M. Nicosia)

Composto Renato (P. Di Giovanni; A. Di Pasquale; S. Lo Bue; I. Rampolla del Tindaro)

Cooperativismo (C. Giurintano)

Corleone (E. Guccione)

Corporativismo (G. Parlato)

Costanza Salvatore (G. Portalone)

Costituzione del 1812 (M. Tricoli)

Crispi Francesco (H. Afflerbach; S. Candido; G. B. Furiozzi; G. Portalone)

Cultura a Palermo (S. Blasco)

Cultura siciliana (L. Di Stefano)

De Felice Renzo (F. Tricoli)

Del Noce Augusto (M. Buscemi; B. Cook)

Demografia, Embriologia (G. Ingrassia; G. Solitro)

Destra politica (P. Bruni; M. Ingrassia)

Diritti dell’uomo (M. Pintacuda)

Diritto penale (M. Siragusa)

Diritto romano (S. Riccobono)

Ebrei palermitani (L. Vincenti)

Egitto (C. Sarnelli Cerqua)

Etica sociale (D. Longo; L. Lo Presti)

Europa e Problemi europei (P. Caruso; M. Ingrassia; M. La Loggia; I. Matranga; M. Murana)

Europa, l’idea in etˆ carolingia (C. Giurintano)

Evola Julius (U. Balistreri; F. M. D’Asaro)

Fascismo (M. Ingrassia; A. Patrizi; G. Portalone; M. Scaglione)

Federalismo (R. Gargano; E. Guccione)

Federico III d’Aragona (A. M. Corradini)

Filangieri Giovanni, patrizio del ’700 (L. Sorce)

Futurismo (P. Ardizzone)

Garosci Aldo (C. Branca)

Gentile Giovanni (G. Cottone; L. Di Stefano)

Gorizia, battaglia di (F. P. Calvaruso)

Gramsci Antonio (C. Giurintano)

Guttuso Renato (M. Ingrassia)

Heidegger e l’essenza del Linguaggio (G. Licata)

Iscrizioni arabe (M. A. De Luca)

JŸnger Ernst (G. Mandina)

Kant Immanuel (S. Muscolino)

Labriola Antonio (E. Landolfi)

Lanza Angelina (C. Giurintano)

Libano (M. T. Gulotta)

Liberalesimo preunitario (A. Melillo)

"L’Ora", l’archivio del giornale (U. Balistreri)

Mazzamuto scrittore (A. De Rosalia)

Mediterranei, problemi (M. G. Pasqualini)

Milazzismo (T. Romano)

Misilmeri (G. Lo Franco)

Moda e costume nei secoli (L. Di Stefano)

Mosca Gaetano (C. Giurintano)

Nazionalismo (M. Scaglione)

Nazione italiana (M. Scaglione)

Ortega y Gasset (G. Mandina)

Palazzo di Giustizia di Palermo (M. A. Spadaro)

Parlamento siciliano (F. Muscolino)

Pedofilia (J. Lillo)

Pena di morte (G. Tessitore)

Pensiero (S. Ciurlia)

Pirandello Luigi (L. Di Stefano)

Pisacane Carlo (A. Melillo)

Poeti siciliani (P. Mazzamuto)

Provincia, ordinamento istituzionale (G. Palmeri)

Ragusa Eleonora, una giapponese a Palermo (M. A. Spadaro)

Repubblica Sociale Italiana (A. Guccione; G. Portalone)

Riccobono Salvatore (S. Riccobono jr)

Riforme costituzionali (F. Teresi)

Rivoluzione del 1848 (S. Candido)

Salemi (P. Di Vita)

Scalisi, poeta "maudit" (U. Balistreri)

Sciascia Leonardo (T. Baldwin)

Scienza e relativismo (S. Ciurlia)

Selden John (C. Giurintano)

Servizi pubblici (M. C. Orlando)

Sicilia ed Europa (V. Fagone; G. Palmeri)

Sicilia nella cultura (S. Orilia)

Sicilia sveva (M. R. Buccellato Dentici)

Stampa locale (G. Lo Franco; G. Palmeri)

Stampa risorgimentale (F. Simon)

Stato e Chiesa (O. Castellana)

Sturzo Luigi (M. Corselli; C. Giurintano; E. Guccione; E. Landolfi;_G. Mandina; R. Marsala; G. Portalone)

Tambroni Fernando (G. Portalone)

Tatarella Giuseppe (P. Bruni)

Teatro medievale (U. Balistreri)

Termini Imerese (U. Balistreri)

Torri di avviso in Sicilia (U. Balistreri)

Tricoli Giuseppe (E. Guccione; G. Portalone)

Ventura Gioacchino (E. Guccione)

"Vespri (I) d’Italia", un settimanale siciliano (G. Palmeri)

Vespro siciliano (S. Correnti)

Viaggiatori stranieri in Sicilia (O. Cancila)

Viollet-le-Duc in Sicilia (S. Di Matteo)

Wittgenstein e Frazer (S. Rallo)

 

INDICE ALFABETICO DELLE OPERE RECENSITE

Aa. Vv., Don Pino Pugliesi, prete e martire, Atti del Convegno della Facoltà Teologica di Sicilia (novembre 1998), presentazione del Card. Salvatore De Giorgi, Libreria Editrice "Il Pozzo di Giacobbe", Trapani 2000 (C. Giurintano n. 10, 2000).

Abate L. – Livatino R., Eloquenza della morte di un "piccolo giudice", A. Siciliano editore, Messina 1999 (G. Portalone, n. 7, 1999)

Adorni D., Francesco Crispi. Un progetto di governo, L. Olschki, Firenze 1999 (G. Portalone, n. 8, 1999)

Amatiello P., Dragunara. Le trombe marine della fatalità e della storia abbattutasi sulla Sicilia, Il Ponte, New York 1997 (U. Balistreri, n. 4, 1998)

Antonetti N. – De Siervo U. (a cura di), Ambrosini e Sturzo. La nascita delle Regioni, Il Mulino, Bologna 1998 (R. Marsala, n. 9, 2000)

Autori Vari, Momenti di storia e di pensiero politico in Sicilia. Scritti in onore di Ottavio Ziino Tortorici, Ila Palma, Palermo 1996_(C. Giurintano, n. 1, 1997)

Balistreri U. (a cura di), Renato Guttuso e i dipinti di Maria SS. Addolorata di Aspra, Circolo Culturale Mediterraneo, Palermo 1997 (F. Sgroi, n. 2, 1997)

Balistreri U. - Romano T. (a cura di), Romagnolo e dintorni, Isspe, Palermo 1997 (L. Gippetto, n. 2, 1997)

Balistreri U. (a cura di), Aspra e il suo territorio, Isspe, Palermo 1995_(F. Sgroi, n. 3, 1998)

Balistreri U., Pirriere e pirriatori nel Bagherese, Isspe, Palermo 2000_(G, Taibi, n. 11, 2000)

Beddia N., E Dio salì sul mio treno, Grafitalica, Napoli 2000 (E. Lauretta, n. 13, 2001)

Becucci S. – Massari M., Mafie nostre, mafie loro. Criminalità organizzata italiana e straniera nel Centro-Nord, Edizioni di Comunità, Torino 2001 (S. Figlioli, n. 13, 2001)

Bottari S. (a cura di), Problemi e aspetti della storia dei Nebrodi, Pungitopo, Marina di Patti 1999 (U. Balistreri, n. 14, 2001)

Camilleri A., La strage dimenticata, Sellerio, Palermo 1998 (S. Candido, n. 5, 1998)

Cancila R., Il pane e la politica. La rivolta palermitana del 1560, prefaz. di P. Viola, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999 (G. Portalone, n. 7, 1999)

Canta C. C., Cipriani R., Turchini A., Il viaggio. Studi del Centro A. Cammarata, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1999 (C. Giurintano, n. 7, 1999)

Caroniti D., Problema sociale, nazione e cristianesimo: Orestes_A. Brownson, Rubettino, Catanzaro 1998 (C. Giurintano, n. 5, 1998)

Casarrubea G., Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato, Franco Angeli, Milano 1997 (G. Portalone, n. 4, 1998)

Centonze F., L’uomo che regolava l’orologio del cosmo ed altri testi teatrali, Thule, Palermo 1999 (N. Di Girolamo, n. 10, 2000)

Corselli M., Stato unitario e unificazione nazionale, Herbita, Palermo 1997 (R. Ferro, n. 3, 1998)

Corsello S., La politica tra natura e artificio. L’antropologia positiva di B. Spinosa, prefazione di G. Barbaccia, Ila Palma, Palermo 1999_(C. Giurintano, n. 11, 2000)

Costa G. – Naro C. (a cura di), Salvatore Aldisio. Cristianesimo e democrazia nell’esperienza di un leader del movimento cattolico siciliano, Atti del Convegno di studi storici (Gela, 28 marzo 1998), Sciascia, Caltanissetta-Roma 1999 (C. Giurintano, n. 9, 2000)

Crispi F, Componimenti poetici, a cura di I. Parrino, Collana di documenti e testi di cultura albanese, Palazzo Adriano 1995 (C. Giurintano, n. 1, 1997)

De Gregorio D., La Chiesa agrigentina. Notizie storiche. Dalle origini al XVIII secolo, voll. 2, Agrigento 1997 (C. Messina, n. 4, 1998)

Della Volpe N., Esercito e propaganda nella seconda guerra mondiale, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, Roma 1998 (M. G. Pasqualini, n. 6, 1999)

Dentici G., Le proposte di un principe. Pietro Lanza e la "ricchezza del Regno", La Zisa, Palermo 1999 (C. Giurintano, n. 9, 2000)

Di Giovanni A., Fatuzzi razziusi, Municipio di Cianciana, Cianciana 1996 (M. Pisano, n. 4, 1998)

Di Maggio G., Le faville del dolore. Epistolario e altri scritti inediti, a cura di G. Cipolla, presentazione di Cataldo Naro, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1997 (C. Giurintano, n. 4, 1998)

Di Matteo S., Viaggiatori stranieri in Sicilia dagli Arabi alla seconda metà del XX secolo. Repertorio, analisi, bibliografia, introduzione di_O. Cancila, voll. 3, Isspe, Palermo 2000 (G. Portalone, n. 9, 2000)

Di Matteo S., Almanacco siciliano 2001, con un testo di B. Caruso, Kal—s, Palermo 2001 (Presentazione dell’Editore, n. 12, 2001)

Di Pasquale A., Gli studenti dell’Università di Palermo dal 1797 al 1947, Palermo 2001 (G. Portalone, n. 14, 2001)

Falzone M. T., In mezzo al mondo. Consacrazione e apostolato della donna in Nunzio Russo, Centro Studi A. Cammarata, San Cataldo 1998_(C. Giurintano, n. 5, 1998)

Falzone M. T., Da questo vi riconosceranno. Chiesa e poveri in Sicilia_in età contemporanea, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2000_(C. Giurintano, n. 12, 2001)

Fardella de Quernfort V., Storia postale del Regno di Sicilia, dalle origini all’introduzione del francobollo (1130-1858), voll. 3, Edizioni Zeffiro, Bagheria, s.d. (U. Balistreri, n. 10, 2000)

Farinella E., Italia-Irlanda: un’amicizia secolare al lavoro nell’Unione Europea, Bonanno, Catania 1997 (N. Cavataio, n. 4, 1998)

Ferreri G., Viabilità nazionale e rete stradale siciliana, Isspe, Palermo 1997 (G. Taibi, n. 5, 1998)

Fiume G. - Modica M. (a cura di), San Benedetto il Moro. Santità, agiografia e primi processi di canonizzazione, appendice documentaria a cura di R. C. Giordano, presentaz. di F. Guttuso, Biblioteca Comunale di Palermo, Palermo 1998 (G. Portalone, n. 7, 1999)

Fulci F. P., La riforma del Consiglio di Sicurezza: un nostro interesse vitale, Roma 1997 (N. Cavataio, n. 1, 1997)

Galli della Loggia E., L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998_ (G. Portalone, n. 10, 2000)

Ganci M., L’Italia antimoderata. Radicali, repubblicani, socialisti, autonomisti dall’Unità ad oggi, Lombardi, Palermo-Siracusa 1996_ (D. Grammatico, n. 2, 1997)

Giarrizzo F. e S., Valguarnera Caropepe all’epoca dei cavalieri e dei podestà, Novagraf, Assoro 2001 (E. Guccione, n. 13, 2001)

Giurintano C., Società e Stato in Nicola Spedalieri, Ila Palma 1998_ (G. Portalone, n. 3, 1998)

Giurintano C., Socialismo romantico in Matteo Teresi (Alia 1875 – Rochester 1971), presentazione di E. Guccione, Ila Palma, Palermo 1999 (G. Portalone, n. 7, 1999)

Grammatico D., La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo, Sellerio, Palermo 1997 (G. Portalone, n. 1, 1997)

Grammatico D., Mia incomparabile terra, Thule, Palermo 1997 (G. Taibi, n. 4, 1998)

Grammatico D., Sicilcassa: una morte annunciata, Sellerio, Palermo 1998 (G. Gentile, n. 5, 1998)

Guccione E., Dal federalismo mancato al regionalismo tradito, Giappichelli, Torino 1998 (C. Giurintano, n. 3, 1998)

Guccione E., Gioacchino Ventura. Alle radici della Democrazia Cristiana, Centro Siciliano Sturzo, Palermo 2000 (C. Giurintano, n. 11, 2000)

Guccione L., Giorni vissuti come fossero anni, con nota introduttiva di_F. Renda, Alia 1997 (C. Giurintano, n. 2, 1997)

Guccione M., Amnesty International. Racconti da dimenticare, pref. di_E. Vaime, Roma 2000 (n. 12, 2001)

Ingrassia M., L’idea di fascismo in Arnaldo Mussolini, Isspe, Palermo 1998

Izzo F., I lager dei Savoia. Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali, Controcorrente, Napoli 1999_ (G. Portalone, n. 10, 2000)

La Malfa C., Ricordi di Sicilia, University College, Dublino 1988 e Una macchia nel sole, University College, Dublino 1993 (N. Cavataio, n. 4, 1998)

Lamb R., Mussolini e gli inglesi, trad. it., Corbaccio, Milano 1998_ (M. Scaglione, n. 6, 1999)

Levra U., Fare gli italiani. Memorie e celebrazioni del Risorgimento, Comitato per la Storia del Risorgimento Italiano, Torino 1992_ (S. Candido, n. 5, 1998)

Lodato D., La secolare Accademia del Parnaso canicattinese. Canicattì, gli arcadi, il barone, Canicattì 1998 ([G. Portalone], n. 12, 2001)

Lo Jacono Battaglia S., S˜lanto. Storia e cronaca, Bagheria 1997_ (U. Balistreri, n. 2, 1997)

Lo Jacono Battaglia S., Solnto, Bagheria 2000 (U. Balistreri, n. 10, 2000)

Lo Monaco G. B., Fatima e l’anno Sessanta, AGAF, Palermo 1997_ (C. Giurintano, n. 3, 1998)

Longo L. E., L’attività degli addetti militari italiani all’estero fra le due guerre mondiali (1919-1939), Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, Roma 1999 (M. G. Pasqualini, n. 11, 2000)

Maggiore G., Sette e mezzo, Flaccovio, Palermo 1998 (C. Giurintano, n. 6, 1999)

Manzaci G., Il ritorno dall’oblio, A.n.r.f., Roma 1998 (L. Di Stefano, n. 10, 2000)

Marino G. C., Storia della mafia, Newton & Compton, Roma 1997_ (M. Ingrassia, n. 2, 1997)

Marino G. C., Storia della mafia, Newton & Compton, Roma 1998_ (G. Portalone, n. 6, 1999)

Marino G. C., Eclissi del principe e crisi della Storia. Apogeo e tramonto della democrazia rivoluzionaria nel XX secolo, Franco Angeli, Milano 2000 (G. Portalone, n. 10, 2000)

Marrone A., Storia delle comunità religiose e degli edifici sacri di Bivona, Comune di Bivona ed., S. Stefano di Quisquina 1997 (G. Portalone, n. 3, 1998)

Marrone A., Il Distretto, il circondario ed il collegio elettorale di Bivona (1812-1880), Comune di Bivona, Bivona 1996 (G. Portalone, n. 5, 1998)

Marrone G., Città, campagna e criminalità nella Sicilia moderna, Palumbo, Palermo 2000 (S. Di Matteo, n. 12, 2001)

Mastellone S., La democrazia etica di Mazzini (1837-1847), Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 2000 (C. Giurintano, n. 13, 2001)

Menighetti R. – Nicastro F., L’eresia di Milazzo, Sciascia, Caltanissetta-Roma 2000 (G. Portalone, n. 11, 2000)

Messina C., Jordanus non est conversus retrorsum, Edizioni Internazionali di Letteratura e Scienza, Roma 1998 (C. Giurintano, n. 3, 1998)

Messina C., Sodalitas [poesie], Ila-Palma, Palermo 1999 (C. Giurintano, n. 9, 2000)

Noto S. (a cura di), Volti e pagine di Sicilia (da Serafino Amabile Guastella a Lara Cardella), presentazione di N. Mineo, Prova d’Autore, Catania 2001 (C. Giurintano, n. 13, 2001)

Palmeri G., Il fiume di Eraclito. L’Autonomia regionale e il suo divenire, Ila Palma, Palermo 1996 (G. Cataldo, n. 4, 1998)

Palmeri G., La Fondazione Mandralisca di Cefalù, Ila Palma, Palermo 1998 (S. Di Matteo, n. 5, 1998)

Pasqualini M. G., Il Levante, il Vicino e il Medio Oriente (1890-1939). Le fonti archivistiche dell’Ufficio Storico, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, Roma 1999 (D. Grammatico, n. 7, 1999)

Pastori F., Gioacchino Ventura di Raulica e la Costituzione napoletana del 1820, Ed. Milella, Lecce 1997 (C. Giurintano, n. 2, 1997)

Perrone N., Dalla vita nelle Marche all’olimpo dei re del petrolio, Il Mulino, Bologna 2001 (F. Falcone, n. 14, 2001)

Pillitteri F., Credito, ricostruzione e sviluppo nella Sicilia del dopoguerra (1940-1965), Sciascia, Caltanissetta-Roma 2000 (D. Grammatico, n. 11, 2000)

Pisciotta S., La rivoluzione nella rivoluzione, Settimo Sigillo, Roma 1997 (M. Ingrassia, n. 3, 1998)

Previteri N., Don Gesualdo Pittalˆ, sindaco e galantuomo borbonico, Comune di Bagheria, Bagheria 1997 (G. Portalone, n. 3, 1998)

Privitera S., La questione bioetica nella città di oggi, Centro Studi A. Cammarata, San Cataldo 1998 (C. Giurintano, n. 5, 1998)

Privitera S., Francesco Orestano. Persona, società e valori, Centro Siciliano Sturzo, Palermo 2000 (C. Giurintano, n. 11, 2000)

Renda F., Storia della mafia, Sigma edizioni, Palermo 1997 (G. Portalone, n. 5, 1998)

Restivo A., L’occhio e la parola, Palermo 1997 (F. Varchi, n. 2, 1997)

Romano T., L’anacoreta occulto, Thule, Palermo 1996; Finestra sul Cassaro, Isspe, Palermo 1996 (F. Sgroi, n. 1, 1997)

Rosselli C., Scritti scelti, a cura di G. B. Furiozzi, pref. di V. Spini, Alinea, Firenze 2000 (G. Portatone, n. 12, 2001)

Ruffo M., L’Italia nella Triplice Alleanza. I piani operativi dello Stato Maggiore verso l’Austria-Ungheria dal 1885 al 1915, Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, Roma 1998 (M. G. Pasqualini, n. 6, 1999)

Russo A., Castrense Civello. L’uomo e l’opera, Isspe, Palermo 1998_ (G. Taibi, n. 5, 1998)

Russo F., Guerra di corsa. Ragguaglio storico sulle principali incursioni turco-barbaresche in Italia e sulla sorte dei deportati tra il XVI ed il XIX secolo, voll. 2, Stato Maggiore dell’Esercito - Ufficio Storico, Roma 1997 (M. G. Pasqualini, n. 2, 1997)

Ruta A. M. (a cura di), Il Teatro futurista sintetico in Sicilia, Edizioni della Battaglia, Palermo 1998 (S. Di Marco, n. 6, 1999)

Sacco Giglio I., Conversazioni: Giuseppiona Turrisi Colonna, Ferdinando Di Giorgi, Angelina Lanza Damiani, Thule, Palermo 1998_ (C. Giurintano, n. 4, 1998)

Sciascia Cannizzaro C., Padre Angelo Brucculeri da Canicattì, Edizioni Meta, Canicattì 1997 (G. Portalone, n. 6, 1999)

Sciascia Cannizzaro C., Antonino Sciascia tra i grandi della scienza, Meta, Canicattì 1999 (G. Portalone, n. 10, 2000)

Semeraro C., Monaci e frati a Caltanissetta a metà Ottocento. Una relazione alla Santa Sede del vescovo Stromillo nel 1853, presentaz. di R. Manduca, Centro Studi A. Cammarata, San Cataldo 1998_ (C. Giurintano, n. 7, 1999)

Siragusa M., Gli inquietanti legami dello Zoppo di Gangi. Storia inedita del pittore Giuseppe Salerno: il torbido intreccio tra criminalità organizzata, Santa Inquisizione, politica ed arte nelle Madonie del Seicento, Lancillotto ed., Castelbuono 1997 (G. Portalone, n. 4, 1998)

Soprintendenza Archivistica per la Sicilia, Gli Archivi non statali in Sicilia, Palermo 1999 (G. Taibi, n. 7, 1999)

Spadaro G., Il Fascismo crocevia della modernità, Settimo Sigillo, Roma 1998 (L. Di Stefano, n. 8, 1999)

Stabile M., I consoli di Dio, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1999_ (G. Portalone, n. 9, 2000)

Suppa S., Società, Politica, Diritto. Percorsi dell’"EncyclopŽdie" di Diderot e D’Alembert, Schena, Fasano di Brindisi 1999 (C. Giurintano, n. 10, 2000)

Tallarico L., Boccioni dal Meridione all’Europa, Belriguardo, Ferrara s. d. (U. Balistreri, n. 3, 1998)

Tessitore G., Cesare Mori, la grande occasione perduta dell’antimafia, _L. Pellegrini ed., s. l. e a. (M. Scaglione, n. 3, 1998)

Tessitore G., Ruggero II, Flaccovio, Palermo 1995 (G. Portalone, n. 4, 1998)

Tessitore G., Il nome e la cosa. Quando la mafia non si chiamava mafia, Franco Angeli, Milano 1997 (G. Portalone, n. 5, 1998)

Tricoli G., Benito Mussolini. L’uomo, il rivoluzionario, lo statista e la sua formazione ideologica, La Navicella, Roma 1996 (G. Portalone, n. 1, 1997)

Tricoli G., Gioacchino Volpe nella storia d’Italia, con prefazione di_G. Malgieri, Isspe, Palermo 1996 (G. Portalone, n. 1, 1997)

Vacca S. (a cura di), La Legazia Apostolica. Chiesa, potere e società in Sicilia in età medievale e moderna, presentazione di C. Naro, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 2000 (C. Giurintano, n. 12, 2001)

Vaccaro M., Gaspare Puccio e i martiri del 1799, Comune di Sambuca di Sicilia, Sambuca di Sicilia 1998 (M. Ingrassia, n. 6, 1999)

Vecchio S., La terra del sole [testi antologici della cultura siciliana], voll. 2, Terzo Millennio, Caltanissetta s. d. (D. D’Erice, n. 14, 2001)

 

RECENSIONI

S. Vecchio, La terra del sole, con introduzione e prefazione dell’Autore, Caltanissetta, Terzo millennio editore, voll. 1 e 2, pp. 725

"La terra del sole", opera in due volumi di Salvatore Vecchio, costituita da un testo antologico della cultura siciliana, viene a colmare una lacuna in quanto offre una panoramica, sia pure sintetica, dei fatti, degli avvenimenti, dei personaggi e, soprattutto, degli autori più importanti che hanno caratterizzato ed illustrato la storia della Sicilia.

La metodologia seguita nell’elaborazione di poi ne fa un manuale agevole nella consultazione, puntuale negli approfondimenti, con periodi storici ben scanditi. In altri termini un manuale utile agli addetti ai lavori, ai lettori comuni, alle stesse scolaresche.

Il primo volume va dalle Origini ai Borboni e si articola attraverso i capitoli: Le origini, La Sicilia greca, La denominazione romana, Il periodo barbaro-bizantino, La Sicilia araba e normanna, Gli Svevi, Dalla Sicilia angioina agli Aragonesi, La Sicilia spagnola, Sabaudi, austriaci e borboni in Sicilia.

Quel che aggiunge interesse all’opera è la elencazione di modi di dire e di proverbi, a conclusione di ciascun capitolo, nonché la esposizione della derivazione dei vari termini usati.

Il secondo volume continua l’impostazione del primo e va dal Risorgimento ai nostri giorni. I vari capitoli sono: La Sicilia dal Risorgimento alla sfiducia nello stato unitario, La Sicilia della I metà del Secolo. L’autonomia, La II metà del Novecento. La Sicilia dei nostri giorni.

Un aspetto importante è l’inserimento di racconti e di canti popolari.

Naturalmente è facile notare - specie per quanto riguarda gli autori - delle assenze oppure un rilievo limitato riservato a personalità quali Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Vittorio Emanuele Orlando, Giuseppe Pitré, Biagio Pace e altri. Ma in raccolte antologiche, che peraltro devono tenere conto degli spazi a disposizione, è ineluttabile che avvenga. Comunque assenze vistose non se ne notano, anzi vengono posti alla ribalta anche autori poco conosciuti.

L’opera, che è curata anche nella veste tipografica, si conclude con un prospetto sinottico-cronologico comparato, con una bibliografia essenziale e con gli indici dei nomi e delle illustrazioni.

Al di là degli aspetti formali, delle linee metodologiche, è lo spirito che informa tutta l’opera che va particolarmente sottolineato. Si tratta infatti di uno spirito di sicilianità che traspare non solo nelle valutazioni degli avvenimenti e degli autori, ma anche nella scelta dei testi. Va reso perciò grande merito a Salvatore Vecchio per averci dato un’opera che sostanzialmente inaugura un filone nuovo, che apre le porte ad una più puntuale interpretazione delle identità della nostra Isola.

Dino D’Erice

 

 

A. di Pasquale, Gli studenti dell’Università di Palermo dal 1797 al 1974, Palermo 2001, pp. 92.

Veramente meritorio risulta quest’ultimo lavoro di Armando Di Pasquale, già professore di Demografia e di Demografia Storica alla facoltà di Scienze Politiche della nostra Università, che ci dà per la prima volta un quadro completo, rielaborato statisticamente, degli universitari palermitani dal 1797 al 1947.

L’autore ristampa alcuni saggi già pubblicati in prestigiose riviste come Il Circolo Giuridico, gli Annali della facoltà di Economia e Commercio di Palermo, Statistica, che non sono altro che la rielaborazione della sua tesi di laurea, La popolazione studentesca di Palermo dalle origini ai nostri giorni, discussa - relatore il prof. Fortunati - nel lontano giugno 1940. Tale tesi, che meritò il diritto di pubblicazione, per i noti eventi bellici non poté mai essere data alle stampe; solo nel 1947 fu data all’autore la possibilità di pubblicare, in due distinti saggi, enucleati dal contesto generale della tesi, due argomenti relativi, rispettivamente, all’anno di fondazione dell’Ateneo palermitano e al numero di studenti ad esso iscritti nei primi venticinque anni dalla fondazione. In seguito venne pubblicato nella rivista milanese Statistica, diretta, appunto, dal prof. Fortunati, un saggio costituente il nucleo centrale della tesi di Laurea, concernente la popolazione studentesca dell’Università palermitana dalle origini al secondo dopoguerra.

L’autore si è deciso alla ristampa di tali lavori, riuniti in un unica veste tipografica, con l’aggiunta della riproduzione anastatica di alcune pagine particolarmente significative dell’originale tesi, per non vanificare il suo lavoro giovanile, tenendo presente che i fascicoli dei periodici in cui i frammenti dello stesso furono pubblicati più di cinquant’anni fa risultano adesso irreperibili.

Il primo dei saggi ristampati concerne la disputa che si accese sull’effettivo anno di fondazione dell’Ateneo palermitano, comunemente indicato nel 1805, ma che Di Pasquale, in seguito ad accurate ricerche di archivio, individua nel 1779, anno in cui venne costituita la reale Accademia degli studi che può considerarsi, sia formalmente che sostanzialmente, Università.

L’autore sottolinea la continuità tra il Collegio Massimo dei Gesuiti, chiuso nel 1767, anno della cacciata degli stessi, e L’Ateneo palermitano, anche se il Collegio non si potrebbe considerare una vera e propria università, poiché esso conferiva solamente lauree in teologia e non si insegnavano altre discipline. Infatti, anche prima della chiusura del Collegio Massimo, si chiedeva a gran voce, da parte dei pubblici poteri e di gran parte della popolazione, la nascita di un università, di cui Palermo, a differenza di Catania e Messina, mancava ancora.

Il 5 novembre del 1779 fu aperta, negli stessi locali del vecchio Collegio Massimo, la Regia Accademia degli studi San Ferdinando che comprendeva quattro facoltà - giurisprudenza, teologia, filosofia e medicina - e venti cattedre e di cui fu nominato rettore il Principe don Gabriele Castello, chierico regolare testino. Le lezioni venivano impartite due ore la mattina e un’ora il pomeriggio, ma ogni ora era non di sessanta ma di novanta minuti. L’Accademia, per decreto Reale, poteva rilasciare attestati di laurea in teologia e filosofia, mentre i laureandi in giurisprudenza e Medicina, potevano ricevere i gradi dottorali solo dall’università di Catania.

Quando, nel 1804, i gesuiti tornarono a Palermo, l’Accademia si trasferì" nei locali dei teatini, annessi alla Chiesa di San Giuseppe, a patto, però, che il rettore venisse sempre scelto, da allora in avanti, fra gli stessi padri teatini.

Secondo l’autore, il fatto che si chiamasse Accademia e non Università risulta irrilevante, poiché il termine usato correttamente anche negli atti ufficiali è quello di università.

Nel secondo saggio Di Pasquale, rifacendosi ad una corretta interpretazione delle "Rassegne dei discenti", che erano state lette con superficialità da Isidoro Carini, da Luigi Sampolo e da Francesco Maggiore Perni, risale al numero degli studenti universitari palermitani nei primi venticinque anni dalla fondazione dell’Accademia. Il Carini e gli altri studiosi che avevano pedissequamente seguito la sua scia, avevano sbagliato nell’interpretare i dati trascritti in tali "Rassegne". Esse, infatti, riportavano gli iscritti alle singole discipline e sommando tali iscritti il Carini e gli altri dopo di lui, avevano calcolato il totale dei discenti nei vari anni accademici, senza considerare che ogni studente non frequentava una sola materia di insegnamento, ma, tenendo conto dei turni di lezioni e del fatto che si dovessero seguire almeno tre lezioni al giorno, ognuno frequentava tre discipline diverse né più, né meno. Dunque i calcoli fatti dagli studiosi dell’ottocento risultano triplicati rispetto alla realtà; se il Carini calcolava 910 iscritti nel 1805, Di Pasquale ne calcola 315.

Il terzo dei saggi ristampati, La popolazione studentesca universitaria di Palermo dalle origini ai nostri giorni, non solo ci dà un quadro completo e statisticamente elaborato degli iscritti all’ateneo palermitano dal 1799 al 1947, ma distingue per facoltà, per sesso, visto che le donne furono ammesse agli studi universitari nel 1876, per età, per provenienza e calcola, infine, anche il numero dei laureati. Rivela, inoltre, l’andamento delle iscrizioni, sempre crescente, con le sole eccezioni del periodo immediatamente successivo alla rivoluzione del ’48 e a quello successivo all’unificazione.

L’autore calcola anche l’indice di incremento delle iscrizioni per decenni e rivela nei decenni comprensivi i due periodi bellici, un indice di incremento, rispettivamente, del 12%, per gli anni della I guerra mondiale e del 20% per il periodo comprensivo la seconda. Tale anomalo incremento può spiegarsi, nell’uno e nell’altro caso, con "(...) gli studi meno pesanti, i titoli, sia di ammissione all’università, sia accademici, facilissimi a conseguirsi" che "costituiscono un’attrattiva, ma il normalizzarsi della vita e del riassetto degli studi, producono l’effetto contrario sulla folla di gente che ha voluto profittare del momento" (p.29).

Gabriella Portalone

AA.VV. Problemi e aspetti di storia dei Nebrodi, a cura di Salvatore Bottari, Pungitopo editrice, Marina di Patti, 1999.

Il volume, a cura di Salvatore Bottari, raccoglie gli atti del convegno di studi "Problemi e aspetti di storia dei Nebrodi", promosso dall’Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini di Messina in collaborazione con la Società Pattense Patria, convegno svoltosi nell’Aula Consiliare del Comune di Patti il 13 e 14 giugno 1998. Considerato che il territorio dei Nebrodi "presenta mercati caratteri d’omogeneità sotto il profilo storico e culturale" il convegno ha potuto e voluto utilizzare specifiche competenze di studiosi per inserire le vicende del territorio all’interno delle coordinate della storia generale con l’ovvia conseguenza che la vita politica, economica, sociale e religiosa nebroidiana ha abbracciato un vastissimo arco temporale". Balzano evidenti precisi e circostanziati caratteri di un’identità storica con particolare riferimento ai distretti di Patti, caratterizzato, nel XIX secolo, dalla prevalenza di un’economia stanziale legata, oltre che alla seta, alla lavorazione della creta e alla produzione di ceramiche, alle attività conciarie anche ad un’agricoltura intensiva e di Mistretta, con un’economia agricolo-pastorale, caratterizzata largamente dall’allevamento brado e dallo sfruttamento dei boschi. E i saggi di Sergio Di Giacomo, e Maria Teresa Di Paola, incentrati sulla questione agraria e le lotte contadine e sull’economia dei Nebrodi nella seconda metà del XX secolo, sono significativi in merito.

Alessandro Crisafulli affronta molto esaurientemente le vicende della ferrovia Palermo-Messina, aperta all’esercizio il 16 giugno 1895.

La religiosità del comprensorio viene esaminata da Franco Chilleni ("Le Giudecche dei Nebrodi"), Giovanni Travagliato ("Presenza ebraica a Mistretta"), Gaetano De Maria (S. Luca abate), Pio Sirna ("L’Azione Cattolica nella coscienza della Diocesi di Patti"), Enrico Maria Mellina ("Sulla lunga lite tra comune e vescovato), Alfonso Sidoti ("Risveglio religioso a Patti"). "Una guida di Patti del 1893" di Giovanni Colonia e un esame delle "Giudecche dei Nebrodi tra assimilazione forzata ed espulsione" di Franco Chilleni e del "Brigantagio. Mafia, Unità d’Italia" di Achille Passalacqua completano la raccolta degli atti.

Umberto Balistreri

N. PERRONE Dalla vita nelle Marche all’Olimpo dei re del petrolio,

Il Mulino, pagg. 167, lire 22.000.

Era il 10 marzo 1961, data in cui, con tutta probabilità, si avviava per Enrico Mattei, "Patron" dell’ENI, una fine ormai annunciata.

Quel giorno, l’ingegner Mattei, ex partigiano cattolico, in una suite del prestigioso Hotel Excelsior di Roma, con una fama ormai riconosciuta di persona ostinata nel guardare esclusivamente agli interessi dell’Italia, incontrava uno dei più stretti collaboratori dell’allora presidente degli Stati Uniti Kennedy, Averell W. Harriman e con lui, poche altre persone, tra cui, Verman A. Walters, responsabile dell’intelligence dell’ambasciata USA in Italia ed eminente esponente della CIA.

Gli americani, in quella fase di aperta "Guerra fredda", si opponevano fermamente agli scambi petroliferi tra ENI e Unione Sovietica; su questo argomento anche in altre occasioni avevano mostrato una posizione irremovibile.

Ma altrettanto ferma era la presa di posizione di Mattei che anche in quella occasione ribadiva di come quegli scambi tra Italia e Russia nulla avessero a che fare con vicende politiche o militari e che rimanevano solo accordi di carattere economico.

L’ingegnere marchigiano, in quegli anni capisce, di fronte ad un’Italia distrutta dalla guerra, di come quei mercati siano importanti per il nostro paese; lancia un "ponte" con Mosca e per descrivere il volto dell’ENI e del petrolio italiano, arriva anche a far girare dei documenti che manda in Russia.

Ci sembra proprio questo il punto da cui partire per leggere questo interessante libro di Perrone.

L’autore, che insegna Storia dell’America all’Universitˆ di Bari, ha pubblicato già diverse opere di valore, tra cui ricordiamo: "Il dissesto programmato" (1991); "Obiettivo Mattei" (1995); "Il Truglio - Infami, deletori e pentiti nel Regno di Napoli" (2000).

Questa sua nuova opera corre su diversi piani: c’è la ricostruzione puntuale sulla vita del protagonista, vero e proprio "mito" in quegli anni dell’industria italiana e delle sue strategie economiche; da ricordare che Perrone in quella fase fece parte dello staff dell’ENI, vivendo in prima persona quelle vicende, e questo lo aiuta non poco a ricostruire dettagliatamente quei giorni; c’è poi la vicenda umana di Mattei, di un uomo semplice, partito dalle Marche in cerca di fortuna alla volta di Milano, che ritorna poi sui monti della sua terra per combattere da partigiano. Ma c’è in quelle pagine, anche una profonda analisi circa il processo di formazione di quella classe dirigente, politica ed industriale, venuta fuori dall’Italia del secondo dopoguerra.

Mattei, è superfluo dirlo, fu uno degli assi portanti di questa "classe", che si trovò ad affrontare, nel bene e nel male, la ricostruzione di una nazione, che usciva a brandelli dalla guerra.

Da commissario dell’AGIP Petroli e da presidente dell’ENI, ebbe come obiettivo primo ed indiscutibile, quello dello sviluppo e della ricchezza industriale dell’Italia, fuori da ogni condizionamento straniero.

Una vicenda per tutte fu quella del petrolio siciliano, conteso, grazie anche al tacito assenso della classe politica del tempo, dalle cosiddetto "Sette sorelle" angloamericane, che gestivano allora quasi il 90% delle riserve petrolifere al di fuori dagli USA.

L’atteggiamento ostile e testardo del presidente dell’ENI, preoccupò e per molti versi infastidì" non poco i vertici americani, ma Mattei continuò dritto per la sua strada cercando di far diventare l’industria italiana, non un "gregario", come avrebbero voluto in molti, ma una protagonista del mondo economico.

Sempre per rimanere sulla questione del petrolio siciliano, c’è da dire che se solo quelle quantità di greggio scoperto, che gli americani si accaparravano, grazie anche ad alcune leggi regionali, sarebbero state sfruttate dal nostro paese, non si sarebbe prodotto soltanto carburante per le auto, ma si sarebbero potute mandare avanti centrali termoelettriche, si sarebbe potuta creare una fitta rete di industrie petrolchimiche, dando al contempo una grossa mano all’annosa crisi dello zolfo siciliano fornendo energia elettrica a basso costo.

Questi elementi, facevano dunque emergere, di come la Sicilia e il Meridione tutto, con concreto fondamento avrebbero potuto iniziare a pensare di diventare aree industrializzate, ed il petrolio essere la base fondamentale di questo processo, che invece veniva, come aveva sottolineato lo stesso Mattei ad un convegno sul petrolio svoltosi a Gela in quegli anni, ritardato o addirittura bloccato artificiosamente dalla classe politica di allora.

La bravura di Perrone in questo libro sta nel saper dominare i fatti, nel non farsi prendere la mano nel dare interpretazioni scontate e soprattutto nel non prendere facili posizioni di "partigianeria".

Scelte queste, che fanno di questo volume, non solo una preziosa biografia dell’uomo - Mattei, ma un interessante rilettura della storia italiana di quei difficili anni.

Enrico Mattei, perderà la vita, in uno "strano" incidente che coinvolgerà il suo aereo privato e sulla cui vicenda ancora oggi, molte cose rimangono oscure, il 27 ottobre 1962, mentre ritornava a Milano dopo alcune visite fatte in Sicilia. Chissà se la sua fine, in qualche modo, era collegata a quella riunione romana dell’anno prima.

Filippo Falcone

F. M. D’ASARO Evola: profeta del futuro, ISSPE, Palermo 2000, pp. 48.

Forse Julius Evola è uno dei pochi Maestri del novecento italiano, Maestro nel significato originario del termine. I suoi studi altro non sono che lo svolgimento di premesse ‘sapienzali’ ed è illuminante l’osservazione di Gianfranco de Turris per il quale "Evola tentò nei vari domini, di verificare la ‘tradizione’ o comunque di darne sempre testimonianza".

Adriano Romualdi, che definì Evola "il Maestro dei giovani del Msi", giustamente avvertiva che se il richiamo alla Tradizione offriva saldi punti di riferimento nella crisi dei tempi, tuttavia "c’è il rischio che il tradizionalismo - per volersi collocare fuori da tutto il mondo moderno - sfoci in un atteggiamento non più meta-storico, ma antistorico. Il limite del tradizionalismo - sottolineava - è il reazionarismo, la incapacità di comprendere che la società moderna non può essere tenuta insieme da formule religiose o legittimistiche, ma da un’ideologia politica conservatrice-rivoluzionaria capace di conquistare le masse". Chi scrive queste modeste note non può essere d’accordo con Adriano Romualdi, e tuttavia si può dissentire da Evola in molte cose, si possono leggere i suoi libri e non condividerli, ma non si può non apprezzare e concepire come lezione quella vastità di prospettive e quella ricchezza di contenuti che con splendido e pregnante linguaggio si imprimono nella mente. E la lezione di Evola diventa profezia, il Maestro diviene Profeta. "Evola: profeta del futuro" è, infatti, il titolo del libro che Franz Maria D’Asaro ha voluto recentemente dedicare a colui che Ferio Jesi definì astiosamente "cattivo maestro".

Pubblicato a Palermo dall’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, il libro ha il pregio di spazzare via - come spiega chiaramente Dino Grammatico nell’introduzione - quelle contraddittorie interpretazioni intorno all’opera di Evola foriere di rumorosi pregiudizi che ancora oggi fanno chiasso inutile. Il libro, poi, si conclude con un’interessante nota di Umberto Balistreri nella quale si fa luce sulle origini di Evola finalmente rintracciate a Cinisi - una cittadina sul mare a pochi chilometri da Palermo - dove nacquero il padre, Vincenzo, impiegato delle Ferrovie, e la madre, Concetta Mangiapane, casalinga; da ragazzo Evola trascorse più volte periodi di vacanza nel piccolo centro siciliano.

D’Asaro non perde di vista il legame antropologico tra il romano Evola e "la sua atavica Patria Siciliana", e da Balistreri apprendiamo che i rapporti avuti da Evola con la cultura palermitana degli anni trenta furono assai contrastanti: polemiche, critiche, battibecchi su giornali e riviste, dibattiti e conferenze armate; un rapporto di amore/odio, insomma, che vede coinvolti intellettuali come Mignosi, Cardella (antievoliani) e Pojero, riviste palermitane come "Il Tempio" e "La Tradizione", sullo scenario di luoghi severi come la sede della Biblioteca Filosofica di Palermo a Palazzo dei Normanni. Ecco dunque un altro elemento svelato della biografia evoliana dopo quello riguardante i contatti di Evola con il mondo antifascista: da Croce a Colonna di Cesar˜, dal quotidiano ‘Il Mondo’ alla rivista ‘Lo Stato Democratico’.

La sicilianità di Evola, i suoi contatti con l’universo liberaldemocratico, i suoi rapporti con Giovanni Gentile, con Ugo Spirito, con Adriano Tilgher, allargano il raggio d’azione dell’opera evoliana ed il Maestro, giunti nel ventunesimo secolo, può divenire il profeta di una generazione o - se si preferisce - di uno schieramento più vasto della sola destra.

Del resto l’alleanza politica inedita che si registra oggi tra forze fino a ieri distanti, necessita di una sinergia culturale che la rende strategicamente attrezzata ad affrontare il tempo maledetto della globalizzazione. Ecco allora che l’idea di nazione sociale, di liberalismo sociale, di cristianesimo sociale si trovano catapultati nella medesima trincea e nel nome di una Tradizione nuova, conservatrice e rivoluzionaria al tempo stesso; liberale, sociale e nazionale al tempo stesso; comunitaria e contrapposta al liberismo radicalprogressista. Ciò detto, nel panorama squallido e desolato del tempo presente qual’è la via di Evola per uscire dalla crisi contemporanea? Una via - ripetiamolo - valida per uno schieramento più vasto di quello che aveva Evola di fronte a se, e che non s’infranga in quel rischio di ‘antistoricità’ paventato da Adriano Romualdi. Il saggio di D’Asaro è in proposito significativo e non a caso Grammatico scrive che è "un contributo importante alla corretta interpretazione del pensiero di Julius Evola". Nelle sue pagine possiamo sottolineare la distinzione evoliana tra progresso e civiltà, tra destra economica e destra politica; distinzioni utili per meglio comprendere come si stanno formando o dell’Europa, un’attualità profetica è possibile cogliere dall’opera evoliana nella critica all’americanismo: già nel 1929 Evola, guradando alla competizione fra America ed Europa, avvertiva che "l’americanizzazione di alcuni aspetti della vita europea rappresenta una specie di cavallo di Troia con cui l’America - forse senza pensarci e senza volerlo, ma volendolo invece la nostra stessa debolezza - dissolverà la civiltà del vecchio continente".

Scrive D’Asaro che Evola è "un pensatore del nostro tempo, di più, un uomo del nostro tempo che si interroga sul futuro", ed Evola trova una risposta nell’importanza "dell’esperienza del passato in tutto il percorso presente e futuro dell’umanità". Una lezione culturale e politica valida per tutti gli uomini a prescindere dal loro passato ed in qualunque latitudine e longitudine si trovino. Una lezione da tenere a mente soprattutto oggi che nuove schiere si armano per proseguire una lotta che affonda le sue origini in quel passato dal quale tutti proveniamo.

Michelangelo Ingrassia

 

Gabriella Portalone DALL’ITALIA LIBERALE ALL’ITALIA FASCISTA,_NELL’ANALISI DI G. B. FURIOZZI

Questo lavoro di Gian Biagio Furiozzi, rappresenta una continuazione ideale di quello precedente da titolo Dal Risorgimento all’Italia Liberale, pubblicato nella stessa Collana nel 1997. Come il precendente è composto da una serie di saggi, originati da diverse occasioni, che spaziano su tutto il periodo storico che, partendo da Crispi, giunge alla crisi del liberalismo e all’avvento del fascismo. Per la varietà stessa dei temi trattati, oltre che per l’originalità e il carattere innovativo di alcune questioni affrontate, il volume offre una ricca serie di spunti e di riflessioni, su momenti e figure, anche minori, di tale periodo storico nettamente dominato dalla nascita e dall’evoluzione del movimento operaio italiano, in seguito allo sviluppo dell’industrializzazione e alla diffusione nella penisola delle dottrine marxiste ed anarchiche.

La trattazione di un periodo che va dagli anni immediatamente post-unitari al primo dopoguerra, non poteva prescindere dal tema del regionalismo, poiché fu proprio la politica accentatrice di stampo francese, scelta dalla destra storica, o meglio ad essa imposta dagli eventi, a condizionare il futuro italiano, sia con fenomeni come il brigantaggio, sia con l’aggravarsi progressivo del divario tra nord e sud, sia, infine, con il mancato conseguimento della vera fusione di più popoli in un’unica nazione.

Cavour - sottolinea Furiozzi - con il suo ineguagliabile fiuto politico, comprese subito che il nuovo Stato, accantonato per motivi politici il modello federale, non poteva non fondarsi su un forte decentramento che rispettasse le caratteristiche socio-economiche delle regioni che avevano formato stati indipendenti nell’immediato passato della penisola, senza, però, dare ad esse una rappresentanza elettiva esercitante un potere legislativo autonomo dallo Stato, per timore che ciò potesse determinare tendenze disgregatrici dell’unità nazionale. Egli propendeva per delegare molti poteri ai comuni più che alle regioni. L’incarico di preparare un disegno di legge sul decentramento amministrativo, basato sulla suddivisione regionale, fu affidato al ministro dell’interno Farini e la circolare che ne derivò, ispirata alla volontà di Cavour, suscitò vaste polemiche soprattutto fra i sostenitori del federalismo come, per esempio, Cattaneo e Montanelli che rilevarono l’ambiguità del progetto, privo di una reale volontà autonomistica.

Esso, tuttavia, anche se orientato esclusivamente verso una moderata forma di decentramento amministrativo, allarmava anche coloro che vedevano in esso un attentato all’unità politica e morale alla nazione o una restaurazione degli antichi potentati locali, come La Farina o il toscano Giorgini.

Fra i regionalisti si schierò stranamente lo stesso Mazzini che, in un articolo del 1870, pur respingendo il federalismo in nome dell’unità, si dichiarava propenso ad una forma di decentramento fondata sul Comune e sulla Regione, com’ente intermedio tra municipio e nazione, che avesse poteri deliberanti e che conciliasse il concetto d’associazione con quello di libertà.

Il secondo saggio, sull’inorientamento dell’Austria, dimostra la validità dell’intuizione balbiana che sarebbe rimasta un pilastro della politica estera italiana fino al primo dopoguerra.

Cesare Balbo aveva compreso, nella sua famosa opera del 1844, Le speranze d’Italia, che il mantenimento dell’impero asburgico era importante sia per l’equilibrio e la pace europei, sia per la sicurezza dell’Italia, cui sarebbe stata utile un’espansione dell’Austria verso Oriente con la conseguente cessione del Trentino e del Friuli - Venezia Giulia alla madrepatria italiana. Tale tesi appariva quantomeno egoistica agli idealisti mazziniani, che non comprendevano come in politica estera debbano essere sacrificati i sentimentalismi sull’altare del pragmatismo e della convenienza militare, politica ed economica dei singoli stati.

Nonostante la tesi balbiana si scontrasse con la netta avversione da parte di Vienna di cedere all’Italia Trento e Trieste, non solo per il valore intrinseco e per la posizione strategica dei territori contesi, ma anche per non creare alcun precedente nei confronti delle altre nazionalità che componevano l’impero, che avrebbe così rischiato una futura completa disgregazione, essa avrebbe continuato ad avere un seguito sempre maggiore negli anni seguenti l’avvenuta unificazione, conquistando anche ex mazziniani, combattenti del Risorgimento ed ex cospiratori, come lo stesso Crispi. Pur essendo un irriducibile irredentista (Crispi e l’irredentismo), quest’ultimo si persuase della convenienza di un’alleanza con la tradizionale nemica Austria, considerandola, soprattutto dopo la clausola imposta dal ministro De Robilant, nell’atto di rinnovare la Triplice nel 1887, come l’unico modo per ottenere pacificamente le terre irredente, che sarebbero state cedute come compensi all’Italia, in caso d’espansione asburgica verso est e ritenendo altresì indispensabile la conservazione dell’impero per la sicurezza italiana: "L’impero austro-ungarico è una necessità per noi. Quell’impero e la Confederazione elvetica ci tengono a giusta distanza da altre nazioni che noi vogliamo amiche [...] ma il cui territorio è bene che non si trovi in immediato contatto con l’Italia" (p.28).

Anche dopo il completamento dell’unificazione nell’immediato dopo guerra, le teorie balbiane riportarono un nuovo successo. La stessa rivista nazionalista Politica, auspicava un ritorno degli Asburgo ed un ampliamento, a spese dei paesi slavi, dell’Austria, che se prima era ritenuta il baluardo contro la diffusione dell’Islam in Europa, adesso veniva vista come un argine contro l’espandersi del boscelvismo in occidente.

Furiozzi assume, riguardo a Crispi e alla sua politica, una posizione inconsueta per uno storico di matrice socialista. Egli non vede nello statista siciliano il simbolo di tutti i mali del paese, ma ne giustifica le scelte e anche i cambiamenti repentini di posizione sulla logica della ragion di stato e del pragmatismo politico e, giudicando eccesivo il giudizio su di lui dato da Guglielmo Ferrero, vero beniamino per tanto tempo della storiografia italiana di sinistra, auspica "un’attenzione più equilibrata verso la sua opera (di Crispi) complessiva di ammodernamento dello Stato italiano" (p. 105).

Nel saggio Carlo Pisacane precursore di Sorel, l’autore riprende una tesi avanzata da Nello Rosselli che nel testamento del Pisacane vedeva un ripudio del determinismo marxista e una scelta di tipo volontaristico fondata sull’azione diretta, rivoluzionaria e violenta, di un’élite ristretta, ma ardita, esercitata nell’interesse delle masse. Dagli scritti del rivoluzionario ottocentesco Rosselli deduceva ulteriori parallelismi con il pensiero soreliano, come, ad esempio, il rifiuto del suffragio unversale, il disprezzo verso gli intellettuali di professione e, infine, l’importanza del mito nell’educazione delle masse: "[...] in Pisacane le rivoluzioni non sono conseguenza delle dottrine e dei ragionamenti, ma del "tumulto delle passioni"; anzi appena la ragione prevale e le passioni si smorzano, la rivoluzione cessa" (p. 53).

Lo studioso perugino profondo conoscitore di Carlo Rosselli, ma anche studioso attento del socialismo italiano ed europeo insieme, dedica uno dei suoi saggi alle origini di quel socialismo liberale che si sarebbe incarnato nel movimento Giustizia e Libertà. Dopo aver passato in rassegna le tesi storiografiche più autorevoli sull’argomento, individua in un socialista minore, Luigi Panciani, un esule umbro quasi sconosciuto, il primo teorico, fin dal 1854, della necessità del connubio tra socialismo ed individualismo: "[...] il rapporto dell’individuo con la collettività, ecco il problema da risolvere. Dalla sua soluzione sorgerà probabilmente un’era nuova il cui principio sarà la comunità". (p. 57). Ma il problema del socialismo liberale e delle sue differenziazioni con la socialdemocrazia saragattiana, viene ripreso in un altro saggio intitolato, appunto, Rosselli e Saragat. Rosselli - secondo l’autore - nel teorizzare il socialismo liberale, come l’incontro degli interessi individuali con quelli collettivi, finisce per ripudiare Marx e aderire a quella schiera di revisionisti che da Bernstein a Merlino, avevano ribaltato, alla luce dell’esperienza, molti dei dogmi marxisti. In Rosselli c’è, tuttavia, molto del romanticismo e del solidarismo mazziniano, del pragmatismo di Cattaneo, del volontarismo soreliano, nonché del gradualismo inglese, ma in lui ogni teoria viene trasfigurata dalla fede assoluta nel concetto di libertà: "[...] La libertà - afferma - non è un bene di classe e non è neppure un valore relativo [...] E’ un valore morale, prima ancor che politico, che trascende i confini di classe" (p.199). In Saragat, pur se troviamo delle perfette coincidenze con il pensiero rosselliano - la necessità del liberalismo e del rispetto della democrazia nell’etica socialista, per esempio, - permane fortissimo il legame con Marx. Per Saragat "[...] la democrazia non va intesa come vuota e astratta uguaglianza giuridica, bensì come la condizione politica più favorevole per la formazione della coscienza di classe del proletariato e per la realizzazione integrale della democrazia socialista" (p.203).

Ciò che effettivamente differenzia i due sta, non solo, nell’aspetto etico del marxismo che Rosselli nega e che Saragat esalta, ma nella diversa concezione della società futura che per il primo è una società interclassista e per il secondo una società senza classi.

Il tema del socialismo viene ripreso nel saggio Il modello inglese nel primo socialismo italiano, in cui Furiozzi mette magistralmente in evidenza come il laburismo e il tradunionismo, seppur verbalmente disprezzati dalla maggior parte dei socialisti italiani, furono, in fin dei conti, il vero punto di riferimento per i riformisti come Gnocchi Viani, Rigola, Cabrini, il repubblicano Graziadei, Maffeo Pantaleoni e non ultimo, sorprendentemente, l’ex anarchico Costa, primo deputato socialista eletto al Parlamento italiano. L’autore riporta brani di articoli di Turati, di Olivetti e di Olindo Malagodi che, pur respingendo il gradualismo inglese per il suo eccessivo economicismo e per la mancanza di grandi ideali e di veri aneliti rivoluzionari, non possono esimersi dal valutarne i meriti pratici per l’elevazione del tenore di vita della classe operaia.

Molto interessante appare il saggio dedicato ai sindacalisti italiani e alla loro reazione alla rivoluzione russa del febbraio 1917. Entusiasta ne fu Arturo Labriola, pur avendo avvertito subito una profonda sfiducia in Lenin. Egli vedeva nella rivoluzione russa la realizzazione del programma soreliano e, nella prosecuzione della guerra, alla maniera di Trotsky, la possibilità di diffonderla in tutta l’Europa. La rivoluzione di febbraio aveva dimostrato ai socialisti pacifisti di Turati e Serrati che la ragione stava dalla parte dei sindacalisti interventisti, i quali avevano previsto che la guerra esterna avrebbe scatenato le rivoluzioni all’interno dei singoli stati. La violenza dell’evento bellico avrebbe svegliato il proletariato dal secolare torpore. Sulla stessa posizione si pone anche De Ambris, ma il suo giudizio sulla successiva rivoluzione bolscevica dell’ottobre, promossa da Lenin, è assolutamente negativo come negativo sarà quello degli altri sindacalisti che tanto avevano plaudito agli eventi del febbraio precedente. De Ambris dalle pagine della sua rivista Il Rinnovamento, condanna il ritiro dalla guerra da parte dei bolscevichi russi come atto di vigliaccheria e di tradimento; in tal modo, infatti, essi avevano annegato la rivoluzione nel pacifismo e avevano rinunziato a portare il verbo della violenza rivoluzionaria agli altri popoli oppressi d’Europa. Olivetti rifiuta la rivoluzione bolscevica come modello da seguire per i socialisti europei, classificandola come rivoluzione prettamente borghese: "[...] Nulla di nuovo dunque, nulla di rivoluzionario. Possono essere tagliate dieci milioni di teste e con ciò non si fa ancora una rivoluzione".

Diverso il giudizio di quelli fra i socialisti che, di lì a poco, avrebbero dato luogo alla scissione di Livorno e alla conseguente costituzione del Partito Comunista Italiano. Di Vittorio inneggia alla Russia dei Soviet e la stessa cosa fa Longobardi, rivelando l’esistenza, ormai, di due anime essenzialmente diverse all’interno dello schieramento di sinistra dei socialisti italiani.

Furiozzi riprende alcune figure pressochè sconosciute del socialismo italiano come, per esempio, Fausto Pagliaro cui attribuisce il merito di essersi accorto del fatto che i socialisti trascuravano la classe impiegatizia, non comprendendo l’importanza della burocrazia nell’assetto istituzionale di ciascuno stato.

Originale ci appare il saggio in cui l’autore analizza parallelismi e differenze tra due intellettuali che tanta influenza ebbero sulla politica europea del primo Novecento: Sorel e D’Annunzio. Se Sorel, passato incredibilmente, dopo la parentesi del socialismo ttato dalla storiografia, è il saggio su La fondazione del P.P.I. nel giudizio della stampa protestante italiana.

Dopo aver messo in evidenza l’anima generalmente socialisteggiante dei protestanti italiani, l’autore passa ad esaminare la reazione effettiva degli intellettuali valdesi, evangelici e battisti, alla costituzione del partito dei cattolici di cui Sturzo si affannava a rilevare la laicità. Il battista Guglielmo Quadrotta, pur apprezzando l’accettazione da parte del partito di Sturzo della più completa libertà religiosa, sottolineava la diversa posizione delle alte gerarchie vaticane e della stampa cattolica, mentre Giuseppe Donati dava, contemporaneamente, un giudizio poco lusinghiero del partito e dei suoi fondatori, giudicandoli tutti personaggi legati "ai compromessi giolittiani", per i quali sarebbe stato ben difficili rompere col proprio passato e liberarsi dalla dipendenza vaticana. Il battista Tosatti aveva quasi immediatamente intuito le diverse anime del partito che andavano dal sindacalismo di Miglioli al moderatismo conciliatorista di Meda. Tali differenze avrebbero finito per far si che il partito restasse nel contesto della vita politica italiana soltanto come una forza di inerzia e non cancellava l’impressione che in esso fossero presenti "[...] due classi sociali con interessi addirittura antagonistici, con mentalità opposte, che stanno insieme soltanto perché tutte e due devono difendere interessi ecclesiastici" (p. 137).

L’organo ufficiale valdese La Luce fu, invece, ben più drastico nel suo giudizio sul P.P.I., definito un omnibus politico religioso e un amalgama di tutto, chiedendosi che potesse chiamarsi laico un partito avente per segretario politico un sacerdote. (138).

Sulle ragioni dell’avvento del fascismo, Fiuriozzi abbraccia la tesi della paura suscitata sull’opinione pubblica dai recenti fatti rivoluzionari russi e dal programma massimalista varato dal XVI congresso del PSI nel 1919. Tutto ciò fece si che i poteri forti trovassero la naturale alleanza della media e piccola borghesia, degli agrari e dei piccoli proprietari della val padana, nonché il sostegno della corte, dell’esercito e delle istituzioni. Tale complessa ed eterogenea alleanza, vide il fascismo come il male minore e la naturale difesa al dilagare del bolscevismo.

Fuiriozzi porta all’attenzione degli studiosi una rivista, ben poco conosciuta al grande pubblico, nata nel 1925, in pieno periodo fascista, diretta e fondata da Ezio Garibaldi nipote dell’eroe del Risorgimento italiano. Scopo principale di tale rivista era quello di mettere in rilievo il legame tra Risorgimento e fascismo, considerando il secondo la logica e naturale continuazione del primo. D’altra parte nello stesso periodo Ezio Garibaldi avrebbe dato alle stampe un libro dall’inequivocabile titolo Fascismo garibaldino.

L’ultimo saggio è dedicato al ruolo degli intellettuali nella vita politica, dal primo novecento al fascismo. L’autore mette in evidenza che la paternità del termine intellettuale, inteso come sostantivo, generalmente attribuiva ad Emile Zola nel 1898, risale invece ad un autore protestante inglese della metà del Seicento e, per quanto riguarda l’Italia, ad Antonio Labriola che lo usò fin dal 1897. Rivela, inoltre, il ruolo svolto da molti intellettuali, a cominciare da De Amicis, nella nascita e nello sviluppo del socialismo italiano, mentre riviste come La Voce, Leonardo e Il Regno con i loro fondatori, Prezzolini, Papini, Corradini, furono le avanguardie delle nuove mode politiche ed artistiche.

Sul versante socialista non si può dimenticare il ruolo esercitato da Arturo Labriola con la sua rivista Avanguardia Socialista o di Roberto Michels, passato poi dal socialismo al fascismo. Determinante fu per l’adesione della gioventù studentesca alla guerra, la posizione interventista di alcuni fra i più famosi intellettuali dell’epoca, seppur di schieramenti diversi. Pascoli, D’Annunzio, Marinetti, Labriola, Gramsci, Togliatti, ecc.

Il fascismo si rese conto dell’importanza di reclutare nel partito i grandi intellettuali e scienziati del tempo per attuare la più efficace opera propagandistica. Nelle sue fila reclutò dunque uomini come Pirandello, Gentile, Rocco, Bottai, Volpe, Federzoni, Panunzio, Michels, Olivetti, Murri e lo stesso Marconi, nominato presidente dell’Accademia d’Italia. Nei confronti degli intellettuali che aderirono al fascismo, Gramsci non diede un giudizio più sferzante di quello espresso nei confronti di chi si rifugiò, per tutto il ventennio, nell’attendismo o nella neutralità, come Prezzolini o Croce, salvo, poi, - l’intellettuale comunista non avrebbe potuto assistere a tale fenomeno, svegliarsi quando le sorti del fascismo cominciavano a traballare per passare "arditamente" dalla parte dei vincitori.

 

 

SANDRO CIURLIA NOTE E DISCUSSIONI LA LOGICA COME SISTEMA CONCETTUALE APERTO

"La logica deve curarsi di se stessa."

L. Wittgenstein

"0=0. Das ist richtig, aber es hilft uns nicht weiter."

Radon

I. La logica, come tradizione di ricerca sospesa tra l’indagine (metafisica) delle più generali leggi del pensiero e lo studio (linguistico-formale) delle configurazioni formalmente corrette dell’enunciato apofantico, si staglia su un orizzonte storico-teoretico disteso lungo i declivi aporetici di oltre due millenni di riflessione analitica. Ma - specie sotto l’influenza di uno dei punti di suggello e, al contempo, di flesso del pensiero moderno, Kant - essa tende a racchiudersi negli esclusivi confini di un ambito operativo caratterizzato dalla codificazione di modelli teorici volti a chiarire le condizioni per le quali un ragionamento risulta corretto, qualunque sia l’universo di discorso cui esso appartiene. Dopo le grandi sintesi medioevali e nonostante il "sogno" del progetto leibniziano di un Calculus ratiocinator e di una Characteristica universalis come alfabeto simbolico del pensiero, un olimpico ed impassibile Kant, nella Critica della Ragion pura, era ancora intento a ritenere la logica tradizionale del giudizio - distinta dal trascendentalismo dell’a priori - una scienza "chiusa e completa", orientata a chiarire le modalità formalmente valide del "pensiero discorsivo"; una scienza capace di elaborare, sin dai tempi di Aristotele, una topica del ragionamento, ma ad uso soltanto di "maestri di scuola ed oratori"(1) in quanto priva di qualunque autentica tensione euristica. La tradizione formale, continuava Kant, conserva una propria natura modulare, perciò "non ha dovuto fare nessun passo indietro"(2) da quando ha ricevuto una prima codificazione sistematica dalla "mente acuta" dello Stagirita, per quanto preservi, a suo avviso, alcuni noti limiti ed una serie di "false sottigliezze" che hanno reso epocalmente necessario un sistema critico delle forme dell’intelletto e delle figurazioni logiche di sé nelle configurazioni possibili del giudizio. Kant, reinterpretando Leibniz e Wolff, rappresenta in ciò uno snodo assieme emblematico ed epocale, senza con ciò dimenticare il ruolo di "filo conduttore"(3) assunto dalla logica formale nell’elaborazione della filosofia trascendentale. Anche Cartesio, del resto, aveva espresso una valutazione in larga misura omologa nel celebre Discours, intendendo "la logica, i suoi sillogismi e la maggior parte delle sue regole" atti soltanto "a spiegare agli altri le cose che [già] si sanno […] piuttosto che a impararle"(4).

Ma la solenne immobilità della tradizione logica denunciata da Descartes e da Kant equivale alla predicazione del ruolo meramente giustificativo della forma dell’argomentare da parte della stessa o piuttosto si scontra con le ritrovate ragioni di una disciplina orientata al chiarore baluginoso ed all’algida emozione della scoperta? E se il fascino del secondo corno del dilemma tende a spezzare le catene del giogo di una lunga tradizione di statico ossequio formale verso schemi di connessione proposizionale, cosa deve intendersi oggi per versione logica del classico problema epistemologico della scoperta? E, ancora, figurandosi la logica come sistema pluridirezionale, quale visione della scienza può discenderne ed imporsi? In definitiva, che cos’è la logica? Quali sono le ragioni del suo esserci?

A questi classici quesiti, profondandosi nella "variegata e per certi versi ambigua" natura della disciplina e muovendo dalla posizione di crinale assunta da Frege - per cospicui aspetti l’esecutore diretto del programma di Leibniz -, cerca di offrire una risposta critica il recente studio di Cellucci, Le ragioni della logica. In esso l’autore, senza mai separare il rigore della prudenza storica dalla dynamis di una raffigurazione ermeneutica, produce un intenso quadro esplicativo delle motivazioni fondative della logica formale contemporanea sino al limite di "una nuova visione" (p. VII) della stessa. Ciò attraverso il recupero dei significati del classico metodo analitico in funzione della ricerca di un significato fondante dell’ipotesi e mediante l’argomentazione dei limiti della identificazione attuale, da più direzioni condivisa, del metodo matematico con il metodo assiomatico. Questo comporta il superamento sia della prospettiva ontologico-gnoseologica del soggetto e delle sue facoltà, tipica del razionalismo moderno (da Descartes a Kant), sia del riduzionistico orizzonte autotetico del linguaggio logico dotato di regole morfo-sintattiche di strutturazione del significato, come il neopositivismo aveva proposto.

Il processo di rigorizzazione concettuale verso cui si era condotta la ricerca matematica in ordine alle nozioni fondamentali del calcolo infinitesimale (limite, derivata, continuità, infinitesimo, infinito matematico, etc.) - dal riduzionismo di Cauchy sino all’"aritmetizzazione dell’analisi" di Weierstrass e della sua Scuola - aveva condotto a focalizzare l’attenzione sul tema dell’analisi dei suoi fondamenti al fine di "assicurarne la certezza assoluta" (p. 3). L’individuazione di assiomi, di regole d’inferenza era quanto aveva intrapreso Frege e quanto ancora convinceva Gödel, secondo cui "[i metodi dimostrativi della matematica] devono essere ridotti a un numero minimo di assiomi e regole primitive d’inferenza, che devono essere formulati nel modo più preciso possibile"(5). La ricerca di un numero limitato di assiomi induce a classificare in termini assiomatici il metodo della logica matematica. Ciò nell’accezione più largamente formale del termine, secondo una planimetria d’intenti che è possibile scorgere sin nella proposta di Leibniz a suggello del cosiddetto "metodo assiomatico formale" rispetto a quello analitico classico. Nella proposta leibniziana - che rivive, poi, persino in Hilbert - il nuovo metodo doveva giungere a coincidere con un certo atteggiamento sintetico, capace di elaborare "un inventario delle verità già note", per poi, in nome "dell’ordine che viene prodotto", volgersi ad indagare qualcosa di nuovo. In questo modo superando la venatura intuizionistica di cui era pervaso il metodo di Descartes, e rendendo il metodo assiomatico formale "quasi un modo meccanico, [che] rende la verità stabile e visibile e (per così dire) irresistibile". In definitiva, sottolinea Cellucci, "il metodo assiomatico-formale ci dà un algoritmo che permette di decidere se una questione sia solubile solo in base ad assiomi dati" (p. 48). Va anche detto, però, che una logica formalizzata come quella di Leibniz non si sottraeva dal prevedere in sé una via per la scoperta. Non per l’invenzione, per precise ragioni anche di natura metafisica. Leibniz è, in fondo, un platonista in matematica e ritiene che i suoi enti abbiano una consistenza in sé che si può teorematicamente (linguisticamente) descrivere. Questa è la ragione per cui la prospettiva d’indagine intorno all’emblematicità del filosofo-matematico tedesco andrebbe ancor più circoscritta. E questo, ancora, è il motivo per il quale può risultare utile interrogarsi sul senso di un ripensamento del paradigma della logica matematica in funzione del tema dell’invenzione oltre che della giustificazione, intento a chiarire, quest’ultimo, la possibilità di un concetto rispetto ad un contesto formale determinato ove non porti a contraddizione, ponendosi come esistente in nome del criterio logico della coerenza.

Ad esser messo in discussione nella lettura di Cellucci è, in termini inconfondibilmente kuhniani, il paradigma stesso della logica matematica, ritenuto ad un passo dalla crisi e soggetto ai contenuti erosivi dovuti all’assalto di una nuova figurazione visiva. Varie espressioni testimonierebbero l’essere in ceppi di tale paradigma: la circolarità chiusa delle linee della ricerca, l’assenza di nuove idee capaci di tracciare inediti sfondi e di operare alla maniera del pungolo euristico della torpedine, l’angustezza dei suoi ambiti operativi dopo le ineludibili decretazioni dei teoremi limitativi di Gödel, quello della completezza semantica della logica dei predicati del primo ordine (1930) e quello della decretazione dell’impossibilità logica di una descrizione assiomatica compiuta ed effettiva della teoria dei numeri (1931). "Si ha sempre più la sensazione - scrive Cellucci - che, come nel Seicento la logica aristotelica, così anche la logica matematica abbia imboccato una via di crescente futilità in fondo alla quale non può esservi che_l’inevitabile decadenza e infine l’estinzione" (p. XV). In verità induce, da subito, a riflettere quest’impostazione tacitamente kuhniana. Essa, infatti, risulta in grado di segnalare le ragioni motivazionali della polemica del Cellucci contro il monismo logicista, ritenuto in condizione di disgregazione euristica a causa dei prorompenti effetti di un macroscopico processo d’implosione. Va ravvisato, tuttavia, che nell’opera di Kuhn la ratifica dell’oltrepassamento dello stadio paradigmatico della "scienza normale" in direzione della "crisi" - e delle iniziali peregrinazioni dell’anfanante periodo successivo di "scienza straordinaria" - è dovuta all’irrompere, entro il quadro del modello d’osservazione della natura condiviso da una data comunità di ricerca, dell’eversione dell’"anomalia" come risultanza euristica capace di violare le previsioni del paradigma dominante. È sempre, dunque, l’insufficienza del modello interpretativo dei fenomeni - o della Gestalt visiva - a sancirne la crisi sotto la minaccia di nuove inspiegabilità provenienti dai voraginosi meati del sistema dei fenomeni naturali. E, se questo schema è ritenuto valido anche in relazione alla tradizione logica dal Cellucci, si carica d’interesse l’osservazione secondo cui, in relazione alla logica matematica, il suo tuttora vigente paradigma celebra la propria crisi per lo stato d’inconcludenza di sé, non per la sfida di un’imprevista oscurità che ha da essere illimpidita con l’ausilio di nuove regole d’osservazione e di valutazione. Kuhn - non troppo velatamente - aveva innanzi il modello dello sviluppo storico della fisica nella sua incessante venatio ignoti, ma l’imperioso esordio di Cellucci, nel rievocare la dinamica della struttura delle rivoluzioni scientifiche, investe soltanto la perduta estensione di un novero di possibilità aporetiche che la logica matematica correttamente intesa non sarebbe prona a cogliere. Quanto all’anomalia apportatrice di crisi ed eterotetica rispetto al modello paradigmatico, non se ne vede, in verità, traccia. La logica matematica conserva pure una dimensione chiusa e puramente giustificativa (si ricordino le parole di Radon, riferite da Feyerabend, poste ad esergo); ma quale elemento può mai metterne in crisi la consistenza e la visibilità?

Ricorda Russell che la logica matematica, muovendo dalla rivoluzionaria impostazione formalista di Boole (1842), sino alla Begriffsschrift di Frege (1879) ed ai Gründzuge di Hilbert ed Ackerman (1928), ha acquisito piena identità di metodo in posizione d’alterità rispetto alla sillogistica classica, secondo un percorso simile alla stessa maniera in cui il metodo sperimentale ebbe ad imporsi sulle retrive speculazioni intorno alla qualità della sostanza della scienza naturale aristotelica(6). Del resto anche Couturat, ed ancor prima Bernard Bolzano, avevano giustificato, confutandola, la convinzione kantiana secondo cui la ricerca logica non avrebbe più compiuto alcun progresso dopo Aristotele in quanto minata dalla surrettizia distinzione tra logica e matematica.

Questa valutazione complessiva Cellucci sottopone con rigore a critica avanzando talune incisive precisazioni. Lo spartiacque epistemologico rappresentato dalla logica matematica getta un ostinato cono d’ombra sulla rigogliosa tradizione proposizionale classica mediante la tacita supposizione in ordine a cui, essendo quest’ultima l’altro logico rispetto alla logica formalizzata moderna, risulterebbe l’altro del suo stesso raggiunto statuto scientifico. In altri termini, assumerebbe un carattere di avulsione di sé dall’orizzonte pienamente scientifico della disciplina, secondo un certo criterio di valutazione, tuttavia, in gran parte da giustificarsi. Lukasiewicz ha, infatti, ribadito - ma lo aveva colto già Leibniz - che la teoria della dimostrazione immanente alla sillogistica si erige anch’essa su una strutturazione assiomatica e consente un uso rigoroso e massimamente astraente delle sue lettere schematiche. Ciononostante la matematizzazione della logica, con finalità metodologiche, rappresenta un carattere storicamente inedito prima della fine del secolo XIX in ordine alla disciplina logica, ed inoltre costituisce una modalità onnipervasiva d’approccio - quantunque non a senso unico e senza asfittici intenti riduzionistici - ai vari ambiti della ricerca logica.

Osserva ancora Cellucci: la pretesa compiuta utilità raggiunta dalla logica matematica è impredicabile se il suo esito estremo va ad individuarsi nella gödeliana dimostrazione dell’incompletezza necessaria di ogni tentativo sistematizzante ed esclusivo intorno alla tematica dei fondamenti di una teoria dei numeri. In questo modo Gödel non viene più inteso solo come il detrattore della legittimità del programma di Hilbert in virtù del secondo teorema del 1931, quanto alla stregua del fustigatore di ogni seduzione fondazionale di forza oltremodo estesa.

Un ingiustificato ardore, poi, cagionato da un’aura di adiacenza con il classico rigore matematico della dimostrazione, ha indotto a ritenere l’impostazione matematica (o formalizzata) della logica come "la forma definitiva" (p. XVII) assunta da questa disciplina. Si avverte, ex contrario, contrappunta Cellucci, un crescente senso di finitezza e limitazione della logica di tal fatta dinanzi all’accrescersi delle esigenze delle discipline informatiche o dei cosiddetti metodi quantitativi applicati alle scienze umane. La realizzazione del rigorismo analitico mediante formalizzazione, presentato con solennità da Frege, si è rivelata fragile ed univoca, poiché "quando la logica matematica è stata messa alla prova ne sono apparsi tutti i limiti" (p. XVIII). Da qui discendono i termini dell’intento iconoclasta dell’autore verso il paradigma formale. Atteggiamento, però, non del tutto giustificato. Esso si considerava volto a ridimensionare le garanzie d’esclusiva verità degli anapodittici schemi di classificazione logico-matematica, a favore di una tendenza più prudenzialmente confermativa dei risultati del pensiero, e "così le deficienze della logica matematica hanno finito per essere scambiate per limiti della logica" (ibid.). Ritenere, per converso, quello matematico, come uno dei modelli paradigmatici della logica, senza intenti olistici o pretese di possesso di uno statuto esclusivo di scientificità, conduce al doppio risultato di fluidificare le vie del concetto di scienza matematica e di sancire il carattere storicamente determinato di ogni corrente logica come modello di un paradigma nelle mani di una comunità di ricerca. Proprio come per Kuhn. Ed esattamente nell’ancipite senso dell’essere del paradigma, scisso tra la conferma della specificazione problematica e la ritrosia dinanzi a possibili anomalie apportatrici di crisi (si cita, al proposito, il caso di Post e del modo in cui fu accolta la sua previsione di esiti "informali" del teorema di Gödel). Intendendo con più estensione le implicazioni di una simile limitazione del formalismo, Cellucci concorda nel rintracciare proprio in Gödel le prime avvisaglie della crisi del paradigma formale: i suoi "teoremi d’incompletezza hanno posto i logici di fronte all’alternativa: o mettere la testa nella sabbia e fare come se essi non esistessero, trattandoli come scheletri nell’armadio da dimenticare il più possibile; oppure abbandonare l’idea che la logica possa garantire la certezza assoluta della matematica, ripensandone completamente le basi e indirizzandola verso nuove finalità" (p. XIX): la prima via ha praticato la logica matematica, la seconda tende confusamente ad affacciarsi nelle premesse-promesse di un riorientamento paradigmatico. Su questo punto s’innesta la proposta di Cellucci di un riavvicinamento della logica all’aporetica della scoperta in luogo della mera peregrinatio attorno alla giustificazione formale dei procedimenti di pensiero, riavvicinamento operato mediante il recupero del metodo analitico e la valorizzazione dell’induzione e dell’analogia come sentieri d’approdo all’ipotesi critica che dà avvio alla ricerca.

Ma come vanno intese l’induzione e l’analogia, procedure logiche comunque screziate dall’aleatorio? L’attacco di Cellucci è radicale e schietto: "Le nuove tematiche non si aggiungono a quelle della logica matematica ma si sostituiscono ad esse perché richiedono un radicale cambiamento di tutte le sue assunzioni fondamentali" (pp. XX-XXI). La richiesta di classificazione statistico-funzionale dei dati, proveniente dalle scienze umane, in definitiva, disarciona il re dal destriero su cui si asside con un’armatura troppo istoriata da gravose ed arrischiate insegne. Così, le soluzioni offerte dal costante impiego della logica dei predicati, ordinata assiomaticamente in un linguaggio rivolto a tali due estremi, si dimostrano "fallimentari" (p. XXI). Una conferma del sopraggiungere di tempi maturi per una resa dei conti con la logica matematica giunge dalle critiche rivoltele dalla sua area di elezione, la matematica pura, sempre più ritrosa a ricorrere al metodo assiomatico, in quanto incapace di rendere ragione di dati stratigraficamente complessi, quindi spesso in contrasto con l’esperienza o con l’esigenza di descrizione dei fenomeni (Forbus).

Inoltre, identificare l’integralità del ragionamento matematico con la sola procedura logica di tipo deduttivo risulta quantomeno fuorviante e riduttivo, per la costante possibilità di far ricorso ad altre forme di ragionamento (si pensi, per esempio, al modello di scienza sperimentale di Galileo rispetto al metodo induttivo). Museificare le configurazioni del ragionamento e celebrare i fastigi della strutturazione assiomatica equivale - osserva Cellucci - a "trascurare i processi reali della matematica" (p. XXII). Con l’inevitabile risultato di una perdita d’interesse per l’annessa filosofia della matematica ("disciplina inattiva all’incirca dal 1931" ha scritto perfidamente Mac Lane) e per le questioni da essa suscitate rispetto all’universo euristico del matematico, anche a causa di un certo saccente ruolo di primazia che essa ha talvolta assunto rispetto alla pratica algoritmica senza condizionarne oltremodo la ricerca. Ci si riferisce al logicismo maturo ed al controverso valore del suo contributo critico in sede di analitica matematica. Uno degli esponenti di maggiore autorevolezza della matematica francese contemporanea, J. Dieudonné, non ha esitato a definire, infatti, "scadente e molto carente" il ruolo assunto da Russell rispetto agli sviluppi della ricerca matematica propriamente detta, ed i suoi Principia mathematica sarebbero "un libro enorme, ma di poco valore"(7).

L’intero complesso della filosofia della matematica era sorto, come è noto, dalla riflessione di Frege che, meditando sull’aritmetizzazione dell’analisi a fondamento di un’esaustiva teoria dei numeri, aveva condotto la matematica stessa alla logica per giustificarne la natura. Da qui l’elaborazione di un programma di ricerca dalla fisionomia alquanto unitaria, quantomeno sino alla svolta decretata dalla celebre antinomia di Russell, capace di scuotere sin dai primi basamenti l’originario programma logicista (Frege, com’è noto, parlò al riguardo di "tremori aritmetici"). Ne segue un intenso e variegato dibattito che giunge ad investire il confronto intorno alla "natura degli oggetti matematici", le cui voci di maggior rilievo vanno dal realismo platonistico dello stesso Frege al formalismo di Hilbert sino all’intuizionismo di Brouwer. Ma dopo il fallimento (totale o parziale) di tali programmi, la filosofia della matematica ha trascurato - secondo Cellucci - taluni temi di urgente cogenza problematica per il matematico stesso. Raccolti dall’autore con commendevole spirito di sintesi, essi investono problematiche quali il rapporto fra dimostrazione e risultanza di un’istanza tetica, il modo in cui si ottengono nuove conoscenze matematiche, il significato logico della deduzione nell’atto del ragionamento matematico, il ruolo dell’annotazione e della definizione, il ruolo dell’errore nella dimostrazione, il significato della matematica come linguaggio di strutture da applicarsi, secondo certe condizioni, alla descrizione della fenomenologia del mondo fisico. Un lungo filone teorico, di ascendenze neopositiviste, ha considerato di natura metafisica l’esigenza di risoluzione di tali temi, ma il loro valore rimane invariato e solo l’auspicato cambiamento di paradigma - insiste Cellucci - può indurre a rifocalizzarne i termini. Come dinanzi ad ogni prospettiva di mutamento di punto di vista, le resistenze si rincorrono, con il rischio - rileva l’autore - che "le nuove idee, piante ancor esili e delicate, appassiscano e muoiano invece di fiorire rigogliosamente grazie al concorso di molti" (p. XXIV). Così, lo scopo del libro può riassumersi nel proponimento di "riconsiderare le ragioni della logica matematica mostrando quanto poco esse siano ancorate alla realtà, presentare le ragioni della nuova logica" (p. XXV). Ciò secondo un organigramma teoretico che si riconduce ai grandi e decisivi snodi, rintracciabili nella storia del pensiero, della discussione intorno alla natura della conoscenza, tra verità e certezza, logica e linguaggio. Il tutto al fine di escogitare risposte plausibili intorno alle dette domande, inesplorate tanto dalla logica matematica quanto dalla filosofia. Una rivoluzione della logica nella logica è quanto invocato da Cellucci, con la radicalità e la spregiudicatezza tipiche con cui una rivoluzione determina la sostituzione del paradigma dominante.

L’autore argomenta le ragioni di questo percorso esaminandone le principali cellule di raccordo, riflettendo sulle modalità con cui, muovendo dall’algebra della logica di Boole, Frege è giunto a trattare il concetto di numero in termini di classi, ritenendo la matematica "logica travestita". In tal modo spettava soltanto alla speculazione logica trattare, in chiave giustificativa e fondazionale, conoscenze acquisite, di contro al paradigma analitico che aveva avuto nell’antichità classica, con Aristotele, il suo primo e forse più alto punto di fulgore.

Frege viene ritenuto anticipato, pur fra mille cautele, da Pascal, e la sua prospettiva relata alla logica classica per dimostrare quante linee ininterrotte di continuità possano intravvedersi. Cellucci sottolinea, poi, il decisivo ruolo assunto dall’intuizione in seno alla conoscenza matematica, capace di offrire un ulteriore elemento di contatto tra Pascal e Frege. Intuizione intesa come sinonimo non poi tanto lontano di "immaginazione scientifica", nel senso della celebre tripartizione delle sue forme teorizzata da Holton (visiva, metaforica e semantica). Ma anche al modo di "invenzione" alla maniera di Poincaré, da sempre perplesso dinanzi alla presunzione della logica di poter rendere ragione del continuo sviluppo della ricerca matematica. Una lunga disamina, a seguire, conduce Cellucci ad appianare i complessi articolati teorici a suggello della concezione della matematica come sistema concettuale chiuso (Kant, Frege, Hilbert). Non senza giungere a riflettere, con ciò, sulla posizione dell’analisi in un’impostazione teoretica di tal fatta, allo scopo di una rivisitazione rigorosa del significato emblematico dell’opera di Tarski, di Gödel e di Zermelo. A tale altezza, la raffinata struttura assiomatica dei sistemi logici chiusi viene valutata al lume dei suoi complessi limiti, gravitanti tutti in larga misura attorno al problema della scoperta, all’incapacità d’intendere sistemi di conoscenze in evoluzione (capp. 6-7) o alle trascuratezze in merito al ruolo dell’ipotesi e delle interazioni dinamiche fra sistemi e parabole aporetiche. Per sottolineare la polisemica valenza del metodo analitico, Cellucci ne rievoca le origini in Ippocrate e Platone, mostrando come già la logica di Port-Royal costituisse la prima vivida espressione del suo accantonamento storico ed epistemico (cap. 8). L’auspicato riorientamento paradigmatico viene identificato nella rivalutazione del metodo analitico, interpretato come un tentativo di concepire la matematica alla maniera di un sistema concettuale aperto, integrando lo stesso con le strumentazioni logiche dell’induzione e dell’analogia onde codificare i termini d’espressione dell’ipotesi in funzione di un ragionato sviluppo della scienza (cap. 10). Con ciò contemperando un’analisi strutturale delle vicende analitiche della ricerca logica con un’indagine dello sviluppo storico del suo itinerario euristico, quantunque risulti di frequente screziata, quest’ultima, dall’applicazione dello schema interpretativo del precorrimento.

In entrambe le accezioni assumibili dal concetto di analisi - come "scomposizione di un composto nelle sue parti" e come "riduzione di un problema ad un altro" (pp. 349-350) - si riscontra la difficoltà d’individuare un ruolo per l’ipotesi. Ma anche di pensare il metodo che vi inerisce come via per giungere ad essa, per quanto questa seconda accezione addotta offra non poco rilievo alla tecnica dell’analogia. Cellucci sottopone a verifica la probatività di procedimenti quali l’analisi, l’astrazione e l’abduzione come processi di scovo dell’ipotesi. Gran rilievo viene offerto nel libro a quella forma singolare di deduzione debole che è l’abduzione (di peirceana memoria, ma, in fondo, già del tutto aristotelica), sebbene la diafana rigorosità insita nell’"atto creativo" (p. 346) della scelta imponga la valutazione di altre possibilità.

"Altro candidato" potrebbe essere l’"induzione (a particulari ad universale)": assai noto è il dibattito che questa modalità logica di cogliere la definizione dell’universale ha alimentato nella storia del pensiero (da Aristotele a Bacone a Popper, da Euler a Russell e Quine), con il costante riconoscimento dei suoi limiti, salvo sporadici entusiasmi; Cellucci induce a rifocalizzare l’attenzione su tale procedimento, dal momento che esso consta "di più tipi di ragionamento": v’è la proposta di Mill, l’accumulazione graduata di casi di Russell, ma anche la messa in guardia contro la doppia negazione da parte di Hempel, pertanto la varietà semasiologica del termine, proprio in quanto non univoca, non è suscettibile d’immediata falsificazione in quanto non immediatamente identificabile.

L’ultima parte del volume tratta del ruolo dell’analogia. Scriveva Kant nella Logik Dohna- Wundlacken: "[…] se due cose concordano sotto tante determinazioni quante ne ho potuto apprendere, allora io inferisco che esse concordano anche nelle altre determinazioni. Io dunque inferisco, da alcune determinazioni che conosco, che anche le altre apparterranno alla cosa"(8). Schematizza Cellucci l’inferenza analogica: "se P(a) e b è simile ad a, allora P(b)" (p. 367). Segue l’illustrazione della veste semantica del concetto di similarità, retto, di volta in volta, sul criterio dell’eguaglianza della forma, sull’uguaglianza della proporzione e sulla vicinanza degli attributi degli enti analoghi. Si descrive, in tal modo, la relazione che lega induzione ed analogia: se "ogni inferenza induttiva è analogica in quanto presuppone una somiglianza fra i casi" ed "ogni inferenza analogica è induttiva in quanto inferisce che, se due cose concordano tra loro rispetto a certe proprietà, dovranno concordare anche rispetto ad altre proprietà" (pp. 375-6). Naturalmente la detta connessione perde legittimità nella considerazione dell’analogia negativa, ma rimane viva e fulgida nella constatazione che due dei procedimenti di elaborazione dell’ipotesi, la generalizzazione e l’analisi delle dimostrazioni, s’imperniano proprio su induzione ed analogia.

In quest’itinerario "verso una logica della scoperta" (p. 379), Cellucci ritrova Laplace e riscopre la possibilità della scoperta, quantunque assuma esile carattere logico il tipo di risultanza che la modalità della loro inferenza offre. La certezza della regola ingessa la logica nella mera conferma di un eterno già-dato. "Basarsi su processi fallibili - scrive Cellucci - come l’induzione e l’analogia, rinunciando alla certezza propria delle regole logiche, non è un limite, anzi è una scelta necessaria se si vuole che la logica sia ampliativa e feconda" (p. 380). L’esser stati influenzati dall’autorità del rigore della regola, secondo l’autore, ha impedito a Cartesio e a Leibniz, nonché a Hilbert, di offrire qualcosa di più che un semplice baluginio alla logica della scoperta. Ma l’aleatorio immanente ai sistemi logici di rilievo dell’ipotesi non può nemmeno, secondo un ordine di confronto schiettamente epistemologico, dirsi l’antipode della logica fregeana della giustificazione, quella logica dell’esigenza "di porre la verità di una proposizione al di là di ogni dubbio"(9). Quest’ultima non è riuscita ad evitare di soccombere sotto la scure per così dire idoloclasta del secondo teorema di Gödel, quello dell’impossibilità di una giustificazione assoluta di alcuna delle teorie fondamentali della matematica: "parlare di certezze del metodo assiomatico - osserva Cellucci - è un non senso perché nessun sistema assiomatico può essere più certo dei suoi assiomi, e di questi non si può dare alcuna giustificazione assolutamente certa" (p. 381). Una logica matematica della scoperta, secondo l’autore, per coordinare logica della scoperta e logica della giustificazione, sopperisce alla sua fallibilità con l’ampiezza dello spettro della scoperta. Essa traccia, integrandosi dall’interno di sé, una terza via. Essa, inoltre, "ammette il carattere strutturale ed ineliminabile dell’incertezza e cerca di costruire su di esso" (p. 382), non più segugio di vetusti sogni di sistematica esaustività, ma strumentale nonché fedele Acate dell’insopprimibile seduzione dell’espansione indeterminata dei confini del conoscere.

Cellucci effigia, in questo prezioso e controverso volume, l’immagine di una logica in movimento, capace di rispondere alle esigenze vive e poliedriche di un’epoca retta dalla categoria della complessità. Ciò senza dimenticare, tuttavia, il ruolo della storia e la necessità di comprendere i legami delle influenze teoriche elongatesi lungo i secoli per cogliere appieno tutti gli ardui elementi di una tematica. La sterminata ricchezza di una massa di riferimenti di amplissima latitudine e la notevole capacità di tenere fermo il punto di vista, contemperando le linee dell’interpretazione con i tratti dell’identità storica dei problemi, caretteristiche proprie dello studio di Cellucci, evitano spiacevoli naufragi verso la deriva di preponderanti e sterili schemi unilineari d’interpretazione o perdite d’equilibrio tra i punti aporetici in tensione dello studio.

Nella delineazione dei percorsi di costituzione della prospettiva logico-matematica scandita dai suoi epocali allogamenti euristici, Cellucci induce ad osservare che esistono certamente padri (Aristotele, Frege), ma non numi tutelari al cui cospetto recarsi per offrire la propria dose quotidiana di genuflessioni. Ed in questa visione assieme storica ed epistemica delle ragioni della logica il tragitto che conduce verso il sostegno di un sistema concettuale aperto oltre il grande baluardo della logica matematica appare non solo anelato, ma addirittura inevitabile, quasi metafisicamente necessario, alla luce del modo in cui risulta essere presentato. La vigile persuasione dell’intrisione diacronica delle aporetiche realizza un raro equilibrio in una simile rigorosa rappresentazione dell’immagine multiforme della disciplina logica. Eppure sembra che la logica non abbia storia, quantunque possano risultare datate - e, dunque, cariche di valenze diacroniche - le esigenze dei punti di movenza delle sue elaborazioni. La logica matematica è la principale responsabile di quest’impressione, ma la sua tautologica ricerca della validità delle regole dimostrative in chiave meramente giustificativa trasforma la sottrazione di senso alla successione storica in nome di un definitivamente raggiunto punto d’approdo in un’arida museificazione. Il paradigma che essa rappresenta rimane tuttavia un luminoso esempio, lacerato dai suoi stessi limiti, di costruzione di una scienza corretta della dimostrazione. Non in assenza di quel senso (filosofico) di rassicurazione che la certezza offre entro angusti e controllati spazi, immemore ed incommossa dinanzi al guanto di sfida lanciatole da un ordine più intricato di complessità. In questo senso il volume presenta un singolare connettersi di epistemologia e di storia, in relazione stretta ai risultati più conclusivi della logica moderna che, secondo un largamente condiviso disegno, con Boole e Frege celebra la propria cesura rispetto alla tradizione. Con lo studio di Cellucci tali stereotipie vengono meno. Nella corsa alla logica della scoperta sono Leibniz e Kant a fare da tratto d’unione tra due tradizioni logiche pur sostenute da costitutive finalità differenti. Ciascuno degli apportatori di contributi viene letto alla luce della complessità relazionale delle tematiche che, vivide nella loro opalescente identità, pur variano. Nel variare risultano inesaustive per le richieste di un altro tempo, ma continuano a condizionare le ricerche di chi si fa carico delle "esigenze di verità" di una nuova temperie spirituale. Così, pensare la logica significa realizzare la rappresentazione degli strati delle sue aporetiche, senza preconcetti e sceveramenti, quantunque edotti della variabile significatività del loro valore euristico. Ed in ciò si concretano i tratti di un’ermeneusi complessiva dell’intero fronte tematico della logica.

II. Nel tracciare le linee di una nuova logica della scoperta, Cellucci ricorre expressis verbis a termini quali paradigma e mutamento che, secondo la nota scansione ordinata di Kuhn, richiamano nel loro interstizio il concetto di crisi. A quest’altezza, però, dopo aver esposto gli articolati orientamenti del testo di Cellucci, giunge il momento di consentire a qualche rilievo di vedere la luce.

Il paradigma della logica matematica è ritenuto in crisi di stallo, ma non risulta del tutto chiaro, sul piano epistemologico, se la nuova via auspicata di apertura concettuale all’ipotesi ed all’ampliamento sintetico di conoscenze sia collocabile nei parametri espressivi di un nuovo paradigma o se, piuttosto, vada intesa come un adeguato ammodernamento della solida piattaforma della stessa logica matematica. Tutto ciò alla luce del fatto che quest’ultima tradizione di ricerca non sembra aver totalmente trascurato il contesto della scoperta visto che è riuscita, per molti versi, a modificare il proprio dogmatismo originario attraverso il coglimento degli adeguati stimoli provenienti da note esperienze epistemologiche più direttamente orientate a meditare sulle dinamiche logiche della scoperta scientifica. Ed altresì inquieta alquanto la generalizzazione dei termini scienza e logica matematica. Pur intendendo, per tacita convenzione, cosa debba intendersi prima facie per scienza, sebbene, di solito, la complessità del termine scoraggi dinanzi alla velleità d’offrirne una definizione, si carica di maggiore difficoltà la scelta di denominare con un solo termine la poliedrica e polisemica tradizione moderna della logica matematica. Risultano vigorosi i capitoli dedicati da Cellucci ai suoi principali nodi problematici. Ma è alquanto problematica la condivisione, in questo quadro delle prospettive epistemologiche della logica contemporanea, della convinzione dell’autore di poter creare una categoria unitaria di riferimento (il paradigma della logica matematica, per l’appunto) che, per la coerenza del restringimento entro sé, finirebbe con il trascurare le costitutive differenze in nome dell’unità del quadro teorico.

Si tratta, è bene ribadirlo, di un’interpretazione a largo raggio, la quale si propone come un progetto in divenire, sostenuto da un fronte vario di esperienze pregresse; così la micrologia della prudenza storica potrebbe anche produrre l’effetto di un qualche stridore perso fra gli echi di una possente voce. Ma dalle esili sonorità discendono, spesso, proficui accordi. Tuttavia, permanendo nell’alveo dello schema di Kuhn adottato da Cellucci, permane ancora qualche ostinata oscurità intorno alla direzione del proposto riorientamento del punto di vista. Ciò dal momento che se un nuovo paradigma, i cui virgulti sono incoraggiati dalle anomalie, travolge quello precedente, com’è possibile parlare simultaneamente di nuovo paradigma e, nello stesso tempo, di ampliamento di quello in actu? Scrive al riguardo Cellucci: "[…] il nuovo paradigma logico deve aprire una via più comprensiva della logica matematica, per affrontare i problemi che essa ha ignorato o non ha saputo affrontare". E di seguito: a fronte di "soluzioni innaturali, goffe, contorte, inefficienti e in ultima analisi fallimentari […], per trovarne di più soddisfacenti occorre un nuovo paradigma logico" (p. XXI). Cosa rappresenta, dunque, il nuovo paradigma? Cosa c’è di nuovo nell’ammodernamento del vecchio? Se si tratta di "aprire una nuova via più comprensiva della logica matematica", la stessa non sarebbe più tanto sorda al contesto della scoperta, visto che ad essa si volge la "nuova via", o, quantomeno, v’è, nella sua vocazione alla semplice giustificazione, il seme euristico fondante un sistema concettuale aperto. Ma, se è così, non ci si intende del tutto intorno all’abusato termine paradigma, il significato addotto del quale tradisce una non remota fiducia di Cellucci nella capacità, da parte della logica matematica, di autoreformarsi alla luce delle nuove richieste di concettualizzazione della nuova temperie di ricerca del nostro tempo, richiedendole, in tal modo, forse, uno sforzo estraneo alla sua natura.

Nella predicazione della rilevanza fondativa della logica matematica, al cui sviluppo generazioni congiunte di logici puri (Frege, Church) e di matematici (Hilbert, von Neumann, Gödel) hanno fornito energie, e nell’indicazione della condizione di stallo in cui versa lo stato attuale delle sue ricerche, tende ad evidenziarsi una non del tutto corretta sua coerenza rispetto alla filosofia della matematica, dal momento che si presume che la perdita d’interesse per la logica imponga un conseguente scadimento d’attenzione verso la medesima area della ricerca filosofica. Il suo sviluppo, in senso moderno, è stato necessitato dall’esigenza matematica di evidenziare la certezza dei fondamenti di sé, a seguito di quel programma di rigorizzazione concettuale delle nozioni fondamentali del calcolo infinitesimale che aveva impegnato Cauchy e, poi, Weierstrass e Dedekind con la detta soluzione dell’aritmetizzazione dell’analisi. La riduzione dell’intera matematica all’aritmetica originerà, come è noto, un folto dibattito che troverà uno dei suoi esiti più originali nell’elaborazione dei cinque assiomi fondazionali di Peano. Su questo nodo - costituito dalla irreduttibilità del numero naturale e, per conseguenza, dell’aritmetica tutta - s’impernia il confronto sulla fondazione logica della teoria dei numeri secondo la soluzione logicista di Frege e quella insiematica di Cantor e, nel Novecento, secondo le prospettive del formalismo di Hilbert e dell’intuizionismo di Brouwer. Dunque, la logica matematica sorge da esigenze fondazionali di tenore schiettamente filosofico. Questa convergenza legittimista e rigorizzante fra logica e matematica non può essere trascurata nel processo di comprensione delle aree disciplinari di pertinenza dell’aporetica della logica matematica contemporanea.

Quest’ultima ha davvero fatto il proprio tempo? La posizione di Frege, pur riconosciuta da Cellucci nella sua grandezza e ritenuta un rigoroso baluardo di fortezza, è del tutto annullabile in ordine al rilievo della sua valenza euristica? Il punto di vista proposto dall’autore appare, forse, espresso con eccessiva radicalità. Ciononostante esso risulta, in definitiva, una brillante interpretazione degli sviluppi della logica postfregeana ed un promettente momento epistemologico di problematizzazione, eretto su una profonda conoscenza dei suoi sviluppi storici e strutturali. Anche al lume della persuasione dell’autore della possibilità d’integrare la logica in funzione di una più ampia teoria dell’invenzione e della scoperta, superando di slancio, così, rigidi schemi di bivalenze veritative, in nome del proficuo allentamento di quella tensione fondazionale che già Quine si era proposto di realizzare nel ripensamento, esposto in termini di "stratificazione", della scala gerarchica della tipica russelliana. Ed in ciò sottolineando le diverse modalità linguistico-sintattiche di elaborazione del significato e dei suoi modelli rispetto alla struttura dei vari linguaggi.

Si è già osservato, a proposito della proposta di variazione paradigmatica, che lo studio di Cellucci risulta lacerato dall’indecisione circa l’opportunità, da un lato, di un ricupero del retaggio di una florida tradizione inchiodata al suo statuto di mera giustificazione e, dall’altro, del salto nel vuoto in un’ancora troppo incoativa logica dell’invenzione. Già la nascita della teoria delle "funzioni ricorsive", sorta in seno al programma di Hilbert, ed il successivo sviluppo della logica combinatoria (Schönfinkel) avevano aperto nuove vie all’indagine logica (come le "varianti combinatorie" di Haskell Brook Curry ed il calcolo della "l-conversione" di Church), e, dopo Gödel, la teoria dei modelli non ha tardato a celebrare la complessità di sé. Premesse tutte di una costante tensione all’accrescimento delle tradizionali aree problematiche delle applicazioni logiche, specie a seguito dello sviluppo degli studi sull’intelligenza artificiale, alle cui interazioni con le tematiche logiche si devono i successi delle logiche modali, delle logiche temporali, delle logiche epistemiche o delle teorie della dimostrazione automatica, in costante Auseinandersetzung con il teorema di Church del 1936 sull’indecidibilità del concetto di legge logica, per dare senso alla ricerca dei cosiddetti "dimostratori automatici". L’universo tematico della logica contemporanea è caratterizzato da un piano teoretico che è possibile definire metametalogico, dal momento che studia proprietà di classi di logiche. È in discussione, infatti, il problema della classificazione tipologica della varietà di logiche possibili con la relativa ricerca della semantica adeguata agli elementi costitutivi di ciascun tipo. A questo proposito va citato Kripke e la sua "semantica dei mondi possibili" che ha trovato applicazioni in vari campi della linguistica (Grammatica di Montague) e delle logiche intensionali, volte a costituire, queste ultime, teorie intensionali degli insiemi (Feierman, Aczel, Bealer).

Ma nell’universo logico sono costellazioni definite anche la logica paraconsistente dello studio della "compatibilità con la contraddizione" di Jaskowski e da Costa, le logiche libere come sistemi svincolati dall’assunzione, di contro alla logica dei predicati classica, che ogni termine singolare possa esser denotante o le logiche polivalenti dell’allargamento dei valori di verità, tipicamente indeterministiche (Lukasiewicz, Post, Kleene, Bochvar). Il quadro, dunque, di tali vie risulta vario e vivace d’espressioni dinanzi all’incalzare della scienza informatica o alle richieste della traslazione in ordini formalizzati delle prescrizioni (logiche deontiche) o del controllo dei valori della possibilità. Al punto da esprimersi, dopo Rosser, Turing e Post, con categorie di elevato spessore epistemologico, oltre che strettamente formale, come analisi di "operazioni effettivamente eseguibili". E per quanto ciascuna di esse sia legittimamente sussumibile nello spettro cromatico del paradigma della logica matematica, ci si avvede di quanto complessa sia questa tradizione di ricerca e di quanto problematico possa risultare denominarla univocamente. Si fanno strada altre superfici d’applicazione della disciplina, si moltiplicano le logiche con inevitabili complicazioni d’ordine soprattutto filosofico, e di questa frammentazione è dolente Cellucci. Va, tuttavia, considerato che proprio un’estensione così vasta e proteiforme consente, in alcune sue direzioni, di gettare luce su sistemi linguistico-tematici ancora minati dall’aleatorio ed ingiudicabili con i classici schemi logici dicotomici vero-falso. Per simili ragioni e per l’ambivalenza di un rapporto con la tradizione ramificatasi con risultati, talvolta, di estrema proficuità euristica, si è parlato di progetto ad uno stadio ancora incoativo in afferenza alla logica dell’invenzione evocata da Cellucci.

In fondo l’opera di quest’ultimo presa qui in esame è complessivamente interpretabile come un’indagine orientata a centralizzare il ruolo dell’ipotesi facendo della logica un sistema concettuale aperto. È valsa, qui, la lezione d’apertura all’avventurosità della ricerca intellettuale di Popper nel seguire il valore della congettura, e l’ultima parte del volume vale come una prima vindemiatio critica delle modalità d’insessione di induzione ed analogia nel cuore di un rivitalizzato metodo analitico. La valorizzazione dell’analisi avviene mediante l’ampliamento del significato complessivo dell’inferenza, la delineazione dei limiti di realizzabilità della teoria della dimostrazione nei sistemi aperti e la valutazione dell’incompletezza intesa come un memento critico, non al modo di un momento di crisi o di circolare chiusura entro sé della ricerca. L’epilogo dello studio, per conseguenza, va inteso come il prologo di un promettente itinerario di ricerca ed in funzione polemica dev’essere letta la radicalità della tesi proposta, dal momento che solo il fuoco del polemos - argomentato e mai preconcetto - giunge a fluidificare i percorsi del pensiero. Proprio contro i pelasgici tesari o i rigidi mansionari che una certa lettura dell’arida natura della disciplina ha incoraggiato tuona Cellucci, al fine di suscitare quella radiosa ariosità tipica dell’apodissi e per integrare un’ormai anodina ricerca (murata in sé) delle certezze di una teoria univoca della dimostrazione, per renderla capace di seguire il divenire vorticoso dell’evento nel costante pericolo di perderne di vista le sfuggevoli fattezze. Nel suo rigore costitutivo la logica è la libera ricerca non tormentata ma pungolata dalla possibilità dell’errore, nell’abito ottimistico tipico di chi, persuaso di potersi imbattere in esso, dopo il disagio iniziale, trae vantaggio dall’averlo smascherato e riconosciuto per sancirne lo statuto ed evitare ricadute o ulteriori smarrimenti: la via della verità passa attraverso l’onere dell’errore e la fierezza del vero si sostiene proprio dal contrasto con il rossore dell’erroneo.

"La logica della scoperta […] ammette il carattere strutturale ed ineliminabile dell’incertezza e cerca di costruire su di esso" (p. 382) mediante un metodo analitico "dotato di procedure di controllo" dell’anomalia. Da qui la conclusione di Cellucci che vale come un elogio dell’imperfezione ed un inno alla potenza della ragione posta dinanzi ai suoi oggetti e, infine, a se stessa: "La logica della scoperta riconosce l’illusorietà dello scopo di garantire la certezza assoluta della matematica e lo sostituisce con quello di fabbricare strumenti per l’ampliamento della nostra conoscenza, soggetti all’alea dell’errore proprio di tutte le costruzioni umane. Lo scopo della conoscenza non è quello di eliminare l’incertezza ma è piuttosto quello di insegnare a diffidare delle proprie certezze, e a ciò deve mirare una logica della scoperta" (ibid.).

NOTE

* Note critiche a margine di C. CELLUCCI, Le ragioni della logica, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. XXVIII-408.

(1) -I. KANT, Critica della Ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, 2 voll., Laterza, Bari, 1972, v. I, p. 266.

(2) Ivi, p. 15.

(3) Cfr. ivi, pp. 104-5.

(4) -R. CARTESIO, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, 4 voll., trad. it. di G. Galli, E. e M. Garin, Laterza, Roma-Bari, 1991, v. I, p. 302.

(5) -K. G…DEL, The present situation in the foundation of mathematics, in Collected Papers, a cura di S. Feferman et al., Oxford, University Press, 1986-’95, III, p. 45.

(6) -Cfr. B. RUSSELL, Our Knowledge of External World, Allen & Unwin, London, 1926, pp. 68-69.

(7) -J. DIEUDONNƒ, "Logica e matematica nel 1980", in P. ROSSI (a cura di), La nuova ragione. Scienza e cultura nella societˆ contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1981, p. 16.

(8) -I. KANT, Logik Dohna-Wundlacken, in Gesammelte Schriften, hrsg. von Kšniglich Akademie der Wissenschaften, Berlin, 1900 ss., XXIV Bd., p. 772.

(9) G. FREGE, Die Grundlagen der Arithmetik, Olms, Hildesheim, 1962, p. 2.

 

 

Salvatore Muscolino PRIMI SAGGI Osservazioni rosminiane_alla concezione giuridica di kant

A partire dagli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale si è aperta una terza fase degli studi rosminiani, fase che ha avuto come obiettivo quello di riportare alla luce un Rosmini diverso da quello conosciuto dai suoi contemporanei e, soprattutto, dalla tradizione storiografica idealista che ha avuto nell’opera dello Spaventa e del Gentile due punti di riferimento fondamentali. Se sulla prima interpretazione storica del Rosmini pesa negativamente un giudizio di condanna della Chiesa nei confronti del Roveretano, accusato di essersi allontanato dal "tomismo ufficiale", l’opera dello Spaventa (1) apre invece un indirizzo di studi destinato a snaturare il pensiero del Roveretano e anzi, per usare le parole di M. F. Sciacca, uno dei massimi interpreti del Rosmini, a "fargli dire di proposito diversamente da quel che ha pensato" (2). A partire dalla metà degli anni ‘30 si apre una fase nuova: autori come Solari, Bulferetti, Piovani, il già citato M. F. Sciacca e altri ancora, cercano di fornire un quadro del pensiero rosminiano basato quanto più possibile su una visione d’insieme degli scritti del Roveretano, dalle opere giovanili alla Teosofia. Rosmini viene letto e studiato in un contesto più ampio, quello della Restaurazione, con lo scopo di chiarire sia le matrici storiche del suo pensiero, sia di coglierne i caratteri originali. E’ soprattutto grazie a questi studi che il pensiero del Roveretano, con il suo accento sul concetto di "persona", viene inserito e valutato alla luce della più genuina tradizione cristiana da S. Agostino a S. Tommaso. Sono proprio i valori cristiani che Rosmini vuole recuperare e riproporre in un mondo ormai cambiato, sconvolto dalla Rivoluzione francese e dall’età napoleonica. Per difendere la "persona" cristianamente intesa, egli non esita a combattere tutto ciò che ad essa si oppone: razionalismo, sensismo, empirismo, idealismo Autori come Locke, Hume, Rousseau, Condillac, Kant sono oggetto di puntigliose critiche volte a mettere in luce gli aspetti più "empi" delle loro dottrine le cui conseguenze erano il soggettivismo morale, la negazione dell’esistenza di Dio e, in ultima analisi, la negazione della dignità umana come testimoniano gli esiti politici e sociali della Rivoluzione. "Abbiamo estremo bisogno di una filosofia che possa appagare i bisogni del tempo, di una filosofia sostanziosa insieme e cristiana. Egli è estremamente difficile congiungere queste due qualità; ma mi conforta ad ogni modo anche quello che in arduis voluis sat est" (3).

Ed è questa dimensione squisitamente cristiana del suo pensiero quella che, forse, è sfuggita alla storiografia idealista, cioè tutti coloro che hanno visto o si sono sforzati di vedere un possibile accostamento di pensiero tra Rosmini e Kant (4).

Rosmini, consapevole della grandezza del pensatore tedesco, esprime tale giudizio nei suoi confronti: "Il contagio del suo secolo e il protestantesimo lo pervertì: egli condusse gli assurdi del suo tempo alle forme più filosofiche e più perfette; dotato sì di gran possa di mente, che qualora si fosse aiutato dei principi cattolici, poteva erigere un immortale monumento scientifico alla verità" (5). Alla critica intellettuale si affianca un giudizio di grande stima, ma l’ammirazione per una mente che in "potenza" avrebbe potuto fornire un valido contributo alla causa cattolica non trasforma gli apparenti punti di contatto tra i due pensatori in una sostanziale omogeneità.

In questa sede ci occuperemo della problematica giuridico-politica e di come quegli aspetti, che a prima vista potrebbero sembrare comuni ai due pensatori, in realtà sono il frutto di due progetti filosofici radicalmente diversi: la difesa della proprietà, la separazione dei poteri, il suffragio elettorale censitario, tutti elementi presenti in entrambi i sistemi ma frutto di esigenze profondamente diverse.

Siamo convinti di queste differenze e lo era anche Rosmini, ma siamo anche convinti, e cercheremo di dimostrarlo, che, spesso, le accuse mosse dal Roveretano al grande pensatore tedesco in sede giuridica siano il frutto di parziali fraintendimenti del sistema filosofico kantiano, specie dei rapporti esistenti tra il diritto e la morale. Le critiche mosse da Rosmini alla dottrina giuridica kantiana, nella Filosofia del diritto, non costituiscono un tutto organico, una trattazione sistematica: sono osservazioni, appunti che il Roveretano dissemina nella grande opera e che abbiamo raccolto e utilizzato anche come base per un discorso critico sul pensiero giuridico-politico di Kant.

Storicamente il problema del rapporto diritto-morale nella filosofia kantiana è ampiamente controverso. Alcuni (6) ritengono che tra la morale e il diritto nel sistema kantiano non vi siano soluzioni di continuità e che anzi essi siano in netta opposizione. Altri (7), invece, sono convinti che non esista una contrapposizione forte tra i due ambiti e che anzi morale e diritto svolgano tra loro una funzione complementare (8).

Noi ci inseriamo in questo secondo filone, ritenendo che morale e diritto siano, nel sistema di Kant, due ambiti contigui e anzi cercheremo di dimostrare, tramite le critiche rosminiane, come le contraddizioni interne al pensiero giuridico-morale kantiano siano dovute alle premesse stesse del sistema.

Come punto di inizio della nostra analisi è bene considerare la definizione di diritto che i due autori rispettivamente forniscono. Così Rosmini: "Il diritto è una facoltà di operare ciò che piace, protetta dalla legge morale, che ne ingiunge ad altri il rispetto" (9), laddove la famosa definizione kantiana suona: "Il diritto è dunque l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro" (10).

Ed è già dalla definizione di diritto che Rosmini prende le distanze dal pensatore di Kšnigsberg, sia nella sua Storia comparativa e critica dei sistemi morali intorno al principio della morale sia nella Filosofia del diritto la quale, come abbiamo detto, ci interessa più direttamente. Il "principio di coesistenza", così come viene chiamata da Rosmini la definizione del diritto in Kant, viene criticata nella Filosofia del diritto prima sul versante della sua "essenza" poi come strumento da cui ricavare gli altri diritti, cioè quello che l’Autore chiama "principio di derivazione dei diritti". Le stesse argomentazioni vengono usate per criticare la definizione di diritto sotto i due punti di vista, quindi, per comodità di esposizione, tratteremo solo delle seconde. Innanzitutto, il "principio di coesistenza" non includerebbe necessariamente un carattere morale sia che esso valga come "regola logica" per non cadere in contraddizione con il "fatto" della società, sia che esso sia il frutto di una "regola di mera prudenza"per rispondere all’esigenza di sopravvivenza reciproca: in entrambi i casi, sostiene Rosmini, la morale rimane esclusa. Soprattutto nel secondo caso, che Rosmini ritiene l’esatta interpretazione della formula kantiana, la fondazione morale del diritto viene sostituita da un movente meramente utilitaristico, cioè l’interesse egoistico a conservare la propria esistenza. Tale accusa di utilitarismo (sebbene Rosmini non si esprima in questi termini) sembra colpire nel segno per le seguenti ragioni: Kant afferma che ciò che caratterizza l’agire morale è il "dovere", poiché l’azione è compiuta solo per suo rispetto e non per altro fine; ma il diritto è ciò che caratterizza lo stato civile come contrapposto a quello di natura. Kant afferma che "l’uomo deve uscire dallo stato di natura, e unirsi con tutti gli altri (coi quali egli non può evitare di trovarsi in relazione reciproca) sottomettendosi a una costrizione esterna pubblicamente legale; vale a dire che ognuno deve, prima di ogni altra cosa entrare in uno stato civile" (11). Tale dovere di entrare nello stato civile è chiamato da Kant "postulato del diritto pubblico": "tu devi, grazie al rapporto di coesistenza che si stabilisce inevitabilmente tra te e gli altri, uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato giuridico" (12). Celato sotto la nozione di "dovere", vi sarebbe un motivo utilitaristico scaturente dalla distinzione che egli opera tra stato di natura e stato civile, distinzione valida, non in virtù di differenti doveri o diritti, ma solo per la differente forma giuridica del vivere comune: "Le leggi dell’ultimo [lo stato civile] riguardano dunque soltanto la forma giuridica del convivere degli uomini tra di loro (la loro costituzione), relativamente alla quale esse leggi debbono necessariamente venir pensate come pubbliche" (13). In sostanza, l’uomo sarebbe motivato utilitaristicamente ad entrare nello stato civile non per tutelare la propria vita, come afferma Rosmini, ma per essere sottoposto a leggi coattive pubbliche che gli assicurerebbero un possesso giuridicamente "perentorio" che, altrimenti, resterebbe "provvisorio" nello stato di natura. D’altronde a rendere contraddittorio il discorso kantiano è, nell’ottica del Rosmini, la stessa distinzione fra stato di natura e stato civile; è proprio a proposito della legittimazione dell’acquisto esterno che Rosmini nota come Kant, volendo negare l’esistenza di una proprietà stabile nello stato di natura, ritenga di poter legittimare la proprietà esterna facendo ricorso ad una convenzione reciproca, cioè il contratto originario. Ma tale contratto sarebbe obbligatorio non arbitrario ed "É evidente che una tale convenzione non potrebbe esser altro, se non il riconoscimento di un diritto in natura, di una cosa cioè moralmente necessaria e non indifferente egli è evidente del pari, che questa convenzione, che dovrebbe determinare le proprietà di ciascun uomo, avrebbe uopo di partire da un principio di giustizia col quale si supporrebbe già antecedentemente la legge della proprietà; e non si tratterrebbe più, colla indicata convenzione, che di dare esecuzione nel fatto alla proprietà disegnata dal diritto" (14). In un’altra sezione della Filosofia del diritto Rosmini riprende la critica alla fondazione kantiana della proprietà sotto un altro punto di vista. Kant, a detta del Roveretano, fa derivare la proprietà dall’assunto che, essendo l’uomo malvagio per natura, è necessario nello stato civile sottoporlo a leggi coattive che tutelino la proprietà personale. Ma, nota acutamente il Rosmini, "mentre richiede garantiti i diritti con la forza, non indica poi il modo di garantirli contro l’abuso della forza stessa" (15). Già Rosmini stesso intuisce quella contraddizione interna al pensiero politico kantiano, cioè l’affermare da un lato la necessità di uno stato di diritto per proteggere gli interessi individuali, ma dall’altro definire lo Stato fondato sul diritto "un fine avente valore assoluto" (da ricordare, a proposito, la famosa "negazione del diritto di resistenza", in opposizione, ad esempio, a Locke e, paradossalmente, anche ad Hobbes, sebbene questi autorizzi il diritto di resistenza solo in casi estremi). Nella riflessione giuridica rosminiana, invece, la "persona" continua ad essere il fine di tutto, ivi compreso lo Stato, e a tutela di questa egli pone l’originalissimo istituto del Tribunale Politico su cui ritorneremo.

Kant, dunque, non riuscirebbe a fondare moralmente la proprietà. Ma tale problema, che include il rapporto tra diritto privato e pubblico sarà trattato più avanti.

Tornando al "principio di coesistenza", la seconda critica rosminiana verte su una presunta astrazione kantiana (tenere presente che Rosmini cita il testo di Zeiller, giurista tedesco) e cioè che gli uomini non vengono considerati per le loro differenze reali, empiriche, bensì per la loro "essenza", il che li renderebbe eguali perché di fatto i loro caratteri accidentali vengono eliminati (16). La conseguenza di questa astrazione, secondo Rosmini, sarebbe una distribuzione aritmetica della libertà in parti eguali tra gli uomini i quali, però, essendo diversi gli uni dagli altri, finirebbero col fruire della libertà in quantità diverse, dipendendo tale diversità dalla capacità naturale di ognuno di soddisfare identici bisogni in maniera differente; si finirebbe quindi con il contraddire il principio stesso della ripartizione, cioè che tutti usino sempre la stessa quantità di libertà. Ma questa seconda critica non è convincente perché l’ambito giuridico è proprio l’ambito in cui Kant espressamente considera non più l’uomo noumenico bensì l’uomo concreto, empirico, con le sue inclinazioni sensibili e i suoi desideri.

La terza critica va più lontano: se anche si attribuisse un carattere morale alla coesistenza, vista la necessità che nessuno violi la libertà altrui, essendo la libertà, intesa come "indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui" l’unico "diritto innato", il problema permarrebbe per le seguenti ragioni: o c’è un diritto innato ad usare le nostre facoltà e allora il dovere morale già presuppone il diritto stesso; o l’uso delle facoltà è solo un fatto fisico che deve ricevere una limitazione da tutta la legislazione morale e non solo da quei precetti relativi alla coesistenza (17). Tale critica viene ripresa e chiarita a proposito di quella che Rosmini chiama "relativa libertà giuridica", terza classe dei diritti umani. Se tutte le azioni che in "potenza" potremmo compiere fossero lecite, la coesistenza (intesa dal Rosmini come possibilità stessa della società umana e non come stato civile da Kant) non sarebbe più possibile perché, ad esempio, potremmo appropriarci di tutto ciò che ci aggrada senza rispetto alcuno per gli altri. Ma, dice Rosmini, dovrebbero pure essere considerate lecite quelle azioni le quali, pur non invadendo la proprietà altrui (cioè la coesistenza kantiana), limitassero per puro capriccio la libertà altrui, quegli atti che nel Codice Civile italiano attualmente in vigore vengono definiti "atti di emulazione". In una nota fondamentale per il nostro discorso Rosmini ricollegandosi, come abbiamo detto, alla terza critica al principio di "coesistenza kantiano" chiarisce che il limite della visione kantiana è di ritenere che la libertà umana possa essere limitata solo dalla proprietà intesa come puro e semplice possesso empirico. Ecco le parole dell’Autore: "Si osservi che Kant trasse il suo principio della coesistenza dalla veduta parziale delle azioni libere. Egli non s’accorse, che a queste azioni non si possono ridurre tutti i diritti, ma che ci sono dei diritti precedenti i quali consistono nella proprietà, e sono i fonti originali dei diritti che ha o può aver l’uomo alle azioni. Oltre di che, in quel principio non è determinato, come abbiamo osservato, "il limite" da porsi alle azioni, acciocché non levino la coesistenza. Noi all’incontro abbiamo trovato questo limite nella proprietà, cioè nel possesso giuridico dei beni o delle azioni" (18). Questa lunga citazione è necessaria perché ci porta non solo al cuore della dottrina giuridica kantiana, ma anche al cuore della critica rosminiana a detta dottrina. La posizione rosminiana riguardo al concetto di coesistenza kantiano sembra possa essere riassunta nel modo seguente: l’errore di Kant sarebbe quello di considerare la proprietà semplicemente come relazione tra il soggetto e la cosa posseduta e, quindi, fondandosi il possesso sull’occupazione, la libertà d’azione finirebbe con l’incontrare un limite solo nella "cosa" altrui, cioè appunto nel possesso materiale di beni da parte degli altri. Rosmini invece ritiene di fornire un concetto di proprietà molto più ampio del rispettivo concetto kantiano (19), il che, come abbiamo già visto, lo porta in parte a respingere il principio di coesistenza come "principio di derivazione dei diritti".

Anche per quanto riguarda la proprietà è fondamentale partire dal concetto di "persona" (20). Essa sola, sede dell’Idea dell’essere, ha valore di fine rispetto ai beni esistenti, al mondo circostante: "La percezione intellettiva non è semplice possesso conoscitivo della realtà, una espansione quasi della nostra soggettività in ciò che essa ha di individuale, ma importa un far rivivere il dato partecipando in uno noi alla vita dell’oggetto e l’oggetto alla vita nostra" (21). La persona, dunque, realizza se stessa tramite l’utilizzo dei beni a lei circostanti, i quali beni esistono all’inverso per permettere la realizzazione della "persona". Poiché il diritto viene definito come la "facoltà di agire liberamente" Rosmini afferma: "La persona dell’uomo è il diritto umano sussistente" (22) cioè l’essenza stessa del diritto. Identificandosi la persona con il diritto, ne segue che il "principio di determinazione dei diritti" deve essere qualcosa di diverso dalla "persona" stessa. A questo punto Rosmini si volge alla proprietà "che è un vero e proprio prolungamento della persona" (23). I diritti speciali, infatti, "si specificano per la loro diversa materia, la quale non si può considerare in se stessa, ma solo in quanto ella è unita alla forma del diritto . Ora questa unione della materia del diritto colla forma di esso, questo nesso, che fa entrare la materia nella sfera del diritto, fu da noi chiamato proprietà" (24). Senza coincidere, la proprietà è allora in un rapporto strettissimo colla persona, la quale finisce con il coincidere con la libertà stessa. E anzi, proprio la proprietà diventa "condizione" della libertà: "Così la proprietà si dimostra essere condizione della libertà, non potendosi la libertà concepire senza di quella. Il concetto adunque della libertà non esiste privo al tutto di ogni qualsiasi proprietà. Fin anco nella libertà essenziale la persona, si rinviene un oggetto che tiene luogo di proprietà primitiva, l’essere ideale" (25).

La "persona" diventa proprietaria di qualcosa tramite due "congiunzioni": l’una fisica, l’altra morale. La prima, dice Rosmini, deriva dalla natura del soggetto, cioè la ricerca del bene (ossia essa è frutto della nostra facoltà eudemonologica), la seconda deriva invece dalla natura dell’oggetto cioè la sua possibilità a diventare proprietà della persona. La relazione tra le due "congiunzioni" viene così descritta da Rosmini: "La congiunzione fisica, come dicemmo, non è che la materia del diritto: la forma consiste nella congiunzione morale: fino che questa non si sopraggiunge, non ci ha diritto" (26). Il vincolo che si viene a creare tra l’uomo e la cosa è talmente stretto che si può definire violazione della proprietà ogni atto volto a staccare il bene dalla persona del cui "sentimento" il bene è divenuto parte integrante. Ma, ricordiamo, Rosmini ha ipotizzato che vi possano anche essere atti i quali, pur non violando la "proprietà", possono limitare la libertà personale e non esita a definirli contrari al diritto, dunque immorali.

Cosa pensa, invece, Kant della proprietà? Questo è uno dei punti più importanti e complessi di tutta la filosofia politica kantiana e, nei limiti della nostra trattazione, cercheremo di esporla il più chiaramente possibile.

Il problema della proprietà è trattato nell’ambito del diritto privato il quale, com’è noto, caratterizza lo stato di natura. Cominciando dalla definizione: "L’oggetto esterno, che in quanto alla sostanza è il suo di qualcuno, è una proprietà (dominum) di costui, sulla quale i diritti gli appartengono (come accidenti della sostanza), e di cui in conseguenza il proprietario (dominus) può disporre a suo piacimento (ius disponendi de re sua) " (27). Il problema fondamentale per Kant è il seguente: come è possibile affermare la proprietà di una cosa, il "mio" giuridico? La risposta chiara quasi logica è: la libertà di usarla liberamente senza impedimenti. Questa è quella che Kant chiama definizione nominale, mentre la definizione reale suona: "il mio esterno è quello di cui non mi si può impedire l’uso senza ledermi, quantunque io non sia in possesso della cosa (non sia il possessore dell’oggetto) " (28). Tale seconda definizione viene da Kant definita "deduzione", poiché non è altro che la conoscenza della possibilità degli oggetti. In sostanza, come in campo morale Kant ricorre alla teoria dei "postulati" i quali, derivando direttamente dalla legge morale, rappresentano per la volontà "condizioni necessarie dell’osservanza di ciò che la legge mi prescrive" (29), così anche in campo giuridico egli ricorre a un postulato il cui obbiettivo è quello di "definire le condizioni necessarie alla validità dell’obbligazione imposta da tale appropriazione [cioè l’occupazione di un bene]" (30). Tale postulato, chiamato postulato giuridico della ragione pratica, così recita: " possibile avere come mio un oggetto esterno qualunque del mio arbitrio; vale a dire è contraria al diritto una massima, secondo la quale (qualora diventasse legge) un oggetto dell’arbitrio dovrebbe essere in sé (oggettivamente) senza padrone (res nullius) " (31) perché, ovviamente, verrebbe meno la possibilità dell’uomo di adoperarlo facendolo "proprio": e in questo modo si verrebbe a negare la possibilità della stessa libertà esterna. A ragione Gonnelli parla di dimostrazione apagogica della "possibilità del possesso" (32), in quanto, per usare le parole dello stesso Kant "E’ dunque un presupposto a priori della ragione pratica il considerare e trattare ogni oggetto del mio arbitrio come un oggettivamente possibile mio e tuo" (33). Ma se il mondo esterno non appartiene a se stesso, a chi appartiene? Kant risponde parlando di una comunanza originaria del suolo (non intesa, comunque, come eguale ripartizione di proprietà) che funge, dunque, da presupposto per l’appropriazione privata tramite il "fatto" dell’occupazione "fatto che è frutto della mia volontà unilaterale. La quale volontà "non può tuttavia autorizzare un acquisto esterno in nessun altro modo se non in quanto esso è contenuto in una volontà collettiva a priori la quale comanda assolutamente" (34). Ed è tale volontà collettiva che garantisce ad ognuno ciò che occupa.

La proprietà, allora, si fonda sull’occupazione, cioè su un fatto puramente empirico, e come nota Tosel (35), questo punto sembra non solo essere difficilmente giustificabile, ma addirittura un passo indietro rispetto alla fondazione lockiana della proprietà basata sul lavoro. Anzi il lavoro "quando si tratta di primo possesso, non è altro che un segno esterno della presa di possesso, che si può sostituire con molti altri che costano minor fatica" (36).

Lo stato civile, in cui ognuno è "obbligato" moralmente ad entrare, ha, allora, il compito di garantire giuridicamente un "diritto" fondato su un’occupazione arbitraria del suolo, e se tale "diritto" è difficilmente giustificabile, le prerogative che esso attribuisce lo sono ancora meno.

Punto fondamentale della dottrina kantiana è la distinzione tra diritto e morale, distinzione causata dalla differenza tra dovere giuridico e dovere morale. Mentre la legislazione morale richiede che il comportamento si adegui interiormente (cioè l’impulso a rispettare la legge deve essere il dovere per il dovere), la legislazione giuridica prevede solo un adeguamento esteriore del comportamento (quella che Kant definisce "legalità"), adeguamento che non può essere previsto per la legge morale. Bobbio definisce giustamente tale criterio distintivo tra diritto e morale "formale" in quanto relativo solo alla "modalità", o meglio "la forma", con cui un’azione viene compiuta. Egli però ritiene che dietro la distinzione tra i due ambiti vi sia una più profonda e incisiva differenza riconducibile alla differenza operata da Kant tra libertà interna, o morale, e libertà esterna, o giuridica. Mentre "la libertà morale si esaurisce nel rapporto tra me e me cioè di quell’azione io sono responsabile soltanto di fronte a me stesso (cioè nella mia coscienza), parimenti, quando dico che la libertà giuridica si estende al rapporto di me con altri, voglio dire che di quell’azione sono responsabile di fronte agli altri" (37). Per non confondere la nozione di dovere verso gli altri con quello che di dovere giuridico, giustamente, Bobbio precisa che nel secondo caso gli "altri" esistono non solo come "oggetti" di un’azione il cui valore morale dipende solo da noi, bensì come "soggetti" i quali possono esigere da me l’adempimento dell’azione. Ciò che caratterizza l’ambito del diritto-coazione è la presenza di ciò che si chiama "rapporto giuridico" cioè una relazione tra due soggetti in cui al dovere di uno corrisponde il diritto dell’altro di richiedere l’adempimento dell’azione: "dal diritto degli altri di esigere l’adempimento del mio obbligo deriva la caratteristica propria dell’esperienza giuridica di dar luogo a rapporti intersoggettivi dei diritto-dovere, cioè a rapporti giuridici" (38). Ma se tale distinzione sembra valida per distinguere l’essenza del diritto da quella della morale in realtà quando agiamo concretamente le modalità con cui il diritto viene realizzato sembrano contraddire il criterio distintivo introdotto da Bobbio.

Soffermandoci più attentamente, notiamo che non è, come sostiene Bobbio, l’"altro" in quanto "soggetto" del rapporto giuridico che mi impone l’adempimento del dovere bensì l’"altro" in quanto membro di una volontà generale e legislatrice universale di cui anch’io faccio parte. Quando, allora, nello stato civile veniamo obbligati ad adempiere un "dovere giuridico" siamo obbligati in primo luogo da "noi stessi" che, uscendo dallo stato di natura, abbiamo dato vita ad una volontà collettiva che garantisca ad ognuno, noi compresi, i propri diritti. Paradossalmente, seguendo il criterio adoperato da Bobbio, nello stato civile l’adempimento dell’azione da parte del singolo non è imposta da un altro bensì dal singolo stesso che si è impegnato con il contratto. Potremmo in questo vedere un’eco del Contratto Sociale quando Rousseau dice che ognuno sottomettendosi col Contratto alla volontà generale "pur unendosi a tutti gli altri [entrando cioè nel rapporto giuridico descritto da Bobbio], non obbedisce che a se stesso e resta libero come prima [laddove la libertà di Rousseau, che si caratterizza come "autonomia", viene proprio recuperata da Kant in sede morale]" (39).

Rosmini critica la distinzione operata da Kant tra i due ambiti perché finisce col non riconoscere come fondamento indiscutibile del diritto la morale. Kant finirebbe col privare il diritto della sua "origine" naturale, cioè la morale; di qui tutte le contraddizioni della sua concezione giuridica. Ma nel sistema filosofico kantiano morale e diritto sono realmente antitetici?

Kant afferma esplicitamente che, premessa la distinzione tra doveri giuridici e morali "la legislazione interna [cioè quella morale] trasforma anche tutti gli altri [cioè quelli giuridici] in doveri indirettamente etici" (40). L’obiettivo kantiano si evince chiaramente dal brano seguente: "Il concetto del diritto, in quanto si riferisce ad un’obbligazione corrispondente (cioè il concetto morale di esso), riguarda in primo luogo soltanto il rapporto esterno e precisamente, pratico di una persona verso un’altra, in quanto le loro azioni possono avere influsso le une sulle altre (immediatamente o mediatamente) come fatti. Ma in secondo luogo non significa il rapporto dell’arbitrio con il desiderio (quindi con il semplice bisogno) dell’altro, come ad esempio negli atti di benevolenza o di crudeltà, ma semplicemente con l’arbitrio dell’altro. In terzo luogo, in questo reciproco rapporto dell’arbitrio non si prende affatto in considerazione la materia dell’arbitrio, ossia il fine che uno si propone con l’oggetto che egli vuole ma solo secondo la forma nel rapporto dell’arbitrio bilaterale, in quanto esso sia considerato libero, e se l’azione di uno dei due si possa unificare con la libertà dell’altro secondo una legge universale" (41). Kant vuole si operare una differenza tra legge morale e giuridica, ma non disconoscere un rapporto oggettivo esistente tra leggi politiche e moralità. Egli vuole unificare tutte le leggi politiche sotto un principio, quello del diritto-coazione, "per rendere omogeneo un ambito soggettivamente incommensurabile" (42) cioè l’ambito delle relazioni empiriche degli uomini. Le quali relazioni ("l’insocievole socievolezza") vengono sottomesse all’imperativo categorico "che si dà forma giuridica" (43). In sostanza, l’imperativo categorico si adatta ad un ambito dal quale l’uomo non può prescindere cioè "l’essere in rapporti con altri esseri razionali".

In realtà il "diritto" per Kant non è una categoria completamente autonoma. La riflessione giuridica costituisce un momento fondamentale di una riflessione molto più ampia riguardante la "storia" della specie umana e il fine dell’uomo. Non a caso, in tutti gli scritti politici le questioni di filosofia del diritto sono strettamente intrecciate con le questioni di filosofia della storia e, anzi, ogni analisi giuridica non può prescindere da esse. Già nel 1784, un anno prima della pubblicazione della Fondazione della metafisica dei costumi, Kant si interroga sul possibile fine dell’uomo, sul "filo conduttore" della sua storia naturale. Egli crede di individuare tale fine nell’ "uso completo delle sue disposizioni naturali" (44), la quale cosa può essere resa possibile solo da una graduale realizzazione del diritto nella storia. Solo il diritto, che, come conseguenza immediata ha la realizzazione della pace, può permettere il pieno sviluppo della disposizione umana al bene morale, così come esso viene definito negli scritti religioso-morali.

A questo punto possiamo comprendere realmente la distinzione tra diritto e morale, tra comportamento giuridico e morale. Negli scritti morali Kant riconosce l’impossibilità da parte dell’uomo di comportarsi moralmente e le teorie dei postulati, come già chiarito prima, hanno come fine quello di spingere l’uomo al rispetto del dovere e di permettergli il raggiungimento della perfezione morale. Dal momento che nel mondo in cui ci troviamo a vivere, il nostro comportamento è sempre influenzato dalle inclinazioni, paradossalmente, nella storia, la legge morale non troverebbe mai perfetta applicazione nella vita dei singoli individui: Kant dovendo uscire da questa ambiguità concettuale che nasce da una riflessione, inevitabile, sul fine della storia umana ("Il mondo va di male in peggio" (45), si serve del diritto: tramite esso è possibile sottomettere l’uomo malvagio per natura (ritorna a questo punto la critica rosminiana) e permettere che "...quelle disposizioni naturali che sono finalizzate all’uso della sua ragione si sviluppano completamente nel genere, non nell’individuo" (46). Il diritto viene considerato strumento propedeutico per un ideale che in questo mondo (se mai ne esista un altro) è impossibile realizzare e tutti, in quanto membri del "genere umano" siamo moralmente obbligati a obbedire.

Adesso è pienamente comprensibile il passo prima citato secondo il quale la legislazione etica trasforma tutti gli altri doveri in doveri indirettamente etici. E’ moralmente necessario ubbidire alle leggi!

D’altronde se l’uomo fosse di per sé "buono" non ci sarebbe bisogno di ricorrere al diritto. Di qui il famoso passo kantiano: l’uomo ha bisogno di un padrone il quale lo educhi "che spezzi la sua volontà particolare, e lo costringa ad obbedire ad una volontà valida secondo cui ognuno possa essere libero" (47)

Sembrerebbe allora che il diritto possa essere inteso come un’esigenza interna alla premesse del sistema morale il quale necessita pur sempre di un’applicazione concreta al mondo fenomenico, avendo qui come punto di riferimento non più l’uomo ma il genere umano. Inoltre, Kant precisa che lo stato civile è un fine da raggiungere in un futuro indeterminato verso cui il mondo, che è ancora nello stato di natura, deve tendere.

Ma se l’affermazione del diritto è così importante per dare un senso all’agire dell’uomo, in quanto unico essere razionale, come avverrà tale affermazione? Il primo esempio di realizzazione del diritto, o meglio, di presa di coscienza della necessità di tale realizzazione, è stata la Rivoluzione Francese. Tale evento è talmente importante per comprendere la filosofia kantiana che Tosel non esita ad esprimersi nel seguente modo: "Se c’è una filosofia che si è trovata in corrispondenza con il più grande evento storico della modernità, la Rivoluzione Francese, è proprio quella di Kant" (48). Se Kant considera l’evento rivoluzionario del 1789 un fatto nuovo, assolutamente diverso da qualsiasi altro evento precedente perché passaggio fondamentale per comprendere razionalmente la storia dell’uomo, Rosmini non esita, invece, a condannarlo senza possibilità di appello (49). Il Roveretano non può accettare la Rivoluzione e le teorie portate avanti dai rivoluzionari perché esse sono il frutto di una filosofia "empia", l’illuminismo. Anzi, com’è noto, il progetto filosofico rosminiano è proprio quello di creare un’enciclopedia del sapere da contrapporre a quella illuminista. Il filosofo italiano non può restare inattivo, o addirittura, acclamare le atrocità rivoluzionarie frutto di una filosofia che rifiutando Dio e il cristianesimo ha finito col fare dell’uomo il centro di tutto. E gli esiti politico-sociali sono stati ben visibili nell’esperienza rivoluzionaria: guerre, tirannia della maggioranza sulla minoranza, lesione della dignità personale. Inoltre, la Rivoluzione, con il principio del suffragio universale ha gettato le basi per teorie come il socialismo e il comunismo che hanno come fine ultimo l’annullamento della persona a vantaggio della collettività. Per Rosmini tutto ciò è inaccettabile, mentre Kant fa della Rivoluzione un evento fondamentale della storia umana. A livello teorico per Kant come in parte abbiamo già visto, il diritto di resistenza, da cui deriva logicamente la rivoluzione, è giuridicamente inaccettabile perché contraddittorio con l’idea di sovranità ceduta al sovrano con l’atto costituzionale. Ma il giudizio cambia a proposito dell’esperienza francese, fatto reale e non teoria giuridica. Essa è un evento fondamentale perché frutto di una situazione storico-culturale in cui l’uomo è uscito dal suo "stato di minorità": essa rappresenta la prova storica di un fine che la storia deve realizzare, ma essa è anche la prova della genesi antinomica del diritto (già individuata dal Rosmini), cioè l’impossibilità di fondare il diritto prescindendo dal "fatto": "Se la Rivoluzione Francese è il segnale storico della tendenza al progresso del genere umano nella sua totalità, con essa il diritto si inscrive nei fatti; ma questo avvento del diritto, soprattutto in quanto segue ad una rivoluzione violenta, necessariamente non si verifica sulla base del diritto, e non utilizza gli strumenti del diritto" (50). Nonostante ciò, la Rivoluzione rappresenta il primo passo verso quel fine ultimo che è l’affermazione del "diritto" cui seguirà inevitabilmente la "pace perpetua", situazione giuridica internazionale nella quale l’uomo potrà finalmente sviluppare appieno le proprie disposizioni morali.

Dal momento che tale situazione giuridica internazionale (51) si può verificare qualora tutti gli Stati adottino forme costituzionali consone all’idea di diritto, è opportuno analizzare, seppur a grandi linee, la teoria dello Stato kantiano e la relativa teoria rosminiana per vedere la presenza di eventuali analogie e differenze.

Le due teorie presentano vari punti di contatto: il principio della separazione dei poteri, la concezione negativa dello Stato, la distinzione tra cittadini attivi e passivi

Come già abbiamo accennato all’inizio della nostra trattazione, gli elementi costituzionali che possono sembrare comuni ai modelli elaborati dai due pensatori, in realtà rispondono ad esigenze differenti.

Il principio della separazione dei poteri, storicamente, si è affermato con la diffusione dei principi liberali a partire grosso modo dalla "Gloriosa Rivoluzione". Tale principio è stato pienamente accolto da Kant. Egli ritiene, inserendosi così pienamente nella tradizione liberale a lui precedente, che la volontà generale, frutto del contratto sociale, debba articolarsi in tre poteri distinti al fine di creare una situazione di equilibrio senza possibilità di abuso di un potere a danno di un altro. Ovviamente Kant ritiene che i cittadini debbano partecipare alle elezioni dei membri dell’organo adibito alla promulgazione delle leggi: solo così, infatti, è possibile garantire che la volontà collettiva provenga direttamente dal popolo rispettando i principi di libertà, uguaglianza e indipendenza. A questo punto sorge un problema all’interno della riflessione kantiana: non tutti hanno diritto di eleggere i propri rappresentanti. L’elemento discriminante tra i cittadini attivi e passivi non risiede nella libertà o nell’uguaglianza, dovute, la prima, alla qualifica di ognuno come uomo, la seconda, al fatto che tutti siamo sudditi in condizioni di uguaglianza di fronte la legge, bensì nell’indipendenza economica. Kant chiarisce tanto nel saggio Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale nella prassi (1793) quanto nella Dottrina metafisica del diritto (1797) che non devono disporre del diritto di voto coloro che, per quanto riguarda la loro sopravvivenza materiale, dipendono da altri (non considerando donne e bambini). Solo chi "sia suo proprio signore (sui iuris), e cioè abbia una qualche proprietà che lo mantenga di conseguenza che egli non serva, nel senso proprio della parola, nessuno se non il corpo comune" (52) dispone del diritto di voto che sarà eguale per tutti, grandi e piccoli proprietari senza distinzione: tutti cioè avranno a disposizione un voto. Ma anche se l’esclusione dei "non indipendenti" sembra difficile da giustificare in quanto sembrerebbe contraddire l’assunto che tutti sono cittadini dello Stato senza distinzione, Kant ritiene nonostante tutto che tale distinzione non contrasti con i principi di libertà e di uguaglianza di cui godono tutti in quanto "uomini". D’altronde se tali "non cittadini" non hanno, ovviamente, il diritto di partecipare alla promulgazione delle leggi, hanno però il diritto di esigere che la volontà generale (espressa solo tramite i proprietari!) non emani leggi che impediscano al popolo di elevarsi da uno stato passivo ad uno attivo. La volontà generale dovrebbe legiferare secondo istanze universali pur essendo essa frutto di un’ineguaglianza di base dovuta ai requisiti richiesti per eleggerne i rappresentanti. Il problema allora è alla radice: " il contratto originario non è stato realmente universale: alcuni, non importa a quale punto, sono stati interamente esclusi dall’acquisto" (53). E’ il riproporsi di quel problema cui abbiamo accennato prima a proposito del "presunto" utilitarismo kantiano: è certo che, come appare dagli scritti morali, una dimensione collettiva che sfugge, almeno nelle intenzioni, ad ogni finalità egoistica è sempre presente nella mente del filosofo tedesco, ma così non sembra negli scritti politici: sembrerebbe anzi che Kant (e come vedremo Rosmini) finisca con il contraddire determinate premesse elaborate in sede pratica; facciamo riferimento all "autonomia" del soggetto, categoria fondamentale di tutto il discorso kantiano. Abbiamo già notato l’influsso di Rousseau sul pensiero di Kant, anzi si dice che proprio la lettura del Contratto sociale e dell’Emilio abbiano spinto Kant ad elaborare una dottrina morale basata sulla ragione. Bene, la definizione che Kant fornisce in sede morale della libertà è chiaramente mutuata dal ginevrino: "cosa può allora essere la libertà della volontà se non autonomia, ossia la proprietà della volontà di essere legge a se stessa?" (54). Ora è implicito che in campo politico tale definizione di libertà non valga e che dopo la conclusione del contratto originario, vista la distinzione tra cittadini attivi e passivi, alcuni potranno essere soggetti a leggi alla cui formazione non hanno contribuito; nulla tutela il non cittadino dalle ingerenze di una volontà generale che ha la sua origine dalla proprietà. In sostanza Kant non riesce, ma fondamentalmente non può, garantire che tutti vedranno garantiti i loro diritti e che anzi tutti potranno godere di uguali libertà ed uguaglianza dipendendo esse inequivocabilmente dalla proprietà.

Il problema è allora quello del rapporto proprietà-rappresentanza ovvero del rapporto proprietà-potere e la posizione del pensatore tedesco è simile ma non uguale a quella del Rosmini. Anche il Roveretano rifiuta il suffragio universale, ma critica Kant perché il criterio di esclusione dal voto non risiede nell’indipendenza economica bensì nel pagamento di un’imposta diretta allo Stato (55). Egli ritiene che il voto debba essere attribuito in relazione alle imposte pagate allo Stato: maggiore è l’imposta, maggiori saranno i voti di cui il contribuente potrà usufruire in sede elettorale. Tale sistema fu criticato aspramente anche dagli amici più intimi del Rosmini: Manzoni, Tommaseo. Ma il Roveretano rimase sempre sulle sue posizioni: se chi non è proprietario può amministrare le cosa altrui, ovviamente, tendere a legiferare a suo favore: ma la società civile è una creazione artificiale la quale "non può esistere se non mediante il danaro" (56). Quindi, dal momento che "tutti quelli che fanno la legge la fanno per sé" (57), per evitare che i nullatenenti attentino alla ricchezza altrui, minando alla base il fondamento materiale della società, Rosmini li esclude dal diritto di voto.

Il filosofo italiano non accettò mai il suffragio universale auspicato da tutti e tale rifiuto è frutto di un errore, a nostro dire, logico. "Il socialismo ed il comunismo è conseguenza logica del voto universale ed eguale nell’elezione dei deputati. Poiché se questo diritto elettorale è giusto, è giusto altresì che chi non ha nulla od ha poco metta la mano nella borsa di chi ha molto e disponga di ciò che vi si trova a suo pieno arbitrio senza controllo o riscontro di sorta" (58).

La storia ha smentito tale identità logica tra suffragio universale e instaurazione del comunismo, ma la paura che Rosmini nutre nei confronti di queste teorie è tale che lo porta a respingere qualsiasi cosa possa favorirne, a suo parere l’instaurazione, senza rendersi conto che la sua teoria elettorale finisce con l’identificare i diritti politici con i diritti di proprietà (59). E se la sua difesa dei diritti della persona è molto attuale (grazie all’originalissimo istituto del Tribunale Politico), la sua difesa della proprietà è sembrata ad alcuni molto anacronistica, anzi una riproposizione, seppur in forme diverse, del patrimonialismo halleriano (60). A proposito del problema del rapporto ricchezza-rappresentanza o meglio ricchezza –persona così Rosmini si esprime nella Costituzione secondo giustizia sociale: "Al complesso delle ricchezze, se ben si considera, tiene dietro il complesso delle altre qualità valutabili nella bilancia sociale, come sarebbe la coltura, l’educazione, l’indipendenza, la nobiltà ereditaria (dovendosi qui tralasciare le singolari eccezioni) e però non si sbaglia né pure a prendere la ricchezza come il segnale di tutte le altre qualità indicate, onde attribuendo ad ognuno un potere di suffragio proporzionale alla ricchezza, si viene generalmente ad attribuirlo altresì a tutte quelle altre qualità che colla ricchezza vanno connesse e, come suol dirsi, alle capacità" (61). Ci sono tentativi di smorzare i toni delle affermazioni rosminiane che da tale passo sembrerebbero giustificare un suffragio elettorale ristretto in virtù di una concezione della ricchezza quale indice delle qualità personali di individuo. Ad esempio D’Addio così commenta la proposta elettorale del Roveretano: "La proposta di Rosmini, apparentemente conservatrice, si basa sulla sua concezione della proprietà che, come abbiamo visto, "smaterializza" il rapporto fra l’uomo e la cosa, nel senso che si riferisce non tanto alla cosa quanto al soggetto come persona, cioè alla sua attività. La proprietà rappresenta il limite positivo all’altrui invadenza ed a quella del potere politico, ed è quindi il vero perno del sistema delle libertà politiche e giuridiche" (62). Se a questo si aggiunge che il Rosmini propugna il libero movimento delle ricchezze per permettere a tutti di fruirne in relazione alle proprie capacità, una riforma del sistema fiscale che annulli addirittura le imposte indirette per non gravare sui poveri, la possibilità di un voto corporativo per le persone collettive (dunque anche i proletari) (63), della qual cosa osserva giustamente Gray "è superfluo rilevare l’importanza quando si pensi che il Rosmini dovette scrivere fra il 1823 e il 1827" (64) sembra che il Roveretano non si faccia assertore di posizioni eccessivamente conservatrici. Ma, a nostro avviso, è proprio nella Costituzione secondo giustizia sociale, opera in cui egli sintetizza le conclusioni delle opere maggiori cioè la Filosofia della politica e la Filosofia del diritto, che emerge il limite di tutta la riflessione politica-giuridica del Rosmini. La sua proposta politica è attraversata da una tensione continua che ha una chiara origine nei rapporti materiali della società civile. Rosmini è preoccupato dall’aspirazione delle masse all’acquisto della ricchezza ma non si è reso conto di essersi, viceversa, eretto a difensore della ricchezza stessa, e vano è il tentativo, se pur originale, di salvare i diritti dell’uomo tramite il ricorso al Tribunale Politico. Esso rappresenta nelle intenzioni dell’Autore uno strumento con il quale ogni cittadino può essere tutelato nei suoi diritti naturali, uno strumento, dunque, per garantire il "primato del giusto" sulla politica. Per questo motivo egli prevede che tutti i cittadini in quanto uomini, senza distinzioni di censo, eleggano i membri di tale Tribunale esprimendo un voto uguale e possano ad esso appellarsi ogni qualvolta i loro diritti vengano lesi (65).

Tale istituto è molto importante, ma è lungi dal risolvere i problema dei nullatenenti i quali, addirittura, non vengono ritenuti da Rosmini elementi costitutivi della società a differenza di Kant il quale ritiene che tutti, anche i non proprietari, partecipino, tramite il contratto originario, alla nascita della società civile. Per Rosmini i nullatenenti fanno parte della società civile solo a titolo di beneficenza nell’accezione più alta del termine: "Che la società civile riconosca per suoi membri anche quelli che nulla contribuiscano al fondo sociale onde ella trae l’esistenza e l’attività, non viene prescritto dal diritto di natura o di ragione, ma insinuato dallo spirito del Vangelo che esclude dal mondo la schiavitù" (66).

Così come Kant anche Rosmini sembra tutelare più i proprietari che non i poveri. Per il primo, come abbiamo dimostrato, il problema deriva da determinate premesse del sistema filosofico. Il fatto che la teoria giuridica sia strettamente intrecciata alla filosofia della storia implica per Kant la speranza che, in un futuro interamente dominato dal "diritto", dove l’uomo avrà pienamente sviluppato le sue disposizioni morali al bene e dove si sarà sviluppata perfettamente la sintesi di coazione e di diritto, si verificherà il massimo sviluppo della libertà umana cui seguirà il fatto che ogni uomo occuperà il posto che gli spetterà in relazione alle sue qualità personali. In virtù di questa speranza egli, forse, si è sforzato di giustificare la distinzione tra cittadini attivi e passivi (distinzione che riflette chiaramente la sfiducia di Kant nei confronti delle masse come soggetti politici attivi), poiché alla lunga essa dovrebbe scomparire ossia quando il diritto, di cui la coazione è parte integrante, "verrà, al limite, a coincidere con la morale" (67).

In Rosmini, invece, come abbiamo cercato di dimostrare, il problema non dipende dai presupposti del sistema filosofico ma dipende da una considerazione di carattere politico: egli, infatti, volendo garantire la proprietà come modo di manifestazione reale della "persona" ha finito col tutelare gli interessi materiali della "persona" finendo, addirittura, col confondere i diritti di proprietà con i diritti politici della persona, e poco valgono certi accorgimenti costituzionali da lui elaborati per garantire una certa "equità di opportunità" tra gli uomini. Anche il Tribunale Politico, se da un lato è un organo importante che permette a Rosmini di fare un passo in avanti rispetto a Kant che, come abbiamo notato, presenta una teoria costituzionale a metà tra lo stato di diritto e lo stato etico-giuridico, dall’altro è indubbio, come notato da più parti (68), che tale Tribunale non può realmente incidere nella società per eliminare le tante ingiustizie sociali presenti. La sua caratteristica "è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere" (69); solo un massiccio intervento dello Stato potrebbe garantire un reale riequilibrio delle disuguaglianze materiali (queste riflessioni sono comunque in parte frutto della nostra coscienza moderna), ma tale intervento dello Stato uscirebbe dalla semplice "regolazione delle modalità dei diritti" fine della società civile nella concezione del Rosmini. L’istituto del Tribunale Politico è da intendere, allora, come uno sforzo, un tentativo originale da parte di Rosmini sia di rispondere a determinate esigenze di giustizia sociale provenienti da una società dove i poveri, i nullatenenti, cominciano ad avanzare richieste a poco a poco sempre più pressanti, sia di rispondere ad esigenze interne al suo stesso sistema, cioè la necessità di tutelare la "persona" non solo a livello teorico bensì anche pratico con il limite oggettivo di tutelare più coloro che sono proprietari che coloro che non lo sono.

NOTE:

(1) -Cfr. B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, La Terza, Bari 1926.

(2) -Cfr. A. Rosmini, La persona, il diritto e la società, scritti scelti e annotati a cura di Michele F. Sciacca, Principato, Milano 1962, p. 4.

(3) -Cfr. Rosmini a Don Giuseppe Eccheli a Milano, 16 ottobre 1827, in A. Rosmini, Epistolario filosofico, a cura di G. Bonafede, CELEBES, Trapani 1968, p. 73.

(4) -Per i rapporti tra Kant e Rosmini si veda M.F. Sciacca, Il pensiero morale di Antonio Rosmini, L’Epos, Palermo 1990, p. 41-49.

(5) Cfr. A. Rosmini, Filosofia del diritto, CEDAM, Padova 1967, vol. II, p. 291.

(6) -Si veda ad esempio N. Bobbio, Diritto e stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli, Torino 1969.

(7) Si veda ad esempio G. Lumia, La dottrina kantiana del diritto e dello Stato, Milano 1960.

(8) -Per una esposizione più esauriente del problema si veda: A. De Gennaro, Un problema storiografico: diritto e persona in Rosmini e Kant, in Rivista Rosminiana, Fasc. II-III aprile-settembre 1968, pp. 252-253.

(9) Cfr. A. Rosmini, Filosofia, cit., vol. I, p. 107.

(10) Cfr. I. Kant, Metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1989, p. 133.

(11) Ivi, p. 140.

(12) Ivi, p. 134.

(13) Ivi, p. 133.

(14) Cfr. A. Rosmini, Filosofia, cit., vol. II, p. 279.

(15) Ivi, vol. II, p. 283.

(16) Ivi, vol. I, p. 164.

(17) Ivi, vol. I, p. 162-163.

(18) Ivi, vol. I, p. 244, nota n. 1.

(19) -Anche la definizione di libertà sembrerebbe a questo punto diversa. Per quanto riguarda Kant, Bobbio spiega come in lui coesistano due visioni della libertà: quella positiva, mutuata da Rousseau , che intende la libertà come "autonomia", la possibilità di essere sudditi di una legge emanata da noi stessi; quella negativa, tipica della tradizione liberale, che vede la libertà come " non impedimento" dell’arbitrio altrui. L’influenza di Rousseau è visibile proprio quando Kant parla del contratto originario, atto con il quale ognuno cede la sua libertà naturale per acquistare quella civile ed essere sottoposto alla "propria volontà legislativa" (cfr. I. Kant, Metafisica, cit., p. 145). Alla concezione positiva della libertà, nota Bobbio, Kant sovrappone la concezione negativa della libertà, tipica dello Stato di diritto. Nella teoria kantiana è possibile, allora, operare una distinzione di valore tra le due libertà, poiché "È quando si dice, come dice Kant, che lo stato ha come fine ultimo il riconoscimento ed il promovimento della libertà, è della libertà come non impedimento che si parla e non della libertà come autonomia" (cfr. N. Bobbio, Diritto e stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli, Torino 1969, p. 227). Rosmini, in teoria, vorrebbe definire la libertà in senso positivo come manifestazione dell’io e, come vedremo, fornire una nozione di proprietà diversa da Kant; i risultati in campo politico saranno invece molto simili.

(20) -Sull’importanza del concetto della "persona" nella riflessione giuridica rosminiana si veda G. Capograssi, Il diritto secondo Rosmini, in Opere, Giuffré Editori, Milano 1959, vol. IV, pp. 321-353.

(21) Cfr. G. Bonafede, Il dialogo, CELUP, Palermo 1967, p. 88.

(22) Cfr. A. Rosmini, La filosofia, cit., vol. I, p. 191.

(23) -Cfr. F. Conigliaro, La politica tra logica e storia. Il pensiero politico di Antonio Rosmini, Ila Palma, Palermo 1984, p. 94.

(24) -Cfr. A. Rosmini, Filosofia, cit., p. 194.

(25) -Ivi, p. 595.

(26) -Ivi, p. 283.

(27) -Cfr. I. Kant, Metafisica, cit., p. 86.

(28) Ivi, p. 60.

(29) Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, Bompiani 2000, p. 267.

(30) Cfr. F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant, Laterza, Bari 1996, p. 183.

(31) Cfr. I. Kant, Metafisica..., cit., p. 56.

(32) Cfr. F. Gonnelli, La filosofia, cit., p. 183.

(33) Cfr. I. Kant, Metafisica..., cit., p. 57.

(34) Ivi, p. 78.

(35) Cfr. A. Tosel, Kant Rivoluzionario, Manifesto, Roma 1999, p. 59 e sg.

(36) Cfr. I. Kant, Metafisica, cit., p. 80.

(37) Cfr. N. Bobbio, Diritto e stato, cit., p. 99.

(38) Ivi, p. 101.

(39) Cfr. J. J. Rousseau, Il Contratto Sociale, BUR, Bergamo 1997, p. 63.

(40) Cfr. I. Kant, Metafisica, cit., p. 23.

(41) Ivi, p. 34.

(42) -Per questo ragionamento ho seguito il già citato F. Gonnelli, La filosofia politica di Kant, p. 170.

(43) Cfr. A. Tosel, Kant..., cit., p. 36.

(44)- Cfr. I. Kant, Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolita, in Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Bari 1999, p. 31.

(45) Cfr. I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, TEA, Milano 1997, p. 17.

(46) Cfr. I. Kant, Idee per una, cit., p. 31.

(47) Ivi, p. 35.

(48) -Cfr. A. Tosel, KantÉ, cit., p. 7.

(49) -Su Rosmini e la Rivoluzione francese si veda: Rosmini e la cultura della Rivoluzione francese, Atti del XXIII Corso della "Cattreda Rosmini" 1989, Sodalitas, Stresa 1990.

(50) -Cfr. A. Tosel, Kant..., cit., p. 11.

(51) -Rosmini in una nota al testo critica l’espressione kantiana "diritto cosmopolitico" preferendogli quella di "diritto umanitario" (A. Rosmini, Filosofia, cit., vol. IV, p. 984).

(52) -Cfr. I. Kant, Sul detto: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Kant, Scritti di storia, cit., p. 142.

(53) Cfr. F. Gonnelli, La filosofia, cit., p. 190.

(54) Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1997, p. 127.

(55) Cfr. A. Rosmini, Filosofia, cit., vol. V, p. 1232, n. 2.

(56) -Cfr. A. Rosmini, La costituzione secondo giustizia sociale, in A. Rosmini, Scritti politici, a cura di M. D’Addio, Ed. Rosminiane Stresa 1997, p. 200.

(57) Ivi, p. 178.

(58) Ivi, p. 113.

(59) Si veda su questo punto G. Bonafede, Il dialogo, cit., p. 96.

(60) -Su questa ripresa del pensiero di Haller da parte del Rosmini si veda: Mario Sancipriano, Il pensiero di Haller e Rosmini, Milano, Marzorati Editore 1968.

(61) Cfr. A. Rosmini, La Costituzione, cit., p. 174.

(62) -Cfr. M. D’Addio, Libertà ed appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Edizioni Studium, Roma 2000, p. 208.

(63) –C’è detto dal Rosmini sia nell’opera Della Naturale Costituzione della Società Civile_(p. 94 e ss.) che nella successiva La Costituzione secondo giustizia sociale (art. 57).

(64) -Cfr. C. Gray, Sulla teoria degli equilibri in A. Rosmini, in Rivista Rosminiana, Fasc. IV, Dicembre 1930, p. 287.

(65) -Si è molto discusso sull’origine teorica del Tribunale Politico nel pensiero rosminiano. Influ" l’esempio della Costituzione americana sul modello elaborato dal Roveretano? La risposta sembra essere negativa: Rosmini teorizza per la prima volta il Tribunale Politico negli scritti giovanili, cioè nell’opera intitolata Della naturale costituzione della società civile (1827); menziona alcuni progetti riguardanti la possibilità di una pace perpetua internazionale precedenti il suo, tra i quali quelli di Enrico IV, dell’Abate di S. Pierre, di Leibniz. Tali progetti prevedevano l’istituzione di organi simili al Tribunale Politico; erano presieduti, come nel caso di Leibniz, dal Papa. Il Rosmini non menziona affatto il caso americano, indubbiamente più prestigioso, quindi se ne deduce che probabilmente non lo conosceva e d’altronde Tocqueville scrisse il suo La democrazia in America solo nel 1835 (cfr. A. Rosmini, Progetti di costituzione, introd. a cura di C. Gray, Fratelli Bocca Editori, Milano 1952, p. XV e sg.). Ovviamente, come dimostrano sia la Filosofia della politica che la Costituzione secondo giustizia sociale, una volta conosciuta l’opera del Tocqueville egli la medita a lungo riflettendo soprattutto sul problema del rapporto tra maggioranza e minoranza e il Tribunale Politico così come è descritto nell’opera politica matura si arricchisce del confronto con la Corte Suprema americana così come viene descritta dallo scrittore francese.

A proposito dell’elezione del Tribunale Politico notiamo che se nell’opera Della naturale costituzione della società civile Rosmini prevede che tutti siano chiamati a votare senza distinzioni censitarie (cioè un suffragio elettorale universale maschile), nella Costituzione secondo giustizia sociale (1848) invece egli dice che i suoi membri "sono nominati dal popolo con voto universale ed uguale Intendo per voto universale che siano chiamati a dare il voto tutti i cittadini che hanno l’esercizio del diritto elettorale [secondo l’art. 39 della Costituzione sono ammessi al voto solo coloro che pagano almeno un’imposta diretta allo Stato]: gli uomini, i padri di famiglia non interdetti" (Costituzione, p. 200). Quindi sembrerebbe che nella Costituzione egli preveda un voto uguale fra tutti coloro che pagano le imposte (a differenza delle votazioni per i rappresentanti delle Camere per le quali il contribuente dispone di più voti variabili in base alle imposte pagate); ciò sembrerebbe in contraddizione con quanto scritto nell’opera Della naturale costituzione della società civile. In realtà, come si evince dall’epistolario rosminiano, tale errore fu una "disavvertenza". Leggiamo la lettera di risposta al Manzoni il quale aveva probabilmente notato la contraddizione nei testi facendone un appunto all’amico: "Ella mi fa accorgere nella carissima sua (e me ne ha scritto anche l’ottimo Pestalozza) d’una omissione rimasta nel Progetto di Costituzione. Fu una vera disavvertenza, avendo io avuto sempre nell’animo che i membri del supremo tribunale politico dovessero eleggersi, con voto universale ed uguale, dal popolo, com’è coerente ai principi dai quali la Costituzione fu derivata Supplirà al mancamento in una ristampa quando m’occorra di farla" (cfr. Rosmini a Don A. Manzoni a Milano, 14 maggio 1848, in A. Rosmini, EpistolarioÉ, cit., p. 562). E’ chiaro che il Rosmini aveva la volontà di correggere l’errore, ma, probabilmente, dato che la Costituzione fu messa all’Indice poco tempo dopo, non ebbe modo di curarne un’altra edizione.

(66) Cfr. A. Rosmini, La Costituzione, cit., p. 201.

(67) -Cfr. Mario A. Cattaneo, Metafisica del diritto e ragion pura. Studio sul platonismo giuridico di Kant", Giuffré, Milano 1984, p. 205.

(68) -Si veda Sancipriano, Il pensiero, cit., p. 232.

E anche Traniello analizzando l’istituto del Tribunale Politico e le sue relazioni con la società politica ammette un certo "garantismo" di fondo del Rosmini: "Ma appunto perché la società politica, secondo Rosmini della Naturale Costituzione, non è chiamata ad esprimere un sistema di giustizia ma soltanto a garantirlo, ricevendolo, per così dire, dall’esterno già definito e sostanzialmente precostituito, minor rilievo assume il problema che parrebbe decisivo, dell’effettiva origine dell’organo di giustizia, della sua configurazione strutturale e dei suoi strumenti operativi, a livello propriamente politico" (cfr. F. Traniello, Società religiosa e società civile in Rosmini, Il Mulino, Bologna 1966, p. 126).

(69) -Cfr. A. Rosmini, Della Naturale Costituzione della Società Civile, Rovereto 1887, p. 321.

 

Battaglioni Fascisti a Bir el-Gobi Giovinezza in armi di Francesco Paolo Calvaruso

"La Nazione è poesia" R. Brasillach

Da Padova al Sahara

Lunedì 10 giugno 1940. Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia annuncia ad una folla oceanica, fiduciosa in chi in quegli anni ha innalzato l’Italia a grande potenza, la dichiarazione di guerra contro Francia e Gran Bretagna. I megafoni di tutte le piazze rilanciano la secca e metallica parola d’ordine appena dichiarata. Essa "trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’Oceano indiano, categorica ed impegnativa per tutti": Vincere! Gli indugi sono sciolti, la funambolica formula della "non belligeranza" è gettata al Tevere. Un regime che per vent’anni ha basato la propria pedagogia politica sulla mitizzazione del combattimento, dello scontro risolutore, che proclama ed esalta l’ardore, la passione per l’azione e il cui capo incarna un certo romanticismo politico (1), non può starsene a guardare le evoluzioni di una tale prova storica. La Nazione, si dice, scende in campo contro le demoplutocrazie occidentali, in un duello fra l’Italia proletaria e fascista contro le consorterie dell’oro e della finanza mondiale, che in ogni modo hanno cercato di umiliare l’irrefrenabile voglia di vita e di potenza dell’Italia. é l’ora della verità, "L’ora – dice Mussolini – delle decisioni irrevocabili".

Il discorso del Duce così si conclude: "Popolo italiano, corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!". Un solo pensiero scuote in questi momenti molti ragazzi cresciuti in quel clima, allevati dalla lupa del littorio: arruolarsi volontari per vincere o morir, questo (É) l’avvenir della più gagliarda gioventù, secondo un ritornello in voga. Così, al segnale d’adunata, i ragazzi della GIL rispondono prontamente all’appello marziale. In loro arde la serena volontà di percorrere i campi di battaglia, dove farsi onore.

Nata dalla fusione dei Fasci Giovanili di Combattimento (FF.GG.C.) e dell’Opra Nazionale Balilla (O.N.B.), ai sensi del R.D. n. 1839 del 27 ottobre 1937, la G.I.L. (2) (Gioventù Italiana del Littorio), organizzazione istituita dal regime e direttamente sottoposta al Segretario del Partito Nazionale Fascista (P.N.F.), aveva lo scopo d’inquadrare e forgiare, dopo adesione volontaria, le giovani leve d’Italiani (sia maschi che femmine dai 6 ai 21 anni) nell’ideale del fascismo, e il cui motto era "Credere, Obbedire, Combattere". Allo scopo di dare a tale organizzazione un aspetto paramilitare gli iscritti erano inquadrati in squadre, manipoli, centurie, coorti e legioni, ricalcando così le unità militari dei cesari. Inoltre, secondo dell’età, i ragazzi erano suddivisi in: a) Figli della lupa, dai 4 agli 8 anni; b) Balilla, dagli 8 ai 14; c) Avanguardisti, dai 14 ai 17; d) Giovani Fascisti, dai 18 ai 21. Esistevano poi anche altri tipi d’organizzazioni giovanili sotto il fascismo, come i Gruppi Universitari Fascisti (G.U.F.), dotati, tuttavia, di una loro particolare autonomia, che includevano gli universitari dai 18 fino ai 28 anni (potevano farvi parte anche i diciottenni iscritti all’ultimo anno di scuola media superiore e i laureati fino ai 28 anni) e il Servizio Premilitare, dai 18 ai 21 anni, che assumeva il chiaro compito di preparare al servizio di leva da svolgersi non appena maggiorenni.

Ma partire come volontario, seppur iscritto alla GIL, non era cosa semplice. Tutt’altro. Prima di tutto occorreva essere spinti dalla propria volontà di servire in armi la Patria col calcolato rischio di immolarsi per essa, poi era indispensabile l’idoneità fisica (non facilmente ottenibile) e ovviamente (nel caso in cui non si fosse ancora compiuto il 21° anno) l’autorizzazione del padre. E così, molti seguendo le dovute tappe dell’arruolamento, che avveniva a carattere regionale, partono come volontari, altri vi aderiscono ugualmente persino falsificando la firma del genitore o partendo in ogni caso. Fra questi giovani volontari vi è anche Antonino Calvaruso, palermitano, classe 1922, uno di quei ragazzi che sul campo saprà dimostrare il suo valore(3).

Dunque, si diceva dei ragazzi che volontariamente andarono a costituire i Battaglioni Volontari della GIL. Ettore Muti, vero eroico combattente, trenta volte decorato al valore militare, allo scoppio della guerra segretario del PNF, dunque capo della GIL, volle che questi giovanissimi volontari fossero posti fra le fila dell’Esercito. Ma quest’idea non trovò sin da subito il parere favorevole dello Stato Maggiore dell’Esercito, giacché il timore d’inquinamenti politici frenava proposte di tal fatta. Esisteva già la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale(4) (M.V.S.N.), istituita con R.D.L. 14 febbraio 1923 n. 31, un vero e proprio esercito in camicia nera alle dipendenze del Partito, perciò l’inserire delle unità formate esclusivamente da Giovani Fascisti fra i ranghi del Regio Esercito costituiva agli occhi delle gerarchie di quest’Arma un punto da rigettare. Troppo compromettente e pericoloso per la sua autonomia. Inoltre, occorre dire che anche il PNF vedeva non troppo favorevolmente la costituzione di un piccolo esercito di giovani, seppur formati sotto l’ala onnipresente del fascismo, proprio perché in quegli anni le schiere giovanili stavano diventando troppo irrequiete. Le nuove leve, però, spingevano per avere spazio. Volevano di più: o una seconda ondata rivoluzionaria o una guerra che desse nuova linfa ad un certo fascismo di sinistra avverso alla conservazione e all’irrigidimento borghese alle dipendenze del capitale. Quest’onda d’urto dei giovani sarà una delle cause dello sfacelo fascista di lì a poco. Ma prima che tutto degenerasse, lo stesso Mussolini parlerà della naturale veemenza dei più giovani e dell’ovvio rinnovamento generazionale, del passaggio del testimone. "Noi siamo - disse Mussolini - la generazione che tramonta, i giovani sono l’alba che sorge. Che cos’è una generazione? E quanto dura? Ve lo dico subito. Vent’anni. Il tempo sufficiente perché l’uomo generi figli. E i figli, generalmente, vengono a contrasto coi padri. La storia ha sempre dimostrato la fatalità di questa lotta. Come fare, allora, per trasmettere una fede alla nuova generazione, per ottenere anzi la saldatura? Bisogna passare il comando ai giovani. Subito."(5). Non si dimentichi poi che già fra i GUF forti venti di critica aperta, di revisionismo serrato, se non d’opposizione interna, soffiavano nella completa cecità di chi incartapecorì il primo fascismo rivoluzionario. Insomma, per vari motivi d’opportunità politica e di mera facciata questi giovani fascisti volontari erano davvero un pericolo per tutti.

Più volte, prima di Bir el-Gobi, quei diciottenni della GIL si vedranno fastidiosamente dislocati da un capo all’altro. E quanti gesti e parole di sufficienza prima del battesimo del fuoco, quante stupide battute prima dell’ora del cimento, quanta spavalda ilarità, se non sarcasmo, al loro indirizzo prima del momento della serietà. Avranno modo questi giovani di ergersi eroicamente su tutti, splendidamente avvolti dall’aurea naturale che fa del volto d’ogni ragazzo la primavera della vita.

Furono costituiti così ventiquattro Battaglioni di Volontari della GIL. Ogni Battaglione (Btg.) era composto di tre compagnie fucilieri e un plotone comando; ogni Btg. era dunque composto di circa 1.000 ragazzi, con circa 21 ufficiali. L’arma individuale era il moschetto ’91 ed un pugnale-baionetta.

In questo stato di perplessità sulle sorti di questi Volontari, l’Esercito temporeggia. Il problema è serio. Che fare di questi irrequieti ragazzi? Come distoglierli dal combattimento, dalla vera battaglia? Non è un gioco la guerra, altro che cose da diciottenni, si mormora. Ma tutti dovranno ricredersi.

Così, fu ideata la "Marcia della Giovinezza": ben 450 Km a piedi in pieno assetto di guerra che avrebbe impegnato questi giovani volontari in venti tappe dalla Liguria fino a Padova. Tutto questo, ovviamente, cantando a squarciagola gli inni della Giovinezza(6).

L’idea di questa "Marcia", che interessò anche le colonne della fertile rivista di Bottai(7), rispose non solo a motivazioni meramente propagandistiche, ma a molti parve anche un ottimo metodo per prendere tempo sul da farsi e un modo sicuro di applicare la selezione naturale fra le fila di quei ragazzi classe ’22. Quanti avrebbero resistito ad una simile estenuante prova? Quasi tutti! Sfidare nel vigore fisico i ragazzi è come superare in saggezza un lucido vegliardo!

Si pensa di frenare in questi ragazzi lo sfrenato e pericoloso desiderio della guerra. Nulla, però, li distoglie, nemmeno l’affettuosa presenza di tanti civili lungo la marcia; ciò che vogliono è ben altro. "Ma tutto ciò, - racconta uno di loro – esclusa la spontanea accoglienza popolare, ci dà ai nervi, urta maledettamente con il nostro carattere. Non ci capiscono, nelle alte sfere politiche e militari, o non vogliono capire, che la nostra meta è il combattimento; tutto il resto non ci interessa. Preferiremmo riservare le rappresentazioni teatrali alla fine della guerra, dopo aver combattuto, dopo aver conquistato la vittoria"(8).

Di lì da chi decise per questa sfilata di gioventù per le strade d’Italia, cosa spingeva tanti ragazzi ad arruolarsi volontari in così giovane età a rischio della vita e a voler partire così entusiasticamente per il fronte? L’educazione politica e militare del tempo e la figura carismatica del Duce di sicuro li ammaliava. Era una vera attrazione fatale. Il fascismo era riuscito in sostanza a convogliare la forza dirompente dei giovani, il loro desiderio di muoversi, di fare, di agire, di distruggere anche, nei regolamenti della disciplina militare. Una miscela davvero esplosiva, che vedeva dei ragazzi un po’ anarchici per motivi anagrafici inquadrati in plotoni. E poi, non era Giovinezza l’inno del fascismo? Non erano rivolte verso la gioventù gran parte delle attenzioni del regime?(9) é innegabile che tanti ragazzi erano affascinati da un uomo dall’oratoria coinvolgente, che aveva dato a tutti una divisa, li aveva esaltati come la più bella e fiera espressione del futuro, li aveva forgiati nella comunione dello spirito nazionale, li aveva curati in ogni settore della loro vita, dalla culla alla pugna, li aveva educati e chiamati i sabati a radunarsi nelle piazze, a maneggiare un’arma, e che li aveva portati al mare, in montagna, ai "campi Dux", all’estero. Insomma, un regime che coccolava, diciamo così, seppur interessatamente, la giovinezza non poteva che esaltarne la fervida immaginazione. Chi è giovane sa cosa voglia dire avere uno straccio d’ideale politico per cui sgolarsi, manifestare la propria adesione, anche a costo di imbattersi duramente in avversari che la pensano esattamente all’opposto. Quasi fisiologico in chi sceglie di impegnarsi in prima persona per realizzare un progetto comune. E chi è stato giovane davvero, dentro, sa bene che a quell’età non è tanto la speculazione dell’iperuranio che avvince i più, ma l’azione, la sublime vanità del nulla, la ricerca dell’infinito nel finito, lo stimolo tendenzialmente ribelle, il voler vivere spericolatamente; tensioni che si confanno al vigore di chi cova nell’intimo un vulcano ribollente, pronto a rigettare il suo fertile vomito devastatore, magma giovanile.

Il primo impiego dei Btg. Vol. della GIL doveva vederli impegnati sul fronte occidentale contro la Francia. Ma furono frenati. Si diceva: "Sono ragazzi, la guerra è cosa da persone serie".

Un’autentica folla entusiasta e plaudente festeggia così il 26 agosto l’inizio della "Marcia della Giovinezza" fra canti, lacrime, sorrisi e tanta commozione nel vedere quei ragazzi che anziché le cure famigliari hanno scelto volontariamente di servire in divisa la Patria. Il vigore e l’incoscienza stupenda della giovinezza al servizio di un’idea antica e nobile come quella della madre Patria li rendeva davvero bellissimi, superbi.

Dopo un’estenuante ed estetica sfilata di giovinezza per le strade dell’Italia settentrionale (Genova, Piacenza, Cremona, Mantova) il 1¡ e 2¡ Raggruppamento incontrano per strada l’altra colonna del 3¡ Raggruppamento Volontari della GIL, provenienti da Fano lungo il litorale adriatico. L’incontro avviene proprio alle soglie di Padova, ove insieme giungono marciando il 16 settembre 1940. "Si entra in Padova – racconta Mugnone – e, fra una trionfale accoglienza del popolo, che accalca i marciapiedi della città universitaria, termina la Marcia della Giovinezza"(10).I ragazzi, stanchi ma soddisfatti, sono così accasermati alla Fiera e presso il 58° Rgt. di Fanteria. Altri a Vicenza.

Nel frattempo, il 13 dello stesso mese, il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, succeduto al defunto pari grado Italo Balbo al comando delle truppe italiane in Africa Settentrionale (A.S.), riceve ed esegue, anche se con un po’ di riluttanza, l’ordine di passare il confine libico-egiziano.

10 ottobre 1940, "giornata memorabile nella storia del volontarismo italiano", sottolinea il Volontario Mugnone(11). Il Duce assiste dal palco in Corso del Popolo, in località Prato della Valle, alla sfilata delle varie rappresentanze giovanili in armi. Tra di esse quelle di Germania, Spagna, Ungheria, Romania, Bulgaria. In fine, dinanzi ai suoi occhi attenti e severi, passano le schiere dei suoi Giovani Fascisti. Tutti felici e fieri di aver partecipato ad una simile parata, prima per le strade d’Italia e poi proprio davanti a colui che essi ammiravano tanto, il loro faro, il loro Duce. Terminata la sfilata si rientra nelle caserme. Luigi Barzini così scrive in quell’occasione sul "Popolo d’Italia" di questi ragazzi: "Sorprende di vedere questi soldati adolescenti sorpassare in altezza una gran parte dei loro ufficiali. Aitanti, seri, marziali, con delle facce intelligenti, l’occhio vivo e attento, i volontari del littorio, ancora quasi fanciulli, hanno già un’aria guerriera"(12).

Passata la festa cominciano i doveri per i Volontari della GIL. L’indomani Ettore Muti telegrafa con piacere ai Comandi dei Btg. Volontari GIL comunicando che ben presto saranno inquadrati fra le varie unità combattenti. Del resto Mussolini glielo aveva promesso: "Il fascismo non vi promette né onori né cariche n ldeggiato in un telegramma a Mussolini lo stesso Muti(13).

Ben presto, però, una notizia fredda i Volontari alla Fiera di Padova. La miccia fra le fila dei ragazzi in armi scoppia quando qualcuno di loro legge sulla seconda pagina del "Popolo d’Italia" un articolo, nientemeno che del gen. Ottavio Zoppi, già fondatore degli Arditi durante la Grande guerra. Che c’era di così grave in quelle righe, forse persino lusinghiere nelle pubbliche intenzioni? L’autore definiva nel suo articolo, intitolato Gagliardetto vivente, i Volontari della GIL come "Premilitari", paragonandoli a quei ragazzi che nella prima guerra mondiale avevano fatto la guardia alle linee ferroviarie (14). Un’onta! Potevano tollerare quei Volontari una tale squalifica a semplici truppe da rincalzo, insomma, delle pericolose riserve da ultima spiaggia? Inoltre, a rendere l’aria di Padova ancora più tesa giunge la notizia che il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio ha ufficialmente chiesto a Mussolini di smobilitare tutti i Btg. della GIL. Tale richiesta, occorre ricordare, non trovava assolutamente d’accordo Muti che ancora con più forza insisteva per impiegare i ragazzi, così come promesso e com’essi stessi ardentemente desideravano. Ma come, pensò Muti e altri come lui, prima li esortiamo allo slancio senza condizioni, alla battaglia, gli diciamo a lettere cubitali che "bisogna agire, muoversi e, se occorre, morire", li spingiamo ad amare la Patria sopra ogni cosa materiale, e poi li deludiamo mandandoli a casa, come dei bambini da strapazzare? Mussolini deve prendere una decisione. Dopo tentennamenti accetta l’idea di Badoglio, soprattutto per non inimicarsi le alte sfere dell’Esercito. Anzi, il Capo del Governo va oltre ed esautora in novembre il pluridecorato Muti dalla carica di Segretario del PNF. L’opportunismo, in politica, spesso non va in sincrono con ciò che il senso comune definisce come retta condotta morale.

Giunse dunque l’ordine di sciogliere i vari Btg. GIL, "per cui i volontari dovevano ritornare alle loro case e riprendere gli studi ed il lavoro, mentre si sarebbero costituiti uno al massimo due Battaglioni speciali" (15). Dopo anni di formazione militare, sfilate, bei discorsi sul valore intrinseco della giovinezza, sul futuro che gli appartiene, ora tutti a casa? Mai! (16) é così che scoppia una vera e propria rivolta alla Fiera Campionaria di Padova. I ragazzi della GIL non vogliono proprio sentire di tornarsene a casa a fare i figli di famiglia. Loro vogliono solo diventare uomini, facendo la loro parte in un momento così importante, per l’onore e il prestigio dell’Italia, con le armi in mano. Ma la loro era davvero una situazione anomala. Per tutti sono un bel problema: per l’Esercito, per il PNF, per Mussolini stesso. Una vera mina vagante. Che accadrebbe, si pensa, se questi ragazzi inquinassero i ranghi dell’Esercito con idee ovviamente fasciste, anzi ultra-fasciste? Che ne sarebbe dell’immagine del regime se così tanti ragazzi, il fiore all’occhiello della gioventù forgiata all’ombra del littorio, perissero su qualche fronte? Che direbbero i loro genitori e il Paese intero, che "il Duce manda i ragazzini a fermare le demoplutocrazie occidentali"? Quale la considerazione internazionale agli occhi delle potenze nemiche in caso d’annientamento di una simile imberbe unità? E poi, nel dopoguerra (che si pensava sarebbe stato solo vincente) che sarebbe accaduto al regime se una simile massa di giovani ribelli avesse espanso le proprie idee rivoluzionarie (come quelle di tutti i giovani di tutti i tempi), come frenarle se fuse con quelle degli intellettuali dei GUF? Sarebbe stato in grado il Partito di trattenere una simile ondata dagli esiti tutt’altro che facilmente controllabili? Non ci sarebbe stata un’altra rivoluzione super-fascista, intesa come superamento verso derive più o meno ignote, ma sicuramente non reazionarie? Insomma la presenza di quelle migliaia di giovani volontari era un pericolo per tutti.

Scoppiata la rivolta la Fiera diviene luogo di sfogo e di distruzione. I ragazzi non vogliono affatto retrocedere dalle loro intenzioni. E così, ad un certo punto, si giunge alle maniere forti per farli andare via. Ma non è opera facile. Tanti di loro riescono a sfuggire all’operazione di sgombero che i vari ras locali sono incaricati di eseguire con l’ausilio delle CC.NN. Molti dei Volontari trovano un nascondiglio ed altri in un secondo tempo faranno ritorno alla base o si aggregheranno giungendo da varie località.

Padova ricomincia così a pullulare di giovani irremovibili, chiusi alla Fiera nell’attesa di chissà quale evento che li possa nuovamente riportare sulla via del cimento. Gli irriducibili non hanno accettato di retrocedere da eroici volontari a bambini da bastonare. A questo punto il problema si ripresenta in tutto il suo peso: che fare di questi cocciuti ragazzacci? Un Maggiore dei Granatieri è così inviato a trattare con i Volontari rinchiusi fra le mura della Fiera. Fulvio Balisti, vero ufficiale e gentiluomo dalla stoffa d’altri tempi, grazie alla sua capacità oratoria e la sua propensione al dialogo con i giovani (non è cosa comune saper sospendere la distanza anagrafica in un colloquio con i più giovani, tanto più arduo è poi riuscire a conquistarne la causa), riesce a farsi dire cosa davvero vogliano questi riottosi alla smobilitazione (17). Ben presto fra i giovani e Balisti si trova un punto d’incontro, un momento di potentissimo coagulo: l’idea di Patria.

Dopo essersi chiariti reciprocamente, il 15 novembre 1940 alle 5 del mattino il Magg. Balisti si presenta ai cancelli della Fiera-Caserma dei Volontari e li conduce ordinatamente di persona alla stazione. Alcuni scendono a Montebello, vicino Montecchio Maggiore, altri, circa settecento, invece, sono accampati ad Arzignano. Ma il fatto straordinario è che ad ogni ora svariati ragazzi, sfuggiti ai loro mastini, fanno entusiastico ritorno fra le fila dei Volontari. "Il nostro posto - dicono – è qui".

I Volontari sono dunque inquadrati insieme a 14 ufficiali nel I Btg. speciale Volontari della GIL (18). Viene costituito anche un II Btg. e si pensa pure all’eventuale III Btg. speciale per i ritardatari.

Nonostante il desiderio di servire dei Volontari non incontrasse molti consensi e, cosa più importante, non fosse ancora pervenuto l’imprimatur da parte delle autorità competenti alla ricostituzione di tali unità, non pochi esponenti del mondo politico e militare non celano le loro simpatie per quelle giovani pesti che vogliono divisa e moschetto a tutti i costi. Fra gli estimatori anche Buonamici, vice segretario della GIL e il pluridecorato Col. Fernando Nannini Tanucci. Quest’ultimo ne diverrà, anzi, presto il Comandante.

I capovolgimenti politici e militari sopravvenuti nel frattempo mutano tuttavia la strana situazione dei due Btg. Badoglio si dimette e gli subentra Ugo Cavallero. Non perdendo la ghiotta occasione gli ammiratori dei giovani volontari, affascinati da tanto intrepido ardimento, ottengono l’autorizzazione ufficiale per costituire tre Btg. speciali. Viene così costituito ufficialmente il Gruppo Battaglioni speciali Giovani Fascisti, con al comando il Col. Tanucci, aiutante maggiore il Ten. Mario Niccolini. Il Gruppo speciale GG.FF. è suddiviso in 2 Btg., il I al comando del Magg. Balisti e il II alle dipendenze del Magg. Benedetti, bersagliere come Tanucci.

Ma un dubbio ancora attanaglia la truppa: "Che siamo? Esercito o Milizia?".

La sera del 14 dicembre il Gruppo GG.FF. parte in treno da Tavernelle direzione Formia, vicino Gaeta, ove giungeranno all’alba del 16.

Si decide quindi di innalzare ancor più lo spirito di corpo adottando per ogni Btg. un proprio motto da inscrivere sui propri gagliardetti (19). I quali, pur non essendo vessilli ufficiali, ricoprono, soprattutto fra i giovani, un significato simbolico molto alto. Il motto del I Btg. è "Mi scaglio a ruina", quello del II Btg. "Abbi fede" (20). Parole secche e calzanti viste le imprese cui andranno incontro queste ardenti anime romantiche. A Formia, località dove s’erano già addestrate la Legione CC.NN. "XXVIII Ottobre" e il Btg. "S. Marco", si decide per motivi logistici di ricomporre nuovamente in un unico Btg. le unità speciali. Alcuni GG.FF. vengono inviati a addestrarsi, oltre che a Formia, a Gaeta e a Scauri.

Durante i mesi trascorsi a prepararsi per l’impiego in linea il Col. Tanucci e il Magg. Balisti fanno la spola fra Formia e Roma per dare giusta forma a quella particolare creatura bellica fatta di ragazzi irrequieti che premeva per il giusto riconoscimento. Ma spesso i palazzi di Roma si mostrarono avidi di complimenti per quell’unità così speciale. Serena, Segretario del PNF succeduto a Muti, non ha remore a bollare seccamente i GG.FF. come "nient’altro che Premilitari", e lo stesso Starace, allora capo della M.V.S.N., condivide la scarsa fiducia considerando altrettanto negativamente i due Btg. Ma dopo la tempesta un raggio di sole irradia i ragazzi impossibili. Durante un’ispezione al Gruppo, il Gen. Taddeo Orlando esprime parere decisamente positivo per il grado di preparazione militare raggiunto dai Volontari. Al che finalmente Starace fa marcia indietro e si convince a dare il suo assenso affinché venga costituita "l’effimera" 301" Legione CC.NN. d’assalto. Effimera, giacché dopo essere stata ufficialmente costituita il 14 aprile 1941, appena quattro giorni dopo i Volontari saranno costretti a riporre la camicia nera. Nei ragazzi monta l’idea di essere confusi con degli indossatori e non dei soldati. Ma, così, finalmente e in modo definitivo il calvario finisce. I volontari divengono a tutti gli effetti, ai sensi della Disposizione n. 49840 del Ministero della Guerra del 18 aprile 1941, membri del Regio Esercito, con la denominazione di Gruppo Battaglioni Giovani Fascisti. I Volontari, insomma, diventano veri fanti. Persino la scelta sulla loro uniforme crea polemiche (21). La divisa consegnata ai GG.FF. è color grigio-verde (come ogni reparto dell’Esercito), con le stellette, le fiamme cremisi bordate di giallo (i colori di Roma e della GIL) e il fez nero come gli Arditi. I ragazzi ribelli e quasi fuori legge di Padova, ormai poco più di duemila, adesso sono soldati a tutti gli effetti.

Alle 22.30 del 4 maggio arriva l’ordine di partire per Napoli. L’indomani i Battaglioni sono quindi spostati nel capoluogo campano, dove risiederanno presso l’Albergo dei poveri per più di due mesi per altre estenuanti esercitazioni. Ma la pur amena accoglienza della città partenopea non attenua affatto il malcontento serpeggiante fra i Volontari. Per un momento pare si vada in Russia, ma anche questo è solo un fuoco di paglia. Loro vogliono l’incendio. Lo scontento per l’inattività sul campo arriva a livelli talmente alti che i GG.FF. rendono pubblico persino un manifesto in cui appaiono tendenze al limite della rivolta (22). Qualcosa deve accadere, e la scossa è stata così forte che il 18 luglio la notizia tanto attesa finalmente giunge: si parte per l’Africa. Il 19 da Napoli si va per Taranto. Il 23, alle ore 14, a bordo delle navi Neptunia e Oceania il Gruppo Btg. GG.FF. parte alla volta di quei lidi che D’Annunzio aveva definito come la nostra "quarta sponda". L’avventura tanto voluta e il combattimento mai rinnegato, anzi cercato, è ad un braccio di mare. A poche miglia.

Solcando quel mare nostrum, i nostri festeggiano con allegre musiche il loro viaggio verso il deserto da difendere. Ma nell’intimo la nostalgia della nostra terra che odora di ulivi e frutteti, dei nostri porti pieni di vita, dei nostri lidi dolcemente accarezzati dal vento mite, il ricordo delle 100 città e dei tanti bei paeselli da cui ci si è distaccati, li fa crescere, li fa divenire grandi. In ogni senso.

Qual è la nostra situazione militare in Africa Settentrionale al momento dell’arrivo dei GG.FF.? Dal giugno 1940 al luglio 1941 in realtà si sono svolte una serie di attacchi e contrattacchi che faranno definire quello scontro come la "battaglia del pendolo". Primi a muovere all’attacco con Graziani fino a Sidi el Barrani (100 Km oltre il confine con l’Egitto), gli Italiani poi ripiegheranno a causa del durissimo contrattacco inglese: "Il 9 dicembre gli Inglesi, aggirata e travolta la linea italiana a Sidi el Barrani, sferrarono una poderosa offensiva, penetrando in profondità nel cuore della Cirenaica e conquistarono Bardia, Tobruk, Derna e Bengasi, per raggiungere ai primi di febbraio il golfo della Sirte. La decima armata italiana venne travolta. Le perdite furono ingenti: 5.000 morti, 130.000 prigionieri, 400 carri armati e 1.200 cannoni distrutti" (23). Un disastro per la conduzione autonoma della nostra guerra in A.S. Mussolini, dunque, costretto, deve rimediare e nel gennaio 1941, si rivolge all’alleato tedesco, che invia in Libia uno dei suoi migliori generali, il vincitore della campagna di Francia, il già notissimo Erwin Rommel e con lui un intero corpo di spedizione chiamato Deutsche Afrika Korps (D.A.K.) (24). I biondi soldati di Germania sbarcano in massa a Tripoli il 13 febbraio 1941. Dopo una sfilata per le vie della capitale della colonia, in cui armi potenti e adatte alle particolari esigenze del deserto fanno presumere ben altre sorti ai nostri affondi, Rommel non vuol perdere tempo e presentatosi per assumere le consegne dal suo Comandante diretto per le operazioni in A.S. (almeno nominalmente), il Gen. Gariboldi (succeduto al deposto Graziani dopo l’attacco e lo scacco subito in Cirenaica), si dirige alla testa della sua Armata italo-tedesca ad est, incontro al nemico. Il 24 marzo gli Italo-tedeschi espugnano el-Agheila, il 4 aprile Bengasi e agli Inglesi non rimane che indietreggiare di vari chilometri. Ma Tobruk, nodo importantissimo per lo scacchiere nord africano, seppur accerchiata dalle forze dell’Asse, resiste accanitamente. é la base navale più importante della Cirenaica, al confine fra la Libia e l’Egitto. Possederla vuol dire avere in pugno l’area cruciale degli scontri in zona. L’assedio italo-tedesco è forte e serrato, nessuno riuscirà per molti mesi a sfuggire da questo cerchio strettissimo e martellante.

Altri campi di battaglia s’aprono in questa guerra, che si espande sempre più: l’U.R.S.S. viene attaccata dai Tedeschi il 22 giugno 1941. L’operazione faraonica denominata "Barbarossa" ha inizio. Il III Reich assale il bolscevismo in cerca del proprio Lebensraum, a est. Il conflitto assume davvero sempre più i connotati di una guerra mondiale, una guerra totale. Ormai lo scontro non è solo politico-militare ma anche e più apertamente politico-ideologico: l’U.R.S.S. è il comunismo, abbatterlo vorrebbe dire averne ragione. Ma questo allargarsi del conflitto a nuovi fronti sfilaccia, di fatto, le forze dell’Asse, impegnate ormai su troppi versanti. I costi in forze umane e materiali saranno enormi. Questo il prezzo del vortice della volontà di potenza che tutto avviluppa. Se innescato, difficilmente esso lascia il tempo di ragionare sul cosa sia davvero meglio. Quando la diplomazia non riesce ad andare oltre, la parola passa alle armi, e nello scontro bellico solo una cosa conta: vincere!

Il 17 aprile 1941 una brutta notizia giunge in Italia dal corno d’Africa: l’Impero d’Etiopia è perso. Gli Inglesi ci hanno sopraffatti per ovvie motivazioni logistiche, nonostante che le nostre armi abbiano attaccato per prime vittoriosamente in Sudan e occupato la Somalia inglese e francese. Ma difendersi in un simile scacchiere, lontani dalle vie di rifornimento della madrepatria, era un’impresa. La resistenza fu sostenuta fino all’ultima cartuccia sull’Amba Alagi. Lì, però, il duca Amedeo d’Aosta dovette, ormai senza viveri né munizioni, completamente accerchiato, arrendersi a chi di professione per secoli ha sottomesso alla Union Jack mezzo mondo e che sfacciatamente accusava l’Italia d’invasione, di colonialismo. Ipocrisia britannica.

Un nostro adirato volantino rivolto agli Inglesi diceva: "Ritorneremo". Ma ciò non fu più possibile.

Gariboldi viene trasferito a Roma, sia perché incaricato di guidare il Corpo di spedizione italiano in Russia (poi ARMIR), sia per le sempre più pressanti lamentele di Rommel. é quindi nominato Comandante in capo delle Forze Armate italo-tedesche e governatore della Libia il Gen. Ettore Bastico (25). Ma è superfluo ricordare che Rommel godeva di un’autonomia talmente ampia che la sua inferiorità gerarchica, nelle operazioni di combattimento, era del tutto formale.

Nel giugno 1941 gli Inglesi, però, non stanno lì ad aspettare che gl stiera. Da qui il nome a questo ennesimo scontro, la battaglia della Marmarica.

Ma torniamo ai GG.FF. All’arrivo in Tripoli il sarcasmo intorno a quei Battaglioni di ragazzi si spreca. Dicono, rivolgendosi a loro: "Ah, ma che ci hanno mandato i Balilla?". Le prime considerazioni del Gen. Bastico sono durissime per il temperamento dei Volontari: "Non saranno mai impiegati in prima linea i GG.FF.". Quest’aria di snobismo li urtava parecchio, ma la naturale strafottenza giovanile è ottimo antidoto per certi avventati giudizi.

Alla sostituzione dei vertici italiani segue anche un riordino dell’intero schieramento tattico delle FF.AA. dell’Asse in A.S.: "Nell’agosto le forze italo-tedesche furono riordinate, alle dipendenze del Comando Superiore Africa Settentrionale comprendevano: il Corpo d’Armata di manovra (C.A.M.) comandato dal gen. Gambara (27) e costituito dalla Divisione corazzata Ariete, dalla Divisione di fanteria motorizzata Trieste e dal Raggruppamento esplorante; il Corpo tedesco d’Africa (C.T.A.) su 15 e 21 Divisione corazzata, Divisione di fanteria Savona e Divisione tedesca per i compiti particolari (Z.b.V.); XXI Corpo d’Armata, comandato dal gen. Navarrini, costituito dalle Divisioni di fanteria Bologna, Pavia, Brescia e delle superstiti aliquote della Sabratha. Al generale Rommel fu, inoltre, riconosciuto il comando diretto delle forze italiane schierate ad est di Ain el-Gazala" (28).

Ottenuto il parco macchine (29) e alcuni pezzi anticarro 47/32 (soprannominati "elefantino") del 1935, armi datate ma di cui i GG.FF. faranno un uso eccellente, i Volontari s’incamminano per le vie del deserto. Inizialmente anche i fanti della Div. Trieste si mostrano molto diffidenti nei loro confronti (30): "Che siete? – chiedono - Milizia o cosa?". Il solito ritornello. Era come se quei giovani soldati non avessero identità, né forma né sostanza. Ma questa strana creatura militare si concretizzerà grandemente.

Il 2 settembre in marcia verso est.

Il 7 ottobre il Gruppo GG.FF. viene assegnato al Recam (Raggruppamento esplorante del corpo d’Armata di manovra) del C.A.M., comandato dal Gen. Gambara.

Ma questo periodo d’attesa è stressante. Sballottati da un capo all’altro del deserto libico l’azione vera non arriva mai. I GG.FF. covano sempre un solo pensiero, smanioso: "Eravamo ansiosi di andare a combattere, desideravamo conoscere quando sarebbe stata sferrata l’offensiva" (31). Non vogliono più parole e bivacchi africani, ma lo scontro aperto col nemico.

Durante i vari accampamenti, ancora ignari della loro destinazione effettiva, anche una tempesta d’acqua e sabbia s’abbatté sui GG.FF. la notte del 17 novembre. "E poi – ricorda Calvaruso - dicono che in Africa non piove! Restammo lì bagnati fradici e il Col. Tanucci, passata la tempesta s’infuriò con noi perché non avevamo correttamente predisposto i dovuti accorgimenti per riparare le armi. Duro, ma un vero soldato quel Tanucci. Ci ammonì facendoci notare che se in quel momento fossero arrivati gli Inglesi non avremmo avuto modo di rispondere al fuoco in alcun modo. Altro che farsi onore! Che avrebbero detto di noi? Fermati da un po’ d’acqua? Questo non lo voleva nessuno!". E a riprova dei giusti timori del C.te giunge la notizia che i Britannici si apprestano a dar battaglia. é il momento tanto atteso dai GG.FF. Eroismo o incoscienza di diciottenni?

Attorno a Tobruk intanto le nostre forze continuano a stringere in una morsa asfissiante gli assediati. Questo il nostro schieramento: "Dalla costa a ovest di Tobruk le divisioni si succedevano secondo un dislocamento a ferro di cavallo: la Brescia, la Trento, la Pavia, un battaglione della Bologna, la tedesca Afrika, un battaglione della ricostituenda Sabratha e infine, sulla costa a est della piazzaforte, un altro battaglione della Bologna.

La divisione corazzata Ariete era attesa a Bir el-Gobi, nell’interno, la Trieste a Bir Hacheim, mentre la Savona presidiava i capisaldi nella zona di frontiera, fra Sidi Omar e la ridotta Capuzzo.A Bardia erano di guarnigione i tedeschi della Z.b.W., reparti italiani tenevano invece i capisaldi di Halfaya, Faltembarcher e Sollum, a nord della ridotta. Le divisioni corazzate tedesche – la 15" e la 21" - erano stanziate nella zona di Gambut, fra Tobruk e Bardia, mentre i loro raggruppamenti esploranti perlustravano la zona centrale compresa tra le piste di Capuzzo ed el-Abd" (32).

Approfittando dell’uragano che ha investito i nostri soldati, il C.do inglese ordina di sferrare l’attacco. Fra la notte del 17 e la mattina del 18 novembre 1941 Cunningham dà così il via all’operazione "Crusader", con lo scopo di prendere contatto con Rommel, previo aggiramento del grosso delle forze italo-tedesche. Lo scontro frontale in realtà, in quest’occasione, fra le due Armate non vi sarà, giacché lo stratega tedesco non s’è accorto che l’Inglese lo sta cercando direttamente.

La Div. Ariete, come detto, presidia Bir el-Gobi. Ma cos’era questa località? Una città, un piccolo accampamento, una ridotta, una caserma? Niente di tutto questo. Bir el-Gobi è soltanto un pozzo d’acqua salmastra, con una piccola casetta in legno. é un luogo desolato in mezzo a tanta sabbia. Ma ciò che in questo luogo conta più dell’amenità è la strategica posizione del sito, una vera e propria cerniera a ridosso delle truppe dell’Asse impegnate sulla costa. Tenere quel caposaldo vuol dire non permettere agli Inglesi di aggirare il grosso delle nostre truppe a nord verso il confine libico-egiziano.

Rommel non ha ancora intuito le reali intenzioni degli Inglesi e rimane fermo sulla necessità prioritaria di assalire Tobruk. In conseguenza di ciò, trasferisce la Div. corazzata Ariete da Bir el-Gobi sino a Gueret an-Nandura, trovando tuttavia poco persuaso il C.te della stessa unità. Rispettosamente, questi fa notare al superiore che, a parer suo, è proprio a Bir el-Gobi che il nemico si appresta in poche ore a lanciare un’azione decisiva. Di fatti, il 19 novembre, gli Inglesi attaccano proprio in quella zona e dopo un duro scontro fra carri armati il pericolo dell’aggiramento viene evitato. Ma gli Inglesi torneranno risolutamente all’assalto.

Al che, il 21, per esigenze tattiche il Gruppo GG.FF. viene diviso, non trovando però favorevoli i diretti interessati. "Come – dicono quelli del I Btg. - il II Btg. va al fronte, e noi?". Il C.te Tanucci, eseguendo gli ordini, si dirige con il suo Comando e il II Btg. più a nord verso Barce, a rinforzo della zona di Bir el Cheersan, sulla linea di difesa di Ain el-Gazala. Questa separazione getta il malumore fra i ragazzi del I Btg., che reputano tale fatto come un declassamento. Anche il Magg. Balisti non ne è affatto entusiasta. Ma il dovere innanzitutto.

Nel pomeriggio del 22 il I Btg. GG.FF. giunge ad Agedabia, dove stanziano dei Bersaglieri. Ennesimo chiarimento fra i fanti piumati e i giovani col fez nero, scambiati per militi della MVSN (33).

Anche fra le fila nemiche le sostituzioni ai vertici si susseguono con urgenza. E così Auchinleck, dopo la controffensiva di Rommel, sostituisce Cunningham con il Gen. Neil Ritchie.

Durante una delle soste del I Btg. GG.FF. un aereo inglese miete la prima vittima fra i giovani Volontari. Cade così, falciato dalla mitragliatrice nemica, il catanese Giuseppe Vitale. A questo giovane patriota che, restato orfano di padre, nonostante potesse, non avanzò mai domanda di rimpatrio, la gioventù etnea formulò una toccante poesia alla sua memoria (34). Per la prima volta i GG.FF. hanno visto che cosa voglia dire morire per la Patria. Non sempre il sommo sacrificio in guerra è accompagnato da scenari grandiosi all’ombra delle bandiere. La morte può arrivare in ogni attimo, da ogni dove. Trafitto dalla mitraglia nemica egli suggella la sua presenza nel deserto libico offrendosi per l’Italia.

Ordini e contrordini nel frattempo s’inseguono con rapidità spiazzante. Non si va più ad Agedabia. é oramai inutile, si è più utili altrove. Trasferimento immediato in Marmarica anche per il I Btg.

Durante il viaggio il I Btg. GG.FF. s’imbatte in un’autocolonna carica di feriti. Il dolore è forte, gli occhi sono sgranati, il silenzio è d’obbligo, lo sgomento per i camerati doloranti e straziati dalle ferite infonde in tutti un brivido paralizzante. La scena è degna d’attenzione: da un lato una fila di soldati feriti o prossimi alla morte che chiedono solo di essere assistiti dopo aver fatto il loro meglio, dall’altro un intero Btg. di diciottenni che non desidera altro che imbattersi nel nemico per la comune Patria, per lo "spazio vitale", per "la libertà", per il "mare nostrum". Questa scena non fa che aumentare nei GG.FF. la volontà di misurarsi con gli odiati Inglesi.

Il 29 novembre verso le prime luci dell’alba la colonna del I Btg. GG.FF. giunge vicino Um er-Zem, ove il Gen. Bastico ha posto, ben mimetizzato, il Supercomando A.S. L" il Magg. Balisti riceve nuove consegne: pattugliare ben 20 Km di fronte. Ma Balisti fa notare: "Sono venti chilometri. Un Battaglione che ci fa su venti chilometri?" (35). Bastico è perentorio, e piuttosto urtato rinnova gli ordini. Si disponga quanto stabilito.

La stessa mattina la colonna raggiunge i posti assegnatigli, nei pressi di Ain el-Gazala. Così ricorda quel giorno il Volontario Pagin: "Ci si arrestò ai margini dell’estremo lembo nord occidentale del tavolato marmarico. Dal deserto soffiava un vento gelido. Indossammo le divise di panno grigio-verde, dopodiché venimmo disseminati lungo un sistema di fortini e trincee appena abbozzato. Si sarebbe dovuto scavare, specie per approfondire le seconde, ma non si trovavano i picconi. Sicché rimanemmo lì, per ore, inoperosi, a farci schiaffeggiare dalle folate di sabbia. I picconi arrivarono ma nessuno ci ordinò di usarli. Eccitatissimi ascoltavamo il rombo del cannone che giungeva da Tobruk. La guerra, quella vera, stava laggiù. E la desideravamo come il pane e l’acqua. Eravamo mendicanti di gloria" (36). Il cannone tuonava, ma il cuore era in tumulto, più forte del primo.

La battaglia

Lunedì" 1° dicembre 1941. Il Gen. Gioda consegna all’euforico Magg. Balisti l’ordine di dirigersi a Tobruk, per mettersi a disposizione del XXI Corpo d’Armata. "Impaziente e incredulo Balisti strappò di mano il messaggio al vecchio generale e ora andava divorando il contenuto. Che forse questa è davvero la volta buona commentò, e corse via a perdifiato, quasi temesse di ricevere il contrordine. Saltò sulla carretta SPA con l’abilità di un giovincello e, raggiunti i capisaldi, ordinò al trombettiere di chiamargli gli ufficiali a rapporto.

Si va a combattere, esordì" con voce squillante; era euforico. Persuadete i ragazzi che si fa sul serio: la Patria ha bisogno di vittorie. Il trasferimento sarebbe stato effettuato su cinque autocarri, che i volontari vi prendessero posto con armi e bagagli. Egli avrebbe raggiunto immediatamente il quartier generale del XXI corpo d’armata per conoscere la precisa destinazione al fronte. Perché il XXI corpo d’armata?. Sono gli ordini" (37). Si va. Ma nel pomeriggio, appena il Maggiore si distacca dal Btg., lontano, in cerca del C.do del XXI C. d’Arm., un ennesimo contrordine dello stesso alto ufficiale perentoriamente descrive la nuova consegna, date le evoluzioni tattiche delle ultime ore: "Devesi – dice il messaggio – necessariamente e con prudenza presidiare Bir el-Gobi, località isolata a sud dello schieramento italo-tedesco. Zona particolarmente delicata, che potrebbe diventare calda, rovente. I volontari cessano contemporaneamente di dipendere dal Reco e si costituiscono in due capisaldi nella zona di Bir el-Gobi. Il compito è arduo, i volontari sono al primo combattimento, sono giovani, lo so, ma la fiducia in loro è piena. Il colonnello di stato maggiore Scaglia fornirà i dettagli. Il I Battaglione raggiungerà la zona accompagnato da un ufficiale dello stato maggiore del mio comando" (38). E Balisti? Appena giunto al C.do del XXI C. d’Arm. un’ennesima direttiva lo informa della nuova destinazione dei suoi GG.FF.: Bir el-Gobi. Strada sprecata. Ma che fare? Nuovamente in marcia, verso i propri soldati, incontro al nemico e alla battaglia.

All’alba del 2 dicembre il Capitano Cielo conduce personalmente il Magg. Balisti dai suoi. Incontrati questi ultimi per caso lungo la strada, non rimane dunque che la consegna: il I Btg. GG.FF. deve presidiare l’area di Bir el-Gobi. Ma anche questo ufficiale non può fare a meno di strabuzzare gli occhi alla vista dell’età media dei giovani dinanzi a sé, e dice: "Ma sono tutti ragazzini Mai stati in linea!". é il solito ritornello, ma ormai i Volontari hanno fatto l’abitudine a certe manifestazioni di meraviglia. Quello che conta è la fiducia di Balisti e di tutti i loro ufficiali. Il resto non è rilevante.

Grande è lo stupore del I Btg. appena giunti sul posto da difendere. Deserto, nient’altro che deserto. Ecco cos’è la località di Bir el-Gobi, col caldo afoso, il Ghibli, le mosche e sabbia, tanta sabbia. Questo è lo snodo strategico da tenere ad ogni costo. Alcuni soldati della Ariete, reduci dagli scontri di novembre, si trovano ancora fra le poche postazioni esistenti e un piccolo ospedale da campo, a poca distanza dal caposaldo, che ricorda chiaramente l’effettivo pericolo. Ad ogni modo, ai ragazzi non resta che scendere dai mezzi e trasformare quella landa desertica in un munito caposaldo militare.

I Volontari iniziano così a predisporre quanto necessario; ma le operazioni sono accompagnate dalle domande di rito dei soldati dell’Ariete, che si rivolgono loro col solito tono diffidente. Al di là dell’età media dei GG.FF., che stupiva un po’ tutti, è necessario ricordare che il soldato di leva non ha mai visto di buon grado chi volontariamente va incontro alla guerra. é altrettanto chiaro, però, che non tutti hanno le stesse idealità e prospettive della vita. Se il quieto vivere per tante persone è il massimo delle aspirazioni, la panacea delle loro piccole nevrosi personali, se il placido lasciarsi vivere, sani e belli, è la comoda regola della loro condotta, è pur necessario ammettere che c’è pure chi, curando un’idea forte, nei momenti cupi, quando le nuvole s’addensano presagendo burrasca, non fugge ma affronta il pericolo. Per un ideale in cui si crede profondamente si può decidere di rischiare tutto. Oggi ci può sembrare quasi superato, ma queste righe non pretendono di rivolgersi a chiunque.

Balisti ordina di appostarsi a forma di stella d’Italia, ma il risultato è una sorta di cerchio imperfetto. L’importante è, ad ogni modo, coprire tutti gli angoli del caposaldo e garantire un ottimo tiro d’artiglieria da ogni punto del campo contro chiunque o qualsiasi cosa osi avvicinarsi con intenzioni ostili a Bir el-Gobi. Di l" non si deve passare.

Mentre fervono i lavori di rafforzamento del campo, del tutto inaspettatamente arriva sul posto il Col. Tanucci con il C.do di Gruppo e l’intero II Btg. Senza perdere tempo il Colonnello assume il comando diretto dei due Btg. e predispone quanto segue: 1) il II Btg. si posizioni su due caposaldi a Quota 184 e Quota 188, a lato della pista el-Adem – Bir el-Gobi, a circa quattro miglia a nord-ovest della postazione del I Btg.; 2) il I Btg. rimanga sul posto, a Q. 174; 3) riordinare le postazioni e le buche di difesa in modo che vi sia più distanza fra l’una e l’altra, così da poter coprire col proprio tiro più metri quadrati possibili. Quest’ultimo ordine vede contrario il Magg. Balisti, il quale fa notare al suo diretto superiore che per riordinare le buche occorre, però, riuscire allo scoperto pericolosamente. Tanucci non cambia idea, ma l’obiezione di Balisti si dimostrerà assai saggia.

Ma cosa accade nell’intera zona marmarica? Da due settimane Inglesi e Italo-tedeschi si danno aspra battaglia intorno a Tobruk. Rommel attacca, ma in quell’occasione la "Volpe del deserto" ha un’errata visione d’insieme dell’andamento della battaglia. Gambara fa notare all’alto ufficiale tedesco che la zona a più alto rischio, alla sera del 2 dicembre, è proprio la linea Bir el-Gobi – Gabr Saleh. Il pericolo, come poi effettivamente risulterà, viene da sud; un punto dello scacchiere marmarico che se sfondato potrebbe mettere in scacco tutte le operazioni italo-tedesche in zona nord-ovest direzione est. te ufficiale riprende il deserto verso nord. I GG.FF. vigilano.

La sete e il caldo si fanno sentire. é dicembre, ma il deserto pare non se ne avveda. Tutti i Volontari sono nelle buche, qualcuno è ancora intento a scavare nel durissimo suolo calcareo per trovare una posizione che gli consenta di colpire senza esporsi troppo. Tutto nuoce e rende quel posto monotono e sfibrante, il sudore, il caldo e le bibliche mosche nordafricane che non danno mai tregua. Ma c’è pure chi, sforzandosi, trova il modo di scherzare. L’età fa sentire l’irrefrenabile desiderio di ilarità fra i giovani, e forse tutto ciò non è male. Di lì a poco, infatti, molti di loro non potranno più spalancare al mondo le loro bianche dentature, non potranno più squarciare con chiassose risate o sonore scazzottate fra commilitoni il silenzio sinistro del deserto, non potranno più amare e chiuderanno per sempre i loro occhi pieni di sogni rilucenti di futuro. Fra poco si scatenerà l’inferno!

Ore 12. Una tempesta di colpi d’artiglieria nemica s’abbatte sul caposaldo. Le bombe piovono come a dirotto. Le forti esplosioni in un primo momento fanno sbigottire i giovani soldati. Ecco la guerra che tanto cercavano. I tragici scenari iniziano a profilarsi fra le schiere degli assediati. Primo fra i caduti il Volontario istriano Pribaz, cui salta letteralmente in aria la testa, colpito in pieno da una grossa scheggia di granata. La tristezza s’impadronisce dei camerati vicini, ma non c’è tempo per troppe cerimonie funebri. Lo sgomento è cacciato via, aumenta la concentrazione: ne va della vita. "Tutti ai posti di combattimento! - gridano gli ufficiali – Pronti a respingere l’attacco!". Si spara come dannati, ma le loro bordate ci sovrastano in potenza. Ben 32 minuti di proiettili di grosso calibro s’abbattono sui GG.FF., e fra primi feriti gravi c’è anche il valoroso Magg. Balisti, che affida il suo Btg. al Capitano Tarantelli. Trasportato all’ospedale da campo, date le serie ferite, dovranno poi amputargli una gamba. Grosso colpo per il morale dei ragazzi rimasti comunque al loro posto. Ma, seppur tristi per i commilitoni feriti o già morti, adesso ciò che più inquieta gli Italiani e l’assenza della fanteria avversaria. Che aspettano?

Tanucci chiama subito a rapporto i suoi ufficiali e ordina di prepararsi all’onda d’urto delle fanterie che di lì a poco sarebbero piombate sulle linee di difesa. In effetti, come ammise il C.te., Balisti aveva ragione; il risistemare le buche avrebbe significato esporsi al nemico in caso di attacco. Ma la razionalizzazione delle difese era pur necessaria, soprattutto in vista di un attacco frontale come questo. Indi, il Colonnello premurosamente informa il C.do del C.A.M. sui fatti in corso. Il Gen. Gambara risponde: "Agganciate il nemico, resistete e caso mai ripiegate". Compito assai arduo in realtà. Tanto più che contro i circa 1.500 Volontari vi è uno schieramento davvero ragguardevole, composto da numerosi elementi del 21° South African Field Battery, 2 Squadroni autoblindo delle King’s Dragon Guards e il 1° South African Anti-Tank Regiment. Una forza di tutto rispetto.

Gli Inglesi, in seguito ad una perlustrazione svoltasi nella stessa mattina(39), credono di imbattersi in un caposaldo assai poco munito. Al massimo pensano d’incontrare solo poche unità in movimento verso nord-ovest. Ma nei fatti non è questa l’effettiva situazione.

Allo zittirsi dei cannoni britannici, tutti i Volontari si chiamano per nome vicendevolmente, per accertarsi dei camerati ancora vivi. Le voci di tutti si rincorrono fra le buche, ma è chiaro che il peggio deve ancora venire. La tensione è altissima. Fra i tanti uno dei ragazzi, in un momento di perplessità, chiede ad un ufficiale il perché della loro presenza in Libia. Quesito tanto semplice quanto legittimo. "La Libia – disse il Ten. Ferrari – si affaccia sul Mediterraneo, questo mare è il cordone ombelicale attraverso cui gli inglesi succhiano il petrolio dei giacimenti del vicino Oriente e ricevono le restanti materie prime dall’Asia e dall’Australia, senza contare il materiale umano, i soldati. Il possesso dell’Africa del Nord consentirebbe loro di proteggere questa arteria vitale e di portare, nel contempo, la guerra in Italia. Da parte nostra, cercando di spingerci fino a Suez intendiamo recidere, appunto, questa via di rifornimento e impedire agli inglesi di servirsi del Nord Africa come di un trampolino sull’Europa. Chiaro?"(40). Chiarissimo. Evidentemente il giovane ufficiale aveva ben appreso il respiro a lunga scadenza dei piani strategici italiani, anche dal punto di vista politico. Lo stesso Mussolini, infatti, qualche giorno più tardi dirà al direttorio del Partito: "Per me è sempre stato più importante occupare l’Egitto che occupare l’Inghilterra. Quando si è occupata l’Inghilterra non si è risolto il problema. Ma quando si fosse occupata quella cerniera di tre continenti che è l’Egitto, scendendo verso il mare Indiano e prendendo contatti con i Giapponesi, noi avremo spezzato la spina dorsale dell’imperialismo britannico"(41).

Gli Inglesi, nel frattempo, si apprestano a muoversi. I comandi britannici dispongono che, prima di poter spostare l’intero XXX Corps britannico, il Generale Brigadiere Anderson vada all’assalto della postazione italiana di Bir el-Gobi muovendo da Bir el-Duedar, diciotto chilometri a sud-est. Per questa avanzata il Brigadiere inglese, al diretto comando della 11" Indian Brigade, ha a disposizione tre Battaglioni, fra cui il 2° Mahratta (fanteria leggera indiana), il 1° Rajputana Rifles (fucilieri indiani) e il 2° Cameron (scozzesi), più gli artiglieri del 7° Medium Regiment Artillery (batterie di cannoni da campagna) e uno squadrone di carri armati dell’8° Royal Tanks. Anche un’altra grossa unità corazzata britannica, posta fra Bir el-Gobi e Hagfet Guetnat, la 4°" Armoured Brigade, garantisce sicuro appoggio all’avanzata della 11°" Indian Brigade. Ed ancora, in zona è operante anche il 7° Suppot Group e la 1°" South African fra Bir el-Gobi, el-Adem e Acroma. La 22°" Guards Brigade rimane cautamente di riserva nella zona di el-Duedar. Un Corpo d’Armata a tutti gli effetti, ben armato, corazzato e rifornito contro poco più di millecinquecento giovani diciottenni! "A Bir el-Gobi gli Italiani non sono in grado di opporre eccessiva resistenza", si dice fra gli Inglesi prima dell’attacco. Avranno modo di ricredersi, amaramente. Ma intanto avanzano.

Nella notte sul 4 quasi nessuno dei Volontari riesce a dormire. L’attesa e la preoccupazione serpeggia fra le buche; ma il logorante "lusso" di pensare il peggio dura assai poco. Uno sferragliare di cingoli ed un rumore di motori di carri a basso regime fa intuire cosa sta per accadere. Arrivano! "Porco mondo – scrive Pagin – c’era di che rimanere senza fiato! Mi stropicciai gli occhi e adesso li sgranavo, impietrito, la bocca spalancata, stentando a credere quanto vedevo. Erano tutti lì che manovravano attorno al caposaldo in un polveroso e rombante carosello: carri armati, autoblindo, carriers, cannoni, autocarri e camionette!"(42). Il nemico prende posizione, non senza aver prima accerchiato e preso l’ospedale da campo n. 45, catturato i nostri mezzi, fatti prigionieri autieri, cucinieri e magazzinieri(43). Ora non si attende altro che l’attacco abbia luogo. "ciò che più ci colpiva – ricorda Calvaruso – era l’assurda spavalderia che mettevano in mostra le fanterie britanniche avanzanti. Sembrava quasi che andassero a farsi una passeggiata. Come se nulla si apprestasse a compiersi, come se noi non fossimo lì, pronti a tutto. Questo aumentava in noi l’avversione per un simile nemico. Non avemmo scrupoli nel difenderci spazzando con le nostre mitragliatrici decine di quegli spocchiosi che ci venivano incontro, alcuni ridendo!".

Quel poderoso schieramento di forze che stava assediando il caposaldo dimostrava quanto importante fosse il possesso di quel punto per entrambi gli schieramenti. I ragazzi di Bir el-Gobi si trovano, insomma, nel bel mezzo di una grande operazione militare nemica. Il loro Comandante cerca di rincuorare tutti, dicendo che la loro posizione è nota ai comandi superiori e che non resteranno senza rinforzi a lungo. Ma le cose non stanno proprio così. Solo il Gen. Gambara, e non l’intera formazione italo-tedesca, sa che i GG.FF. si trovano là. Lo stesso Rommel aveva detto di ritirarli. Ma quella mezza bugia aveva l’ovvio scopo di far sembrare meno cupa la situazione.

Il Brigadiere Anderson, a questo punto, sin d’alba di giovedì" 4, scruta attentamente le postazioni nemiche che ha di fronte, che adesso non sembrano affatto indifese. Dopo accurata perlustrazione, quindi, compiuta anche con mezzi aerei, l’alto ufficiale britannico chiede all’uopo altri rinforzi per l’assalto risolutore. Ma gli vengono negati. "Troppi – gli rispondono - per una semplice operazione di pulizia". Al che Anderson emana gli ordini del giorno: 1) 13 carri Valentine affiancati dai fanti Maharattas muovano all’attacco di Q.182(44); 2) 3 Valentine, qualche Matilda e Crusader si dirigano contro Q.174(45). "Sarà sufficiente – si confortano gli Inglesi fra loro – una salva d’artiglieria per farli sloggiare da lì"(46). Erano convinti che tutto si sarebbe risolto in una scaramuccia e che gli Italiani, circondati, senza rifornimenti e collegamenti, si sarebbero arresi ai primi colpi. Invece.

Finita la "pulizia", secondo i progetti nemici, l’8" Armata avrebbe avuto così via libera per penetrare su el-Adem e poi puntare sulla costa libica per tagliare in due il grosso delle truppe dell’Asse. Ma la loro smania da faccende domestiche, come se ogni angolo di mondo fosse loro, come se stessero spazzando le vie di Londra da esseri intrusi, verrà umiliata da chi li sovrasterà in resistenza, magnificamente!

Sono le 7 del mattino. Inizia il tiro d’artiglieria inglese. Al segnale del loro comandante, compatte, le prime formazioni d’assalto nemiche, costituite soprattutto dai Camerons, si gettano contro le postazioni del I Btg GG.FF. Lo scenario è terrificante per chi si trova nelle buche più avanzate: carri armati, autoblindo e migliaia di fanti che si spingono sulle loro postazioni. Ma gli ufficiali italiani ordinano a tutti di non aprire il fuoco fino a quando sia i mezzi che i fanti non siano facile bersaglio. A 400 metri di distanza un grido secco ordina: "Fuoco!". Come all’unisono tutte le nostre forze si riversano sugli avanzanti. Ogni buca si produce in un fitto fuoco di sbarramento che falcia tanti Scozzesi e i nostri cannoni anticarro 47/32 fanno di tutto per perforare le spesse corazze dei carri nemici, mirando soprattutto ai loro punti più deboli. Gli attacchi si susseguono a ondate sempre più massicce, ma i GG.FF. tengono duro. "Venivano avanti – dice Calvaruso – come invasati. Senza tanto preoccuparsi che erano esposti al nostro tiro come facili bersagli al poligono di tiro. E noi lì a resistere contro quelle folte schiere con ogni mezzo. Una delle scene che in quei momenti mi colpì fu vedere un commilitone della nostra buca folgorato da una pallottola, trapassato da tempia a tempia, immobile nel gesto di puntare col proprio moschetto. Un lungo fiotto di sangue, attraversato il viso e il corpo tutto, irrorò la postazione. Lo guardai attonito per un attimo, ripensando alle nostre lunghe chiacchierate e alle libere uscite a cercare la compagnia di graziose ragazze, ma poi mi rimisi prontamente a sparare. La tristezza del momento lasciò poi lo spazio alla foga bellica. Ne feci cadere parecchi di quelli O loro o noi!". Ogni tanto un tiro di carro armato centra in pieno le nostre postazioni e i corpi dei ragazzi preposti a difesa vengono lanciati a brandelli per aria. Scene raccapriccianti, scene di guerra.

Anche il II Btg. GG.FF., a circa 9 Km più a nord, al comando del Magg. Benedetti, subisce l’attacco nemico in forze sia a Q.188 (difesa dalla 4°" compagnia) sia a Q.184 (difesa dalla 5°" e 6°" compagnia). Gli muovono incontro diversi carri armati Valentine e numerosissime schiere di fanti Indiani. Anche qui lo scontro è durissimo e molti dei Giovani Fascisti mostrano una temerarietà davvero leonina. Gli atti d’eroismo si sprecano. "Tra gli episodi poi lungamente rievocati – scrive Pagin - emergerà il duello fra i 47/32 diretto da Marzetto Giovannetti e un Valentine ch’era partito lanciatissimo contro la postazione, per fermarsi poi di botto a quindici metri dalla piazzola. A questo punto, il cannone del carro e l’elefantino cominciarono a scambiarsi una lunga serie di colpi sparati praticamente a zero. Nel breve spazio che li separava, tre cacciatori erano rimasti intrappolati nella buca che minacciava di franare sotto il peso del massiccio scafo del Valentine. Uno di loro, il caporale Walter Benecchi, a causa del frastornante fuoco serrato che si faceva d’ambo le parti, n’era uscito con un timpano rotto sicché, non potendone più, brandì" una bomba e si lanciò fuori dalla buca, col proposito di cacciarla nella bocca del cannone del carro. Ma gli altri due, lesti, lo avevano già afferrato per i piedi e trascinato in buca. Sei mica matto?. Non è da matti restare qui dentro? Replicò Benecchi. Nel frattempo, l’elefantino era riuscito a piazzare un colpo fortunato tra gli elementi di un cingolo del Valentine, il cui equipaggio ritenne giunto il momento di sgattaiolare fuori dal cassone, per darsela a gambe"(47).

Il primo affondo, sul versante del I Btg., viene respinto. Il nemico indietreggia duramente provato. Ma il caposaldo di Q.174, così come le postazioni del II Btg., è del tutto accerchiato I Britannici hanno stretto in una morsa d’acciaio l’intera zona di Bir el-Gobi. A tale scenario si aggiunga poi la gravissima situazione di munizioni ed acqua. Servono rinforzi al più presto, prima che il caposaldo dia segni di cedimento. Il Ten. Fazi vuole fare qualcosa e tenta coraggiosamente di andare a cercare aiuto, visto che le radio ormai tacciono.

Un nuovo, aspro attacco viene portato alle posizioni di Q.184. Ma anche questo, dopo accanita resistenza, viene rigettato sistematicamente. Gli Inglesi ora cominciano a ricredersi sulla facilità con cui avrebbero dovuto spazzare via le nostre difese in loco.

Durante la spericolata corsa il Ten. Fazi, accompagnato dal Vol. Claudio Salvini, per strada, s’imbatte in tre carri armati italiani con relativi equipaggi. L’ufficiale ordina al Giovane fascista di condurre i carristi verso Bir el-Gobi e decide di proseguire da solo nella ricerca di altri rinforzi.

Appena giunti nei pressi di Q.184, i tre carri di rinforzo si inseriscono nella battaglia che infuria, facendo quanto possibile per contrastare i loro ben più possenti mezzi corazzati. Due dei nostri vengono presto posti fuori combattimento, mentre il terzo cerca ancora di combattere pur con l’equipaggio ferito. D’impeto, allora, i GG.FF. La Bella e Luzzetti, senza aver mai pilotato prima un carro armato, escono dalle loro buche, si gettano nell’inferno di proiettili, prendono possesso del mezzo corazzato ed ingaggiano un violento e ravvicinato scontro con i Valentine.

Anderson, dal suo binocolo, sbigottisce nell’osservare le evoluzioni della battaglia e si rende conto della tempra dei GG.FF. Decide perciò che per il terzo attacco occorrono più carri. Ma il registro non muta. Le perdite inglesi aumentano ad ogni assalto. Lo stato psicologico dei diciottenni con le stellette oscilla dal realistico timore d’essere sopraffatti all’eccitazione più galvanizzante per i successi già ottenuti. Sangue e sudore rendono granitico lo spirito cameratesco.

Alle 11 vige un po’ di pausa. Ma pochi minuti non fanno una vera tregua. Ricomincia il martellamento d’artiglieria inglese. Macabra musica monostrumentale, devastante come l’uragano che tutto avvolge e scompagina. Le fanterie, però, questa volta non avanzano. é l’ora del rancio, per loro.

Cinque minuti dopo le 14 le bocche da fuoco britanniche ricominciano ad inondare le postazioni italiane."Fu come assistere – dice Calvaruso – all’ira di Dio! Innumerevoli proiettili ci piombavano addosso devastando tutto. Sabbia e fumo si disperdevano nell’aria afosa, e tenere gli occhi ben aperti diventava un’impresa. Tutto questo sotto il sole della Marmarica!". Al tacere dei cannoni, secondo i classici schemi, le fanterie vengono fuori all’attacco per l’ennesima volta. E per l’ennesima volta sono decimate. Morti e feriti ormai non si contano più, soprattutto fra le loro fila. "La visione del terreno – scrive Mugnone – era impressionante: giovani maciullati in raccapriccianti posizioni e armi schiacciate" (48). Molti Volontari, nei rari momenti di calma apparente, cercano i propri commilitoni feriti. Ma il prestare aiuto è cosa assai difficile in simili circostanze. Seppur straziati dai lamenti dei camerati colpiti, pochi possono uscire dalle buche per dare soccorso. Non raramente il dolce suono della parola "mamma" (49), come un’invocazione che tutto sana, che attenua le lacrime e il dolore, pare sopisca persino le ferite più terribili; essa sgorga fra le labbra dei laceri doloranti donando per un attimo un certo sollievo; pronunziare quella parola riporta alla mente forti sensazioni d’umanità, di quando, piccini, nulla con lei accanto pareva impossibile. Tempi d’oro, tempi di non lontana infanzia.

In serata, verso le 20, l’eccessiva pressione su Q.188 sortisce i suoi effetti. Dopo essersi battuti fieramente con ogni mezzo, anche all’arma bianca, il rimanente della 4°" compagnia del II Btg. GG.FF. è costretto ad abbandonare la postazione, ripiegando su Q.184.

Giunti a quell’ora il Gen. Norrie, C.te del XXX Corps britannico, ormai spazientito, vuole sapere l’esatta situazione delle vicende in corso a Bir el-Gobi. "Resistenza accanita", questo è il rapporto dei subalterni; unica conquista il caposaldo di Q.188 da parte dei Maharattas.

All’imbrunire nuovo fitto cannoneggiamento. Il turbine nemico non dà alcun segno di placarsi. La posta in palio è molto alta. E la lotta si fa talmente dura che anche i Volontari della compagnia Comando, riposte le carte da fureria, imbracciano i fucili e impugnano le bombe. Tutti in prima linea.

Nessun contatto radio con il Recam né col C.A.M. riesce purtroppo a realizzarsi. Si è del tutto isolati, circondati da un intero Corpo d’Armata nemico. Senza viveri, né acqua e poche munizioni anticarro. Persino i contatti fra i due Battaglioni GG.FF. non sono assicurati. Solo in lontananza si intravedono dei bagliori, ma nulla più. Unica scelta: difendersi ad oltranza sul posto. Una simile circostanza avrebbe scoraggiato ben più esperti soldati di più campagne, ma questi giovani fanti al loro battesimo del fuoco sono, nonostante tutto, convinti e saldi su di un punto: nessuna resa. Ricorda uno di loro: "La possibilità di una resa non era stata neppure presa in considerazione " (50). Ciò che tra l’altro rende il nemico ancor più detestabile è il fatto che hanno di che mangiare, mentre i GG.FF. sono presto costretti persino a bere la propria urina (!). Loro al bivacco, durante le soste, come ad una scampagnata e noi a sorvegliare, affamati, assetati e isolati.

Quando la luna giganteggia fra le stelle nell’oscurità della notte, divenendo l’unica cosa bella da guardare serenamente, fissa e pallida sulle loro teste, tutto ripiomba in una falsa quiete.

Quella stessa notte il Ten. Ferri, dopo essere stato preso dagli Inglesi, riesce a sfuggire insieme a don Sbaizero (il cappellano dei GG.FF.) ai suoi carcerieri ed a raggiungere il caposaldo con poco più che mezzo litro d’acqua e qualche galletta. Data l’estrema esiguità del prezioso liquido, si decide unanimemente di far sorseggiare qualche ferito. Ma Balisti, che fine ha fatto? Prigioniero insieme con altri feriti ha osservato, pur dolorante ma con fierezza, l’evoluzione dello scontro da una barella. Gran valoroso quell’ufficiale. I GG.FF. ne serberanno per sempre uno splendido ricordo.

I crampi allo stomaco e la sete sono fortissimi. La situazione è molto pesante, ma nessuno trova il tempo per penarci troppo. La notte scorre insonne per quasi tutti, e i turni di guardia non sono rispettati nel loro corretto cadenzarsi. Del resto, come chiudere occhio? I carri nemici muovono attorno alle postazioni e il tiro solitario di alcuni cecchini rende tesissima l’aria notturna. In più, già da ore non ci sono più contatti con i nostri Comandi. Solo dopo, il C.do italiano in Marmarica riesce ad intercettare una comunicazione, indirettamente quanto mai lusinghiera per i GG.FF., tenutasi fra le truppe britanniche che così cercano di spiegare ai loro superiori come mai ancora non si avanzi di un metro a Bir el-Gobi: "Il presidio di Bir el-Gobi resiste ancora accanitamente. Nemici indemoniati, attacchiamo senza risultato. Perdite nostre gravi" (51). "Indemoniati", la parola esatta.

Lo stupore di Gambara e Bastico è grande. Com’è possibile, si chiedono, che l’intero XXX Corps britannico è inchiodato a Bir el-Gobi da quelle "quattro brutte facce"? Anche Rommel resta di stucco alla notizia giunta nel pomeriggio. Non c’è tempo da perdere, l’alto ufficiale germanico interrompe l’avanzata ad est e, afferrando solo adesso l’effettivo pericolo in corso, ripiega celermente con diverse unità in direzione di Bir el-Gobi. Questi gli ordini diramati: 1) trasferire subito l’Ariete e la Trieste a Hag fet el-Gueitinat, a 7 Km nord ovest di Bir el-Gobi; 2) la 15°" e la 21°" Panzer si mettano in marcia e si posizionino a 7 Km nord-est di Bir el-Gobi. Quello che Rommel cerca, adesso, al di là dei rinforzi al caposaldo, è lo scontro diretto col XXX Corps di Norrie.

Il Brigadiere Anderson, pur soddisfatto per l’avvenuta espugnazione di Q.188, non può fare a meno di costatare che tutto, invece, pare vano contro Q. 174. La battaglia continua. La partita è troppo importante perché gli Inglesi demordano. Occorre insistere.

Le ore della notte intanto scorrono, ma molti si mostrano particolarmente preoccupati per lo scenario che si va profilando dopo due giorni di aspro combattimento. Alcuni Bersaglieri sono talmente provati che, rivolgendosi agli ufficiali dei GG.FF., domandano se non sia più saggio mollare. La risposta è assolutamente negativa. Di colpo, quei fanti piumati, esperti e più anziani, cedono, mostrando una vena di pur umana paura ma che li tramuta, agli occhi dei GG.FF., da simboli a fiacchi rinunciatari. Qui nessuno ritorna indietro, pensano i ragazzi.

é l’alba di venerdì 5 dicembre. Uno dei Volontari, vedendo venire avanti nuovamente i Britannici, in preda ad uno scatto d’ira, emulando il ragazzo di Portoria(52), scaglia un sasso contro il nemico. Riconoscendo in quel lancio un nobile gesto di disprezzo per chi soverchiante solo nel numero avanza coperto dai carri armati, quasi a compiere un atto liberatorio e provocatorio al contempo, decine di altri GG.FF. escono dalle buche tirando anche loro innumerevoli sassi in preda a slanci irrefrenabili(53).

Per trequarti d’ora è il solito violentissimo tiro d’artiglieria. I carri avanzano e l’assedio riprende corpo. Fra le unità avversarie si distinguono i Rajputanas, mentre i Camerons e i Maharattas, pur validi, mostrano palesemente d’aver appreso dai precedenti attacchi la reale fibra dei GG.FF. L’avanzata è posta comunque in atto in massa. I nemici sono decisi a tutto.

Nel trambusto della battaglia una tromba squilla fortissima dando l’allarme generale, richiamando l’attenzione di tutti i Volontari: tre carri Valentine e un Crusader sono penetrati, da sinistra, per la prima volta all’interno di Q.174. Molti, a quel punto, accerchiati e col caposaldo espugnato, avrebbero ipotizzato la resa, ma non loro. I giovani italiani, invece, puntano prontamente con tutte le loro armi i carri nemici e li inondano di ogni proiettile. Un fuoco incrociato così veemente che i corazzati nemici sono costretti a fuggire. Uno dei Valentine è così inchiodato e i suoi uomini catturati(54). La lotta continua furibonda. Poi, una breve pausa. Ma mentre gli assalitori si riorganizzano velocemente e trovano anche il tempo di rifocillarsi alla meglio, la fame, la sete e l’insonnia di tre giorni minano seriamente le residue energie vitali dei nostri.

Alle 12 ricomincia la battaglia. Per due ore di fila, artiglieria ed aviazione britannica, colpiscono le sabbiose postazioni di difesa. Dopo la devastazione, ecco le fanterie ritornare cocciutamente avanti con le armi spianate. Scontri a fuoco su tutta la linea si susseguono con violenza, e nel trambusto generale altri cinque carri armati riescono nuovamente ad entrare nel caposaldo. Ma vengono fatti oggetto dei tiri dei nostri 47/32 e dei fuciloni Soluthurn. Gli atti d’eroismo si susseguono ormai senza freno. Svariati cacciatori, impugnate le bombe Passaglia, sbucano dai ripari fronteggiando gli enormi mostri d’acciaio. Fra loro uno s’immola meritandosi alla memoria la medaglia d’oro al valor militare, il caporalmaggiore Ippolito Niccolini. La motivazione ufficiale così recita: "Nonostante che il Valentine aveva tutta l’intenzione di piombargli addosso, egli si scostò da un lato e, impugnata la pistola, esplose alcuni colpi all’interno del carro attraverso una feritoia frontale. Raggiunto al petto da un proiettile di mitragliatrice, Niccolini sussultò ma fece in tempo a sorreggersi afferrando l’antenna radio del Valentine con ambedue le mani, quindi saltò nella buca delle munizioni per agguantare una Passaglia. Levò una mano e la scagliò. La pesante pera volteggiò oltre la torretta andando a scivolare sulla piastra posteriore del carro armato, senza esplodere. Il caporalmaggiore ne lanciò una seconda. Anche questa rimase muta. Allora brandì" ancora una volta la pistola, uscì allo scoperto e, in un estremo anelito di impotente furore, scaricò gli ultimi innocui colpi all’indirizzo del Valentine. La mitragliatrice del carro crepitò una raffica su Ippolito Niccolini, freddandolo"(55).

La battaglia sta ormai perdendo l’aspetto di uno scontro leale per assumere sempre più la fisionomia di una strage, ferocissima. L’acuirsi della lotta, la paura di restare schiacciati fra i cingoli nemici o dilaniati da qualche colpo di cannone, induce molti Volontari rimasti disarmati e disperati ad imitare Niccolini con cieca passione. Il delirio bellico li spinge ormai ad andare incontro al nemico anche con badili e picconi, con ogni cosa possa essere contundente. "Eroi? Pazzi? Forse pazzi, si, ma comunque degni della miglior causa"(56). Ad onor del vero bisogna ricordare che anche i Camerons ed altri reparti nemici venivano fieramente all’assalto. Anche se, però, occorre aggiungere, molti Volontari poi diranno del cattivo odore di whisky che esalava dai corpi dei caduti britannici. "Quando venivano all’attacco – ricorda Calvaruso – spesso molti di loro parevano ubriachi. Non usavano accortezze nel venirci addosso alla baionetta negli ultimi metri. A frotte si gettavano nella mischia, pensando di intimorirci con le loro urla. Inutile. Ma quella nostra impressione che gli Scozzesi e gli Indiani ci venissero incontro un po’ alticci si rafforzò quando un forte odore di alcol si levò fra i cadaveri nemici rimasti sul campo. Del resto è comprensibile, pur essendo nettamente superiori sul piano numerico e ben dotati di mezzi corazzati d’appoggio, dopo i primi assalti, avevano compreso con chi avevano a che fare: non soldati di leva fiacchi e demotivati, ma diciottenni volontari con tanta voglia di vivere e con una sola idea in testa per cui sacrificarsi, l’onore della Patria".

Nonostante la battaglia abbia raggiunto il suo massimo di violenza fra le 14 e le 14.30, il caposaldo tiene ancora. E tanti sono coloro che indomiti si espongono senza freno a difendere il presidio. Fra loro anche Calvaruso, che nell’atto di difendere la sua postazione è gravemente ferito. "Al mitragliere palermitano Antonio Calvaruso s’era inceppata l’arma di fronte alle fanterie avanzanti. Egli sbloccò la Breda e riprese a sparare. La mitragliatrice s’inceppò nuovamente e lui daccapo a rimetterla in sesto, in tutta tranquillità, come si fosse trovato in un poligono. Raggiunto da una raffica, ebbe un sussulto, emise un gemito soffocato, un fiotto di sangue gli sgorgò dalla gola squarciata; infine cadde bocconi sull’arma, ancora una volta bloccata. Si raddrizzò, grondante come un salasso, e tornò ad armeggiare affannosamente sulla mitragliatrice finché non fu in grado di consegnarla in perfetta efficienza al volontario venuto a sostituirlo. Soltanto allora si permise il lusso di perdere conoscenza"(57). Questo fatto d’arme gli è valsa la citazione in svariati testi sulla battaglia e la medaglia d’argento al valore militare sul campo.

La situazione fra le fila del I Btg. alle 15 del 5 dicembre è davvero critica: più di 40 morti, innumerevoli feriti, cibo e acqua ormai finiti da due giorni, munizioni assai scarse.

Alle 17 il fuoco nemico si concentra a nord-est ed a nord-ovest del nostro caposaldo. Cosa accade? Uno scontro fra mezzi pesanti è in corso. All’orizzonte, infatti, c’è un fitto polverone di sabbia e fumo di colpi di grosso calibro che lascia intuire un gran movimento di truppe e mezzi. Di chi si tratta? Rinforzi nostri o cos’altro? Sono i Panzer tedeschi della 15°" e 21°" Divisione corazzata del D.A.K., che hanno già ricacciato via i Maharattas da Q.188 e che si stanno dirigendo presso Bir el-Gobi per riunirsi alle nostre Divisioni Ariete e Trieste, che però mancano. Gli scontri fra carri armati sono intensi e durano fino a tarda serata. A questo punto la situazione per gli Inglesi appare abbastanza grave, i loro piani sono messi in serio pericolo: "Se occorre, gettare nella mischia altri reparti".

Giunge il buio. Durante la notte il Col. Tanucci decide di ispezionare le trincee dei suoi ragazzi, anche per saggiarne il morale dopo prove così cruenti e le forti privazioni di quei giorni. Ma una bomba esplode proprio vicino al Comandante, lacerandogli gravemente il bassoventre. Stramazzato al suolo, viene prontamente soccorso dal già più volte ferito Ten. medico Vablais. Il C.do del Gruppo Btg. GG.FF., quindi, passa al Ten. Mario Niccolini, fratello del caduto Ippolito, mentre il Cap. Tarantelli assume la responsabilità del caposaldo.

Anche Q.184 tiene duro.

Dopo tanto errare il Ten. Fazi, andato a cercare rinforzi, s’è imbattuto in un avamposto della Div. Pavia. Il Col. De Meo così si rivolge al Tenente: "Che fine hanno fatto i due Btg. GG.FF.?". Fazi trasecola e dice: "Come, non sanno dove siamo?". Rinforzi, questo serve e con estrema urgenza. Ottenuti, questi arriveranno, però, soltanto il giorno dopo.

Nella notte fra il 5 e 6 dicembre tanti razzi luminosi colorano il tetro cielo notturno di Bir el-Gobi. Appartengono ai Tedeschi o sono i segni dell’ultimo (e forse mortale) colpo da abbattere sui GG.FF.? Quel sinistro gioco d’artificio offerto fra le dune del Sahara continua, ad intermittenza, per più ore.

é l’alba di un sabato di guerra. Giungono alcuni carristi della 15" Panzer, ma poche sono le scene di festa. Sono tutti esausti. Il vero gaudio trova sfogo solo all’arrivo di un po’ di cibo e di preziosissima acqua. Che gioia quel parco rancio!

Arriva Rommel(58). Recentemente sfuggito ad un commando inglese con l’incarico di rapirlo o ucciderlo(59), la "Volpe del deserto" incarna agli occhi di quei ragazzi, per indiscusse capacità militari e per il suo modo tutto particolare di condurre la battaglia fra le dune, sempre in prima linea con la truppa, per quel suo tipico abbigliamento un po’ fuori ordinanza, per i suoi modi cortesi e decisi allo stesso tempo, una vera leggenda. Un mito per dei così giovani combattenti, così assetati di figure di riferimento. Tutti i ragazzi di Bir el-Gobi non possono che guardarlo con meraviglia. La sua fama militare lo precede ormai ovunque.

Radunati alla meglio i GG.FF. Rommel pronuncia un breve discorso elogiando lo stupefacente valore dei giovani Battaglioni. Ma non c’è tempo da perdere, bisogna agire, subito. C’è qualcosa, però, che turba il generale, rendendolo furioso: dove sono l’Ariete e la Trieste?

Nella zona del II Btg. c’è ancora qualche scontro. La tempesta non s’è affatto placata. Questo lo schieramento nemico attorno agli Italo-tedeschi: " a nord ovest si levava il polverone sollevato dalle autoblindo del 6° South African Cars. Presto vi si sarebbe aggiunto il carosello giostrato da quelle dell’11° Hussar e del 1° Dragoon Guards. A est si profilava, più minacciosa che mai, la lucente e compatta massa della 4°" Armoured Brigade di Gatehouse. Da sud ovest erano schierate la 1°" South African e la 7°" Indian Brigade . Sempre da quella parte si scorgevano il quartier generale della 7°" Armoured Division e la 2°", 4°" e 5°" Indian Brigade. Non lontano da lì erano piazzate le batterie da 25 pounds del 51° Field Regiment e quelle da 4/5 pollici del 7° Medium Regiment Royal Artillery. Più a sud la 9°" Rifle e una colonna di ricognizione della 5°" Indian Brigade"(60). Quanta gente intorno.

I carri armati tedeschi e inglesi si danno battaglia dinanzi agli occhi dei GG.FF., che osservandoli si chiedono cosa fare, quale ruolo assumere in questa battaglia di giganti. Di certo un nuovo attacco in forze, pensano, sarebbe fatale, soprattutto alla luce della nuova penuria di munizioni ed acqua registrata a mezzogiorno Finché, dopo alcuni scontri a fuoco, alle 13 circa il contatto radio con i nostri comandi viene ristabilito. Questo l’orgoglioso e sintetico radiogramma al Gen. Gambara: "Posizione salda nostre mani. Sette violenti attacchi forza circa una divisione respinti giorni 4, 5, 6. Sei carri armati pesanti, sei leggeri et circa cinquanta automezzi vari inchiodati davanti alla nostra linea. Sei carri colpiti nostro tiro rimorchiati nemico sue linee. Da informazioni prigionieri et nostra ricognizione campo battaglia perdite nemico ingentissime. Nostre perdite oltre trenta morti et settanta feriti. Sei ufficiali feriti fra cui colonnello Tanucci gravemente colpito bacino et femore. Comportamento ufficiali et volontari tutti sotto attacchi artiglieria carri fanteria con mortai et aviazione superbo et superiore ogni elogio. Carri armati due volte penetrati linee due volte respinti. Volontari fermi loro armi fino all’ultimo schiacciati da carro. Truppa da tre giorni senza acqua né viveri. Munizioni quasi esaurite. Autocarreggio quasi interamente distrutto con materiale. Collegamento per via ordinaria con Recam non ristabilito. Telefoni et radio distrutti. Altra radio inefficiente. Morale più alto di prima. Attendiamo ordini. Cap. Ernesto Tarantelli"(61).

Condotti i feriti alla nostra 21" sezione di Sanità militare di el-Adem, alle ore 15 l’intera 15°" e 21°" Panzer del Gen. Nehring, con annesse fanterie, si dirigono su Bir el-Gobi. Lo scontro riprende con foga, ma il pozzo è ormai saldamente in mano alle truppe germaniche, che lo pattugliano. I carri britannici indietreggiano, ma non si ritirano. Anche contro le linee dei GG.FF. per 20 minuti il nemico ritenta un attacco, che tuttavia viene nuovamente respinto.

Una cattiva notizia, calatosi il silenzio "tragico ed eloquente", arriva da Tobruk rendendo più buia la notte: gli Inglesi hanno spezzato l’accerchiamento.

é l’alba di domenica 7 dicembre 1941. Al caposaldo giunge la cattiva notizia che prima di gennaio i rinforzi dall’Italia non potranno arrivare. Non è una bella nuova. Tanto più che a tre chilometri dai GG.FF. lo scontro fra carri armati italo-tedeschi e britannici si riaccende violentemente. Ma a migliaia di chilometri più lontano, ben altro evento storico si compie nelle acque del Pacifico: l’attacco di Pearl Harbour. Quest’azione, felice sul piano militare per i nipponici, segna l’inizio di quella che Churchill definirà come "La svolta fatale"(62).

Il primo pomeriggio è ugualmente terribile. Le infernali macchine da guerra cingolate non si danno tregua e lo scambio di cannonate è sempre più serrato. Ma a spezzare il contatto è non tanto l’indietreggiare a 5 miglia sud-est delle unità corazzate nemiche, quanto il messaggio pervenuto tramite una staffetta dei Bersaglieri che annuncia l’avanzata delle rimanenti truppe britanniche in zona, proprio verso Bir el-Gobi(63). L’ordine per tutte le unità italo-tedesche è chiaro: ritirarsi ad ovest, verso el-Adem. Zaino in spalla e armi in pugno, a piedi, i GG.FF. lasciano Bir el-Gobi e i cadaveri dei tanti caduti, ma consapevoli di avere compiuto un fatto militare degno delle più alte onorificenze.

Se quella fu una ritirata strategica e non una rotta, lo si dovette proprio all’eccezionale resistenza militare dei Btg. Giovani Fascisti.

E in Patria? Già dal 5 dicembre le imprese dei GG.FF. s’erano diffuse velocemente tramite a radio ed i bollettini di guerra del nostro Quartier generale pubblicati in prima pagina su tutti i quotidiani(64). Fra questi, il bollettino n. 553 consacrerà i GG.FF. agli occhi di tutti gli Italiani per il loro valore e sacrificio: "I combattimenti in Marmarica sono continuati sul fronte di Tobruk e sul terreno a sud della piazza, fra el-Adem e Bir el-Gobi, dove reiterati attacchi sferrati dall’avversario con nuove forze sono stati validamente contenuti e respinti dalle truppe dell’Asse. In tali circostanze anche alcuni reparti dei Giovani Fascisti hanno lottato con esemplare tenacia e valore."(65). L’intera Nazione si commosse orgogliosamente a tale notizia. La fiducia dei genitori dei GG.FF. fu ripagata(66). L’entusiasmo fu così grande che anche quei pochi che solo per timore del peggio non avevano approvato il gesto del figlio partito volontario di colpo perdonarono quello slancio disubbidiente, comprendendone poi l’invincibile motivazione. Anche il Segretario del PNF, Serena, si dovette cospargere il capo di cenere e manifestare pubblicamente la sua compiaciuta meraviglia per l’innegabile impresa(67). Il Gen. Bastico premierà di lì a pochi giorni alcuni dei GG.FF. distintisi in battaglia, appuntando sul petto i segni del valore. Lo stesso Mussolini, poi, il 31 maggio 1942 consegnerà solennemente ad altri di loro le medaglie al merito presso lo stadio dei Marmi in Roma.

Le sorti della guerra prenderanno, com’è noto, nonostante questo ed altri eroici avvenimenti consimili, ben altra piega per le nostre armi, ma di sicuro l’epopea dei Giovani Fascisti s’era ormai onorevolmente compiuta.

Una settimana prima della battaglia di Bir el-Gobi, in un giornaletto redatto dagli stessi Volontari, uno di loro scriveva: "La guerra che noi combattiamo è la guerra dei giovani, di noi giovani in armi che, dalle officine ai campi di battaglia, dalla scuola al cannone, dalla casa alla tenda, abbiamo portato e portiamo una fiaccola luminosa: quella della fede"(68). Chi avrebbe potuto fermarli?

Dei suoi Volontari il Col. Tanucci scrisse in una lettera ad uno di loro, ricordandone il valore collettivo: "Fra loro nessuno fu primo, perché nessuno fu secondo". Tutti eroi, eroi romantici(69).

*

La battaglia in cui dei gagliardi minorenni sfidarono tutti, stupefacendo, si conclude non senza che anche l’avversario ne riconosca gli innegabili meriti. Desmond Young, generale inglese, autore di un libro su Rommel, scrisse a proposito: "La ritirata [italo-tedesca] non si trasformò mai in rotta. Grazie agli Italiani che difesero con sorprendente valore le posizioni di Bir el-Gobi, l’arretramento si svolse per fasi regolari e tra continui combattimenti"(70). Il Gen. Michael Carver, nel suo Tobruk, inoltre, scrive: "Quantunque Norrie disponesse di una schiacciante superiorità in ogni branca nel settore di Bir el-Gobi, il fatto di non averla saputa sfruttare, concentrandola in un sol punto e coordinando nei dettagli l’azione di ogni specialità, aveva permesso a un solo battaglione italiano [in realtà due, come visto] di frustrare l’azione del suo intero Corpo d’armata e di infliggere gravi perdite a una brigata"(71). Ma non era stata sempre questa la considerazione inglese, dato che Radio Londra aveva ironizzato con britannica superficialità sui GG.FF., definendoli "Mussolini’s boys". Resta il fatto che circa millecinquecento ragazzi, "indemoniati", come loro stessi ammisero, avevano tenuto in scacco una preponderante forza d’urto, nella più grande offensiva militare sferrata fino ad allora in nord Africa, l’operazione Crusader.

I reduci(72) dei Battaglioni Giovani Fascisti si ritrovano regolarmente a Ponti sul Mincio (MN) presso la "Piccola Caprera" (la villa che Balisti nel 1959 donò loro), per ricordare assieme gli anni in grigioverde. In questo sito, che nella sua amenità custodisce i cimeli e le testimonianze di quelle fiamme giallo-cremisi che s’imposero valorosamente nel deserto, tutti gli Italiani sono ben accetti. I cancelli della memoria sono sempre spalancati per chi lo desidera

Nonostante il colpevole mutismo di chi tace volontariamente un simile fatto(73), queste pagine hanno inteso squarciare tale silenzio, riconsegnando all’attenzione di chi legge le gesta di quei ragazzi che s’offrirono volontariamente, ancorché minorenni, per la Patria con sincero ardore, con quella passione tipica di chi non ancora nemmeno ventenne, oltre ogni cosa desidera solo l’azione, il bel gesto.

NOTE:

(1) -Cfr. quanto scrive Adriano Tilgher di Mussolini su La Stampa del 1° aprile 1928: "Con lui il Romanticismo sale al Governo. E dopo d’allora egli s’adopera a costruire a quest’anima romantica la forma definita precisa classica, in cui potrà finalmente posare quieta". Lo stesso filosofo in Ricognizioni, Roma, 1924, p. 21 aveva già detto: "Il Fascismo se dovessi definirlo lo direi: il romanticismo garibaldino arroventato al fuoco del superumanesimo e dinamico di cui è pregna tutta la civiltà contemporanea". Entrambe le citazioni sono tratte da E. Garin, Cronache di filosofia italiana, vol. II, ed. ec. Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 289-290. Ed ancora sulla matrice culturale romantica del fascismo cfr. P. Serant, Romanticismo fascista, Ed. Sugar, Milano, 1961, p. 6. Ivi: " era difficile – scrive l’A. – essere fascisti senz’essere in qualche modo romantici. Il carattere romantico del fascismo è stato del resto sottolineato tanto da certi suoi partigiani quanto dai suoi avversari: è Drieu [La Rochelle] che, nel 1944, definirà il fascismo come il camuffamento meravigliosamente efficace d’una grande spinta sociale della piccola borghesia (furiosamente romantica, come ciò che è promanato e promana ancora oggi dalla piccola borghesia, in quanto non è morta)".

(2) -Obiettivo principale della GIL era quello di avvicinare il più possibile i giovani dell’Italia di domani al fascismo, curandone l’educazione in ogni settore sin dalla tenera età. In particolar modo, come sottolineato in L’era fascista. La Gioventù Italiana del Littorio, VHS a cura della Hobby & Work italiana editrice, Milano, 1995: " Lo scopo dell’inquadramento dei Balilla, degli Avanguardisti e dei Giovani Fascisti era quello di creare specialisti da avviare nelle Forze Armate con una specifica preparazione settoriale e con una forte carica di spirito di corpo". Tuttavia, al di là dell’indottrinamento ideologico cui questa enorme macchina mirava, è innegabile che la GIL fu un potentissimo mezzo di socializzazione nazionale che è difficile rigettare pretestuosamente; cfr. a tal proposito J. Charnitzky, Fascismo e Scuola, La Nuova Italia, 1996, pp. 392-393, ove l’A. scrive: "Per la generazione del Littorio l’appartenenza ai gruppi della GIL rappresentò indubbiamente una esperienza decisiva di socializzazione che anche dopo la caduta del regime e fino ai nostri giorni, con tutta la distanza critica, continua a suscitare ricordi anche nostalgici fra gli interessati, e non solo da parte neofascista. Nell’esperienza collettiva dei giovani organizzati nella GIL, appartenenti a tutti i ceti sociali, il carattere strumentale della politica giovanile del regime passava in secondo piano, in special modo per quanto riguarda i gruppi di età inferiore, rispetto a privilegi e libertà goduti per la prima volta, come viaggi, soggiorni di cura, colonie, assistenza medica, borse di studio, rappresentazioni teatrali o cinematografiche".

"La GIL – si legge nella Treccani - contava all’inizio dell’anno XVI (29 ottobre 1937) 2.514.742 Balilla, 960.118 Avanguardisti, 1.163.363 Giovani Fascisti, 2.164.530 Piccole Italiane, 483.145 Giovani Italiane e 256.085 Giovani Fasciste. In totale la forza della GIL assommava a quella data a 7.541.983 iscritti"; v. in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed arti dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, fondata da Giovanni Treccani, Roma, ed. Istituto Poligrafico dello Stato, 1950, Appendice I, p. 573.

(3) -Nelle fila della GIL, Calvaruso prende parte alla "Marcia della Giovinezza". Fra quelli che non vogliono smobilitare, è inquadrato poi nel I Btg. GG.FF. Partecipa alla battaglia di Bir el-Gobi, meritandosi la Medaglia d’Argento al Valor Militare. Ferito gravemente viene portato in un ospedale da campo. Ripresosi, lungo la marcia nel deserto è colto dalla malaria, che lo costringe a lungo nuovamente in ospedale. Finita la guerra si è dedicato allo sport professionale, che già praticava sin da ragazzo. Atleta di qualità, ha praticato la lotta greco-romana, conseguendo svariate medaglie, coppe e riconoscimenti in più parti del mondo. Dopo aver dato tanto alla lotta, convogliando sull’agonismo sportivo tutte le sue energie d’uomo d’azione, dopo aver insegnato i segreti della sua disciplina a tanti ragazzi con la stessa passione, dopo aver fondato due Associazioni sportive, dopo aver allenato la squadra nazionale sordo muti, dopo aver ricevuto dalla Regione siciliana riconoscimenti per il suo impegno agonistico, ora vive la meritata pensione. Chi scrive, non senza una punta d’orgoglio familiare, ne riconosce forza di volontà, sentimento patriottico, valorizzazione dell’azione ed amore per la vita.

(4) -Cfr. G. Rosignoli, MVSN. Storia organizzazione uniformi e distintivi, Ermanno Albertelli Editore, Parma. Sui rapporti fra R. Esercito e MVSN cfr. D. Ferrari, Il Regio Esercito e la M.V.S.N.: 1923-1943, in Studi Storico Militari, Ufficio Storico dello S.M.E., Roma, 1985, pp. 125-147.

(5) -Da un colloquio svoltosi a Palazzo Venezia il 28 dicembre 1941 tra Mussolini e Carlo Ravasio, vicesegretario del PNF, in Mussolini. Il manuale delle guardie nere, Antares editrice, 1995, Palermo, p. 26.

(6) -Questo era l’Inno dei Giovani Fascisti (Blanc): "Fuoco di Vesta che forte il tempio irrompe/come le fiamme la Giovinezza va/fiaccole ardenti sul mare e sulle tombe/noi siamo le colonne della nuova età.

Duce, Duce, chi non saprà morir /il giuramento chi mai rinnegherà/nuda è la spada quando tu la vuoi/gagliardetti al vento/Duce verremo a Te/Armi e bandiere degli antichi eroi/per l’Italia, oh Duce/falle vibrare al sol.

Va la vita va / con se ci porta e ci promette l’avvenir / una maschia gioventù / con romana volontà, combatterà / verrà, quel dì verrà / che la gran Madre degli eroi ci chiamerà / Per il Duce, oh Patria, per il Re / a Noi, ti darem

Gloria e Impero in oltremar".

(7)- Cfr. La Marcia della Giovinezza, in Critica Fascista. Rivista quindicinale del Fascismo, 15 ottobre 1940.

(8) -G. Mugnone, I Millecinquecento di Bir el Gobi, Edizione dell’I.N.C.F., Vicenza, marzo 1945, p. 10.

(9) -Persino Palmiro Togliatti dichiarò il 7 marzo 1941 al Comintern in U.R.S.S.: "Il fascismo non è solo violenza. Ha aiutato i lavoratori e i giovani"; cfr. D. Caraf˜li, Togliatti nel ’41: Mussolini aveva ragione, in il Giornale, venerdì" 29 settembre 2000, anno XXVII n. 231, p. 33.

(10) G. Mugnone, I Millecinquecento, cit., p. 10.

(11) Cfr. Ib., p. 12.

(12) A. Pagin, I ragazzi di Mussolini, Mursia, Milano, 1990, pp. 26-27.

(13) Cfr. G. Mugnone, I Millecinquecento, cit., p. 6.

(14) -Cfr. l’intero articolo in A. Cioci, Il Reggimento "Giovani Fascisti" nella campagna dell’Africa settentrionale 1940-1943, Ermanno Albertelli ed., Parma, 1998, p. 280.

(15) G. Mugnone, I Millecinquecento, cit., p. 15.

(16) -Ib.: "Così, quasi 25 mila giovani, inquadrati in 24 battaglioni, con valorosi Ufficiali e Sottufficiali, anelanti il combattimento, pronti all’appello della Patria, riceviamo, premio della nostra spontanea offerta, l’ordine di ritornare alle nostre case, portando sui petti la medaglia del valore per avere fatto circa 500 chilometri a piedi! Che buffonata!".

(17) -Stupisce non poco, pensando alle ubertose fila dei renitenti alla leva di tutti i tempi, alle folte schiere di tanti tattici imboscati o alle frotte di tanti sedicenti "obiettori di coscienza", che ci siano stati ragazzi che al contrario siano corsi ad imbracciare un’arma dati i tempi, tempi di guerra!

(18) -La momentanea denominazione ricalcava una direttiva del Segretario del PNF che, per rabbonire quelli di Padova, subdolamente disponeva che i 25.000 fossero smobilitati e in 48 ore riorganizzati solo su due Btg. Volontari speciali. La mossa di Serena era solo un contentino infattibile. Come pensare di inquadrare quella massa di giovani in strutture così esigue, espellendone così tanti, senza causare sollevamenti in così accesi animi in poche ore? Ma è proprio giocando su questa disposizione sui Btg. speciali che intanto Balisti ed i suoi si autocostitutiscono come sedicente I Btg. speciale Volontari della GIL.

(19) -A. Brisone, Il gagliardetto 1919-1943, Hobby & Work Italiana Editrice, Milano, 1997. Nello stesso testo è riportata in copertina la seguente frase di Mussolini: "Un gagliardetto non è un semplice pezzo di stoffa, un gagliardetto è un’anima, un gagliardetto è un ideale". I GG.FF. non avranno mai la bandiera di guerra, per vari motivi. Ma quei gagliardetti furono comunque validissimo simbolo.

(20) -Il III Btg., costituito ufficialmente nel maggio 1942, pur se di breve durata, avrà il vessillo "A ferro freddo".

(21) Cfr. G. Mugnone, Op. cit., p. 32-33.

(22) -Cfr. Ib., pp. 43-45. I GG.FF. sono stufi di venire traslocati da una località all’altra, colmi solo di promesse. Non c’è più tempo per tacere, ora gridano: "(É) Volontari! Fino ad oggi siamo stati chiusi in questa morsa alla quale potrebbe benissimo adottarsi il nome di morsa burocratica e noi stessi abbiamo forniti agli interessati la possibilità di chiuderla con la chiave della nostra fede. Ma il gioco è smascherato, la fede è nostra e il lucchetto si è aperto! Ora possiamo gridare sicuri con una voce sola: metteteci alla prova! Qualunque sia ritorneremo vincitori o tutti morti. Questo nostro messaggio di fede rivoluzionaria giunga alle orecchie di tutti, apra le porte alla burocrazia militare, pulisca i timpani ai sordi, sia la luce ai ciechi e porti il guanto di sfida nel caso che qualcuno l’abbia così interpretato ed ancora non si è degnato di raccoglierlo".

(23) -L’era fascista, Hobby & Work Italiana Editrice, Milano, 1995, p. 104.

(24) -Cfr. Afrikakorps, a cura di Time-Life Books, Hobby & Work Italiana Editrice, Milano, 1993.

(25) -Breve profilo del Gen. E. Bastico: "(1876-1972). Sottotenente dei Bersaglieri nel 1896, frequentò la Scuola di Guerra dal 1902 al 1905 e prese parte da Capitano alla guerra libica. Durante la grande guerra assolse incarichi di comando e di Stato Maggiore. Insegnante di arte militare terrestre presso l’accademia della Marina dal 1919 al 1923 scrisse i tre volumi L’evoluzione dell’arte della guerra, opera di notevole valore. Comandante del 9¡ Bersaglieri dal 1923 al 1927, diresse la Rivista Militare e comandò la Scuola Militare di Educazione Fisica. Promosso Generale comandò la XIV Brigata di Fanteria, la 1°" Divisione celere e la Divisione militare di Bologna. Durante il conflitto italo-etiopico comandò la 1°" Divisione CC.NN. e poi, promosso Generale di Corpo d’Armata, il III Corpo d’Armata speciale. Il 15 aprile 1937 prese il comando del C.T.V. in Spagna che lasciò lo stesso 19 ottobre dello stesso anno. Promosso Generale d’Armata ebbe il comando prima della 2°" Armata e poi di quella del Po. Senatore nel 1939, Governatore dell’Egeo dal dicembre 1940, il 10 luglio 1941 fu nominato Governatore della Libia e Comandante Superiore in Africa settentrionale. Il 12 agosto 1942 fu promosso Maresciallo d’Italia"; in O. Bovio, Storia dell’Esercito Italiano (1861-1990), Ufficio Storico dello S.M.E., Roma, 1996, p. 331, nota 1.

(26) -Reportage di guerra.1939-1945, Hobby & Work Italiana Ed., Milano, s.d., p. 453, ivi: "Noto a tutti con il nome di Auk, il Gen. Sir Claude Auchinleck era nato nel 1884; uscito da Sandhurst, fece carriera nelle fila dell’Esercito indiano. Nel 1939, Churchill lo richiamò, per assegnargli il comando del IV Corpo in Francia. Fu comandante in capo nella battaglia della Norvegia settentrionale al tempo dell’invasione tedesca del 1940; dopo la caduta della Norvegia, ritornò in estremo Oriente, come comandante in capo dell’Esercito indiano. Per le sue doti eccezionali, Auchilenleck fu nominato dai suoi superiori comandante in capo del Medio Oriente, in sostituzione di Wavell nella guerra del deserto, quando il corso degli eventi cominciava a volgersi a favore dell’irresistibile Afrika Korps. Anche a lui si pose subito il problema di Churchill, che premeva per un’immediata azione contro Rommel, tuttavia si mostrò deciso a non sferrare il contrattacco britannico, finché non gli fossero giunti sufficienti rinforzi. Sebbene Auchinleck fosse riuscito a fermare l’avanzata di Rommel nella prima battaglia di El Alamein, l’impaziente Churchill ordinò un altro cambiamento nel comando. Ritornato in India come comandante dell’Esercito fino al ’47, Sir Claude morì, da pacifico pensionato nell’81".

(27) -Breve profilo del Gen. G. Gambara: "(1890-1962). Sottotenente degli Alpini nel 1913, partecipò alla 1°" guerra mondiale. Capitano nel 1918, fu trasferito nel 1927 nel corpo di Stato Maggiore. Colonnello nel 1937, fu capo di Stato Maggiore del C.T.V. in Spagna. Nel 1938, promosso Generale di Brigata, prese il comando del C.T.V. Promosso Generale di Divisione nel 1939 fu il primo ambasciatore italiano nella Spagna di Franco. Dal giugno 1940 al febbraio 1941 comandò il XV Corpo d’Armata, passò poi in Albania al comando dell’VIII. Promosso generale di Corpo d’Armata per merito di guerra, fu inviato in Africa settentrionale quale capo di Stato Maggiore del Comando Superiore e poi quale comandante del Corpo d’Armata di manovra [C.A.M.]. Comandò successivamente il XIX e l’XI Corpo d’Armata. (É)", in O. Bovio, Op. cit., p. 331 nota 1.

(28) -Ibidem.

(29) -Nello specifico l’autodrappello consta di: 8 autocarrette SPA, 3 autocarri Bianchi Miles, 4 autocarri Lancia 3 Ro, 3 autocarri FIAT 626/NM, 1 ambulanza, 2 autobotti, 1 vettura FIAT 1100 per il comando, 2 autocarri officina riparazioni, 2 moto Guzzi 500, 2 moto Sortum 500; cfr. A. Cioci, Il Reggimento, cit., p. 45.

(30) A. Pagin, Op. cit., 57.

(31) Ib., p. 69.

(32) Ib., p. 72.

(33) Cfr. Ib. ,p. 78.

(34) Cfr. G. Mugnone, I ragazzi di Bir el Gobi, STEDIV-AQUILA, Padova, 1973, p. 39.

(35) A. Pagin, Op. cit., p. 83.

(36) Ib., p. 84.

(37) Ib., p. 86.

(38) Ib., p. 87.

(39) -Alle prime luci del giorno un motociclista inglese era andato incontro alle postazioni italiane agitando il braccio sinistro in segno di saluto, zigzagando. I nostri, credendolo uno dei loro, non spararono. Quando capirono dell’equivoco ormai era troppo tardi. L’astuto avversario aveva già visto abbastanza e con una brusca inversione s’era già diretto dai suoi a riferire le preziose notizie sulle nostre difese.

(40) A. Pagin, Op. cit., p. 113.

(41) G. Giraudo, La guerra del Duce, Hobby & Work Italiana Editrice, Milano, 1997, p. 91.

(42) A. Pagin, Op. cit., p. 120.

(43) Cfr. G. Mugnone, I ragazzi, cit., p. 44.

(44) -Quella che nelle carte militari inglesi era Quota 182 corrispondeva in realtà a due postazioni italiane, ossia le nostre Q.188 e Q.184, occupate entrambi dalle compagnie del II Btg. GG.FF.

(45) Postazione tenuta dall’intero I Btg. GG.FF.

(46) A. Pagin, Op. cit., p. 122.

(47) Ib., pp. 135-136.

(48) G. Mugnone, I ragazzi, cit., p. 48.

(49) -Cfr. Ib., p. 68 la testimonianza del Ten. Andreatta: "La rugiada abbondante bagna il viso. La bagnano anche le lacrime che a momenti scendono silenziose dagli occhi e un nodo stringe la gola Quante cose si pensano Saprà l’Italia che dopo l’ultimo messaggio della nostra radio noi restiamo ancora, o ci riterrà sopraffatti? Ci porteranno aiuto? E le munizioni? Tutto si pensa nella notte insonne e fredda. Qualche ferito geme ed invoca la mamma".

(50) A. Pagin, Op. cit., p. 155.

(51) G. Mugnone, I ragazzi, cit., p.60.

(52) -Nel dicembre 1746, a Genova, Giovan Battista Perasso (Balilla) aveva scagliato in volto ad un austriaco un sasso, dando il via ad una storica sommossa patriottica contro l’oppressore asburgico.

(53) -A. Pagin, Op. cit., p. 163. Ivi: "Era il 5 dicembre, il giorno del Balilla di Portoria. Adesso, eravamo in molti ad imitare quel gesto. Si raccoglieva una pietra e via, come ci fossimo trovati in riva a un torrente. Un gesto retorico che fungeva da scaramanzia. (É)".

(54) Cfr. Ib., p. 165-166.

(55) -A. Pagin, Op. cit., p. 171. Anche una cartolina postale ne immortalerà l’impresa; quella di un ragazzo che, poco più che ventenne, bomba e pistola in mano affronta senza paura corazzati da 30 tonnellate. Di nobile famiglia fiorentina, classe 1916, laureato in giurisprudenza, pur gravemente offeso ad una mano, fu Volontario con la sola idea di onorare l’Italia. Fra le più fonti che ne sottolineano tale puro sentimento, le lettere inviate alla madre e alla sorella ne sono adamantina testimonianza; cfr. G. Mugnone, I ragazzi, cit., pp. 54/56.

Anche il Volontario Stefano David sarà insignito alla memoria con la Medaglia d’Oro, per il suo eroico gesto in favore dei suoi commilitoni a Quota 141 di Diez Srafi (Tunisia, 25 aprile 1943). Questa la motivazione ufficiale: "Dopo trenta mesi di dura lotta, durante un aspro attacco nemico, soverchiato da preponderanti forze, rifiutava più volte di arrendersi, finché, unico superstite di un posto avanzato che egli stesso comandava, stordito e gravemente ferito, veniva raccolto dal nemico che pensava di servirsene come schermo per penetrare di sorpresa in un nostro caposaldo. Nella notte lunare, veniva condotto presso le nostre posizioni con l’arma puntata alla schiena. Accortosi che i commilitoni gli andavano incontro giubilanti per aiutarlo, non esitava a gridare ad alta voce: Seconda Compagnia, fuoco, fuoco! Sono nemici!. Pagava così consapevolmente, con la vita la sua sublime incomparabile dedizione alla Patria"; in A. Cioci, Il Reggimento, cit., p. 459.

(56) A. Pagin, Op. cit., p. 171.

(57) Ib., p. 172.

(58) -Su questo grande soldato i riferimenti bibliografici si sprecano. Qui, a mero titolo di suggerimento, si segnala solo un testo; cfr. D. Fraser, Rommel, Mondadori, Milano, 1994.

(59) -Cfr. A. A. Michie, Prendete Rommel, vivo o morto!, in Uomini, gesta, avventure sconosciute della seconda guerra mondiale, a cura di Selezione dal Reader’s Digest, Milano, 1974, pp. 58-61.

(60) A. Pagin, Op. cit., p. 184-185.

(61) Ib., p. 187.

(62) -Cfr. W. Churchill, La seconda guerra mondiale. Il Giappone all’attacco, parte IV, Mondadori, Milano, 1951, p. 18; Ivi: "(É), la svolta fatale, poiché con essa passiamo da una serie ininterrotta di rovesci a un’altra di quasi continui successi. Per i primi sei mesi di questo periodo tutto andò male; negli ultimi sei mesi tutto andò bene. E questo piacevole mutamento continuò fino alla fine della lotta". Tuttavia pare dubbio che sia stato il semplice fato a far pendere l’ago da parte inglese, giacché è innegabile che fu l’intervento degli U.S.A. a capovolgere le sorti del conflitto. La presenza nordamericana sarà decisiva e devastante per i suoi nemici, soprattutto per il paese del Sol Levante. Il Presidente statunitense, quando lunedì 8 dicembre 1941 si presenta al Congresso per dichiarare guerra al Giappone, in preda al furore per l’avvenuta distruzione della base navale americana e l’orgoglio stelle e strisce umiliato, minaccioso dice: "Ieri 7 dicembre 1941, una data che rimarrà segnata con infamia nella storia – gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente e proditoriamente attaccati da forze aeree e navali dell’Impero del Giappone. (É). Non dimenticheremo mai il carattere della selvaggia aggressione sferrata contro di noi. Quale che debba essere il tempo necessario ad avere ragione di questo proditorio attacco, il popolo americano, saldo nella sua potenza e nel suo buon diritto, combatterà fino alla vittoria totale. (É). Io chiedo al Congresso di dichiarare che da domenica 7 dicembre, dal momento del non provocato e malvagio attacco da parte del Giappone, esiste stato di guerra tra gli Stati Uniti e l’Impero giapponese.", in Messaggi di guerra di F. D. Roosevelt, Pubblicazione dei Servizi informazioni degli U.S.A., pp. 11-12. L’11 dicembre Italia e Germania, rotti gli indugi, dichiarano guerra agli U.S.A., affiancando l’alleato nipponico. Ma più dubbi sfiorano chi non è del tutto convinto del falso stupore di Washington. In un conflitto mondiale di quelle proporzioni era chiaro che in gioco c’era l’ordine mondiale per diversi anni a venire, chi avrebbe vinto avrebbe imposto al mondo la propria ricetta politica ed economica. Al di là degli innegabili vantaggi economici per chi si trova ora alleato con i vecchi nemici di ieri, non può cancellarsi a livello storico la diffusa convinzione che ebbero più Italiani dell’epoca sull’intervento statunitense nel secondo conflitto mondiale: opportunismo politico. L’attacco a Pearl Harbour e la mancata dichiarazione di guerra non pervenuta per tempo parve solo un ottimo, validissimo sul piano formale e propagandistico, motivo da casus belli per gettarsi nella mischia e mettere in campo tutto l’enorme potenziale economico-finanziario, nonché bellico, in favore del fidato alleato britannico, già foraggiato anche prima del 7 dicembre. Fra i tanti testi contemporanei ai fatti di cui andiamo dicendo, a tal proposito cfr. V. Consiglio, L’America e il Patto Tripartito, in Un anno di guerra, Palumbo editore, Palermo, giugno 1941, pp. 183-216. Ivi, tra l’altro, l’A. denunciava duramente degli U.S.A. la crescente volontà di dominio economico-finanziario, la falsa neutralità (dato l’appoggio palese all’Inghilterra, in barba alle convenzioni per i paesi neutrali), il pressoché manifesto dominio-protettorato americano steso sui paesi dell’America latina con lo sbandierato spauracchio di chissà quale ingerenza delle forze del Tripartito su quelle aree, la longa manus stesa sull’Europa (rivale e madre rinnegata), la grave responsabilità di Wilson sulla stesura del trattato ingiusto di Versailles come vera causa dell’escalation fra le due guerre. Il libro fu pubblicato nel giugno del 1941, dunque ben sei mesi prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. Eppure, Consiglio pare avesse già chiare le idee sul punto; così a p. 201 egli scrive: "(É) la verità è, come non hanno mancato di avvertire anche alcuni giornali del nord America, che gli Stati Uniti non attendono ormai che un episodio, un incidente che può sempre accadere nei periodi di alta tensione, per rompere l’indugio". Poche pagine oltre, pp. 203-204, lapidario continua: "Il vero scopo degli U.S.A. è l’ingerenza nei fatti politici europei. L’oro che avanza contro la cultura millenaria".

La promessa di rivalsa americana, Revenge!, si realizzerà con un’arma così mostruosa che francamente il rapporto fra offesa (Pearl Harbour) e reazione (Hiroshima e Nagasaki) pare quanto meno sproporzionato.

(63) Cfr. A. Pagin, Op. cit., p.197.

(64) -Cfr. Combattimenti coronati da successo in Marmarica, in Giornale di Sicilia, venerdì 5 dicembre 1941, anno LXXXI n. 291, p.1; cfr. Ib. La battaglia della Marmarica; cfr. Ib. Bollettino n. 550 e Bollettino n. 551. Cfr. La ripresa dei combattimenti nella zona di Bir el-Gobi, in Giornale di Sicilia, domenica 7 dicembre 1941, anno LXXXI n. 293, p. 1; cfr. Ib. Bollettino n. 552.

(65) -Bollettino n. 553, in Giornale di Sicilia, martedì 5 dicembre 1941 anno LXXXI n. 294, p. 1. Il giornale, pur trattando ovviamente sempre in prima pagina l‘importantissimo evento dell’attacco di Pearl Harbour, dà ampio spazio ai fatti di Bir el-Gobi. In un articolo si legge: "I reparti di Giovani Fascisti, dislocati fin dall’inizio della guerra in terra libica, hanno avuto, nella dura ripresa della battaglia marmarica, il battesimo del sangue. Essi si sono comportati da autentici e provetti combattenti, meritandosi l’ambita citazione del Bollettino del Quartier Generale delle Forze Armate. (É) Ancor oggi il gesto di Balilla, degli studenti di Curtatone e di Montanara, dei picciotti di Garibaldi ritrova la sua continuità storica in quest’epica impresa dei Giovani Fascisti e dice a tutti gli uomini di buona volontà, sparsi nel mondo, di che cosa sia capace l’italiano nuovo, forgiato giorno per giorno nella fucina del dovere e del combattimento. Guerra di un popolo giovane è stata definita quella odierna come a contrassegnare le sue caratteristiche e a definire i suoi scopi. Il popolo italiano saluta la giovinezza in armi che si batte leoninamente sull’arso terreno marmarico e la saluta, col poeta germanico, nuova cavalleria dell’avvenire. Essi sono stati accontentati dando esatta misura del loro grado di preparazione, del loro addestramento, della loro perizia. Episodi come questi non vanno sciupati e sminuiti dalla retorica che è sterile esaltazione, vanno sottolineati particolarmente quando essi e non soltanto casualmente, coincidono – ed è il caso odierno – con una data che ricorda a tutti gli Italiani, ma ai Giovani Fascisti in particolar modo, il gesto del piccolo di Portoria che iniziò l’Era del riscatto e della libertà. Ieri un Impero potente, quello asburgico soffocava con il suo duro e astioso predominio tutto un popolo anelante giustizia, oggi un altro Impero che dell’insidia ha fatto la sua arma preferita e di ogni inganno il suo usbergo, tenta di stringere in un cerchio infrangibile le aspirazioni delle Nazioni sane, gagliarde, combattive. E così come ieri contro la decrepita struttura imperialistica si scagliava il sasso di Balilla ancora oggi sono i giovani, quelli inquadrati nei reparti della GIL, quelli cresciuti in un clima di passione e di sacrificio, di abnegazione e di eroismo che s’immolano coraggiosamente facendo baluardo dei loro petti e dicendo, con volontà e decisione, al nemico arrogante: di qui non si passa. (É)". Il pezzo rende giusta lode a quei ragazzi, capaci di un’impresa militare da prima pagina di un giorno di guerra.

(66) -A riprova dell’adesione di tanti genitori al patriottismo dei propri figli si legga quanto scrisse una mamma al C.te dei GG.FF., prima di Bir el-Gobi: "Io indovino in pieno la fede e la fierezza di mio figlio. Sono orgogliosa di lui, del suo amor patrio e come lui arrivo a considerare anche io che egli possa fare là in modo tangibile qualche cosa per la nostra Patria. Mi permetto di raccomandare tanto al signor Colonnello questo mio ragazzo di poche parole ma di fede sicura. Egli sarà felice di poter, con tutte le sue forze, impegnate ogni sua facoltà nell’adempimento dei vostri ordini per quanto pericolosi e arrischiati essi possano essere.", in Giornale di Sicilia, giovedì 11 dicembre 1941, anno LXXXI n. 295, p. 1.

(67) -Cfr. Un ordine del giorno del Ministro Serena alla Gioventù Fascista, in Giornale di Sicilia, mercoledì 10 dicembre 1941, anno LXXXI n. 295, p. 1.

(68) -Lo scritto è citato da un giornalista dell’Agenzia Stefani, La fede e la fierezza dei prodi Giovani Fascisti combattenti in Marmarica, in L’ora, giovedì 11 dicembre 1941, anno XLII n. 294, p.1. Sul fascismo come dottrina ed esperienza politica intesa come fede laica, cfr. E. Gentile, Il culto del littorio, BUL n. 406 - Laterza, Roma-Bari, 1995. A confermare indirettamente l’esatta analisi dello storico sulla visione del fascismo come "religione laico-politica" è proprio Mussolini che, dopo aver letto un libro sulla battaglia di Bir el-Gobi e i GG.FF., annotò: "C’è qualcosa di religioso in questo esercito di Volontari"; cfr. G. Mugnone, I Millecinquecento, cit., p. V.

Sulla comunione nell’italianità dei GG.FF., al di là di censo e classe, cfr. quanto scritto in F.Balisti, Pagine d’Africa, Edito a cura dell’Ass. Naz. Vol. Bir el Gobi, Bologna, 1967, p. 38:"Ed è esempio di popolo. Erano i nostri studenti ed operai, ricchi e poveri; affratellati senza riserve mentali, solidali, non per la provenienza dei ceppi che erano dietro di loro o dei campanili che avevano lasciato partendo, ma nell’offerta che era davanti a loro come esigenza di abnegazione e di onore". Fratelli d’Italia.

(69) -Come si legge sul n. 99 de "La tradotta di Bir el Gobi" (organo ufficiale dell’Ass. Naz. Vol. di Bir el Gobi), i superstiti di quelle giornate nel deserto africano non sono che "gli ultimi romantici dell’amor di Patria". Giˆ.

(70) A. Pagin, Op. cit., p. 198.

(71) Ib., pp. 198-199.

(72) -Finita la guerra Giuseppe Mugnone organizzò nella sua Messina il 1° raduno regionale dei reduci GG.FF. Il 4 dicembre 1949 altri commilitoni toscani tennero successivamente in Firenze il 1° raduno nazionale. Nel 1952, presso il notaio fiorentino Rovai nacque ufficialmente l’Associazione Nazionale Volontari Bir el-Gobi. Morto Balisti, la "Piccola Caprera" passò alla gestione dei Volontari, che si costituirono in cooperativa. Nel 1960 sorse, dal contributo dei reduci e dei simpatizzanti, il Museo del Reggimento Giovani Fascisti. Il Comune, accogliendo poi un desiderio del generoso donatore, nel 1961 concesse la traslazione della sua salma alla villa-museo. Là, accanto alla moglie, fra le piante che tanto curò e i suoi amati ragazzacci di una volta, riposa Fulvio Balisti, uomo che nell’Italia vide sempre l’ideale cui protendere.

Sul Museo cfr. A. Cioci, Museo del Reggimento Giovani Fascisti. "Piccola Caprera", Gianni Iuculano Editore, Pavia, 2000. Ivi, a p. 29, si legge: "Se i giovani che visiteranno il Museo trarranno l’insegnamento di onorare e rispettare tutti i Caduti di ogni ideale e fede potremo essere sicuri che i Compagni d’Arma Caduti non saranno dimenticati. La Piccola Caprera è un’oasi di italianità aperta a tutti".

(73) -Non è qui il caso di polemizzare con chi, trattando di storia militare, ha volontariamente tralasciato o posto in un tono assolutamente minore l’esistenza e le gesta dei Giovani Fascisti a Bir el-Gobi o su altri fatti d’arme che li videro protagonisti (fino al maggio ’43). Evidentemente quell’aggettivo "Fascisti", pur legato al sostantivo "Giovani", ha nuociuto ipocritamente a chi sapeva, o ancor peggio ignorava, che al di là del nome dato ai due Battaglioni, quei soldati erano Italiani come gli altri combattenti, membri dello stesso R. Esercito a tutti gli effetti. Va, invece, fatta menzione di chi, con estrema onestà intellettuale, non li dimenticò e se ne interessò comunque, superando sull’argomento in tal modo le proprie visioni politiche con sereni giudizi, come Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. Grandi esponenti della nostra Repubblica questi, dalla statura talmente alta, al cui confronto il silenzio di alcuni si riduce miseramente a sola mala fede.

 

La Rivolta Un settimanale di Palermo degli anni sessanta tra anticomunismo e valori risorgimentali di Giuseppe Palmeri

Il ventotto dicembre 1964 Giuseppe Saragat fu eletto Presidente della Repubblica, dopo ben venti scrutini infruttuosi, con i voti della Democrazia cristiana, del Partito comunista, del Partito socialista, del partito socialista democratico e di quello repubblicano.

Dopo il ventesimo scrutinio, Saragat aveva diramato un comunicato in cui chiedeva la convergenza sul suo nome "dei voti di tutti i partiti democratici e antifascisti", dando così soddisfazione al P.C.I. che aveva sollecitato una richiesta esplicita dei propri voti.

Con questo fatto, che interveniva dopo l’apertura alla sinistra socialista, verificatasi già due anni prima con la costituzione del primo governo organico quadripartito di centrosinistra presieduto da Aldo Moro, diventava chiaro che la storia politica imboccata dal nostro Paese tendeva ormai in maniera decisa verso sinistra, al fine di una cogestione della cosa pubblica con i socialisti e di una pacifica convivenza con il Partito comunista, e verso quella "conventio" che, per un ventennio circa sotto il nome di Arco costituzionale, avrebbe determinato una seria discriminazione tra i partiti fondatori della Repubblica, P.C.I. compreso, cui comunque avrebbe potuto competere di governare, e gli altri -soprattutto il M.S.I.- i cui voti in Parlamento non avrebbero potuto essere accettati né per l’approvazione di importanti leggi, né per sostenere un governo, né per eleggere alte cariche dello Stato.

Ora sappiamo che una tale convenzionale cristallizzazione delle forze politiche esistenti, secondo una sorta di classicizzazione operata sulla base delle rispettive origini storiche, sarebbe durata fino al crollo del comunismo sovietico (1989) ed alla decomposizione per logoramento morale della Democrazia cristiana (1993); ma allora, soprattutto nelle persone che avevano ancora nella mente la scomunica comminata nel 1949 dal Sant’Uffizio per i comunisti e per tutti coloro che ne accettassero, sostenessero e divulgassero le idee, l’ammissione del comunismo tra le forze che potessero avere un qualche ruolo nel governo del Paese fu cosa difficile ad accettarsi.

In questo clima, ispirato e sostanzialmente diretto, in quanto a linea culturale e politica, da Gaetano Falzone (1), nacque a Palermo il 14 febbraio 1965, il settimanale La Rivolta, sotto la direzione responsabile del giornalista Carlo De Leva. Il giornale denunziava subito il proprio ruolo e la propria ragione d’esistere - chiaramente per la penna dell’Ispiratore, anche se senza la sua firma - così: "se c’è oggi nel nostro Paese un bene precario questo è la libertà. Un investimento d’intelligenza e di capitali sull’avvenire di questo bene presuppone notevoli rischi d’esercizio. Le prospettive che si aprono per il nostro Paese nell’immediato avvenire sconfortano molti buoni cittadini; inducono gli opportunisti a saltare al più presto il fosso e collocarsi fra i vincitori di domani; e rendono, infine, arditi gli eversori dell’attuale ordine, i quali tuttavia, nella certezza di cogliere il frutto maturo a causa della distrazione congeniale del giardiniere, si guardano bene dall’apparire, per il momento tracotanti".

E questo stava per avvenire, "proprio quando la pacificazione fra gli italiani, fra quelli che avevano combattuto con la Repubblica sociale e quelli che avevano costituito il Regno del Sud stava per compiersi, nel segno di un luminoso e saldo progresso economico che aveva suscitato l’ammirazione del mondo".

Osservando tutto ciò, si presagiva quello che sarebbe presto stato l’Arco costituzionale: proprio perché, con l’elezione di Saragat a Presidente della Repubblica mediante i voti comunisti richiesti ed accettati, era successo che "i comunisti che fino a ieri erano stati ufficialmente considerati nemici della democrazia hanno purtroppo, in occasione della elezione del Capo dello Stato, ottenuto il riconoscimento scritto dal PSDI e dal PRI, avallati dal PSI (essendo questa la sola firma cui i comunisti ritengono di potere accordare fiducia) di essere perfetti democratici, verso i quali non sarebbe giusto operare discriminazioni. Una larga parte dello schieramento politico italiano ha goduto nell’inginocchiarsi dinanzi alle bandiere rosse".

Il rischio d’una comunistizzazione del Paese - anche con la forza - era allora ancora attuale, essendo freschi i ricordi degli interventi sovietici in Cecoslovacchia, in Ungheria ed in Polonia, e delle stragi nel triangolo rosso ed il giornale coglieva i sintomi d’un tale pericolo anche in fatti locali, cominciando già dal primo numero quella che sarebbe stata una specie di crociata contro il nuovo corso del Giornale di Sicilia in cui, dopo l’assunzione della direzione da parte di Delio Mariotti (cosa probabilmente traumatizzante in sé, essendo rimasta la direzione del giornale sempre in "casa Ardizzone"), e l’adeguamento al nuovo orientamento politico governativo, "le istanze liberali dell’onorevole passato del Giornale non solo sono state seppellite dai nuovi nocchieri venuti da lontano, ma addirittura oltraggiate. Il patriottismo non certo fanatico, ma costantemente leale, del giornale è stato archiviato" (2).

In un siffatto spirito di fondo, nel secondo numero del giornale (3), commentandosi i lavori del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana, si evidenziava come l’onorevole Salizzoni, portavoce dell’onorevole Moro, "se l’è presa con l’onorevole Malagodi; ha protestato non contro il comunismo ma contro l’anticomunismo dei liberali, in termini così violenti e calunniosi che nemmeno i comunisti avrebbero usato. Secondo Salizzoni l’onorevole Malagodi vuole contrabbandare, sotto l’etichetta dell’anticomunismo, una merce di provenienza reazionaria e l’anticomunismo dei liberali è solo conservatorismo: quindi niente anticomunismo del tipo liberale".

D’altro canto, la parte dei socialisti che non aveva seguito Saragat nella scissione di Palazzo Barberini era fortemente avversata dal Giornale: "caduto il fascismo, ci fu la prova di appello per il socialismo italiano. Non era degno del voto degli italiani e, tuttavia, alle elezioni del 2 giugno ebbe più voti del P.C.I.. Come si servì di quella forza? Portandola all’ammasso comunista" (4). La verità è forse che il periodo in cui il giornale fu pubblicato (1965-1968) fu un tempo di particolari, profonde e manifeste tensioni, non solo tra i partiti politici né solo nella dialettica parlamentare tra le diverse concezioni degli indirizzi che lo sviluppo della società italiana avrebbe dovuto avere, e che il giornale raccoglieva le preoccupazioni di consistenti strati sociali per un possibile salto verso l’ignoto.

E’ del 1964 il "Piano Solo" predisposto dal generale dei carabinieri Di Lorenzo per un intervento in caso di grave crisi politica e di emergenze nell’ordine pubblico; piano che si presterà ad essere interpretato come un progetto di golpe, a conoscenza del Presidente della Repubblica, e che quindi confermò nella borghesia la convinzione dei rischi d’ingovernabilità che stava attraversando il nostro Paese. Nel ’64 e nel 65 l’Alto Adige subisce numerosi attentati da terroristi sudtiloresi, con uccisioni di agenti e militari italiani. Nelle università iniziavano le prime manifestazioni violente tra estremisti di destra e di sinistra, con le connesse dimissioni del rettore dell’università di Roma, Papi, accusato di gestione antidemocratica dell’università. La legislazione si evolveva in senso protezionista dei lavoratori con l’introduzione del limite della giusta causa nei licenziamenti (1966) ed i sindacati acquistavano un ruolo sempre più rilevante, non solo nella difesa degli interessi dei propri iscritti ma anche nella politica generale dello Stato.

Gli scioperi nelle fabbriche dilagavano e dilagavano anche le manifestazioni giovanili e le occupazioni di facoltà universitarie contro la guerra nel Vietnam, contro la Nato e gli Stati Uniti e contro l’imperialismo e l’autoritarismo in genere; perfino l’università cattolica di Milano fu in quegli anni occupata dagli studenti. Anche la figura del Papa, fino ad allora sempre oggetto di rispetto, fu messa in discussione dalla programmazione a Roma, nel febbraio 1965, della rappresentazione del dramma "Il Vicario" di Rolf Hochhuth che trattava in maniera assai critica l’atteggiamento di Pio XII di fronte allo sterminio nazista degli ebrei nel corso dell’ultima guerra. La polizia ne vietò la rappresentazione (5). Ma si costruivano anche fabbriche nel sud ed, in particolare, quella, importantissima ai fini della battaglia contro la disoccupazione, dell’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco.

In sostanza, il periodo de La Rivolta corrisponde ad un’epoca di forti contrapposizioni sociali e di traumatiche trasformazioni nella società italiana, fino ad allora coerente, tutto sommato, con quella che era stata l’Italia, sia prima che durante il fascismo: un paese di forti tradizioni cattoliche, di radicate concezioni morali di tipo agricolo-provinciale e conservatore, di consolidate gerarchie sociali e generazionali e soprattutto un paese non aperto né ad una diffusa filosofia industriale né alle abitudini europee emergenti. La trasformazione avveniva con forti scontri tra le varie componenti sociali, esulanti anche dagli schemi dei partiti tradizionali.

Anche nel resto d’Europa gli assetti socio-politici erano tutt’altro che tranquilli: nel 1964 erano iniziati i bombardamenti USA nel Vietnam del Nord e ciò provocava manifestazioni di dissenso in tutto l’Occidente. Il 27 aprile del 1967, con un colpo di stato, un gruppo di militari assumeva il potere in Grecia ed il Governo italiano esprimeva ufficialmente la propria preoccupazione per la svolta autoritaria. La Rivolta commentava: "il colpo di Stato in Grecia ha parato e prevenuto la marcia su Atene che i socialcomunisti preparavano su ispirazione e l’avallo del vecchio Papandreu che a Salonicco aveva convocato un’adunata oceanica che avrebbe dovuto realizzare ben altro colpo di stato che quello incruento effettuato da militari e magistrati. Non a caso la flotta di guerra sovietica solcava minacciosa le acque dell’arcipelago greco" (6).

Nel 1966 cadeva il decennale della rivolta d’Ungheria, scoppiata a Budapest nell’autunno del 1956 e poi soffocata nel sangue dai carri armati dell’URSS. L’occasione fu molto opportuna, nell’ambito del disegno di rivolta anticomunista del giornale, per ricordare con evidenza, contro l’immagine che si andava accreditando nel nostro Paese, e soprattutto presso gli intellettuali di sinistra, d’un comunismo pacifista, rigorosamente democratico, legalitario, sostenitore della cultura e soprattutto gradito al popolo più cosciente del proprio ruolo sociale, quale fosse il vero volto del comunismo reale. E si rivelava anche, con l’occasione il comportamento ambiguo da parte dei socialisti.

Non sarebbe bastato solo qualche articolo di rievocazione storica, sia pure con commento politico e morale. Si formò allora attorno al giornale un Comitato palermitano degli amici dell’Ungheria, cui aderirono con l’entusiasmo dei grandi momenti, oltre che numerose personalità del mondo cattolico ed anticomunista, palermitani di tutti i partiti, con eccezione di quello socialista e di quello comunista, nonché i pochi ungheresi residenti a Palermo. La rievocazione avvenne a Palermo il 6 novembre cominciando nel clima solenne e profondo di una messa nella chiesa di S. Domenico, celebrata in suffragio dell’anima di Luigi Tukory (le cui spoglie riposano proprio in questa chiesa) e dei caduti della rivolta ungherese dal padre Janos Asztalos, già condannato dal governo ungherese all’impiccagione, quindi "graziato" in cambio dell’ergastolo e poi riparato in Italia nei giorni della rivolta.

In un teatro Politeama gremito, come nelle occasioni che i cittadini avvertono solenni nella Storia, il direttore de La Rivolta, Gaetano Falzone, rievocò la crudele repressione sovietica dell’aspirazione alla libertà del popolo magiaro. Ovviamente, il giornale aveva preparato l’evento ricostruendo storia, cronaca e cultura di quegli orribili giorni, quando tutto il mondo occidentale era rimasto inerte di fronte all’appello di aiuto invocato in tutte le lingue dagli ungheresi attraverso la radio, trattenendo piuttosto il fiato, atterrito com’era dal ricatto di una possibile offensiva sovietica nell’Europa occidentale. Gli articoli di quei numeri del giornale sono ora di un certo interesse nella ricostruzione di quei giorni, dell’animo siciliano di fronte alla storia del Paese da cui era venuto Tukory al seguito di Garibaldi nel 1860 ed anche della stessa cultura nazionale e patriottica dell’Ungheria nel tempo della rivolta (7), ma rivelano anche la tendenza culturale del giornale nel rilevare il valore dei moti nazionalistici contemporanei degli altri paesi, anche al fine di rivalutare ed attualizzare la nostra tradizione risorgimentale ed i valori nazionali dell’Italia. Ci si sofferma dunque, nel giornale, ad approfondire i significati delle date 24 maggio e 4 novembre e quelli della rivolta siciliana del 1812 e del Parlamento siciliano del 1848 (8).

A voler trarre poi il senso di tutta una serie di articoli di intonazione storica o geopolitica o etnoantropologica, riguardanti altri paesi, e non secondari nell’economia di ciascun numero del giornale, la sua linea complessiva emerge ricca del rispetto e dell’esaltazione del valore delle storie e della fierezza nazionali. "Beirut É vive la sua vita di deliziosa sovrana dell’Oriente, che accoglie con uguale cortesia ed opulenza gli emiri del Kuwait e gli uomini d’affari americani. Vive la vita delle sue mille banche, dei suoi molti antiquari, dei suoi mercati d’oro e di tappeti" (9).

E guardando la Spagna, si osservava: "fino a che al Palazzo del Pardo, residenza del generalissimo capo di stato spagnolo, Iddio concede la salute ed il vigore all’ultra settantenne Francisco Franco y Bahamonde É las cosas de Espana pueden marchar bien" e "esta es la clave de nuestra politica: unir lo national y lo social bajo el imperio del o espiritual" (10).

E a proposito della Romania, governata dal Ceaucescu, si nota che "Balcescu (il poeta nazionale, morto a Palermo nel 1852) era di quelli che all’insegnamento dell’occidente voleva aggiungere quello delle memorie, delle tradizioni, delle leggi antiche della gente romena, che aveva una sua civiltà antica da fare risplendere (11). E si parla del Portogallo, vecchio impero tormentato dalla crisi del sistema coloniale (12); mentre il Giappone appare forte della gentilezza dei suoi abitanti e del serio sviluppo economico in atto visibile nelle varie industrie Canon, Thosiba ecc (13); e poi É la "fierezza millenaria dell’Ungheria di S. Stefano" (14), e l’antico interesse dei finlandesi per la Sicilia, dalla scoperta nell’università di Turku di una dissertazione di uno studente, nel 1766, sulla conquista della Sicilia da parte dei normanni, fino all’interesse per il "Gattopardo", sia pure per il tramite della moglie baltica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: "L’università di Turku era allora costruita in legno e fu distrutta nel 1827 dal fuoco. Oggi è tutta nuova e brillante. L’ho vista circondata dalle nevi, ma riscaldata dalla gaia e solenne vita dei suoi studenti" (15)

Dal punto di vista d’una azione politica più immediata, ovvero da quello della politica economica, il giornale mostrò intenti spiccatamente liberali e liberistici.

Visti d’altra parte retrospettivamente, gli anni sessanta si presentavano, si, attraverso i fatti emblematici che abbiamo visto, ma furono anche gli anni in cui il reddito pro capite salì in Italia sensibilmente ed il prodotto interno lordo crebbe (nel decennio 1961-1970) almeno del trenta percento. Di conseguenza, crescevano gli scambi di merci con l’Europa e col mondo ed esplodeva il consumismo, determinando una vera rivoluzione soprattutto nel costume familiare. Si comincerà presto a parlare, del resto, oltre che di mercato comune europeo, di global village e si cominciava ad avvertire l’inadeguatezza della pubblica amministrazione nei rapporti con le imprese ed in quelli con la nascente Comunità europea (16).Tra i partiti del centro-sinistra o meglio, dato il neologismo ormai acquisito, tra le forze dell’Arco costituzionale, l’espressione che sintetizzava la ragione di un possibile lavoro comune, necessario alla Nazione, era "riformismo" e l’obiettivo da raggiungere il welfare state. Il che significava: riforma della scuola, riforma universitaria, riforma della pubblica amministrazione, riforma urbanistica, programmazione economica, nazionalizzazione e municipalizzazione delle imprese di servizi di rilevanza sociale (di quelle produttrici di elettricità, prima di tutte), istituzione delle regioni di diritto comune ecc.. Ciò impensieriva imprenditori ed industriali per i costi che tali riforme avrebbero potuto avere sulla spesa complessiva dello Stato e per gli oneri che si sarebbero riversati sul mondo della produzione.

Lo stesso partito comunista partecipava ai dibattiti ed agli studi riguardanti le riforme, anche se al suo interno e presso la base elettorale, questo termine significava, almeno per una parte consistente dei lavoratori, un modo di eludere il programma di fondo: la distruzione del capitalismo. "A questi stessi lavoratori è gradito il messaggio agitatorio del PCI, che parla ancora di lotta di classe rivoluzionaria, perché al mitico aggettivo rivoluzionario non vuole certo rinunziare; tanto più che nel ’62 era esplosa un’ondata violenta di manifestazioni e di scioperi, destinata a prolungarsi per un intero decennio. Insomma il PCI non era ancora il partito di lotta e di governo che sarà teorizzato solo alla fine degli anni settanta" (17).

L’idea liberale, oggi indiscussa dalla maggior parte delle forze in campo, sostenuta allora da La Rivolta come la vera utile alternativa alla collettivizzazione del Paese, appariva, a dir poco, mostruosa.

Neanche il programma delle grandi riforme, comunque, fu poi portato a compimento, se non per quanto riguardava l’istituzione delle regioni, la nazionalizzazione delle industrie elettriche e, a livello locale, le municipalizzazioni; mentre nell’opinione pubblica non di derivazione marxista "non si distingue tra socialisti e comunisti: gli uni e gli altri sono rossi, sono marxisti, sono pagati da Mosca" (18).

Il giornale dunque conteneva in ogni suo numero almeno un forte articolo tecnico sul liberalismo, sull’economia di mercato o sulla Comunità economica europea (19) in cui si spiegava la necessità che tutto il sistema produttivo, favorito nel gioco della competitività, realizzasse una maggiore complessiva ricchezza da ridistribuire.

Complesso si rivela il quadro di considerazione, da parte del Settimanale, dell’unica forza che allora si qualificava di destra, ossia del Movimento sociale italiano: "abbiamo sempre sostenuto che l’attuale classe politica, che dice di voler difendere lo Stato italiano, non si comporta saggiamente cercando di estromettere dal gioco politico i combattenti, i lavoratori e i giovani che aderiscono al MSI" (20). Si avvertiva però anche come il tempo della nostalgia, della difesa delle giuste ragioni di chi era stato fascista nel "ventennio" e della retorica patriottica andava consumandosi.

Vero era che "attraverso la strumentale solidarietà antifascista i comunisti guidavano i partiti democratici del centrosinistra verso il baratro ed il caos" (21) e che per la messa al bando del M.S.I." si sfruttavano tutte le possibili occasioni dei disordini sindacali e giovanili delle varie piazze calde d’Italia, ma si avvertiva pure che, perché qualche forza politica meno filocomunista aiutasse il MSI a ritrovare un ruolo efficace nella dialettica democratica, il partito dovesse determinare, esso stesso, l’attualizzazione dei propri valori nel segmento di Storia che andava sviluppandosi in quegli anni ormai lontani dal 1945.

Ma, intanto, l’area di destra appariva poco consistente per un bilanciamento delle forze ancora marxiste del Paese. Randolfo Pacciardi, già comandante partigiano ed ora espulso dal Partito repubblicano per aver votato contro il Governo Moro, fondava -evidentemente a destra- l’Unione democratica per la nuova Repubblica ed il Giornale commentava: "in una situazione come quella che esiste in Italia, e che può degenerare mentre meno ce lo aspettiamo, la presenza dell’U.D.N.R. è un elemento di fiducia" (22).

Il giornale terminò la propria pubblicazione col finire del "mitico" 1968; nell’agosto del quale anno la Cecoslovacchia fu invasa dalle truppe e dai carri armati del Patto di Varsavia, ponendo così fine a quell’esperienza di diretta adesione politica alle istanze popolari, guidata da Alexander Dubcek, che fu chiamata la "Primavera di Praga". Questa volta il Partito comunista definì però "grave decisione" e "ingiusta decisione" l’invasione.

Il giornale commentava aspramente e con scetticismo, riproduncendo in evidenza una dichiarazione al riguardo di Luigi Gedda, presidente nazionale del Comitato civico: "i comunisti italiani e altri compagni di strada chiedono che non si faccia dell’anticomunismo. E’ la farsa del dramma. Non sono comunisti gli aggressori della Cecoslovacchia? Non vengono anzi dalla patria del comunismo?" (23).

Ma il 1968 fu anche l’anno in cui esplodeva in tutto il mondo occidentale la cosiddetta contestazione giovanile ed il giornale, commentando per la firma di Maurizio Barendson il massacro di studenti contestatori avvenuto a Città del Messico, alla vigilia delle olimpiadi ospitate in quella città, osservava, nel suo spirito di difesa delle rivolte risorgimentali nazionali, e con un certo apprezzabile equilibrio, che "esistono oggi paesi al mondo nei quali la strategia per il rinnovamento delle istituzioni prevale anche su occasioni storiche, come è una olimpiade" e che "è legittimo o quanto meno suggestivo pensare che un’olimpiade meno sospetta (di inutili lussi e di ingiustificabili sprechi), più pura, più aderente ai problemi e ai fermenti del paese non avrebbe avuto la aggressiva e irrituale accoglienza che ne ha turbato la vigilia in misura incancellabile" (24).

Il giornale, che aveva guardato al momento della sua vita con la consapevolezza d’appartenere ad un segmento della Storia e della storia ancora risorgimentale della nostra Nazione, chiudeva dunque mentre la Storia fluiva più che mai con le sue rapide e traumatiche maturazioni e tra violenze di vario significato: come nei secoli precedenti, come in quelli a venire; lasciando tuttavia come suo messaggio quello dell’imperativo della rivolta delle coscienze, ove la Nazione lo reclami (25).

NOTE:

(1) -Gaetano Falzone è nato a Palermo il 2 marzo 1912. Nel 1935 conseguì" la laurea in giurisprudenza; nel 1938 vinse il concorso per professore ordinario di filosofia e pedagogia ed insegnò tali materie presso gli istituti magistrali di Petralia Sottana e "G.B. De Cosmi" di Palermo; quindi passò all’insegnamento di storia e filosofia nel liceo "Garibaldi" di Palermo. Conseguita la libera docenza in storia del Risorgimento, si dedicò prima all’insegnamento universitario presso la facoltà di lettere e quella di magistero di Palermo e poi nella facoltà di giurisprudenza di Palermo. A ventiquattro anni partecipò da volontario alla guerra d’Etiopia, arruolato nel battaglione "Curtatone e Montanara", e nella seconda guerra mondiale combatté da ufficiale in vari fronti. Durante il fascismo fu componente della Commissione nazionale dei Littoriali della cultura e dell’arte e segretario dell’Istituto coloniale di Palermo. Dopo la guerra, fu presidente del Comitato di Palermo della Consulta nazionale dell’Istituto per la Storia del Risorgimento, componente del consiglio direttivo della Società Siciliana per la Storia Patria; socio di diverse accademie europee e, negli anni sessanta, direttore onorario del Museo etnografico "Giuseppe Pitré" di Palermo. collaborò attivamente con diverse riviste storiche e culturali nazionali, quali Nuova Antologia, Rassegna storica del Risorgimento, Archivio storico italiano, Il Risorgimento, Nuova rivista storica, Archivio storico siciliano, Archivio storico messinese, L’Osservatore politico-letterario e produsse una lunga serie di volumi dedicati soprattutto al Risorgimento e particolarmente al ruolo della Sicilia in quella stagione della Storia. Svolse anche una notevole attività di pubblicista dedicandosi soprattutto alla diffusione dei valori civili del Risorgimento, alla valorizzazione dei beni culturali della Sicilia ed all’amicizia tra i popoli del Mediterraneo e tra questi e quelli dei balcani e dell’Europa orientale. Collaborò per anni alla pagina culturale del Giornale di Sicilia; fondò e diresse la rivista di studi storici Il Risorgimento in Sicilia, Vie di Sicilia, Sicilia turistica, Vie mediterranee e La Rivolta. Morì a Palermo, dopo una lunga malattia che per anni fiaccò il suo temperamento dinamico, il 1¡ giugno 1984.

(2) Per altri articoli del genere, cfr. n. 2 del 21 febbraio 1965 e n. 7 del 28 marzo 1965.

(3) La Rivolta., n. 2 del 21 febbraio 1965.

(4) La Rivolta, n. 3 del 23 gennaio 1966.

(5) -Cfr. articolo di Giano Acame La commedia del Vaticano ne La Rivolta, n. 2 del 21 febbraio 1965.

(6) La Rivolta, 3 maggio 1967, n. 18: Castiglia P., Lacrime di coccodrillo.

(7) -Cfr. La Rivolta, 15 giugno 1966, n. 24: Il governo comunista di Kadar; 7 settembre 1966, n. 27: Il decennale della rivolta di Budapest; 12 ottobre 1966, n. 32: Sta per scoccare il decimo anniversario della legislazione di Budapest; 19 ottobre 1966, n. 33, Palmeri G., Il popolo ungherese volle la libertà; ivi, Il Padre Asztalos a Palermo; 2 novembre 1966, n. 35: Fierezza millenaria dell’Ungheria di Santo Stefano; ivi Tibor Tollas, Hanno chiuso le finestre con lastre di lamiera; 9 novembre 1966, n. 36: Nel nome di Tukory e dei caduti per la libertà ungherese; ivi, Gabriele Apor, Messaggio; ivi: Asztalos J., Messaggio. Nel n. 35 del 2 novembre 1996, si produceva la lettera di Pio XII del 5 novembre 1956 in cui il Papa, in occasione della rivolta in Ungheria, esprimeva tutta la sua amarezza perché "nelle città e nei villaggi dell’Ungheria scorre di nuovo il sangue generoso dei cittadini che anelano nel profondo dell’animo alla giusta libertà" e perché "le patrie istituzioni, non appena costituite sono state rovesciate e distrutte; i diritti umani sono stati violati ed al popolo sanguinante è stata imposta con armi straniere una nuova servitù".

(8) -Cfr. per es.: La Rivolta 28 marzo 1965: Chi siamo e che cosa pensiamo; 9 novembre 1966, n. 36: Una vittoria senza cuori; 17 maggio 1967, n. 20: Scegli la Patria; 29 marzo 1967, n. 3: Redaelli A., Carducci oggi; 2 novembre 1968, n. 20: Una vittoria che oggi non è stata ancora del tutto vinta; 13 marzo 1966, n. 11: Falzone G., Fiume, Nitti e D’Annunzio.

(9) Ivi, 5 ottobre 1966, n. 31.

(10) Ivi,10 maggio 1967, n. 19.

(11) Ivi,17 maggio 1967, 20.

(12) Ivi,3 maggio 1967, n. 18.

(13) Ivi,18 aprile 1965, n. 10.

(14) Ivi,2 novembre 1966, n. 35.

(15) Ivi, Falzone G., Amore dei finlandesi per la Sicilia, 22 giungo 1966.

(16) -E’ del 1974 il saggio di M. Mc Luhan, Understanting Media. The extensions of the man cfr., anche Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, pagg. 383 e segg.

(17) Colarizi S., Storia del Novecento italiano, Milano 2000, pag. 385.

(18) Colarizi, cit. pag. 389.

(19) -Cfr., per es., Mosca O, La lira vale sempre meno, 7 marzo 1965, n. 4; Capr" G., Stato e Regione, 18 aprile 1965, n. 10; Mosca O., Imprenditori e sindacalisti, 11 aprile 1965, n. 9; Fierotti M., La lotta contro la povertà, 5 ottobre 1966, n. 31; Lucarini G., Lo Stato padrone, 17 maggio 1967, n. 20.

(20) La Rivolta, n. 10 del 6 marzo 1966.

(21) La Rivolta, n. 20 del 15 maggio 1966; Leto G., Attraverso la solidarietà antifascista ecc.

(22) La Rivolta, n. 37 del 21 novembre 1965.

(23) La Rivolta, 2 novembre 1968, n. 20.

(24) -Barendson M., La rivolta e la contestazione non risparmiano le Olimpiadi, 2 novembre 1968, n. 20.

(25) -Le firme comparse più frequentemente ne La Rivolta sono quelle di Giano Accame, noto ideologo di destra; Franz Aliqu˜; Maurizio Barendson, giornalista sportivo della RAI; Pietro Castiglia, già deputato ed assessore regionale per il Partito nazionale monarchico; David Hartington; Ignazio Calandrino scrittore; Giovanni Cardella, giornalista; Giovanni Capr"; Carlo De Leva, giornalista e scrittore; Michele Fierotti, esponente del Partito liberale italiano; Girolamo Leto; Giuseppe Mammina; Oreste Mosca; Luigi Maggiore; Ugo Manunta, già editorialista del Giornale di Sicilia; Luca Pietromarchi, già ambasciatore d’Italia a Mosca; Leonardo Kociemski; Nicol˜ Rodolico, storico del Risorgimento; Massimo Scaligero; Francesco Saia; Franco Tomasino, pubblicista nonché, infine, quella dell’autore di questo articolo. Il giornale era arricchito da incisive vignette e da esemplari caricature di siciliani dell’epoca disegnate da N. Rosselli, ossia "Cimabuco". E’ facile supporre, inoltre, che la generalità degli editoriali, anche se non firmati, siano di Gaetano Falzone. A sua firma è contenuto, invece, nel giornale un certo numero di articoli di carattere storico, letterario o di geopolitica il cui elenco si trova nella bibliografia completa di G.F., a cura di Giuseppe Tricoli, in "Studi in memoria di Gaetano Falzone" edito dal Comitato di Palermo dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Palermo 1993.

 

 

Gabriella Portalone MUSSOLINI NEL 1914: IL PASSAGGIO DALLA CLASSE ALLA NAZIONE

Ho sempre pensato che la Settimana Rossa, svoltasi tra il 7 e il 14 giugno del 1914, pochi giorni prima dell’attentato di Sarajevo e poche settimane prima dello scoppio della I guerra mondiale, avesse rappresentato per Mussolini una tappa fondamentale nell’evoluzione del suo pensiero e nell’elaborazione della sua futura tattica politica.

A tale episodio, nel contesto degli avvenimenti immediatamente successivi che travolsero l’Italia e l’Europa, si tende ad attribuire un ruolo marginale nel quadro storico del momento, dimenticando che esso costituì l’ultima, la più lunga e la più violenta espressione del malcontento delle classi popolari, allora rappresentate in Parlamento dal solo partito socialista, contro l’ormai anacronistico e fatiscente apparato di uno stato borghese, destinato, da lì a poco, ad essere travolto dalle conseguenze degli avvenimenti bellici.

Lo sciopero generale, proclamato il 7 giugno del 1914, mise in evidenza agli occhi del socialista eretico Mussolini, direttore dell’Avanti!, giornalista di grandissimo successo e di notevole seguito, protagonista e trionfatore del recente Congresso di Ancona (1), i limiti insiti nella lotta di classe fin lì portata avanti dal suo partito. La classe proletaria, infatti, si presentava particolarmente disunita e disomogenea sia a livello di base che a livello dirigenziale. Se la base era profondamente divisa dagli interessi di categoria che portavano i metallurgici a scontrarsi con i ferrovieri, i tessili con i marittimi e in genere la classe operaia con quella contadina, il vertice era diviso fra il riformismo della CGL di Rigola, l’intransigentismo della USI, la tattica politica del gruppo parlamentare socialista, il massimalismo del direttore del’ Avanti! e dei socialisti non parlamentari, il personalismo e il protagonismo dei singoli.

La classe proletaria, insomma, portava nel suo seno interessi tanto diversi fra loro, se non spesso contrastanti, da non poter essere idonea a rendersi promotrice della rivoluzione sociale, nella prospettiva di una costruzione di un mondo nuovo, alla maniera soreliana e di un uomo nuovo, alla maniera nietzschiana.

Furono queste considerazioni, unite alla delusione datagli dal voto favorevole alla guerra espresso dai socialisti belgi, austriaci, francesi e tedeschi, che scardinava la logica dell’Internazionalismo operaio e dell’antimilitarismo ad oltranza, a portare il giovane Mussolini - di formazione anarchica ma anche mazziniana, marxista ma anche soreliana, bergsoniana ma anche nietzschiana, - a perdere ogni fiducia nel determinismo marxista, nel materialismo che vi stava alla base, nel suo dogmatismo e a spingerlo verso altri lidi che gli permettessero, senza rinnegare il suo marxismo di fondo, di trovare una nuova strada per ottenere, attraverso la massiccia partecipazione delle masse, quel mondo nuovo e quell’uomo nuovo che sarebbero state fondamentali nella sua spasmodica ricerca fino alle soglie della morte.

La crisi del marxismo e il ribellismo giovanile

La Settimana Rossa, scoppiata ad Ancona proprio il giorno della celebrazione dell’anniversario dello Statuto Albertino, a ridosso del Congresso socialista che vi si era svolto e che aveva visto, fra l’altro, il trionfo della pregiudiziale antimilitarista e antimassonica, frutto soprattutto dalla battaglia personale di Benito Mussolini, non nasce come manifestazione improvvisa del malcontento popolare, ma come logica conseguenza della maturazione di una delusione nata dopo la concessione del suffragio universale.

Quella che era sembrata la più grande concessione che la sinistra avesse potuto ottenere dopo anni di lotta, si era, alla fine, dimostrata quasi un inganno. Le elezioni del 1913, le prime a suffragio universale, seppure avevano permesso l’accesso alla Camera di un nutrito drappello socialista, avevano peraltro rafforzato, tramite il Patto Gentiloni tra cattolici e liberali e tramite l’impresa libica che aveva tonificato le forze nazionaliste, il fronte borghese - conservatore. Giolitti era stato sostituito dal moderato Salandra, rappresentante del mondo agrario meridionale, affiancato da un uomo come Sidney Sonnino, da sempre avversario dello statista di Dronero, mosso da una forte fede nello Stato autoritario, ma nello stesso tempo convinto riformista. Dunque, la risultante finale delle prime elezioni a suffragio universale era costituita fondamentalmente dalla formazione di un governo molto più conservatore di quelli precedenti la grande riforma elettorale. (2)

Il Congresso socialista di Reggio Emilia del 1913, che aveva visto come protagonista un vero peone, il poco più che ventenne Mussolini, reduce dalle carceri regie dopo gli eccessi commessi, insieme a Nenni, nel 1911 per sabotare la spedizione libica, aveva deliberato l’espulsione dei riformisti Bonomi, Bissolati e compagni, ma anche la netta virata a sinistra del partito che aveva finito per rompere i legami con la cosiddetta sinistra costituzionale, cioè con i radicali e con parte dei giolittiani, legami che gli avevano permesso, nel 1900, di portare avanti con successo la battaglia ostruzionistica contro le leggi liberticide di Pelloux. (3)

I socialisti avevano così deciso di isolarsi da tutte quelle forze che, se pur progressiste, miravamo al gradualismo riformistico perseguito attraverso la lotta parlamentare e sindacale. Avevano abiurato, cioè, ad ogni legame con la sinistra disposta a collaborare con le forze sane della borghesia allo scopo di riformare insieme l’assetto sociale. Si trattava, in fin dei conti, delle stesse polemiche che dividevano i socialisti francesi, Jaurès e Guesde, i socialisti tedeschi Bernstein e Kautsky e i russi Martov e Lenin. (4)

La seconda Internazionale aveva sancito, al di là della messa al bando del revisionismo bernsteiniano, il trionfo del riformismo e del parlamentarismo che trovavano i loro principali alfieri in uomini come Lassalle, Bebel, Kautskj, in Germania, e Jaurés in Francia. Si trattava di elaborazioni dottrinali del verbo marxista che, pur ripudiando il revisionismo come eresia, al revisionismo tutto sommato si ispiravano, mettendo da parte il momento rivoluzionario e optando per un programma minimo gradualista basato sulla lotta politico-parlamentare e sindacale. Si trattava, insomma, di un sofisma; da un lato infatti, si bandiva il teorema di Bernstein il quale negava la necessità della rivoluzione, dall’altro, pur accettando tutti i dogmi marxisti, dalla legge bronzea dei salari, alla lotta di classe, all’ineluttabilità della rivoluzione e all’annullamento dello stato borghese, si attendeva fatalmente il giorno in cui il proletariato sarebbe stato pronto all’atteso scontro finale, accontentandosi, per il momento, di una battaglia combattuta all’interno dello stesso stato borghese con un programma che, di fatto, per nulla si scostava da quello revisionista. Jaurès, infatti, riconosceva il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato, rinnegando implicitamente il dogma marxista dell’immiserimento progressivo, ma rifiutava categoricamente di essere considerato discepolo di Bernstein:

vivranno tra gli uomini uguali e riconciliati, solo in una vasta emulazione di lavoro e di giustizia".(5)

La lotta politica e parlamentare metteva sul tappeto lo scottante problema della collaborazione dei socialisti con gli altri partiti borghesi. Tale problema acquistò notevole pregnanza quando in Francia scoppiò il caso Millerand, cioè la partecipazione di un socialista ad un governo borghese. Il problema fu discusso al Congresso socialista di Parigi del 1900 dove sull’argomento, ampiamente dibattuto, prevalse la risoluzione di Kaustskj su quella di Guesde.

Il riformista tedesco si pronunziava su due problemi distinti: alleanze tra socialisti e partiti borghesi e partecipazione di ministri socialisti a governi borghesi. Nel primo caso Kautskj ammetteva la collaborazione politica solo in casi eccezionali, per esempio per la difesa delle libertà fondamentali dei cittadini, come era avvenuto in Italia nel 1898, o per la difesa dei diritti politici come era avvenuto in Francia, in Belgio ed in Austria:

" Il Congresso ricorda che la lotta di classe vieta ogni sorta di alleanza con una frazione qualsiasi della classe capitalista. Anche ammesso che circostanze eccezionali rendano necessaria in qualche caso coalizioni (…) queste coalizioni possono essere tollerate solo in quanto la loro necessità sarà stata riconosciuta dall’organizzazione regionale o nazionale cui appartengono i gruppi interessati". (6)

Sulla seconda questione la risoluzione Kaustskj così si pronunziava:

" .. L’ingresso di un socialista isolato in un governo borghese non può essere considerato come l’inizio normale della conquista del potere politico, ma soltanto come espediente forzato, transitorio ed eccezionale. Se in caso particolare la situazione politica necessita questa esperienza pericolosa è una questione di tattica e non di principio: il Congresso internazionale non ha da pronunziarsi su questo punto". A tale risoluzione Jaurès aggiunse il seguente emendamento: " In ogni caso il Congresso ritiene che anche in questi casi estremi un socialista deve abbandonare il ministero quando il partito riconosca che questo dà prove evidenti di parzialità nella lotta tra capitale e lavoro" (7)

Jaurès quasi anticipava quella che sarebbe stata la tattica stalinista nel periodo dei fronti popolari degli anni trenta: identificare, cioè, il nemico comune e nel comune bersaglio da combattere superare la divisione imposta dalla dottrina marxista tra rappresentanti di classi diverse. In quel momento il socialismo parlamentare e riformista identificava il nemico comune agli altri schieramenti progressisti, anche fedeli alla logica del capitale, nella reazione, nel militarismo, nell’antisemitismo:

" (..) quando la libertà repubblicana è in gioco, quando la libertà di coscienza è minacciata, quando i vecchi pregiudizi che risuscitano orgoglio di razza e le atroci diatribe dei secoli passati sembrano rinascere, è dovere del proletariato socialista marciare con quella tra le fazioni borghesi che non vuole tornare indietro.. E’ Marx stesso che ha scritto queste parole di ammirevole chiarezza: " Noi socialisti rivoluzionari siamo col proletariato contro la borghesia con la borghesia contro i feudali e i preti". (8)

Appare chiaro che dietro il paravento della tattica, il principio marxista andava a farsi benedire giustificando, così, la famosa frase di Giolitti secondo cui Marx era stato mandato in soffitta. Ciò veniva pienamente compreso dai massimalisti come Guesde o Liebknecht i quali si rendevano conto dei rischi che tali operazioni tattiche potevano comportare, soprattutto dal punto di vista dell’immagine del partito nei confronti delle masse proletarie, visto che il principio della lotta di classe risultava incompatibile con qualsivoglia alleanza tra il mondo del capitale e quello del lavoro:

" Figuratevi questa partecipazione socialista, questo socialista entrato in un governo borghese, - sosteneva Guesde - e che ha la responsabilità non solo della politica interna borghese, ma anche della politica estera capitalista, obbligato a depositare richieste di crediti militari, marittimi coloniali.. E’ la distruzione dell’Internazionale che state preparando, con un Millerand prussiano, con un Millerand italiano, con un Millerand francese, con un Millerand inglese, non c’è più Internazionale operaia possibile" (9)

Guesde arrivava a condannare anche l’avallo dato dai socialisti a Dreyfus, poiché si trattava, ancora una volta, di un sostegno dato dal proletariato ad un rappresentante della borghesia vittima di un ingiustizia. Giammai, invece, la borghesia sarebbe intervenuta in difesa del proletariato vittima perenne delle ingiustizie della società capitalista. (10) Evidenziava, inoltre, come i socialisti tendessero a smarrirsi all’interno di sterili polemiche borghesi, perdendo di vista i problemi veri del proletariato; se qualsiasi tipo di collaborazione, anche quella ideologica o culturale, era ritenuta inquinante, tanto più era da considerarsi eretica una collaborazione socialista ad un governo borghese. Guesde riteneva, perciò, Millerand ostaggio del governo Waldek Rousseau per disonorare l’opposizione socialista, così come in Italia si riteneva disonorevole la convocazione di Bissolati da parte di Giolitti, o la tacita accondiscendenza alla politica giolittiana di Turati, chiamato ormai, sprezzantemente dai massimalisti, il poliziotto del regime.

D’altra parte i massimalisti consideravano pietosi paraventi, dietro cui i compagni riformisti nascondevano una netta scelta borghese, le argomentazioni da loro sostenute in relazione ai pericoli della reazione, addirittura di un ritorno indietro alle antiche istituzioni feudali, al trionfo del clericalismo. Esistevano ormai dei principi ben radicati in tutti gli strati della popolazione, per cui certe conquiste di libertà apparivano veramente indiscutibili. I massimalisti, tuttavia, non tenevano conto del fatto che un’alleanza tra il socialismo riformista e le fazioni borghesi più progressiste, avrebbe potuto salvare la società dalle aberrazioni a cui il darwinismo e il positivismo l’avevano portato, sfociando nell’irrazionalismo, che avrebbe dato l’imput a ben due guerre mondiali e alla crisi dei regimi democratici.

Socialismo o imperialismo: questa alternativa, come sosteneva Rosa Luxemburg, abbracciava ed esauriva l’orientamento politico dei partiti operai nell’ultimo decennio del secolo diciannovesimo. (11)

Il socialismo riformista, tuttavia, attraversava il suo momento di maggiore floridezza in tutta Europa, in Italia, in Belgio, in Austria, ma soprattutto in Germania e in Francia. In questi paesi la dialettica politica era particolarmente vivace, non soltanto per la loro robusta tradizione culturale, ma anche perché si trattava di due stati che alla fine degli anni ’80 avevano raggiunto la floridezza economica e lo sviluppo industriale della vicina Inghilterra. Lì il movimento operaio non aveva mai avuto connotati rivoluzionari, ma sempre gradualisti identificandosi nel sindacato delle Trade Union, che per molto tempo mantenne una posizione di priorità e di guida rispetto al Labour Party che sarebbe nato alcuni decenni dopo. Il socialismo inglese si chiamò dunque fabiano, da Fabio Massimo il Temporeggiatore, poiché l’aristocrazia proletaria degli operai specializzati era alla guida del movimento e riteneva un dato di fatto inconfutabile che lo sviluppo del capitale, seppure avesse sproporzionatamente arricchito i suoi detentori, aveva altresì determinato inimmaginabili passi avanti nel tenore di vita della classe operaia.

In Germania si era verificato lo stesso fenomeno, dal quale era poi sgorgata la dottrina eretica di Bernstein, ma Lassale e Kautskj, pur defilandosi da quell’eresia, avevano portato avanti una politica parallela alle teorie revisioniste, trovando sulla loro strada un’opposizione marginale che si concretizzava soprattutto nell’azione di due personaggi, che avrebbero avuto un notevole rilievo nella storia futura del Paese: Rosa Luxemburg e Liebknecht.

In Francia era ancora più vivace la polemica tra una destra rappresentata da Jaurès e Millerand e da una sinistra facente capo a Guesde, Lagardelle, Sorel, Berth. In quel Paese il successo del socialismo riformista trovava, probabilmente, fondamento anche nella tradizione di quel socialismo utopistico che era nato sul principio della mediazione e della collaborazione fra le classi. Benoit Malon era stato il precursore del riformismo francese con il suo Socialisme integral del 1890, con cui si staccava dalle tesi possibiliste di Brousse, formulate agli inizi degli anni ottanta e si imponeva di svolgere un ruolo unificatore tra le varie correnti del socialismo francese, avanzando un programma di riforma dello stato da realizzare gradualmente per mezzo della lotta elettorale e parlamentare. (12)

Accanto alla socializzazione della rendita, dei trasporti pubblici, delle fabbriche di prodotti indispensabili alla vita come, per esempio, i mulini, gli zuccherifici, gli oleifici, Malon proponeva il mantenimento della proprietà privata per i beni strettamente personali, lasciando, tuttavia, larghi margini di discrezionalità alla determinazione di tali beni. Risultava molto più chiaro il siciliano La Loggia, a tale proposito, facendo una netta distinzione tra beni di lusso e beni di necessità. (13)

Millerand svolgendo un’opera di mediazione che annullava gradualmente i confini tra capitale e lavoro, rinnegava l’ottica rivoluzionaria sostenendo che non da una minoranza in rivolta, ma dalla maggioranza cosciente si sarebbero potute ottenere le trasformazioni sociali.

Tale tipo di socialismo cosi conciliante e addomesticato non soddisfaceva, tuttavia, le nuove generazioni, spinte dal ribellismo proprio del novecento verso traguardi più ambiziosi e sconvolgenti. Sia i giovani che le masse operaie meno evolute, economicamente e culturalmente si sentivano traditi da un socialismo che andava a braccetto con i suoi nemici storici e che invitava ripetutamente la massa alla pazienza e alla moderazione.

Il dibattito ideologico all’interno del movimento socialista italiano.

Per andare incontro alle esigenze, sia delle masse deluse, sia delle nuove generazioni insoddisfatte, Antonio Labriola, massimo interprete italiano della dottrina marxista, cercò di elaborare un programma socialista che tenesse conto e degli interessi economici del proletariato e degli slanci ideali della gioventù intellettuale. Egli combatté strenuamente il gradualismo portato avanti in Italia da uomini come Turati, Bissolati, Treves e Bonomi e l’eresia revisionista, cercando di diffondere capillarmente il verbo marxista con una nuova interpretazione del Capitale. (14) Secondo Croce, egli contrapponeva alla visione materialista del marxismo una visione più idealista, una sua interpretazione nazionale, in funzione conservatrice (15). Rendendosi conto della crisi che attraversava il pensiero marxista, Antonio Labriola si imponeva di rievangelizzare i socialisti italiani, convinto com’era che in Italia si parlasse di revisionismo senza, in effetti, conoscere Marx:

" Io non sono il paladino di Marx - scriveva - ammetto tutte le critiche, sono io stesso in tutto ciò che dico un critico, non smentisco la sentenza:comprendere è superare, ma mi conviene pure d’aggiungere superare è aver compreso" (16)

La vulgata marxista diffusa dal Labriola svolse un ruolo fondamentale nell’educazione delle giovani generazioni, e lo stesso Mussolini conobbe Marx attraverso i suoi scritti, intravedendo in essi un’originale reinterpretazione del pensiero marxista in cui veniva rigettato ogni teleologismo volontaristico:

" (...) L’avvento della produzione comunistica - scriveva Labriola - è dato (nel materialismo storico) non come postulato di critica, né come meta di una volontaria elezione, ma come il risultato dell’immanente processo della storia. Qui trattasi di riconoscere o di non riconoscere, nel corso presente delle cose umane, una necessità la quale trascende ogni nostra simpatia e ogni nostro subiettivo assentimento. ( Il materialismo storico). La coscienza teorica del socialismo sta oggi come prima e come sempre nell’intelligenza della sua necessità storica (..) " (17)

Dall’assunto di Marx si deduce la fatalità della rivoluzione sociale e dell’avvento della società comunista, indipendentemente dai socialisti e dalla loro volontà. Ciò comporterebbe la passività del proletariato, l’uomo - avrebbe dedotto Mussolini -

" (...) come essere volitivo è relegato all’arriére - plan (...)

e tutto ciò non poteva essere accettato da chi era stato educato alla luce degli scritti di Mazzini e De Amicis, da chi non poteva sottrarsi al fascino dell’idealismo di Hegel, al culto dell’io assoluto di Stirner e del superuomo di Nietzsche. Già da giovanissimo insegnante elementare a Pieve di Saliceto, frazione del comune di Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, aveva dato prova di respingere il positivismo e il materialismo storico in un articolo pubblicato sulla rivista I diritti della scuola, in cui lamentava i metodi d’insegnamento ispirati ad un arcadico semplicismo ed alieni da un substrato di alte idealità che egli considerava la causa prima per la quale uscivano dalla scuola giovani demotivati, caratterizzati dall’ignavia dell’anima.. Auspicava, perciò, un insegnamento che conculcasse nei discenti il senso della cooperazione, della solidarietà e della fratellanza. Secondo il Tricoli proprio questi principi avrebbero, in seguito, ispirato la riforma scolastica Gentile. (18)

Perciò Mussolini accetta e abbraccia l’interpretazione più lata, quasi un’interpretazione revisionista, che Labriola dà degli scritti di Marx, inserendo nel materialismo storico quell’aspetto etico che Engels respingeva, ma che diventa indispensabile per l’hommme qui cherche e che nella sua ricerca si fonda essenzialmente sull’ideale e non sull’ideologia e tanto meno sulla mera economia:

" (..) ognuno è l’artefice del proprio destino - concludeva Mussolini - Ora non basta che il socialismo sia, come afferma Labriola ‘storicamente condizionato’, ma bisogna dimostrare che il suo trionfo rappresenta il trionfo delle idee di Bene e di Giustizia. Entra in scena la Morale: la valutazione etica del fenomeno (..) Il fattore economico da subordinante diventa subordinato. Passa in seconda linea. Il socialismo non è più una necessità economica, ma una necessità trascendente, metafisica: è la necessaria realizzazione dell’Idea. Il socialismo non è più solo il prodotto del gioco e del travaglio delle forze economiche, ma anche e prevalentemente il risultato di un atto di volontà (..) " (19)

Egli è dunque un volontarista che nel concetto di azione volontaria supera il determinismo marxista e l’evoluzionismo fatalista dei riformisti. (20) Supera il primo perché respinge il concetto per cui non possa essere la volontà a determinare il momento rivoluzionario dell’evoluzione; si scaglia contro il secondo perché vede in esso una degenerazione borghese dell’ideologia socialista. Il riformismo infatti, finisce per creare, tramite il sindacato, una aristocrazia operaia, che lotta per il mantenimento dei propri privilegi sociali ed economici, disinteressandosi di quelli che Lenin chiama gli interessi fondamentali a tutta la classe operaia. La sua critica al riformismo socialista risale al periodo svizzero, tra il 1902 e il 1904 ed è documentata dai suoi primi articoli sull’Avvenire del Lavoratore di Como e sulla Giustizia di Reggio Emilia.

Non concepisce il socialismo come mero materialismo positivista, poiché ritiene che solo staccandosi dagli interessi materiali e dalla lotta economica quotidiana esso potrà diventare universale. Crede, conformemente all’insegnamento di Schopenhauer- che il mondo è volontà e rappresentazione, crede, dunque, in un socialismo idealista, poiché l’idea comune può essere elemento di unità che trascende le differenze di categoria:

L’unione per se stessa non fa la forza. E’ tempo di rivedere questo cliché di toglierlo dalla circolazione. L’unione diventa la forza, quando l’unione è cosciente. Altrimenti no. L’operaio semplicemente organizzato è divenuto un piccolo borghese che non obbedisce che alla voce degli interessi" (..) (21)

Il socialismo è per lui non una formula, ma il mezzo per l’elevazione del popolo, per la creazione di una società più giusta: il filo rosso di una prassi, (...) non legata, appunto, a dogmi, ma al movimento reale della storia, secondo l’insegnamento vichiano. (22)

La rilevanza che Mussolini dà al concetto di Idea, coincide non solo con l’interpretazione del materialismo storico elaborata da Labriola, ma è anche una delle tante peculiarità del pensiero marxista italiano; esso, infatti, aveva una matrice umanistica, più che materialista, con il conseguente prevalere dell’elaborazione filosofica su quella strettamente economica. (23)

Labriola favorì, peraltro, la ricerca di una via italiana al marxismo, resa necessaria, secondo Santarelli, anche dalla particolare struttura della società italiana, rispetto alle società europee più industrializzate. La società italiana era una società quasi uniformemente contadina, con l’eccezione del triangolo industriale Milano - Torino - Genova e di qualche altra realtà marginale in altre parti d’Italia. Si doveva, dunque, adattare il verbo marxista, rivolto esclusivamente al proletariato industriale, ad una struttura sociale rurale ed arcaica, più evoluta nella valle padana e nella campagne toscane, ma molto arretrata nel centro sud del Paese. Non per niente i più grandi teorici del marxismo italiano furono dei meridionali come Labriola, Cafiero, Gramsci, i quali per l’ambiente in cui erano nati e vissuti, non potevano non essere influenzati dal problema contadino. (24)

Un’altra caratteristica del movimento socialista italiano era data dal fatto che esso era nato borghese, cioè l'influenza su di esso della piccola e media borghesia intellettuale era stata determinante:

" Tracce evidenti di questo fenomeno – scrive Santarelli - si riscontrano, in modo particolarmente marcato, ma non perciò meno sintomatico, nel sindacalismo rivoluzionario, nelle sue inflessioni e degenerazioni nazionaliste, nel suo incontro col nazionalismo imperialista, nella elaborazione di un socialismo nazionale durante il periodo della guerra libica e della I guerra mondiale" (25)

Oltre ad un’arretratezza economica rilevante, ad una stratificazione sociale diversa che negli altri paesi europei, con prevalenza assoluta della componente contadina, esistevano in Italia delle questioni particolari, estranee ai paesi più industrializzati, come la questione meridionale e il problema dell’emigrazione, che proprio all’inizio del secolo, raggiungeva proporzioni inimmaginabili. Per questo i socialisti italiani si divisero anche sul problema coloniale, poiché alcuni di essi vedevano nella conquista della Libia una possibile soluzione ai problemi che tormentavano il Meridione, primo fra tutti, appunto, l’emigrazione, per cui Antonio Labriola finiva per appoggiare il colonialismo che costituiva, peraltro, l’antitesi dell’ortodossia marxista:

"Gli Stati d’Europa.. sono in continuo e complicato divenire, in ciò che ambiscono, conquistano, assoggettano e sfruttano in tutto il resto del mondo. L’Italia non può sottrarsi a questo svolgimento degli stati che porta con sé uno svolgimento dei popoli. Se lo facesse e potesse farlo, in realtà si sottrarrebbe alla circolazione universale della vita moderna e rimarrebbe arretrata in Europa. Il movimento espansionista delle nazioni ha le sue ragioni profonde nella concorrenza economica" (26) Antonio Labriola aveva perfettamente compreso i caratteri e le radici dell’imperialismo, ma li aveva certamente elaborati non in senso socialista.

Paradossalmente dava al fenomeno un’interpretazione più marcatamente marxista Olindo Malagodi quando sosteneva che:

" (...) l’oligarchia politica ed economica all’interno diventa imperialismo all’estero." (27)

Anche in Italia la causa principale della crisi del marxismo fu data dalla diffusione delle teorie revisioniste di Bernstein che, non solo minarono le certezze nei dogmi marxiani, ma che finirono per accentuare, pur se respinte dal socialismo ufficiale, una sempre più marcata adesione al riformismo e al parlamentarismo che avrebbe portato il partito ad una collaborazione tacita ed indiretta con la politica giolittiana. Turati, leader e fondatore del Partito socialista dei lavoratori italiani, aderì senz’altro alla teoria del pensatore tedesco, pur ribattezzando la sua personale interpretazione del marxismo come riformismo e non come revisionismo, per rimanere, almeno formalmente, nell’ambito dell’ortodossia marxista. Egli accettava Bernstein in modo tattico ed empiristico, senza per questo contestare i postulati marxisti:

" (...) Il partito socialista - scriveva - è e vuole essere un partito essenzialmente critico e sperimentale e, per determinarne la condotta... infatti, l’insegnamento dei fatti ha più valore di qualsiasi teoria architettata a priori. E’ in questo senso unicamente che deve intendersi il motto bernsteiniano: nel socialismo il moto è tutto (..). Alle origini del partito, fummo tutti più o meno intransigenti, perché si trattava di affermarsi e di differenziarsi, poi fatte le ossa, quando si trattò di agire, si è dovuto mutare atteggiamento, perché l’azione, si voglia o no, è sempre transazione.." (28)

Una filosofia della prassi questa, che si avvicina molto al pensiero dell’eretico Mussolini, l’homme qui cherche,- nonostante egli si dichiarasse acerrimo nemico e del revisionismo e dei revisionisti - alla perenne ricerca di una sintesi dottrinale che potesse effettivamente applicarsi alla realtà italiana senza cadere nell’utopia. (29)

Turati, in effetti, sarebbe stato portato alla transazione, per l’esperienza che gli era derivata dall’esperimento di collaborazione parlamentare, effettuato con la sinistra borghese durante la crisi di fine secolo, in difesa dei fondamentali diritti di libertà dei cittadini, ai quali Di Rudinì e Pelloux, con una politica fondata sui decreti legge, avevano tentato di derogare. (30) Secondo Michels, agli inizi del secolo si combattevano, in Italia, due revisionismi; il revisionismo riformista di Turati, rivolto a destra, e il revisionismo rivoluzionario di Merlino e dei discepoli di Sorel, rivolto a sinistra. (31)

Il fatto che il saggio sul revisionismo di Bernstein sia datato 1898 e che il partito socialista dei Lavoratori Italiani fosse nato solo sei anni prima, incise notevolmente sul dibattito politico del tempo. (32) I socialisti italiani, dunque, parteciparono attivamente al dibattito internazionale, il Bernstein debatte, che si sviluppò sulle tesi revisioniste. Ma in un Paese che aveva conosciuto solo da poco la rivoluzione industriale, che si era invece diffusa nel primo trentennio dell’Ottocento negli altri stati del centro Europa, il revisionismo di destra non avrebbe potuto conseguire largo seguito; infatti il maggiore interprete di Bernstein non fu un socialista, ma fu un liberale come Croce, anche se negli anni del diffondersi del revisionismo, egli era ancora molto vicino al pensiero marxista. (33) Per tali motivi in Italia ebbe più successo il sindacalismo rivoluzionario di Sorel che il revisionismo di Bernstein, se quest’ultimo affermava che il fine è nulla, il movimento è tutto, il primo viceversa sosteneva che la violenza è tutto, la rivoluzione è nulla; e che

" (...) La forza ha per iscopo di imporre l’organizzazione di un ordine sociale, in cui governi una minoranza: laddove la violenza mira alla distruzione di quell’ordine"

Da tale insegnamento soreliano, Mussolini deduceva una sua personale teoria sulla differenza tra forza e violenza:

" (...) La forza è l’espressione dell’autorità, la violenza della rivolta. La prima è del mondo borghese, l’ultima dell’organizzazione proletaria. La violenza si riassume nello sciopero generale che, come la guerra di libertà, è ‘la manifestazione più spiccata delle forze individuali delle masse ribelli.’ Dall’esercizio della violenza proletaria sgorga quella che il Sorel chiama morale dei produttori, la nuova morale che dà vita rigogliosa ad uno stato di spirito riboccante di epicità e tiene tese tutte le energie dell’anima, per realizzare le condizioni in cui possa fondarsi l’opificio degli uomini liberi e ardenti ricercatori del meglio.. Alla violenza il socialismo deve gli alti valori morali coi quali porge la salvezza al mondo moderno" (34)

In una società di sfruttati, fra una gioventù insoddisfatta ed educata sulla base di principi umanistici che cozzavano con il positivismo dilagante e che contestava il determinismo, dunque, il rinnovamento marxista su una base rivoluzionaria, trovava più adepti delle teorie revisioniste di Bernstein.

L’errore dei riformisti fu - come sottolineò magistralmente Croce - quello di rimanere irrimediabilmente e inamovibilmente legati all’ortodossia marxista fondata su una base positivistica che la gioventù novecentista aveva già abbandonato da tempo, sicché

" (..) continuavano per loro conto a ripetere trivialità positivistiche e sfogavano il malumore dell’ignoranza contro l’idealismo, che non sapevano cosa fosse, e confondevano con l’irrazionalismo, e curiosamente accusavano ora di reazionario, ora di rivoluzionario (..). (35)

La diffusione del pensiero di Sorel in Italia e la nascita del sindacalismo rivoluzionario

Indubbiamente la diffusione in Italia del pensiero di Sorel accentuò la crisi del movimento socialista e determinò le condizioni perché esso fungesse da ponte nel passaggio dal socialismo al fascismo.

La dottrina soreliana trae la sua origine dal movimento sindacale - anarchico fondato in Francia da Fernand Peloutier con la creazione delle Bourses de travail , organizzazioni sindacali con le quali ci si prefiggeva di distinguere il movimento operaio, che avrebbe dovuto avere necessariamente un contenuto rivoluzionario, dal movimento socialista politico - parlamentare. (36) Tale posizione, tuttavia, era stata già precedentemente sostenuta da Pouget, fondatore dei primi sindacati francesi nel 1879. Egli rivendicava l’autonomia del sindacato, al contrario di Guesde che, alla maniera marxista riteneva il sindacato una cinghia di trasmissione del partito. Pouget fu anche il teorico del boicottaggio, particolare forma di sciopero non violenta che rendeva la passività di coloro che usufruivano di un determinato servizio, alla base della controversia, strumento di pressione sull’opinione pubblica oltre che sulla controparte padronale.

Se Pouget teorizzava azioni di protesta basate sulla tattica della non violenza, che presupponevano, tuttavia, l’esistenza di un sindacato o, comunque, di un’organizzazione operaia, il suo connazionale Monatte, contestando e sfiduciando anch’egli il socialismo parlamentare, si poneva come il teorico dell’azione diretta dei lavoratori che, forti del loro numero, non avrebbero avuto bisogno per sostenere i loro interessi, della mediazione dei loro rappresentanti parlamentari:

" ... E’ con lo sciopero che la massa operaia entra nella lotta di classe e si familiarizza con le reazioni che ne scaturiscono; è con lo sciopero che compie la sua educazione rivoluzionaria, che misura la propria forza a quella del suo nemico, il capitalismo, che prende fiducia, che impara l’audacia." (37)

Che il sindacalismo rivoluzionario nasca come reazione emotiva e spesso irrazionale al concretismo del socialismo riformista è fuor di dubbio e la conferma ci viene da uno dei suoi precursori, anch’egli un francese, Hubert Lagardelle, il quale si spinge oltre Monatte rivendicando la necessità, ancor prima di Sorel, dello sciopero generale e gratificando il socialismo riformista con l’epiteto di cretinismo parlamentare, definizione questa, in futuro ampiamente sfruttata da Mussolini. Secondo Lagardelle il parlamentarismo aveva finito per posporre lo strumento dell’azione diretta del proletariato alla necessità della penetrazione politica nei corpi legislativi, esaurendo in ciò tutta l’azione politica e rivoluzionaria delle masse. (38) Secondo l’ortodossia marxista - sosteneva Lagardelle - l’essenza del socialismo stava proprio nella lotta di classe:

"Il ricorso allo sciopero generale, cioè la leva in massa delle forze operaie, sia in vista di un vantaggio limitato, sia soprattutto in vista della rivolta finale, è il miglior mezzo di educazione e lo stimolo più sicuro all’organizzazione a disposizione del proletariato rivoluzionario (...) Dire che lo sciopero generale è un’utopia equivale a dire che il socialismo è irrealizzabile" (39)

E ancora:

(..) Il sindacalismo (...) è un socialismo operaio. Per la sua concezione di lotta di classe esso si oppone al corporativismo, di cui il tradunionismo inglese è il prototipo; per la preponderanza che dà alle istituzioni proletarie, si separa dal socialismo parlamentare; per la sua preoccupazione per le creazioni positive e il suo disprezzo per l’ideologia si differenzia dall’anarchismo tradizionale" (40) E’ appunto in Lagardelle che troviamo quella influenza delle idee niciane sul superuomo che saranno evidenti in Sorel, ma soprattutto nei sindacalisti rivoluzionari italiani e poi in Mussolini che qualche anno dopo avrebbe scritto:

"Tutto è nuovo dunque nel sindacalismo: idee e organizzazione. E’ il movimento ardito di una classe giovane e conquistatrice, che trae tutto da se stesso, che si afferma mediante creazioni inedite, e arreca al mondo, come dice Nietzsche, una trasvalutazione dei valori". (..) I socialisti tendono ad una legislazione sociale che mitighi l’asprezza del dualismo capitalistico - proletario, i sindacalisti danno scarsa o nessuna importanza alla legislazione sociale quando non sia conquistata coll’azione diretta. L’etica socialista si muove in gran parte nell’orbita cristiana, anzi con un’aggiunta di utilitarismo positivista; la morale sindacalista - quale almeno va disegnandosi - tende alla creazione di nuovi caratteri, di nuovi valori, di homines novi. Il socialismo per amore del determinismo economico, aveva sottoposto l’uomo a delle leggi imperscrutabili che si possono malamente conoscere e si debbono subire; il sindacalismo ripone nella storia la volontà fattiva dell’uomo determinato e determinante a sua volta, dell’uomo che può lasciare l’impronta della sua forza modificatrice sulle cose o sulle istituzioni che lo circondano, dell’uomo che può ‘volere’ in una direzione data: il sindacalismo non rifiuta ‘la necessità economica’, ma vi aggiunge la ‘coscienza etica’ (41)

Sorel si pone anch’egli in contestazione al positivismo e all’estrema intellettualizzazione della vita, elaborata già da Saint-Simon con la sua teoria tecnocratica che sanciva la superiorità degli intellettuali all’interno della società. Appunto su tali principi la classe borghese aveva, fino a quel momento, poggiato le sue pretese di comando, basandosi perciò sull’indottrinamento delle giovani leve. Fin quando l’operaio avesse accettato tale principio - secondo Sorel - esso avrebbe acconsentito a farsi guidare dal cosiddetto proletariato intellettuale, costituito in effetti da borghesi infiltratisi nelle fila del socialismo per modellarlo secondo gli interessi della loro classe. Fin quando il proletariato avesse accettato di farsi dirigere da gente estranea alla corporazione produttiva, sarebbe rimasto incapace di governarsi e lo sfruttamento dei lavoratori sarebbe continuato ad oltranza. Per cui il proletariato per liberarsi dalle catene della schiavitù capitalista, avrebbe dovuto emanciparsi da ogni guida non espressa dal suo interno, avrebbe dovuto, cioè, restare esclusivamente operaio, ossia escludere gli intellettuali la cui presenza sarebbe sempre stata mirata a restaurare le gerarchie sociali e a dividere la categoria dei lavoratori:

"Lo sviluppo del proletariato - scrive Sorel - comporta l’affermarsi di una potente disciplina morale nei suoi membri... per riassumere tutto il mio pensiero in una formula, dirò che tutto l’avvenire del socialismo risiede nello sviluppo autonomo dei sindacati operai" (42)

Nelle sue Reflexions su la violence del 1908, Sorel mette in evidenza la differenza di strategia tra sindacalismo rivoluzionario e socialismo parlamentare. Il primo crede nello sciopero generale, considera ogni azione finalizzata a questo obiettivo, in ogni sciopero vede un’imitazione ridotta, una preparazione del grande rivolgimento finale. I socialisti parlamentari rigettano lo sciopero generale

"... essi hanno bisogno di operai elettori assai ingenui che si lascino ingannare da frasi altisonanti sul collettivismo futuro; e di apparire profondi filosofi agli stupidi borghesi che vogliono sembrare dotti in questioni sociali... Essi detestano lo sciopero generale perché ogni propaganda fatta su questo terreno, è troppo socialista per piacere ai filantropi" (43)

La distinzione del proletariato dalla classe borghese, trovava la sua ragion d’essere nella necessità di evitare che il mondo del lavoro venisse corrotto dal mondo del capitale, che i lavoratori cioè, vinti dal miraggio del benessere, si imborghesissero venendo meno alla loro missione sociale come classe:

" (..) Avendo la democrazia per proprio scopo la scomparsa dei sentimenti di classe e la mescolanza di tutti i cittadini in una società che racchiuderebbe in sé forze capaci di spingere ciascun individuo intelligente in un rango superiore a quello che egli occupava per nascita, essa avrebbe partita vinta ove i lavoratori più energici avessero per ideale di somigliare ai borghesi" (44) Per scongiurare tale pericolo era impensabile perseverare nella lotta di classe e ciò distingue soprattutto Sorel da Marx; se per quest’ultimo la lotta di classe è qualche cosa di fatalmente connaturato nella dinamica sociale, per Sorel essa deriva da una scelta volontaria a cui il popolo deve, perciò, essere educato. Esso, infatti, può scegliere tra una vita tranquilla e senza scosse, accontentandosi di quello che può ottenere dalla classe borghese detentrice del potere politico e del potere economico, e una esistenza fatta di lotte continue per strappare alla borghesia la direzione dello stato e dell’economia. La lotta di classe diventa per Sorel una esigenza inderogabile per strappare il proletariato dal fascino del riformismo che apporterebbe, di conseguenza, la degenerazione del movimento operaio e la definitiva schiavizzazione delle masse da parte della società borghese e capitalista.

Lo strumento che le masse hanno per sottrarsi al dominio borghese è quello della violenza, violenza che è per il pensatore francese un elemento naturale della vita che si presenta come una perenne lotta, poiché la società stessa è in costante stato di guerra. E’ chiara la derivazione darwinista, ma anche hegeliana e marxista di una tale teoria..

La violenza, per Sorel, oltre ad essere un dato di fatto del divenire sociale, acquista una valenza di carattere etico, diventa, cioè, un elemento indispensabile contro la corruzione. Essa rende impossibile ogni forma di compromesso o di opportunismo, riportando l’uomo alla verità e alla purezza primitive. L’isolamento che Sorel richiama per la classe operaia e il rifiuto del compromesso, avvicinano le sue teorie a quelle dei primi cristiani; anch’essi, infatti, rafforzavano la loro rilevanza sociale e la loro fermezza morale isolandosi per non contaminarsi con il materialismo pagano e anch’essi praticavano il rifiuto del compromesso a vantaggio dell’interesse personale, per affermare la priorità assoluta del trionfo della fede.

La violenza per Sorel ha, dunque, una funzione educatrice e catartica, essa è diretta soprattutto contro lo stato borghese, contro le istituzioni tiranniche e schiavistiche che opprimono il proletariato e in questa visione antistatale si percepisce l’influenza esercitata sul pensatore francese dalle dottrine anarchiche.

Ma la violenza ha anche la funzione di rendere la massa cosciente della propria forza della propria potenza fondata sul numero, ma anche sulla fede individuale e collettiva, essa dunque rende la massa pericolosa, ma rende nello stesso tempo il singolo audace. Ecco che si affacciano in queste interpretazioni della violenza quelle assonanze a Nietzsche che determineranno un progressivo avvicinamento nel futuro tra la destra nazionalista e la sinistra sindacalista rivoluzionaria. In ambedue i casi sarà il culto della violenza e della potenza, individuale, di massa, nazionale, ad accomunare due schieramenti politici che in teoria avrebbero dovuto essere antitetici.

Il punto fondamentale della teoria soreliana, ciò che in effetti la caratterizza, rimane tuttavia il mito dello sciopero generale. Anch’esso ha una funzione catartica, anch’esso accomuna il sorelismo al cristianesimo, lo sciopero generale è infatti, alla stregua del giudizio universale dei cristiani, il momento distruttore in cui si attua il trionfo del bene sul male, la vittoria dei deboli e degli sfruttati sui prepotenti e sugli usurpatori, l’evento messianico, la catastrofe finale da cui scaturisce la ricostruzione attuata sui principi della giustizia. Secondo Sorel lo sciopero generale non impedisce all’uomo di sfruttare tutte le occasioni che gli si presentano nel corso della vita e non costituisce ostacolo alle sue occupazioni normali poiché esso è un mito sociale

"... è il mito in cui viene a compendiarsi il socialismo nella sua interezza; un organismo di immagini capaci di evocare, con la forza dell’istinto, tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra, impegnata dal socialismo contro la società moderna...Noi otteniamo così quella intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva fornirci in modo perfettamente chiaro e l’otteniamo in un insieme percepito istantaneamente... I miti debbono essere presi come mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente al corso della realtà è privo di significato" (45)

Lo sciopero generale è dunque un mito, qualcosa di irrazionale, di percepibile intuitivamente, ma esso costituisce per le masse quell’aspirazione, quella meta, al di fuori e al di sopra della realtà contingente che le aiuta a vivere che le spinge ad agire, che le convince a non demordere. Così come il Paradiso e il giudizio universale per i cristiani o la favola per i bambini non ancora maturi per rassegnarsi all’arido materialismo della realtà circostante e bisognosi, quindi, prima di essere pronti a vivere pienamente la vita, di un sogno, di una metafora, di qualcosa che li aiuti nel passaggio dal mondo dell’infanzia a quello della piena maturità.

E’ chiaro che tutto ciò presuppone in Sorel una sfiducia nella capacità e nella razionalità delle masse, sfiducia che in quegli anni veniva espressa in maniera diversa da vari pensatori. Pareto parlava di élites sociali, di predominio delle minoranze colte sulla maggioranza incolta, ma soprattutto furono Bergson e Le Bon a fissare più chiaramente il concetto dell’irrazionalità delle masse.

Bergson può considerarsi come la reazione più composta, con il suo intuitivismo agli eccessi del positivismo e del razionalismo materialista. Nel 1889 nella sua opera Essai sur les données immediates de la coscience, aveva messo in evidenza l’esistenza di elementi irrazionali nell’uomo che, tuttavia, finivano per influenzare o addirittura determinare la storia, impedendo ogni logica previsione sul futuro. Si trattava dunque di un netto capovolgimento delle teorie sociologiche e positiviste di Comte, fondate su un determinismo che faceva della scienza storica e sociologica quasi una scienza esatta. Nel 1895, un altro pensatore francese Gustave Le Bon, rafforzando le teorie di Bergson, aveva pubblicato un saggio sulla psicologia delle folle in cui sosteneva che ciò che muove la folla nelle insurrezioni, nelle guerre, non è l’interesse personale, ma una serie di immagini ideali che costituiscono un immaginario collettivo, una specie di allucinazione collettiva. Un altro colpo, dunque, al razionalismo e al determinismo che costituiva anche il caposaldo delle teorie marxiste . Tuttavia Sorel riteneva che la coscienza dell’esistenza dell’elemento irrazionale non comportava la rinunzia totale, per lo studioso, a tracciare un diagramma della dinamica sociale. Dall’osservazione del passato e dell’operare di elementi irrazionali a circostanze riferibili a quelle presenti, l’uomo sarebbe stato, comunque, in grado di ricavare una scienza sociale. Lo strumento che il sociologo avrebbe fornito a chi intendesse svolgere un’azione politica imperniata sul comportamento delle masse sarebbe stata la cosiddetta filosofia di delucidazione. Essa più che indicarci l’adattabilità di determinate riforme sociali allo scopo da conseguire, avrebbe permesso di costruire quelle poesie sociali senza di cui ogni movimento popolare sarebbe risultato comunque impotente. E’ questo il mito che costituisce l’impulso che ha sempre dato agli uomini la volontà e la forza di sovvertire il sistema, alimentato da una fede carica di promesse. La terra promessa e la venuta del Messia per gli ebrei, il giudizio universale per i cristiani, l’avvento di una società di uomini liberi per i giacobini francesi, sono tutte per Sorel immagini irrazionali che agiscono sul sentimento degli uomini, muovendoli alla ribellione. Il mito dello sciopero generale, alimentato dal sindacalismo rivoluzionario, dunque, contribuisce più che le astratte teorie marxiste a tenere le masse in uno stato di continua aspettativa rivoluzionaria:

" ... Si può parlare all’infinito di rivolte senza mai provocare un movimento rivoluzionario, fin tanto che non ci sono miti accettati dalle masse" (46)

Sulla scia di Bergson, Sorel nel 1898 scriveva un saggio La necessità e il fatalismo nel marxismo, in cui rivendicava, contro il determinismo, l’azione volontaria e creatrice dell’uomo dettata dalle contingenze. Si trattava, tutto sommata, della vecchia diatriba tra i sostenitori del materialismo storico e gli assertori della funzione insostituibile del pensiero umano sulla dinamica storica e sociale. Ecco il motivo per il quale Bergson veniva considerato dai socialisti come un loro nemico, non tenendo conto che alle nuove generazioni non bastava più un mondo dominato inesorabilmente dalle leggi della scienza in cui l’uomo diventava uno spettatore passivo. L’uomo doveva tornare ad essere, come nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento il protagonista della storia e della vita. E ciò non era considerato dai giovani socialisti un’eresia, ma una dovuta revisione del pensiero marxista.:

" Noi giovani - scriveva Mussolini nel 1914 - abbiamo respirato e respiriamo in una diversa atmosfera. Non per nulla mi si è quasi rimproverato sulla " Neue Zeit" di essere un " bergsoniano". Veramente. Non ho trovato ancora una diretta incompatibilità tra Bergson e il socialismo. Noi giovani abbiamo oggi una mentalità completamente diversa. Il mondo è cambiato. Le tavole della legge del 1892 devono essere rivedute ed adattate alla nuova realtà maturata durante questo tormentato ventennio. Il prossimo Congresso socialista affronterà i problemi della dottrina" (47)

I limiti del pensiero di Sorel stanno nel fatto che egli, tutto sommato, non si preoccupa minimamente delle conseguenze della realizzazione pratica delle sue teorie, gli interessa distruggere e non si preoccupa di riedificare. Abbasso la pace sociale, viva la violenza come strumento catartico, capace di spazzare via le aride teorie razionaliste fondate sull’utilitarismo e quindi sulla decadenza morale. E’ il mito che spinge le masse, per le quali nutre un profondo disprezzo, a scrollarsi dall’immobilità e che permette, tuttavia, nel rivolgimento conseguente, l’emergere di uomini guida, che non sono altro che i creatori del mito, con un termine dispregiativo gli imbonitori della folla. Dunque, quella di Sorel è una storia di individui e non una storia di masse, una storia che privilegia il ruolo dell’uomo capace di emergere sulla massa amorfa, di guidarla, di strapparla dalla palude dell’inerzia, dalla corruzione del materialismo: è la storia dell’homo novus di cui sarà costantemente alla ricerca Mussolini, l’uomo profeta, l’uomo messia capace di edificare l’ordine nuovo. Ciò lo pone oltre il marxismo, ma anche oltre la democrazia, avvicinandolo all’estrema destra.

Chiaro che queste teorie riabilitano il ruolo e la funzione del sindacato, fino a quel momento costretto dal socialismo riformista ai margini della lotta sociale e politica. (48)

. Ma cos’era Sorel se non un intellettuale borghese, ansioso di andare oltre Marx, oltre Bakunin, oltre Bernstein per elaborare una teoria che servisse ad affrancare il proletariato, ma che, a differenza delle premesse, finiva per renderlo strumento di una sua aristocrazia intellettuale che nulla aveva di diverso dalla intellettualità borghese detentrice del potere?

Sorel, conoscitore di Croce e dell’anarchico Merlino, fu molto vicino al movimento socialista italiano. Senza la diffusione delle sue teorie non sarebbe mai nato nel 1912 l’USI, sindacato ispirato al mito dello sciopero generale e costituito in antitesi alla CGL, riformatrice e strumento del partito.

Sorel collaborò anche ad alcune riviste fra le più diffuse dell’epoca come La Riforma sociale, la Rivista popolare di Colaianni, il Giornale degli economisti, La Critica di Croce, La Voce di Prezzolini a cui si avvicinò insieme a Bergson. (49) Per tali motivi in Italia il dibattito su Sorel fu particolarmente vivace e il pensatore francese riuscì a fare molti seguaci soprattutto fra i giovani socialisti delusi dal gradualismo e dal parlamentarismo di Turati, dall’imborghesimento dei capi del movimento e dal venir meno di quello spirito rivoluzionario che aveva instillato in loro la fede ardente nel cambiamento totale e nella costituzione di un ordine giusto.

Arturo Labriola fu uno dei suoi maggiori estimatori e teorici del sindacalismo rivoluzionario italiano che considerava l’essenza stessa dello spirito marxista e che giudicava in perfetta antitesi col riformismo da lui ritenuto eretico:

" La sostituzione della fabbrica socialista alla fabbrica capitalista - sosteneva - non si può compiere per gradi, ma di colpo. Qualunque grado intermedio (per esempio la comproprietà degli operai e del capitalista) è una cosa diversa e però ugualmente distante dalla fabbrica socialista. La monarchia non diventa repubblica per attenuazioni successive della potestà regia….. Tale passaggio è un vero hyatus, implicante soluzione di continuità, , cioè rivoluzione" (50).

Al contrario di Sorel, tuttavia, Arturo Labriola non condanna a priori il parlamentarismo, ritenendolo, invece, uno strumento idoneo per consentire al proletariato operaio di arrivare alla gestione della produzione. Egli condanna il parlamentarismo gestito dai riformisti, possibilisti e pronti al compromesso con il capitale. Labriola auspica, alla maniera di Proudhon, la costituzione di una federazione di sindacati, organizzati in senso orizzontale, in grado di assorbire le strutture statuali. Egli vede nel sindacato operaio il centro e il cuore del nuovo sistema da realizzare con lo sciopero generale cioè con la rivoluzione della classe operaia. Esiste una notevole differenza tra la sua posizione e quella del massimalista Enrico Ferri ; mentre per quest’ultimo il cambiamento della società deve avvenire, né per effetto di riforme, né come conseguenza della insurrezione violenta, bensì per un atto di fede, cioè per effetto della coscienza socialista che nelle masse può formarsi solo tramite la predicazione, per Arturo Labriola solo un atto risolutivo, scaturente dalla violenza rivoluzionaria può instaurare l’ordine nuovo. (51)

Enrico Leone considera lo sciopero generale non tanto come una manifestazione di forza attraverso la violenza, ma come una manifestazione di potenza economica:

"L’inattuabilità pratica dello sciopero generale - scrive - è invece la riconferma della sua potenza creatrice. Quando la forza di rivolta economica ha conquistato tutto il mondo operaio lo sciopero generale diviene la via rapida attraverso la quale questa forza sbocca al suo fine. Questo fine è nell’atto stesso dello sciopero: l’annichilimento del capitale... Lo sciopero cessa di essere atto cieco, per diventare effetto voluto, consapevolmente indirizzato al proprio fine. Lo sciopero generale perciò non cessa di essere attuabile come elemento decisivo del trapasso sociale. Esso non è un simbolo irreale, ma un’espressione abbreviata e culminante di un processo di formazione della forza operaia.. Lo sciopero è la manifestazione della forza e della capacità del proletariato formatosi e svoltosi negli appropriati istituti sindacali...è manifestazione di disciplinata volontà degli organizzati. (52)

Per Leone dunque alla base della rivoluzione c’è l’organizzazione sindacale. Il proletariato prima di rivoltarsi e distruggere il sistema costituito, deve avere la coscienza dei suoi atti; è tale coscienza, che fa della rivoluzione un atto non inconsulto e istintivo ma consapevole e volontario, è data dalla formazione e dall’indottrinamento in seno al sindacato. Alla teoria soreliana, pone, tuttavia, dei paletti; egli abiura lo sciopero di massa come sconvolgimento spontaneo fondato sulla violenza e auspica uno sciopero basato sull’organizzazione ed esente dalla violenza fisica. Egli considera lo sciopero un fenomeno con scopi esclusivamente economici, mentre

"...l’insurrezione violenta è propria dei periodi delle rivoluzioni governative. Il fenomeno della violenza era preminente nelle passate trasformazioni politiche, soprattutto perché erano rivoluzioni di minoranze... Lo sciopero per se stesso non è atto di violenza: è l’uso di un diritto legittimo alla disponibilità del proprio lavoro: esso è piuttosto l’eliminazione della violenza che codesto diritto sopporta nella società divisa in classi".

Leone rigetta il principio dell’uso della violenza nell’ottica dell’ortodossia marxista e giustifica il ricorso alla stessa fatto da Sorel con la necessità di difendere, in un periodo particolarmente difficile, il socialismo minacciato di essere travolto dal pacifismo borghese. In tal caso la violenza operaia svolgerebbe la funzione di

" risospingere la borghesia.. distogliendola ai tentativi di conciliazione e di paternalismo a cui per istinto di salvezza tenta di aggrapparsi". (53)

Anche Alceste De Ambris, fondatore dell’Usi, fu un seguace delle teorie soreliane, soprattutto in relazione allo sciopero generale che secondo la sua visione avrebbe costituito l’

" (...) unico mezzo efficace ed idoneo alla definitiva espropriazione della classe borghese"

rispetto al quale il boicottaggio o il sabotaggio, insomma le forme non violente coinvolgenti gli utenti dei servizi, quindi anche parte della classe borghese, dovessero ritenersi armi transitorie. (54)

La caratteristica comune ai seguaci italiani di Sorel, fu forse, quella di aver preso troppo alla lettera il mito dello sciopero generale, spogliandolo appunto di quell’alone utopistico di cui il pensatore francese aveva voluto rivestirlo mantenendolo, appunto, nella categoria del mito, qualcosa cioè al di là della realtà e della realizzazione contingente, ma idoneo tuttavia a agire da imput dell’azione politica e rivoluzionaria delle masse. E’ forse Mussolini quello che per primo rileva questa discrasia rimproverando a Sorel di rivelare il segreto del mito, spogliandolo così della sua funzione:

"Giorgio Sorel pensava che occorresse colpire l’immaginazione degli operai con la rappresentazione ideale di una possibile realtà futura, ma, creato questo castello incantato, ci dava le chiavi per penetrarvi e, dandoci la soluzione dell’enigma, rivelandoci l’origine teorico - intellettuale del "mito" ne disperdeva tutto l’incanto fascinatore" (55)

I sindacalisti italiani, tuttavia, si divisero vistosamente in tema di politica coloniale e l’occasione fu data dallo scoppio della guerra libica nel 1911.Se Leone, De Ambris e Mussolini si batterono strenuamente contro la guerra, il futuro duce avrebbe addirittura scontato, insieme al repubblicano Nenni, un periodo di detenzione per aver istigato alla diserzione i soldati italiani e per attività sovversiva, altri con in testa Arturo Labriola sostennero la guerra e la politica coloniale di Giolitti:

" O miei compagni, sapete voi perché il proletariato d’Italia non è buono a fare una rivoluzione? Perché appunto esso non è nemmeno buono a fare una guerra. Lasciate che la borghesia lo abitui a battersi sul serio e poi vedrete imparerà a battere la stessa borghesia!" (56)

Una visione della guerra che ci spiega quando sarebbe stato debole ed incerto il confine tra sindacalisti rivoluzionari e nazionalisti che peraltro si sarebbero schierati sullo stesso fronte dell’interventismo in occasione dello scoppio della I guerra mondiale. La concezione della guerra di Labriola è molto vicina a quella di Oriani e di Marinetti, guerra come strumento di redenzione e di risveglio, guerra con funzione educatrice e purificatrice, guerra come mezzo di sviluppo. Nel campo opposto Oriani aveva affermato che

"Il nazionalismo in Italia deve essere sovversivo o non sarà" (57)

L’affinità con i nazionalisti si nota ancor di più leggendo gli scritti di Labriola in relazione alla conquista coloniale libica che egli considera non come una impresa imperialista, bensì come un’impresa

"...volta ad assicurare ad un popolo la libertà di movimento nell’unico mezzo (il mare), che la natura gli assegnò" (58)

E’ facile notare in tali parole una prefigurazione del mito fascista del mare nostrum.

A Labriola così rispondeva De Ambris:

" Non sono lontano dall’ammettere che una guerra possa essere, qualche volta, un buon corso di pedagogia rivoluzionaria, ma a condizione che, anzitutto, sia la guerra e non una brigantesca gesta di prepotenza". (59)

Nella posizione di De Ambris, al di là della condanna generalizzata della guerra coloniale, s’intravede già una breccia al muro, fino a quel momento saldo, dell’antimilitarismo socialista.

Il dibattito internazionale sul "mito dello sciopero generale".

Le teorie di Sorel sullo sciopero generale, l’esaltazione della violenza, da cui implicitamente derivava un’accettazione prima pudica, ma poi piena del militarismo e in parte anche del colonialismo, costituirono in seno al socialismo internazionale oggetto di dibattiti sempre più accesi che davano ancora una volta la sensazione della profonda crisi che attraversava l’immobilismo e il determinismo del pensiero marxista nel clima caratterizzato, soprattutto, dall’ansia di rinnovamento che distinse il primo ventennio del ventesimo secolo.

Nei vari congressi di partito celebrati a cavallo tra i due secoli si denota, nei dibattiti tra opposte fazioni, la preoccupazione nei quadri del socialismo, della graduale perdita di potere del partito a favore dei sindacati con la diffusione degli scritti di Sorel, di Briand, di Friedeburg. Fino a quel momento la leadership del partito sul sindacato era stata riconosciuta come un dogma incontestabile, essendo il sindacato considerato, alla stregua degli scritti di Marx e di Engels come la cinghia di trasmissione del partito. Paradossalmente fu proprio il ruolo indipendente e preminente raggiunto dalle Trade Union, il sindacato riformista inglese, a dare l’imput a una parte dei giovani socialisti per riscattare l’azione sindacale dalla tutela politica impostale fino a quel momento dalla dirigenza socialista.

Già al Congresso di Londra del 1896 si cominciò a discutere sulla possibilità di rendere complementare la lotta sindacale e quella politica, visto che la separazione fra le due, verificatasi in quegli anni di transizione, aveva reso insufficiente sia l’una che l’altra. Si passava, dunque, dall’indiscutibile subordinazione del sindacato al partito al riconoscimento di una posizione di complementarità fra le due istituzioni.

Ma al Congresso di Amsterdam l’olandese Roland-Holst si scagliò contro il sindacalismo rivoluzionario e contro la teoria dello sciopero generale, sostenendo che esso era di impossibile applicazione e quindi essenzialmente utopico. Inoltre non aveva un fine economico, bensì politico, essendo diretto alla distruzione dello Stato borghese e capitalista. Roland Holst sosteneva che esso sarebbe stato attuabile solo nel caso in cui il proletariato si fosse presentato ben organizzato e disciplinato. Lo ammetteva, cioè, non come manifestazione spontanea e irrazionale di potenza, ma come atto di violenza consapevole. Non credeva comunque che lo sciopero generale avrebbe avuto il potere di far cessare il lavoro in tutti i settori della vita produttiva:

" (..) E neppure lo sciopero generale può essere la rivoluzione sociale. La trasformazione della società non si può fare di colpo. Essa si realizzerà ogni giorno mediante il nostro sforzo continuo". (60)

Esattamente l’opposto, dunque, di quello che affermava Arturo Labriola.

In quello stesso Congresso, contro la tendenza gradualista e parlamentarista imboccata ormai dal partito, si scagliava il tedesco Friedeberg che, influenzato sicuramente dalle teorie di Le Bon, chiedeva una maggiore attenzione allo sviluppo psicologico del proletariato:

"La cattiva conseguenza dell’esistenza dello stato e in particolare l’eccessiva importanza attribuita al parlamentarismo, hanno quasi allontanato il proletariato dal terreno della lotta reale delle classi. La divisione del movimento operaio in movimento politico e sindacale e, di conseguenza, la neutralizzazione dei sindacati che si preoccupano quasi esclusivamente del contratto di lavoro, hanno dato il colpo mortale alla lotta delle classi... La vera forza del proletariato consiste nel maggior numero di personalità interamente libere, impregnate dello spirito della lotta di classe e questo non può dare il parlamentarismo basato su un sistema di rappresentanza ".Secondo Friedeberg sarebbe stata necessaria l’ "... agitazione delle masse con piena responsabilità per ciascun’individuo, scioperi, feste, 1° maggio, boicottaggi, ecc. .. queste sono le condizioni della liberazione finale del proletariato. Questa stessa liberazione, la scomparsa della dominazione delle classi, noi l’avremo con lo sciopero generale" (61)

Ritorno, dunque, all’azione diretta del proletariato senza la mediazione dei parlamentari che, pur essendo espressione delle forze popolari, finivano per inserirsi nella concezione istituzionale propria della borghesia.

Anche Rosa Luxemburg prese posizione sullo sciopero generale che apparve ai marxisti più oltranzisti la parola d’ordine da lanciare più al partito che al proletariato, perché si ritornasse al verbo rivoluzionario delle origini rinnegando la politica gradualista del compromesso che snaturava l’essenza stessa del pensiero socialista:

"Le espressioni della volontà di massa nella lotta politica... non possono essere artificiosamente mantenute alla lunga sempre allo stesso livello, incapsulate in un’unica forma. Devono intensificarsi, inasprirsi, assumere forme nuove e più efficaci. L’azione di massa una volta innescata, deve andare avanti. E se al partito che la guida manca ad un dato momento il coraggio di lanciare la parola d’ordine decisiva alla massa, è inevitabile che una certa delusione si impadronisca della massa stessa, che lo slancio scompaia e l’azione si afflosci." (62)

La Luxemburg pareva avere compreso meglio dei compagni, che si schierarono appassionatamente a favore o contro Sorel, il carattere simbolico del suo sciopero generale, riconoscendo in esso l’elemento decisivo per tenere costantemente la massa sulla strada della sovversione, senza mai intorpidirla e scoraggiarla.

Diversamente Kautsky, strenuo difensore del riformismo, giudica lo sciopero generale una vera e propria provocazione alla borghesia tramite la violenza; provocazione peraltro inutile, poiché lo stato borghese avrebbe risposto a quella violenza con la violenza legalizzata, cioè con l’uso dell’esercito, alle sue dipendenze, che avrebbe annientato il movimento delle masse, come aveva annientato la Comune di Parigi nel ’71 e ancor prima la rivoluzione popolare scoppiata nella stessa città nel giugno del ’48, così come aveva reagito all’attentato anarchico di Chicago nel 1886. Kautsky considera tali episodi come fallimenti del proletariato nel suo percorso verso la vittoria finale, percorso che necessariamente avrebbe dovuto essere lento e faticoso, per cui egli allo sciopero generale contrapponeva la strategia di logoramento.

Berth uno dei più vicini discepoli di Sorel dava una definizione dello sciopero generale molto vicina alle teorie di Bergson e di Le Bon, dunque tipicamente antirazionalista e antipositivista:

"Lo sciopero - scriveva - è un fenomeno di vita e di psicologia collettive; qui entrano in gioco sentimenti collettivi molto potenti, molto contagiosi, quasi elettrici; che la massa resti allo stato indiviso, allo stato di massa, che conservi la sua profonda unità spirituale originaria, e ogni operaio abbia la sua volontà annegata, assorbita in questa unità... non c’è più altro che una massa elettrizzata, un solo slancio unanime e possente ai più alti vertici dell’eroismo e del sentimento del sublime" (63).

Il repubblicano Graziadei rinnega e contesta le teorie soreliane fondate sul sindacalismo rivoluzionario e, rifacendosi al tradunionismo inglese, sostiene che la contrapposizione tra riformisti e sindacalisti è una contrapposizione fasulla:

".. Il riformismo ben inteso è la strada maestra per la quale i socialisti possono giungere al sindacalismo. Naturalmente non al sindacalismo rivoluzionario... il sindacalismo è la classe operaia che si occupa direttamente dei propri interessi, soprattutto dal punto di vista economico". (64)

Diversa la posizione dell’anarchico italiano Malatesta che, contestando Monatte e Sorel, sostiene che il sindacalismo non basta da solo alla realizzazione della rivoluzione. Esso è uno strumento della rivoluzione sociale, ma non è la rivoluzione sociale per la quale sono necessari altri mezzi. Egli respinge la confusione tra sindacalismo ed anarchismo sottolineando che, malgrado l’uso della violenza, il primo è comunque un movimento legalitario che si inserisce nel sistema capitalistico e che mira a difendere gli interessi solo di alcune categorie (ricordiamoci che non si era parlato mai dei problemi del proletariato rurale). Secondo Malatesta il proletariato non può mai considerarsi un organismo totalmente omogeneo come auspicava Berth, poiché per la presenza della proprietà anche all’interno della classe proletaria esistevano interessi difformi. Perciò riteneva indispensabile che gli anarchici entrassero nei sindacati, introducendovi il libertarismo anarchico, la fede nella solidarietà morale fra i lavoratori, visto che la solidarietà economica sarebbe sempre risultata impossibile. Pur accettando la necessità tattica dello sciopero generale, egli non lo confonde con l’insurrezione che era ben altra cosa e contesta il principio su cui si basavano i sostenitori dello stesso. Essi affermavano che con lo sciopero generale in pochi giorni il proletariato avrebbe affamato la borghesia costringendola alla resa, senza tenere conto che i borghesi non avrebbero mai patito la fame, potendo contare sulla ricchezza e sui prodotti alimentari accumulati; sarebbero state invece le masse, che contavano solo sul loro lavoro a soccombere. L’operaio affamato sarebbe stato costretto a tornare in fabbrica a testa china e sconfitto, oppure per combattere la fame avrebbe dovuto impadronirsi con la forza dei viveri. In tal caso si sarebbe scontrato con la forza pubblica e in tale scontro sarebbe stato annientato, a meno che non fosse stato idoneamente addestrato:

" Prepariamoci dunque a questa insurrezione inevitabile - esortava - invece di limitarci ad esaltare lo sciopero generale come la panacea di tutti i mali (65)

Per Malatesta, dunque, lo sciopero generale era solo un’utopia, salvo a cambiare idea in occasione della Settimana Rossa, quando sperò fino all’ultimo, al di là della effettiva realtà, nella possibilità concreta della rivoluzione sociale.

Dunque, molti fra i socialisti avevano compreso che la politica riformista finiva per distogliere le masse dalla lotta di classe che avrebbe dovuto essere continua e in base a tale principio non si poteva respingere a priori l’uso della violenza. Tutto ciò portava implicitamente ad affrontare il problema del militarismo, e per conseguenza anche quello dell’imperialismo e del colonialismo che, come abbiamo visto, aveva finito per operare una divisione all’interno dei sindacalisti rivoluzionari italiani.

Già nel Congresso di Parigi del 1900 Rosa Luxemburg aveva sollevato il problema del militarismo e del colonialismo che erano stati giudicati all’unanimità come espressioni delle rivalità tra i paesi capitalistici e dunque come strumenti di distruzione dei sistemi capitalistici stessi. Cioè sarebbero stati gli stessi stati borghesi e capitalistici, una volta allentata la morsa popolare per le concessioni dovute alla politica riformista e per i miglioramenti delle condizioni di vita del proletariato, a distruggersi vicendevolmente per un eccesso di avidità e di ambizioni.

Al Congresso di Stoccarda del 1907 si votò una mozione rivoluzionaria con la quale si finiva per accettare il colonialismo, sia pure a carattere pacifico e umanitario, demolendo la pregiudiziale marxista pacifista e anticolonialista.

".. Che si faccia politica coloniale - recitava la risoluzione proposta - non è necessariamente un crimine in sé. In determinate circostanze, la politica coloniale può essere un’opera di civiltà". (66)

In quello stesso Congresso, in sostegno della risoluzione proposta, l’olandese Van Kol contestava la posizione anticolonialista del socialdemocratico Ledebauer affermando: " Mi limito a chiedere a Ledebauer se... ha il coraggio di rinunziare alle colonie. Egli mi dirà allora che cosa farà della sovrappopolazione dell’Europa, in quale paese le persone che vogliono emigrare possono trovare di che vivete se non nelle colonie? Che farà Ledebauer del prodotto crescente dell’industria europea, se non vuole trovare nuovi sbocchi nelle colonie? E in quanto socialdemocratico vuol forse rinunciare al dovere di lavorare per la cultura dei popoli arretrati ?" (67)

Bernstein pur condannando il colonialismo votava la risoluzione di maggioranza proposta da Van Kol sostenendo che le colonie erano ormai un dato di fatto che il socialismo non poteva ignorare e conveniva dunque proporre una politica coloniale socialista, cosa che Kautsky considerava un non senso.

Nello stesso Congresso si affrontò il problema del militarismo, contro cui il francese Hervè sostenne un acceso atto di accusa. Sorprendentemente, però, fu proprio la Luxemburg, rifacendosi alla rivoluzione russa del 1905 a stemperare il dogma marxista dell’antimilitarismo:

" (...) la propaganda, in caso di guerra, non deve mirare soltanto alla fine della guerra, ma anche (...) approfittare di quel momento per affrettare la caduta della dominazione della classe capitalistica". (68)

Posizione questa molto vicina a quella del sindacalista italiano Arturo Labriola.

Il Congresso votò una risoluzione finale che, pur condannando la guerra e ribadendo che fosse dovere della classe operaia e dei suoi rappresentanti in parlamento di impedirla con ogni sforzo, ammetteva che i socialisti nel caso in cui la guerra scoppiasse, avevano il dovere

"... di interporsi per farla cessare immediatamente e di utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per mettere in agitazione gli strati popolari più profondi e precipitare la caduta della dominazione capitalistica" (69)

Anche se nel Congresso di Basilea del 1912, in piena crisi balcanica, venne ribadita la guerra alla guerra, alla luce di tali affermazioni, l’ortodossia marxista, soprattutto in uno dei suoi fondamentali dogmi, l’internazionalismo operaio e conseguentemente l’antimilitarismo e l’anticolonialismo, appariva sempre più evanescente. Il socialismo internazionale aveva ormai fatto quella sua scelta di accettazione del militarismo che lo avrebbe portato, due anni, dopo a votare i crediti di guerra e a sostenere, dunque un ruolo fondamentale nello scoppio della I guerra mondiale.

Con tali premesse - secondo Lotti, uno dei maggiori studiosi dell’evento - la Settimana Rossa

"avrebbe dovuto costituire per gli anarchici, i sindacalisti rivoluzionari e i repubblicani la grande occasione rivoluzionaria, e per Mussolini... la "giornata eroica e storica" (quale ne fosse il risultato immediato) di cui (riteneva) il proletariato italiano aveva bisogno" (70)

L’ascesa politica di Mussolini : la conquista del partito

La Settimana Rossa e con essa la ripresa dell’anarchismo italiano era stata preceduta dal ritorno in Italia, nell’agosto del 1913, di Enrico Malatesta. (71) L’espulsione di Bakunin dalla I Internazionale di Londra e l’affermarsi in tutta Europa di partiti socialisti votati al legalitarismo e al parlamentarismo riformista, avevano determinato il graduale spegnersi, quasi ovunque, dell’anarchismo. In Italia rimase accesa una fiammella nelle Marche e in Romagna, terre tradizionalmente appassionate e ribelli, per opera soprattutto di Fabbri e di Gori (72) che continuavano a pubblicare un giornaletto, Il Pensiero, di sempre minore diffusione. Lo stesso Congresso Anarchico nazionale convocato a Roma nel giugno del 1907 si era qualificato pressoché un fallimento. (73)

Tuttavia, nel 1913 la situazione appariva mutata: la delusione per lo sbocco politico conservatore della grande conquista del suffragio universale, la crisi economica con la conseguente ingente ondata migratoria, la guerra di Libia, la svolta massimalista impressa da Mussolini al partito al congresso di Reggio Emilia, facevano intuire a Malatesta che il clima fosse cambiato e potesse essere più adatto ad una ripresa del sovversivismo. Proprio in virtù di tale intuizione aveva deciso di abbandonare l’esilio di Londra e tornare in patria per proseguire la sua attività sovversiva e di proselitismo anarchico; i tempi erano favorevoli.

Peraltro, esisteva nel sottofondo l’anelito di una gioventù insoddisfatta del quietismo giolittiano, dell’Italietta incolore ritenuta ormai eccessivamente aliena da un’Europa in cui trionfava la cultura e la politica della potenza. Molti giovani demotivati e delusi erano già stati conquistati dai messaggi deliranti di Marinetti , di D’Annunzio e di Corradini e gli stessi anarchici sembravano essere attratti dall’individualismo anarchico di Stirner che si sposava alla perfezione con le teorie del super uomo e della violenza individualistica di Nietzsche. I pensatori politici non potevano che essere d’accordo sulla necessità di monopolizzare le simpatie della gioventù della cui importanza nella società futura nessuno avrebbe potuto dubitare:

"... L’avvenire della gioventù proletaria è il proletariato futuro, è il futuro del proletariato- avrebbe veementemente sostenuto Liebknecht - Chi ha la gioventù ha il futuro" (74)

La necessità di approfittare del risveglio della gioventù internazionale, per raggiungere le condizioni adatte al raggiungimento della meta rivoluzionaria, non sfuggiva neanche al Malatesta che nel 1913 così scriveva:

" Mi è parso che il proletariato d’Italia è in marcia verso la rivoluzione. Noi che siamo gli antesignani della rivoluzione nuova, della rivoluzione veramente emancipatrice, dobbiamo trovarci all’altezza degli avvenimenti che si preparano" (75)

Il ritorno di Malatesta, in coincidenza con le contingenze sopraelencate, determinò un netto risveglio del movimento anarchico che vide sorgere nel suo seno 49 nuove associazioni in solo diciotto mesi. Ma assieme al risveglio anarchico si registrò, in tale periodo, un ancor maggiore risveglio socialista e repubblicano; i due movimenti conseguirono, rispettivamente, un aumento di mezzo milione l’uno e di circa 21.500 soci l’altro. Aumentarono anche i giornali anarchici, ma ancor di più, quelli socialisti e quelli repubblicani (76) e soprattutto si ebbe un incredibile incremento nelle tirature dell’Avanti! dopo l’assunzione della direzione da parte di Mussolini (77) che aveva ottenuto tali risultati non solo perché capace, col suo personalissimo stile, di dare una particolare impronta al quotidiano socialista, ma perché, soprattutto aveva compreso che il suo giornale avrebbe dovuto adeguarsi al ribellismo novecentista. Certo di tale necessità, aveva liquidato i collaboratori di tendenza riformista, aveva dato più spazio ai più intransigenti e aveva reclutato anche firme al di fuori del partito, Pannunzio, Arturo Labriola, Leone, Olivetti, che rappresentassero le minoranze audaci, i vessilliferi delle correnti culturali innovatrici. (78)

Tutto ciò, assieme al risveglio della cultura, della stampa e dell’associazionismo cattolico, dimostrava che l’atteggiamento delle nuove generazioni era di netta contrapposizione ad un sistema considerato ormai obsoleto e soprattutto non più adatto al formarsi di quella società di massa che era ormai in Italia un fenomeno acclarato.

Il mito soreliano dello sciopero generale, dunque, si faceva strada sempre più all’interno delle giovani generazioni socialiste, a dispetto della politica sempre più moderata e gradualista della Camera del Lavoro, costituitasi nel 1907 con lo scopo precipuo di staccare il movimento sindacalista dalla strategia politica portata avanti dal PSI a livello parlamentare.(79) Perciò apparve come uno sbocco naturale all’evolversi degli eventi la costituzione, nel novembre del 1912, di un nuovo sindacato di tendenze più rivoluzionarie: l’Unione Sindacale Italiana che, da allora in avanti sarebbe diventata la vera rappresentante del movimento sindacalista rivoluzionario e di cui i leaders storici sarebbero stati Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris, Arturo Labriola. Mussolini si schierò, all’inizio, sul fronte opposto perché preoccupato che la nascita del nuovo organismo potesse dividere ed indebolire il movimento sindacale italiano.

La creazione dell’Usi aveva peraltro preceduto di pochi mesi la svolta a sinistra che il partito si sarebbe impresso nel Congresso di Reggio Emilia.(80) Il nuovo sindacato esprimeva " il rifiuto di riconoscere lo Stato borghese nella sua dinamica politica parlamentare" e il riconoscimento dello sciopero generale come "l’unico mezzo efficace ed idoneo alla definitiva espropriazione della classe borghese"(81). Il nuovo sindacato si muoveva in senso antitetico rispetto alla Confederazione del Lavoro che puntava ad una graduale estensione del ruolo dello Stato nell’economia a tutela delle classi lavoratrici; esso, opponendosi a quella politica riformista e statolatra, cioè tendente a fare dello Stato il perno di tutta la vita economica e sociale, auspicava, al contrario, la conquista da parte dei lavoratori di una completa autonomia dai gruppi capitalisti industriali, dalle manovre parlamentari e soprattutto dallo stato, di cui temeva l’estendersi della presenza oppressiva.(82) Il nuovo sindacato mirava a fare proseliti soprattutto negli ambienti più trascurati dal partito e dalla Confederazione, cioè a dire, fra i lavoratori della campagna siciliana, pugliese, veneta e romagnola, rivelando così le sue connotazioni di radice bakuniniana.

Il primo anno di vita aveva dato risultati pressoché deludenti quanto ad entità di penetrazione e proselitismo, tuttavia l’USI era riuscita ad attrarre dalla sua parte il potente sindacato dei ferrovieri, aveva dato vita ad un proprio organo di stampa a diffusione nazionale, l’Internazionale di Parma, e, uscendo dall’ambiente bracciantile romagnolo, era penetrata all’interno del sindacalismo industriale, presente in tutte le maggiori manifestazioni operaie degli ultimi mesi, tentando sempre, se pur con scarsi risultati, di fare accettare l’arma dello sciopero generale.

Durante il grande sciopero di Milano del 1913, Mussolini, già direttore de L’Avanti, si era schierato più con l’USI che con la CGL e, all’inizio dello stesso anno, dopo l’eccidio di Rocca Gorga, aveva costretto la Confederazione ad impegnarsi a proclamare uno sciopero generale di almeno 48 ore in caso di un ulteriore eccidio proletario.

Il 6 gennaio di quell’anno le forze di polizia avevano caricato inermi dimostranti a Baganzolo di Parma, a Rocca Gorda in provincia di Frosinone e a Comiso nel ragusano, con un risultato complessivo di 8 morti e 50 feriti, oltre ad un centinaio di arrestati. Particolare sensazione avevano fatto gli scontri di Rocca Gorda tra la polizia e i cittadini dimostranti contro l’inerzia dell’amministrazione comunale che negava loro le fogne, l’acqua, l’assistenza medica. Anche questa volta Giolitti aveva mostrato il suo vero volto di politico abile ma cinico, usando pazienza e accondiscendenza negli scioperi operai del nord, certo così di attirarsi la benevolenza del partito socialista, ma pugno di ferro contro gli inermi contadini del sud e del centro Italia, - come aveva fatto nel 1901 a Berra, Candela e Giarratana, - molto più bisognosi dell’assistenza e della comprensione governativa, ma trascurati, di fatto, dal sindacato e dalla direzione del partito:

" (...) A Baganzola di Parma, A Rocca Gorda nel Lazio e a Comiso in Sicilia, quasi contemporaneamente una dozzina di lavoratori fra morti e feriti, è stata immolata all’’austero’ principio di autorità e alle ‘supreme’ ragioni dell’ordine pubblico. Qualche giornale ufficioso ha già detto, pur confessando di ignorare ancora i particolari dei sanguinosi episodi, che questi eccidi devono considerarsi...fortuiti.

Eh si! Ormai i fucili degli agenti dell’ordine sparano da loro appena le bocche sono abbassate verso un agglomerato di lavoratori armati soltanto dalla esasperazione delle loro sofferenze servili. Si è stabilito, infatti, una specie di automatismo nell’eccidio proletario, dal giorno nel quale l’on. Giolitti (..) fece sapere ai suoi sbirri che essi avevano, ormai, il compito di rimediare ad una lacuna del nostro codice penale, coll’emanare ed eseguire spontaneamente la pena di morte contro la folla inerme."(83)

In quei mesi cruciali per l’avvenire del Partito socialista, Mussolini si era reso conto, che il sindacato doveva svolgere una funzione ben distinta da quella del Partito o del gruppo parlamentare; doveva svolgere una funzione di supporto e il miglior supporto al partito, in quel particolare momento storico, non poteva che essere un’azione rivoluzionaria che bilanciasse il legaritarismo socialista a livello parlamentare.(84) Era perfettamente conscio che la rivoluzione sarebbe stata frutto dell’opera di una minoranza e avvicinandosi pericolosamente alle teorie di Bergson, di Le Bon e di Pareto scriveva:

" Aspettare per fare la rivoluzione di avere la maggioranza assoluta è assurdo, prima di tutto perché la massa è quantità, è inerzia. La massa è statica ,le minoranze sono dinamiche"(85)

Il gruppo parlamentare socialista si dichiarava contrario in assoluto allo sciopero generale di protesta, definito da Turati un fantasma fosco il cui successo avrebbe presupposto una grande maturità di coscienza e di forze nel proletariato. Egli sosteneva, peraltro, cadendo in un vero e proprio sofisma, che quando il proletariato raggiunge tale grado di maturità, lo sciopero generale finisce per risultare inutile. Mussolini intuiva che l’avversione dei riformisti italiani per lo sciopero generale non era di origine teorica, ma aveva una motivazione di carattere elettorale. Memori della reazione governativa e della paura suscitata nella borghesia progressista dallo sciopero generale di Milano del 1904, che aveva, peraltro, determinato un cambiamento della politica giolittiana di 180 gradi, con l’abbandono del feeling con il partito socialista e l’avvicinamento ai cattolici, temevano di perdere ogni ascendente sulla piccola e media borghesia.(86) Tutto ciò, tuttavia, finiva per trasformare il partito socialista in un espressione della borghesia avanzata, in un partito di avvocati, che predicavano, ad ogni piè sospinto, un socialismo di collaborazione e di penetrazione pacifica:

" (...) grazie alle lusinghe delle classi conservatrici - scriveva Mussolini - il partito socialista non è più l’avanguardia vigile del proletariato, ma un’eterogenea accolta di malcontenti, una rappresentanza di tutti gli interessi, un vasto movimento pietista (..) Qual senso di profondo sconforto pervade l’anima, ripensando quale fu l’idea madre del Socialismo e a quale degenerazione l’hanno condotta i fuorusciti della borghesia infiltratisi nel movimento per corromperlo e ritardarlo!"(87)

Gli interessi elettorali non avrebbero dovuto far perdere di vista gli interessi e le esigenze del

"(...) proletariato delle officine, delle miniere, dei campi, (che) ha ormai ben chiara la nozione di trovarsi in stato di guerra guerreggiata contro la società borghese..(..) Si ingannano e cercano di ingannare coloro che si promettono altre cose colla loro presenza a Montecitorio. Solo la folla può ed io intendo restare colla folla, poiché la prossima rivoluzione italiana sarà compita dalla folla esasperata delle città e delle campagne."(88)

Ciò non significa che Mussolini fosse sempre d’accordo con i sindacalisti rivoluzionari, anzi proprio a proposito di sciopero generale si evidenziarono i maggiori contrasti fra loro, così come avvenne dopo il fallimento dello sciopero promosso dall’USI alle officine Miani e Silvestri di Milano:

"Noi siamo favorevoli allo sciopero generale - scriveva Mussolini - Ma appunto per ciò protestiamo e insorgiamo tutte le volte che lo si vuole proclamare a sproposito condannandolo all’insuccesso e al ridicolo. In Italia i sindacalisti parlano di sciopero generale ad ogni momento e per ogni motivo. Pare uno sport"(89)

Con tali parole dimostrava di aver perfettamente afferrato la valenza idealista del mito di Sorel e che, essendo appunto uno strumento di palingenesi sociale e di suprema unione del proletariato, non era adatto per essere usato allo scopo di risolvere controversie riguardanti le singole categorie operaie. Non si trattava, insomma, di un mezzo di protesta economica, bensì di protesta politica ed ideale.

Contemporaneamente, assieme all’intempestività dei socialisti rivoluzionari, condannava anche la CGL per non aver prestato alcun sostegno agli scioperanti guidati dall’USI. Questo attacco gli aveva causato l’avversione concentrica sia dei Confederali che dei sindacalisti rivoluzionari, ma il successivo arresto di Corridoni, condannato per essere stato il promotore dello sciopero dei metallurgici milanesi, lo aveva portato a prendere inaspettatamente e ufficialmente, dalle pagine dell’organo di stampa del partito, le difese dell’USI e a scagliarsi contro la passività della CGL che aveva così favorito quello scandaloso arresto che egli definiva una vendetta nazionale del capitalismo.(90)

Che alla direzione dell’Avanti! fosse andato un vero rivoluzionario, apparve a tutti chiaro dopo l’eccidio proletario di Rocca Gorda, quando Mussolini fece del giornale lo strumento di una sua personalissima e violenta campagna contro le stragi proletarie, definendo il luttuoso episodio come un assassinio di stato. La campagna di stampa portata avanti in tale occasione, con istigazioni alla violenza, celebrazione dello sciopero generale, campagna che mirava soprattutto a far capire ai notabili del partito quanto si fossero allontanati, con la loro politica fondata sul gradualismo parlamentare, dai reali bisogni delle masse indigenti, mirava a scuotere la massa inerte socialista, ad allontanare sempre più il partito da ogni connivenza con la politica della borghesia decadente del periodo giolittiano:

"(..) Rivendichiamo il diritto alla strada e alla piazza, e subito.(...) Mi si dirà che lo sciopero generale è lo strangolatore dei servizi civili.. Di grazia di quale civiltà voi parlate? Di questa civiltà borghese che miete vittime durante gli scioperi, che vittime vuole durante la guerra?(...) La borghesia, la nostra nemica, si difende come meglio può. Noi stiamo contro di essa in atteggiamento di guerrieri non di pitocchi.(...) E’ ora di tornare al libero sole e con il grido che riassume tutte le nostre speranze, tutti i nostri odi, tutti i nostri amori. Viva lo sciopero generale!" E ancora, ribattendo a chi lo accusava di aizzare le folle alla violenza: "(...)Lo sciopero generale deve essere... generale( Qui si ruba l’onesto mestiere a La Palisse). E se per far raggiungere allo sciopero questa sua necessaria universalità occorre uscire dal confine della legalità, bisogna uscirne, coraggiosamente, audacemente, poiché non si concepisce uno sciopero generale bon enfant con comizi ‘privati’ e biglietti di invito(...) Ma nessuno di noi ha mai parlato di sciopero generale ‘feticcio, mito, consuetudine...’E’ un assurdo in termini. Lo sciopero generale - consuetudine è ..impossibile. Una società umana non può vivere eternamente in crisi. O la supera o perisce"(91)

Tale presa di posizione fu oggetto di violente reazioni non solo da parte della stampa conservatrice e da parte dei riformisti, ma anche da parte di alcuni esponenti del PSI come Turati e Serrati, il quale invitava Mussolini a scendere sul terreno del concretismo. In effetti i socialisti turatiani temevano gli effetti nefasti che uno sciopero generale avrebbe determinato sullo sviluppo del partito, traendo insegnamento da ciò che era avvenuto nel 1904 a Milano.

In verità la polemica apertasi all’interno del partito era strumentale sia da parte di Mussolini che, cavalcando il cavallo dell’intransigenza mirava, tramite l’appoggio delle nuove generazioni e dei socialisti eretici di conquistare nuovi spazi all’interno del partito, sia da parte di coloro che più avevano ostacolato il suo approdo alla direzione dell’Avanti!, timorosi del ciclonismo mussoliniano, di un parvenu della politica ,come egli appariva agli occhi di quella che ormai era diventata l’aristocrazia del partito, ai vari Turati, Treves, Zibordi che lo aveva definito un villico che si inurba Kuliscioff che aveva sprezzantemente liquidato la sua complessa e originale formazione culturale con una frase che avrebbe avuto nel tempo notevole quanto immeritato successo: lo aveva definito un poetino che ha letto Nietzsche.(92) I capi storici del socialismo italiano, coloro che si ritenevano dei marxisti ortodossi, anche se avevano rilegato Marx in soffitta e se si adeguavano alla politica riformista del socialismo europeo, mal sopportavano che il loro partito cadesse in mano ad un arrivista, ad un autodidatta venuto dalle campagne, il quale avrebbe potuto contaminare la purezza del programma socialista, inserendovi, per esempio, le lotte rurali che non si confacevano con l’indirizzo eminentemente operaista fino ad allora tenuto dal socialismo italiano. D’altra parte lo stesso Mussolini mirava a smorzare le polemiche che dividevano il partito scrivendo che

:"Nel marxismo che può essere considerato come il sistema più organico delle dottrine socialiste, tutto è controverso ma niente è fallito... La realtà è una sola per tutti: sono le interpretazioni che hanno diviso i socialisti in varie scuole"(93)

E ancora:

" (..) Nel 1848 esce il manifesto dei comunisti. E’ un vangelo che non è niente affatto invecchiato. Oh! Certo nel marxismo qualcosa è caduto: non tutte le verità di Marx sono verità vive al giorno di oggi e si capisce. Marx stesso lo diceva, volendosi premunire dai pericoli della ‘scuola’, io non sono marxista! Egli voleva difendersi dai discepoli troppo discepoli. Il buon discepolo deve superare il maestro e in un certo senso rinnegarlo"(94)

Ma se i quadri del partito ingaggiavano una polemica tendente ad isolarlo progressivamente, egli sentiva di seguire la strada giusta sia per l’appoggio di intellettuali che rappresentavano la parte più progressista della cultura nazionale, Salvemini , Prezzolini, Papini, sia per il consenso che suscitava fra le masse. Si rendeva conto che la crisi del riformismo gradualista rientrava nella più vasta crisi dello stato liberale giolittiano e al richiamo di Serrati verso l’elaborazione di un programma concreto, rispondeva sicuro:

"Il partito socialista italiano o concreterà se stesso e si rinnoverà con l’assorbire nei suoi quadri le masse o si esaurirà nello sforzo delle piccole realizzazioni".(95)

E a Bissolati che lo accusava di creare smarrimento fra i socialisti e di predicare pericolosamente la violenza:

" Non è il vostro riformismo accattone che ha snervato i socialisti italiani?"- e ancora - "Invece di illudere il proletariato sulla possibilità di eliminare tutte le cause degli eccidi, vogliamo invece prepararlo ed agguerrirlo per il giorno del " più grande eccidio" quando le due classi nemiche si urteranno nel cimento supremo".(96)

E ancora, commentando positivamente un articolo apparso sull’Humanité a firma di Jaurès, che malgrado fosse un apostolo del riformismo ed avesse accettato la collaborazione dei socialisti francesi con un governo borghese, sostenendo contro Guesde la nomina a ministro di Millerand nel governo Rousseau,(97) riconosceva la necessità che i socialisti rileggessero Bakunin, per ritrovare l’ardore rivoluzionario, scriveva:

"Sta per sorgere quel socialismo - il nostro socialismo - fatto di fede, di audacie e di sacrifici, inteso a preparare la rivoluzione, una rivoluzione; il socialismo che i pratici e i pusillanimi credevano di aver sepolto per sempre".(98)

Rivelava poi quanto fosse importante per l’avvenire del partito spingere la massa verso una azione storica e nello stesso tempo violenta polemizzando così con Zibordi:

"Il socialismo italiano che non ha dietro di sé la Comune, come il socialismo francese, né tredici anni di leggi eccezionali, come quello tedesco, ha bisogno di vivere una giornata eroica e storica, ha bisogno di urtarsi in blocco, contro al blocco borghese"(99).

E giustificando la linea del suo giornale che, anche andando contro alla CGL aveva sempre favorito gli scioperi scoppiati a Milano nel corso del 1913, dichiarava:

"(..) I grandi scioperi! Quattro scioperi generali in due mesi a Milano! Un vero record! Io non ho voluto abbandonare la massa: non lo potevo: il giornale si sarebbe suicidato. Si dirà gli scioperi sono guidati dai sindacalisti. Verissimo: erano guidati da sindacalisti. E perché? Perché i socialisti durante parecchi anni a Milano non hanno fatto quello che dovevano fare. Il proletariato milanese, il proletariato, specie perché è un proletariato in formazione, un proletariato che sta subendo il fenomeno dell’urbanesimo, dopo sei o sette anni di pacifismo, sentiva quasi il bisogno fisico, oltre che morale, di scendere in piazza: noi ne potevamo approfittare e sentire quello che c’era nell’anima proletaria. Tanto peggio per noi: lo hanno fatto gli altri!"(100)

Sostiene Lotti che, malgrado questa posizione di Mussolini incontrasse il più netto rifiuto da parte dei notabili del partito, questi

"rimasero paralizzati da quel contatto diretto e personale che si stava creando fra Mussolini e la base".(101)

Il congresso socialista di Ancona

Il Congresso socialista di Ancona dell’aprile 1914, approvando la pregiudiziale antimassonica e antimilitarista, permise a Mussolini e alla corrente rivoluzionaria di Labriola e Corridoni, di isolare ulteriormente il partito socialista dalla sinistra costituzionale monarchica, rompendo ogni legame tra socialismo e borghesia. Se era apparso logico durante la crisi del ’98 che socialisti, radicali, repubblicani e giolittiani di sinistra si muovessero all’unisono in parlamento per combattere la politica liberticida di fine secolo, l’avvento di Giolitti con la sua politica di riforme , con il suo atteggiamento di neutralità di fronte ai conflitti sociali, con il varo, infine, della tanto attesa riforma elettorale, aveva diviso la sinistra. Ormai non si trattava più di lottare insieme per difendere la libertà e i diritti fondamentali del cittadino, oggetto di disputa era, ora, il conflitto di classe fra proletariato e capitale. I radicali, i repubblicani, in gran parte, i riformisti, i giolittiani, pur essendo favorevoli ad un’estensione del sistema democratico, non potevano appoggiare i socialisti sul terreno della lotta di classe, poiché appartenevano proprio a quella classe che il socialismo combatteva. Anche Jaurès si era reso conto che i temi della lotta sociale e della proprietà privata rischiavano di isolare definitivamente ed eternamente il movimento socialista sulla sponda della sterile ed eterna opposizione.

Due strade, dunque, si aprivano ai socialisti italiani: combattere assieme al resto della sinistra costituzionale sulla base di una politica di riforme che lasciasse indiscussa l’impalcatura borghese del regime, o imboccare la strada dell’isolamento e della lotta contro la classe detentrice del potere politico economico per realizzare la società socialista. Democratici e socialisti erano ormai inevitabilmente divisi dalla lotta di classe e dalla questione della proprietà privata. Lo aveva intuito Millerand che, presentandosi come mediatore tra proletariato e stato e temendo che l’opposizione della borghesia ad un programma massimalista socialista avrebbe rallentato le riforme sociali a discapito del proletariato, aveva compiuto il grande passo della partecipazione ad un governo borghese.

Mussolini nei sei mesi precedenti al Congresso di Ancona, spende ogni sua energia per portare alla guida del socialismo italiano il gruppo rivoluzionario intransigente facente capo a Costantino Lazzari,(102) trascinando il partito contro la borghesia e contro i feudali e i preti e respingendo ogni tipo di alleanza strategica che, come affermava Guesde, avrebbe finito per fare dei socialisti gli ostaggi della borghesia:

" Noi non siamo per il negoziato: la lotta di classe proibisce il commercio di classe"(103)

Tale è il senso della lotta condotta da lui contro le gerarchie del partito per imporre la candidatura di Cipriani al collegio di Milano, nelle elezioni politiche dl febbraio 1914. Cipriani, il rivoluzionario per antonomasia, il comunardo, avrebbe rappresentato una provocazione per il riformismo socialista, ma la sua certa elezione, perché anche i più moderati non si sarebbero potuti rifiutare di appoggiare un personaggio che era, comunque, uno dei simboli del socialismo europeo, avrebbe consentito a Mussolini di avere l’assoluto controllo del partito nella più socialista delle città italiane.(104)

La stessa pregiudiziale antimassonica voleva essere una esclusione della classe borghese, un principio di rigida intransigenza classista:

"(..)La questione massonica è stata posta la prima volta nel 1905. (...) Oggi è venuto il momento di risolvere definitivamente questa questione. E’ un momento solenne, è un’altra svolta nella storia del Partito Socialista Italiano. La decisione deve essere presa con grande sincerità, senza preoccupazioni, in modo che i signori avversari di tutti i colori sappiano una buona volta per sempre che il Partito Socialista Italiano intende rinnovarsi anche se ciò gli costerà il più amaro dei dolori. Il compagno Poggi è venuto qui a prospettarvi, più che a dimostrarvi, una pretesa affinità filosofica fra la massoneria e il socialismo. Ammetto che un secolo fa, quando il movimento socialista si muoveva ancora sul terreno dell’indistinto, quando le classi non erano divise,, non c’erano proletariato e borghesia, ma poveri e ricchi, secondo la terminologia premarxiana, ammetto che allora si potesse trovare un’affinità più profonda tra la massoneria e il socialismo di quello che non risulti oggi. Ma a questa stessa stregua si possono citare fra i precursori del socialismo (..) Platone e Cristo, se è esistito, ed i filosofi dell’umanesimo, tutti hanno avuto più o meno vaghe concezioni socialiste. In tutti i socialisti dell’utopismo, (...) le parole di filantropia, di umanità, di equità, di pietà, vi battono assiduamente i cervelli. Può darsi che il massonismo tenda all’umanitarismo. Ma è tempo di agire contro questa infiltrazione di umanitarismo nel socialismo. Il socialismo è un problema di classe. Anzi è il solo unico problema di un’unica e sola classe: la classe proletaria.(...) Tutti i partiti borghesi, del resto, guardano a questa nostra assise con un senso legittimo di curiosità; essi dicono: saranno i socialisti capaci una buona volta di liberarsi della questione massonica?(...) Ebbene, il Partito saprà risolverla, perché il Partito è un’organizzazione di soldati, di guerrieri, non di filosofi e di ideologi, e quindi come guerrieri non si può marciare in un esercito e contemporaneamente in un altro del quale siamo avversari."(105)

Così come il problema del diritto di proprietà e la lotta di classe erano i temi che dividevano i socialisti dalla sinistra costituzionale,

"(..) Il socialismo italiano - dichiarò Mussolini alla fine del Congresso, per riassumere in una sola frase il significato ultimo delle deliberazioni dello stesso - diventa sempre più proletario e sempre meno popolo; sempre più classe e sempre meno democrazia"(106)

Vi era, di contro, un principio che unificava tutti i partiti sovversivi, dai socialisti, ai sindacalisti rivoluzionari, agli anarchici : tale principio comune era l’antimilitarismo e su questo soprattutto fece leva Mussolini ad Ancona per assicurarsi la creazione di un blocco rosso da scatenare contro il blocco borghese - capitalista.

D’altra parte il 1913 era stato appunto l’anno del trionfo del militarismo in Europa. La Francia, che nel 1905 aveva ridotto la ferma a tre anni, e che pareva avviarsi al sistema fondato sulla milizia nazionale tanto auspicato da Jaurés, nel 1913 tornò alla leva triennale. La Germania aveva portato il suo esercito ad un organico di ottocentomila uomini e votato, con lo scandaloso avallo dei socialisti, crediti militari per quasi un miliardo. La Russia aveva tenuto il suo esercito, per tutto l’anno, in istato di premobilitazione generale. L’Inghilterra aveva varato un programma di potenziamento della flotta per controbattere lo sviluppo degli armamenti marittimi tedeschi . L’Austria - Ungheria, in base alla denunzia del socialista austriaco Otto Bauer stava svenandosi, per potenziare, dopo la guerra balcanica, il suo potenziale militare in vista di un futuro probabile scontro con la Serbia e la Russia. Anche l’Italia, nel suo piccolo, stava organizzandosi per incentivare le spese militari:

"(...) Di fronte al militarismo, onnipresente e minaccioso, - scriveva Mussolini - l’unica forza di negazione è il socialismo. In tutti i paesi d’Europa i socialisti tentano di sbarrare il passo al militarismo, ma le forze di cui dispongono non bastano all’opera immane. (..) Capitalismo e militarismo sono due modi dello stesso fenomeno: si condizionano a vicenda. L’uno non è pensabile senza l’altro. Non appena il capitalismo esce dalla sua fase primitiva di formazione, esprime dalle sue viscere il militarismo. Colpire questo è colpire il capitalismo(..)"(107)

Lo aveva compreso anche Malatesta che, nella primavera del 1914 incentrò la sua propaganda sovversiva, prima e dopo il Congresso di Ancona, proprio sul militarismo, assumendo come bandiera della sua campagna i clamorosi casi di Augusto Masetti e di Antonio Moroni. Il primo, muratore anarchico emiliano, il 30 ottobre 1911, giorno in cui avrebbe dovuto partire per la guerra di Libia, aveva sparato al suo comandante ferendolo ad una spalla. L’episodio aveva suscitato l’esecrazione di tutti, compresi i socialisti, ma gli unici che si erano schierati a fianco del muratore ribelle erano stati gli anarchici e i socialisti sindacalisti. L’anarchico, deferito al tribunale militare di Venezia, era stato giudicato pazzo, per evitare che una sentenza esemplare facesse di lui un martire, ed era stato rinchiuso nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Nell’autunno del ’13 il caso venne riaperto ad opera della Gioventù socialista, organo della Federazione giovanile socialista, di tendenze sindacaliste rivoluzionarie, poiché dall’amnistia concessa nel dicembre precedente per i reati politici inerenti alla guerra di Libia erano stati esclusi i militari, quindi anche Masetti. Ma quest’ultimo era stato ritenuto irresponsabile del reato commesso perché pazzo ed essendo poi stato giudicato guarito, aveva dunque diritto a beneficiare dell’amnistia. La campagna pro - Masetti, orchestrata soprattutto da Malatesta e dalla Rygier, ottenne, nel gennaio successivo un accettabile successo: l’anarchico fu trasferito da un manicomio criminale ad uno civile. Tale successo aveva dato vigore ad un’altra questione fino ad allora poco dibattuta, quella cioè relativa al caso di Augusto Moroni tipografo milanese in servizio militare a Napoli che, all’inizio del 1913, era stato deferito alla commissione reggimentale per l’assegnazione alle compagnie di disciplina perché sindacalista rivoluzionario. Dapprincipio, all’episodio era stato dato scarso rilievo, ma esaurita, all’inizio del ’14, la campagna pro - Masetti, a Malatesta occorreva qualcosa che la rimpiazzasse. Fu impiantata, dunque, una rumorosa campagna di stampa contro le compagnie di disciplina da parte dei giornali anarchici e soprattutto dalla Volontà. Per qualche giorno la stampa anarchica fu distratta dal braccio di ferro tra il governo Salandra e il potente Sindacato Ferrovieri, che proprio ad Ancona aveva la sua sede nazionale e che minacciava lo sciopero generale se il governo non avesse soddisfatto le sue richieste. Quando tutto finì in una bolla di sapone, Malatesta si rituffò nella campagna pro - Moroni, convincendo la Camera del Lavoro di Ancona ad organizzare per il 7 giugno , festa dello Statuto, solenni manifestazioni per reclamare la liberazione di Masetti, Moroni e di tutte le vittime del militarismo. Salandra vietò ogni pubblica manifestazione per quel giorno e del resto, la deliberazione della Camera del lavoro di Ancona aveva avuto una scarsa eco anche sull’Avanti!, impegnato sul campo delle elezioni amministrative, le prima a suffragio universale, che avrebbero dovuto svolgersi il 14 dello stesso mese . Furono pochi i comizi celebrati in forma privata in quel 7 giugno, ma alla fine di uno di questi, ad Ancona, si verificarono quei tragici fatti che avrebbero dato il via alla Settimana Rossa.(108)

Quel fatale 7 giugno 1914

Quel giorno la pioggia aveva impedito ogni celebrazione ufficiale della festa dello Statuto; la polizia, comunque, era all’erta e teneva sotto controllo soprattutto Malatesta che alle 9,30 di quella mattina era stato condotto in questura a scopo cautelare. Ma fu proprio quel fermo, peraltro poche ore dopo annullato, a favorire il sorgere della protesta. Un comizio fu organizzato per il pomeriggio alle 17 nella sede repubblicana, la cosiddetta Villa Rossa e la polizia fu allertata per evitare che i dimostranti defluissero, alla fine della manifestazione, verso la sottostante piazza Roma dove era previsto un concerto della banda del Buon pastore e uno di quella militare. La manifestazione a cui partecipò anche Nenni si concluse pacificamente, ma quando i partecipanti parvero volersi dirigere verso la piazza, la polizia pensò bene di sbarrare loro la strada. Essendo la via che conduceva alla piazza stretta ed erta, i dimostranti pensarono erroneamente di essere stati imbottigliati e furono presi dal panico e dall’ira; la polizia tentò di disperderli per la campagna e non ci riuscì perché quelli, convinti che la strada fosse bloccata anche in alto pensarono di ritornare alla Villa Rossa, sotto le cui finestra trovarono i carabinieri. Fu un attimo: cominciarono a essere lanciati sassi e qualsiasi cosa capitasse loro tra le mani contro la forza pubblica. Mentre i carabinieri si sbandavano sentirono esplodere dei colpi di rivoltella dalla Villa, pensando di esserne il bersaglio spararono a loro volta. Pare che i colpi non fossero stati esplosi dai dimostranti, ma da una guardia di pubblica sicurezza, tuttavia l’inizio della sparatoria esagitò ancor di più gli animi e determinò ulteriori scontri che lasciarono sul campo due morti e cinque feriti di cui uno in fin di vita.

La Camera del lavoro di Ancona proclamava lo sciopero generale di protesta al quale inevitabilmente avrebbe dovuto far seguito la proclamazione dello sciopero generale nazionale da parte della Confederazione del Lavoro, proclamazione inevitabile dopo le deliberazioni prese in tal senso dal direttivo della CGL e del PSI in occasione dell’eccidio di Rocca Gorga .

Apparve subito evidente come la situazione avesse preso tutti di sorpresa, visto che all’inizio nessuno, nemmeno Malatesta, nemmeno lo stesso Mussolini, che era stato colui che aveva costretto i moderati della CGL e del partito a votare la deliberazione che stabiliva la proclamazione automatica dello sciopero generale in caso di eccidi proletari, si rese conto che un episodio abbastanza circoscritto come quello avvenuto ad Ancona, avrebbe infiammato gran parte della penisola. Così come nessuno si rese conto che da quell’episodio sarebbe nata una crisi insanabile all’interno del PSI, le cui conseguenze sarebbero state immani per i destini dell’Italia.

Fin da subito fu chiaro che il socialismo italiano reagiva in maniera non omogenea; i socialisti che non erano parlamentari, come Lazzari, segretario del partito o Vella vice segretario, o Mussolini, si schierarono subito sul fronte dello sciopero ad oltranza, intuendo che l’antimilitarismo era fino a quel momento, - alcune settimane dopo non lo sarebbe più stato, - l’unico principio comune a tutta la sinistra sovversiva - socialisti, sindacalisti rivoluzionari, anarchici - e come tale doveva essere sfruttato come elemento di unione e di contrapposizione al blocco conservatore che deteneva il potere. A favore dello sciopero generale si schierarono, naturalmente, anche i sindacalisti rivoluzionari, Labriola, Corridoni e gli anarchici, mentre assumevano un atteggiamento più restio che prudente i dirigenti della CGL con a capo il segretario Rigola e tutto il gruppo parlamentare socialista.

Mussolini, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni amministrative, fu raggiunto dalla notizia dei fatti di Ancona, appena rientrato a Milano da Forlì dove aveva tenuto una conferenza su Marat. Fece appena in tempo a pubblicare sul giornale una sua nota, che pur essendo abbastanza dura non conteneva però la parola sciopero generale :

"Assassinio premeditato - scriveva - assassinio che non ha attenuanti: Da tempo bisognava punire Ancona, il "covo dei ribelli ": La lezione di sangue era nelle intenzioni, nei desideri, nella necessità di stato degli uomini dell’ordine. Malatesta, il Sindacato, la sede del Congresso socialista, i gruppi repubblicani: troppa cronaca sovversiva aveva prodotto in questi ultimi tempi la città adriatica... Domani quando la notizia sarà nota in tutti i centri d’Italia, nelle città e nelle campagne, verrà su spontanea la risposta alla provocazione. Noi non precorriamo gli eventi, né ci sentiamo autorizzati a tracciarne il corso; ma certamente, quali questi possano essere, noi avremo il dovere di secondarli e di fiancheggiarli ..L’anima popolare sarà profondamente scossa.. E speriamo che con la loro azione i lavoratori italiani sapranno dire che è venuta veramente l’ora di farla finita"(109)

Leggendo con attenzione questa breve nota, certo vergata velocemente prima che il giornale andasse in stampa, senza avere precise notizie degli avvenimenti, né delle reazioni del partito, si nota, tuttavia, che Mussolini aveva già delineata quella che sarebbe stata la sua posizione fino alla fine dei disordini. Intuitivamente aveva compreso che era giunto il momento e che il partito non poteva lasciarselo sfuggire a meno che non decidesse di abdicare definitivamente al suo originario ruolo di unico rappresentante del proletariato. In tal caso la sua posizione politica non si sarebbe più distinta da quella dei partiti borghesi.

Rigola, costretto, suo malgrado, a proclamare lo sciopero per gli impegni precedentemente presi, non volle mai parlare di sciopero ad oltranza o a tempo indeterminato, egli sarebbe rimasto sempre fermo nella convinzione che le 48 ore stabilite dal direttivo del partito e della Confederazione dopo i fatti di Rocca Gorga, fossero più che sufficienti.

L’USI proclamò immediatamente lo sciopero generale assieme al partito repubblicano, che nelle Marche e in Romagna aveva la sua roccaforte e che proprio in quei luoghi aveva mantenuto quei connotati rivoluzionari che il gruppo parlamentare, invece, aveva completamente perduto. Sorprendentemente tergiversò il potente Sindacato dei ferrovieri che proprio ad Ancona aveva la sua sede e questo fu il primo segnale della disomogeneità del fronte socialista.

Il Sindacato ferrovieri era reduce da una clamorosa protesta, svoltasi nell’aprile e nel maggio precedenti, che aveva tenuto in subbuglio il mondo sindacale e politico italiano. Il direttivo del sindacato aveva deciso di recedere dalla decisione di proclamare lo sciopero generale, sia per l’impopolarità del provvedimento, sia per le promesse ricevute da Salandra. Proclamare uno sciopero politico, proprio quando il governo stava presentando un disegno di legge contenente le richieste che i ferrovieri avevano precedentemente presentato al ministro dei LL. PP. Ferraris, appariva estremamente velleitario e pericoloso per gli interessi della categoria. Interessi di categoria appunto erano quelli che dividevano la classe proletaria, interessi scaturenti da quello che Mussolini chiamava l’homo hoeconomicus, cioè dalla natura materialista dell’uomo, che scavalcava gli ideali e impediva la nascita dell’ordine nuovo e dell’uomo nuovo. Ciò che è più grave è che il sindacato dei ferrovieri assunse un atteggiamento dilatorio ed equivoco; sapendo bene che né la Confederazione, né il Partito erano disposti a parlare di sciopero ad oltranza, dichiarò che i ferrovieri avrebbero aderito allo sciopero generale solo se la Confederazione e l’USI si fossero espressi per uno sciopero a tempo indeterminato e giustificò questa originale presa di posizione con il fatto che uno sciopero di ventiquattro o di quarantotto ore sarebbe stato troppo breve per poter mobilitare tutti i ferrovieri del Paese.

La decisione del Sindacato creò una accesa delusione in chi credeva nell’unità del proletariato come, per esempio, Malatesta o i repubblicani e un forte rammarico in chi comprendeva l’importanza strategica del blocco delle comunicazioni ferroviarie, almeno per quanto concerneva i grossi centri, nell’eventualità di un progetto rivoluzionario .

Quando arrivò il telegramma da Roma di Lazzari, telegramma non concordato né con il gruppo parlamentare, né tantomeno con la Confederazione, in cui si ribadiva la proclamazione dello sciopero ad oltranza, il Sindacato fu costretto ad aderire. Ciò ringalluzzì i promotori della ribellione con a capo Malatesta, i quali proprio ad Ancona si erano resi protagonisti di ulteriori disordini che, amplificati dall’eco della stampa, non mancarono di allarmare l’opinione pubblica e il governo. Particolarmente critico si presentava per la forza pubblica il mantenimento dell’ordine durante la celebrazione dei funerali delle vittime, tenuto conto che, malgrado le assicurazioni del Malatesta e di altri capi rivoltosi, la folla aveva saccheggiato un negozio di armi e che i tafferugli fra dimostranti e forza pubblica si moltiplicavano per tutta la città. Singolare fu l’atteggiamento di Malatesta, già profondamente deluso dalle titubanze di parte del fronte rivoluzionario, il quale il 9 giugno tenne alla folla in tumulto un discorso che voleva essere un invito alla calma , ma che poteva anche interpretarsi come una spinta verso una migliore organizzazione della lotta armata:

"Se voi saprete preparare i mezzi necessari per rispondere col piombo al piombo e con l’acciaio all’acciaio, sarete liberi di sfogare il vostro dolore e reclamare la completa libertà. Voi avete però il torto di non averci pensato prima, per cui oggi dovete restare calmi e questo vi consiglio ad evitare un nuovo eccidio... Mettetevi dunque in istato di difendere la vostra libertà e noi stessi provocheremo quel momento."(110)

I funerali si svolsero fra incredibili tumulti per sedare i quali il viceprefetto chiese addirittura l'intervento dell’esercito, provvedimento, questo, che avrebbe messo fine alla sua carriera, non solo perché aveva deciso di rivolgersi alle autorità militari senza aspettare l’autorizzazione del ministero degli interni, ma soprattutto perché aveva contravvenuto alle disposizioni di Salandra che si era raccomandato fortemente presso le autorità locali perché non si adottassero misure eccezionali, così come era avvenuto nel ’98. Salandra ricordava che allora proprio le misure eccezionali, peraltro non necessarie, avevano determinato in parlamento il saldarsi delle opposizioni e il loro prevalere su un governo macchiatosi di provvedimenti liberticidi.

Intanto lo sciopero si estendeva, seppure con diversa intensità, in tutte le parti d’Italia. A Roma si sospese immediatamente il servizio tranviario, ma fu questo assieme ad alcuni scontri, tutti circoscritti alla zona del Foro Traiano, dove era la sede della CGL, l’unico segnale dello sciopero generale. Gli scontri di Roma, che tuttavia mantennero inalterato il ritmo di vita della città, furono artatamente gonfiati dall’Avanti!, per volere dello stesso Mussolini che si rendeva conto di quale importanza potesse avere sull’immaginario collettivo credere la capitale del Paese e la sede del governo in mano ai dimostranti.(111)

Nel meridione, eccettuato un comizio tenutosi a Marsala, solo Bari rispose allo sciopero con la chiusura di tutti i negozi e la sospensione dei trasporti pubblici. Nel centro - nord allo sciopero aderirono prevalentemente i centri industriali urbani, mentre fu scarsa la partecipazione nelle zone rurali. Le città del Veneto, per esempio, rimasero indifferenti, con l’eccezione di Rovigo, Padova e Venezia, unica città, questa, in cui si sarebbero avuti notevoli disordini, a dimostrazione della minore sensibilizzazione del proletariato rurale rispetto a quello urbano e operaio. Inoltre, a Venezia e anche a Roma la truppa chiamata per sedare i disordini venne accolta da lunghi applausi da parte della folla, cosa questa che dimostrava l’impopolarità dello sciopero presso la maggior parte dell’opinione pubblica e che dava ragione all’intuizione di Rigola e della maggior parte del gruppo parlamentare socialista, contrari allo sciopero ad oltranza .A Firenze si ebbero gravi disordini con un morto e alcuni feriti. Ma solo in Emilia Romagna lo sciopero ebbe una attuazione totale in tutti i centri piccoli e grandi a conferma della tradizione libertaria, anarchica e sovversiva di quella regione in cui mazzinianesimo, bakuninismo, sindacalismo rivoluzionario, repubblicanesimo, passionalità individuale costituivano una miscela esplosiva sommamente pericolosa.(112)

In Lombardia solo a Brescia e a Milano lo sciopero ebbe un’attuazione massiccia. A Milano dodicimila scioperanti armati di bastoni e di sassi si riunirono all’Arena per ascoltare Mussolini e Corridoni:

" E’ tempo che si ritorni al diretto contatto con le masse - asserì il primo - che ci stringiamo in un solo fascio, per colpire un unico bersaglio. Allora converrà armarci, avere la voluttà del pericolo, spingerci in guerra per vendicare le vittime di oggi e di ieri e scalzare questo regime sociale basato sull’ingiustizia e l’iniquità. Conviene che questo sciopero generale sia sentito; andiamo in piazza, ci sono i caffè aperti, le carrozze che vanno; ci sono i teatri e i caffè concerti dove la borghesia va ad abbrutirsi: Questi locali devono essere chiusi. Lavoratori! Proseguiamo nella lotta. Evviva lo sciopero generale! Evviva la rivoluzione!"(113) .

Corridoni fu ancora più incisivo cercando di motivare la folla con argomentazioni di carattere eminentemente politico:

"... non è soltanto contro la bastonatura del poliziotto che dobbiamo reagire, ma rivoltarci contro il governo e contro la monarchia. Noi diciamo forte che il proletariato di Milano e d’Italia non riprenderà il lavoro fino a quando Casa Savoia non sarà mandata in Sardegna... Noi siamo milioni e il governo non può contare che su centotrentamila soldati. Proseguiamo adunque: sarebbe un tradimento riprendere ora il lavoro".(114)

Tale comizio di incitamento alla ribellione costò a Corridoni l’arresto, mentre Mussolini se la cavò semplicemente con un colpo di sfollagente che lo lasciò tramortito sul selciato.

Più gravi furono i disordini che si scatenarono a Torino, città di grande tradizione operaistica, appunto per la presenza delle grandi industrie, dove ben 30.000 operai, l’assembramento più numeroso di tutta la Settimana Rossa - fa notare il Lotti - si adunarono attorno alla locale Camera del Lavoro da dove sarebbe poi partito un lungo corteo che avrebbe attraversato tutto il centro cittadino, fra comizi e scontri con la forza pubblica che si sarebbero conclusi con il tragico bilancio di tre morti e cinque feriti.

Nonostante l’adesione allo sciopero del Sindacato ferrovieri, solo 20.000 di essi, cioè un quinto degli iscritti al sindacato, si astennero dal lavoro. L’astensione fu pressoché generale in Emilia Romagna, in Umbria e nelle Marche e ciò bastò perché venisse interrotta una delle tre linee che collegavano Roma all’Italia settentrionale, la linea adriatica, mentre venne fortemente intralciata la linea porrettana. Non ci fu però la paralisi totale auspicata dai promotori dello sciopero. Quella paralisi sarebbe stata provvidenziale per impedire il movimento delle truppe incaricate di sedare i disordini e per ostacolare le stesse comunicazioni fra le prefetture o fra le caserme.

Il 10 giugno lo sciopero continuava a Bari, dove i disordini avrebbero causato due morti e otto feriti,(115) estendendosi anche ad alcuni grossi centri vicini al capoluogo, come Andria e Bitonto, ma soprattutto veniva proclamato per ventiquattro ore nelle due maggiori città del Sud, Palermo e Napoli, dove, addirittura, negli scontri tra dimostranti e forza pubblica si registrò un morto ed un ferito grave.

Tuttavia fu Milano il centro politico della rivolta, sia per la consistente rappresentanza del mondo operaio e socialista, sia per la presenza fra i dimostranti dei leaders del movimento come Corridoni, De Ambris, Zanetta, Valera e soprattutto Mussolini che al contrario degli altri, che cercavano di gettare acqua sul fuoco dell’entusiasmo popolare, sostenuto dal solo De Ambris, arringava la folla affinché non venisse scoraggiata dalla presenza della truppa e continuasse nello sciopero; gli sfuggiva, tuttavia, che la stragrande maggioranza dei cittadini milanesi si erano ormai apertamente schierati contro i dimostranti tanto che, la mattina del giorno 11, due deputati socialisti Maffioli e Bernardini, avrebbero chiesto al prefetto di presidiare la sede dell’Avanti!, minacciata dai nazionalisti.(116)

Si rese, invece, perfettamente conto degli umori popolari Rigola, il quale, scadute le quarantotto ore stabilite dal Direttivo nel caso di sciopero politico conseguente ad un eccidio proletario, doveva decidere, come segretario generale della CGL, se continuare o no. La sua anima riformista e contraria ad ogni tipo di estremismo e di violenza lo avrebbe portato fin dall’inizio ad opporsi allo sciopero, constatate poi le conseguenze, - morti fra i lavoratori per l’intervento della truppa, sdegno fra l’opinione pubblica del paese, anche fra la più progressista, - non ebbe più dubbi sulla necessità di sospendere e di tornare alla normalità. Ritenne che il solo modo di salvare la faccia fosse quello di appigliarsi alle quarantotto ore previste nella deliberazione emanata dalla Camera del Lavoro Confederale e chiudere degnamente la cosa:

"Abbandonare quel limite - sostiene Lotti - quel solo appiglio valido per proclamarne la chiusura, significava inserirsi nella logica della prova di forza, e cioè della disfatta".(117)

Più tardi, Rigola avrebbe così giustificato il suo gesto davanti al Consiglio Nazionale della Confederazione:

" Noi non potevamo, non dovevamo obbedire alla massa amorfa, ai non organizzati. Ciò non significa che io non sia per la rivoluzione e per la barricata. Ma non credo che la situazione in Italia consentisse di pensare sul serio alla rivoluzione.( ..) D’altronde chi mi sono trovato io dietro le spalle in quei giorni a Venezia? O della gente inerme o dei " "repris de justice" dei borsaioli(...) Non nego che possano servire anche i borsaioli; ma essi andranno bene per la rivoluzione, non per gli scioperi di protesta. D’altronde i sassi contro la truppa non bastano; e predicare la rivoluzione alla gente inerme è un assassinio"(118)

Il discorso di Rigola era un capolavoro di razionalità, ma alcune frasi sfuggite al suo controllo dimostrano come il movimento sindacale e socialista fosse ormai completamente avulso dalla logica marxista e si trovasse, invece, pienamente integrato nel contesto riformista. Dimostra, peraltro, il disprezzo degli esponenti della sinistra, sulla scia tracciata da Bergson e di Le Bon, per la massa di cui si rileva soprattutto l’irrazionalità. Rigola, infatti, parla, quasi con sdegno, di massa amorfa, così come Pietro Nenni, chiamato a testimoniare nel corso del processo sulla Settimana Rossa, avrebbe parlato di allucinazione collettiva, alludendo alla ferocia di cui era stata preda la folla anconetana nel corso dei funerali delle vittime uccise il 7 giugno.(119)

Rigola prese la sua decisione senza consultare il partito i cui dirigenti non parlamentari, come Lazzari e Mussolini, non volevano nemmeno sentir parlare di conclusione dello sciopero, pensando che si fosse appena agli inizi di quella che avrebbe dovuto essere una rivoluzione. Tale comportamento era dettato da due motivi: la necessità di ribadire l’assoluta indipendenza del sindacato dal partito, indipendenza già riconosciuta e sancita al Congresso di Modena; in secondo luogo dimostrare ai massimalisti che dirigevano il partito, che senza l’appoggio della odiata riformista Confederazione, sarebbero rimasti voci clamanti nel deserto. La migliore organizzazione della CGL e delle federazioni sindacali di categoria rispetto alla segreteria del partito, spiega la prevalenza della corrente riformista anche quando dai Congressi nazionali usciva fuori una maggioranza massimalista, così come era avvenuto nell’aprile precedente, ad Ancona.(120)

Per i dirigenti del partito, viceversa, dopo mesi di martellante campagna rivoluzionaria lo sciopero avrebbe dovuto dimostrare, soprattutto alle nuove generazioni , le potenzialità rivoluzionarie del partito, perciò avrebbe dovuto essere - come scriveva Mussolini sulle pagine dell’Avanti! - immenso, impressionante, avrebbe dovuto terrorizzare la borghesia:

"(..) Dalle fabbriche ergastolari dove gli operai sacrificano al dio capitale le energie e - spesso - la vita; dai campi dove comincia a biondeggiare la messe che altri raccoglierà; dalle miniere profonde che gettano alla luce ricchezze immani, e chiudono nel seno ecatombi d’Eroi, da tutti i luoghi, insomma, dove il lavoro è sfruttato, uscirà oggi l’esercito innumere, anonimo e oscuro che, quando vuole, sa imporre la sua volontà decisa alle forze della conservazione e della reazione."(121)

Di tale impressione sulla società e sul governo borghese avrebbe dovuto servirsi il gruppo parlamentare socialista, inserendo tale protesta popolare nella lotta parlamentare e provocando la caduta del governo Salandra. Ma Lazzari e Vella, estranei com’erano alle manovre parlamentari, non si rendevano conto che il loro progetto non era facilmente realizzabile. Per far cadere il governo si sarebbe dovuta ricompattare tutta la sinistra, la socialista con la costituzionale, così come era avvenuto durante la crisi di fine secolo. Ma allora, l’omogeneità di comportamento della Sinistra, dalla estrema alla più moderata, era stato determinata dalla reazione sproporzionata del governo che era apparsa, quasi, una provocazione al sistema di libertà individuali previste dallo Statuto. Nel 1914 la situazione era esattamente opposta; il governo intelligentemente aveva evitato ogni manifestazione di forza, limitandosi a mantenere, con le leggi ordinarie, l’ordine pubblico; i pochi morti e feriti erano stati causati dall’intemperanza della folla che in molti casi, aveva sparato prima della forza pubblica o che comunque aveva provocato l’intervento armato di quest’ultima per il suo comportamento eccessivamente facinoroso e spesso molto violento. A riprova di ciò vi erano le manifestazioni di simpatia della gente alla truppa, ai carabinieri o alla polizia. Insomma, il governo aveva dimostrato solamente di volersi difendere e di voler difendere i cittadini dalle violenze di pochi fanatici. In tali condizioni la sinistra costituzionale, non solo non si sarebbe mai accordata con i socialisti ma si sarebbe stretta ancor di più attorno al governo.

Malgrado la proclamazione della cessazione dello sciopero fatta dalla CGL, in Romagna e nelle Marche, le manifestazioni di protesta continuarono, anzi si acutizzarono, tanto che ad Ancona , Malatesta, senza attendere informazioni più precise su quando stesse avvenendo nel resto del Paese, inneggiava al successo della rivoluzione dalle pagine della Volontà:

"Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme; in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari, il Quirinale è sfuggito per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato. A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazioni e conflitti. E da tutte le parti giungono notizie incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti e anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto... Poiché lo sciopero di protesta si è sviluppato in rivoluzione, bisogna provvedere alle due prime necessità della rivoluzione: la difesa armata e l’alimentazione del popolo"- quanto alla notizia secondo cui la Confederazione avrebbe proclamato la cessazione dello sciopero: "La notizia manca di ogni prova ed è probabile che sia stata inventata e propagata dal governo allo scopo di gettare il dubbio in mezzo ai lavoratori ed arrestarne lo slancio magnifico. Ma fosse anche vera , essa non servirebbe che a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La Confederazione del Lavoro non sarebbe ubbidita... E poi, ora non si tratta più di sciopero, ma di rivoluzione. Il movimento comincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione !".(122)

Probabilmente Malatesta era convinto di ciò che scriveva o voleva convincersi che fosse vero, anche se indubbiamente cercò volutamente di esagerare la situazione, visto che nessuna notizia era mai giunta da Roma, relativamente alla situazione di estremo caos che prospettava l’anarchico. Era necessario, tuttavia, caricare la folla dei dimostranti per spingerli a resistere, per convincerli che il loro movimento non era stato vano, ma anzi aveva determinato addirittura la crisi delle istituzioni. Per un giorno Ancona si presentò come una repubblica rivoluzionaria, quasi una Comune, con una camera del lavoro che si apprestava ad eseguire le istruzione di Malatesta, razionando gli alimenti, soprattutto la carne e il latte, e iniziando le requisizioni presso i ricchi possidenti, - anche se l’agitatore aveva proclamato che per il momento non avrebbe abolito la proprietà privata. La festa durò fino a sera, quando giunsero le prime notizie dal resto del Paese, notizie che, al contrario delle speranze degli agitatori, dicevano che solo Ancona e qualche parte della Romagna rimanevano in istato di agitazione; in tutto il resto d’Italia lo sciopero era finito, non tanto per repressione governativa, ma per decisione del massimo sindacato dei lavoratori, a cui il partito socialista non si era opposto. A tale notizia il Sindacato Ferrovieri decretò l’immediata ripresa del lavoro e in un’ultima accorata assemblea nella Casa del Proletariato, tutti, compreso Malatesta, furono costretti ad accettare, arrendendosi all’evidenza dei fatti, l’ordine del giorno Nenni sulla cessazione dello sciopero, malgrado Mussolini continuasse ad arringare le folle dalle colonne del suo giornale:

"(..) La parola d’ordine è questa: lo sciopero deve continuare e si deve riprendere la propaganda antimilitarista per fare in modo che le baionette si alzino quando vogliamo noi. Dobbiamo far sì che il ‘soldo del soldato’ sia presto un fatto compiuto. La nostra propaganda deve penetrare nelle caserme dove ai figli del popolo si insegna ad uccidere i propri fratelli"(123)

Il 13 giugno anche ad Ancona era tutto finito

Il fallimento dello sciopero generale attirò sulla Confederazione del Lavoro e su Rigola gli strali di tutti i socialisti massimalisti, ma soprattutto dei sindacalisti rivoluzionari che ne approfittarono per dimostrare ai lavoratori che ormai l’unico sindacato degno di tale nome, di rappresentare le loro esigenze, fosse l’USI essendosi la CGL rivelata il miglior poliziotto del governo - come la definì Ercoli - o l’anticamera della prefettura e del governo, secondo Zocchi. Amilcare de Ambris arringò gli ultimi dimostranti convenuti all’Arena di Milano, dopo la proclamazione della cessazione dello sciopero dicendo:

"E voi sindacalisti e libertari ritornate pure domani al lavoro, ma ricordate che dovete usare le armi non solo contro i poliziotti, ma contro i vostri traditori."(124)

Anche Mussolini accusò di fellonia la CGL e si dissociò dalla direzione del partito che aveva accettato supinamente la decisione di Rigola, ma concluse il suo intervento invitando i lavoratori ad astenersi da polemiche fratricide e inneggiando alla sciopero generale:

"(..) Vi dico con sincerità che se lo sciopero è precipitato, ciò lo si deve al deliberato - che non esito a definire una vera fellonia - della Confederazione del Lavoro(..) Io cittadino Mussolini, vi dico che discuterò anche il deliberato della Direzione del Partito. Difenderò strenuamente l’autonomia del Partito rispetto a qualsiasi organizzazione (Applausi). In Italia non vi sono soltanto i trecentomila organizzati della Confederazione del Lavoro e i centomila dell’Unione sindacale, ma vi sono anche i sette milioni di proletari organizzabili, il Partito dei Lavoratori, il proletariato tutto nelle sua complessità( Unanimi applausi) Con la stessa franchezza con cui vi ho parlato in merito alla Confederazione del Lavoro, non esito a dirvi che anche l’atteggiamento del Comitato dei ferrovieri non è stato all’altezza della situazione.(...) Non dovevano aspettare tre giorni per deliberare lo sciopero di solidarietà. Durante questi tre giorni i treni hanno continuato a correre; e se in qualche parte è avvenuta la sospensione del servizio, ciò lo si deve non all’iniziativa dei ferrovieri, ma perché gli operai appartenenti all’industria libera hanno divelto i binari(..) Ed ora, o amici, o proletari, ora che abbiamo detto tutta la verità, aggiungiamo che non occorre - specialmente in questo momento in cui, al di là degli spalti che ci circondano, la borghesia sta in agguato e ci ascolta e ci sorveglia - insistere in polemiche fratricide(...) abbiamo cominciato la nostra manifestazione col grido di : ‘Viva lo sciopero generale!’; chiudiamola, o compagni, o lavoratori, ancora col grido di: ‘Viva lo sciopero generale!’.(125)

Il comizio si sarebbe concluso fra gravissimi incidenti che avrebbero causato il sedicesimo morto della violenta settimana, il cui bilancio definitivo fu: 16 morti e seicento feriti fra gli scioperanti; due morti e 408 feriti fra le forze dell’ordine.(126)

Per molti giorni Rigola e i confederali furono bersaglio del sarcasmo e delle più pesanti accuse di tradimento da parte della maggioranza di coloro che avevano aderito allo sciopero. Salvemini dalle pagine dell’Unità, stigmatizzò il comportamento tenuto dal sindacato e dalla direzione del partito. Condannava anche i rivoluzionari accusandoli di non aver presentato ai dimostranti una meta concreta a cui aspirare, come, per esempio, la lotta contro il dazio del grano, invece di distogliere, come sistematicamente avevano fatto per anni, i proletari dai problemi concreti della vita nazionale:

"(...) Le folle inquiete che dovevano prorompere prima o poi, e prima o poi ritorneranno a prorompere sotto l’aculeo di un disagio economico e soprattutto morale che è il frutto di dieci e più anni di giolittismo, avrebbero avuto durante i tumulti un bersaglio preciso contro cui mirare, un interesse generale ben definito da rivendicare, una iniziativa immediata da imporre agli uomini di governo"(127)

Posizione questa che era in netta antitesi con quella di Mussolini che aveva sempre inteso lo sciopero generale non come un’arma di lotta economica, ma come un’arma di lotta politica ideale, senza rendersi conto, al contrario del maturo Salvemini, che le masse italiane non era pronte, e forse non lo sarebbero mai state a lottare per un’idea, per quanto fascinatrice potesse essere. Del resto lo stesso concetto era già stato precedentemente espresso da Ivanoe Bonomi:

"(...) Le masse operaie sono per istinto e per bisogno le più inclini ad una politica di riforme. Non avvezze, per la scarsezza della loro cultura, alle astrazioni intellettuali, esse conservano, sotto lo stimolo delle necessità quotidiane, il senso realistico delle cose, e richiedono che il loro movimento sia contrassegnato da una serie di risultati tangibili. Ora, un partito, o una sua frazione, se volesse prescindere da questa psicologia delle masse e pretendesse legarle a sé con la pura predicazione di un futuro lontano, rischierebbe di perdere ogni seguito ed ogni effettiva influenze. E questa non è affatto l’intenzione dei nostri rivoluzionari.(..)(128)

Perfetta concordanza, dunque, con la tesi che avrebbe manifestato, nel 1914, Salvemini, che tuttavia dalla condanna che riservava all’ala rivoluzionaria del partito, escludeva il solo Mussolini per il quale continuava ad avere parole di stima e di ammirazione e che poneva su un piano diverso rispetto agli altri protagonisti della Settimana Rossa. Lo giudicava, infatti, uno di quei capi socialisti rivoluzionari " che sono rivoluzionari sul serio, e parlano come pensano, e operano come parlano, e perciò portano in sé tanta parte dei futuri destini d’Italia"(129)

Pochi giorni dopo, passata l’emozione del momento, tutti, eccetto gli anarchici e i repubblicani romagnoli, si convinsero che non era giusto addebitare alla CGL il fallimento dello sciopero. Rigola aveva agito, per di più pressato dalle Camere del lavoro di tutta Italia, quando già lo sciopero si avviava al fallimento per autoestinzione e si era limitato, dunque, ad ufficializzare una situazione di fatto. Lo stesso Mussolini pochi giorni dopo, su Utopia ritirò le accuse di fellonia che aveva lanciato alla CGL:

"Quello della Confederazione - scrisse - può essere stato un errore e una debolezza; non un tradimento"(130)

Esauritasi la polemica contro la CGL, se ne aprì una ancor più violenta tra il direttore dell’Avanti! e il gruppo parlamentare del partito, che, il 20 giugno, con un perentorio ordine del giorno, dove non si faceva mai menzione dello sciopero generale, condannava inappellabilmente il comportamento assunto dal proletariato organizzato durante la settimana Rossa, ribadendo il concetto fondamentale del socialismo internazionale moderno

"giusta il quale le grandi trasformazioni civili e sociali, ed in particolare l’emancipazione del proletariato dal servaggio capitalistico non si conseguono mercé scatti di folle disorganizzate il cui insuccesso risuscita e riattizza le più malvagie e stupide correnti del reazionarismo interiore"

e insistendo sulla necessità di persistere nella lotta

"sul terreno parlamentare e nella propaganda fra le masse nella più decisa opposizione a tutti gli indirizzi di governo militaristi, fiscali, protezionisti e di vigilare per la difesa ad oltranza, a qualunque costo delle insidiate pubbliche libertà, intensificando al tempo stesso l’opera assidua e paziente, la sola veramente e profondamente rivoluzionaria, di organizzazione, di educazione, di intellettualizzazione del movimento proletario".(131)

Il fallimento dello sciopero aveva rialzato il morale dell’ala riformista del partito, sconfitta nel congresso di Ancona dell’aprile precedente, e dei confederali che nel Consiglio nazionale della CGL del 16 giugno avevano votato un ordine del giorno con cui si condannava il socialismo catastrofico e non gradualistico.

Zibordi in un suo articolo pubblicato su Critica Sociale, dimostrava sinceramente tutta la preoccupazione che tormentava la leadership socialista moderata in relazione ai futuri imprevedibili passi del focoso romagnolo, il cui ascendente sulle folle era innegabile:

"(...)Col prestigio irresistibile della sua combattività aspra, ma elevata, che trascina le folle senza essere - in barba alla etimologia - volgarmente demagogica; con alcune doti personali di credente e di milite, egli fa ingoiare alle masse tutto quello che vuole(..)

ma

"(..)la direzione del partito, se dovesse pronunciarsi per appello nominale... sulle idee di Mussolini(...) direbbe certo una parola che non è quella di Mussolini: Non quella delle sue esplosioni passionali, e non quella delle meditate elucubrazioni dottrinali, con cui tenta di suffragare le prime(...)" (132)

Tuttavia, Mussolini preferì non replicare aspettando prudentemente la riunione della Direzione del partito in programma a Roma per il 26 e il 27 giugno. In quell’occasione tutto si appianò, non ci furono né assoluzioni né condanne, poiché tutti capirono che non conveniva a nessuno dare del partito una immagine di divisione e di disomogeneità interna. D’altra parte la maggioranza massimalista non poteva abbandonare alla vendetta dei riformisti il direttore dell’Avanti! che da due anni incarnava il rivoluzionarismo del partito, quel rivoluzionarismo a cui guardavano i giovani e in genere gli sfruttati in quel periodo di transizione verso la società di massa. Inoltre, anche quelli fra i socialisti che avevano auspicato la cessazione immediata dello sciopero, come per esempio Serrati, si guardavano bene dal rinunciare al rivoluzionarismo per un parlamentarismo che, temevano, avrebbe finito per impantanare il partito nella palude di uno sterile ed inopportuno trasformismo :

"(..) il parlamentarismo contorce e svisa ogni nostra azione; - avrebbe scritto Serrati il 13 giugno su Il Secolo nuovo - conturba e corrompe ogni movimento del partito socialista(...) La borghesia monarchica italiana ha deluso il sogno di coloro che speravano in un dolce, roseo tramonto. Il suo riformismo ha fatto cilecca. S’è mostrato come la maschera con cui essa ha coperto la reazione, il militarismo ,l’affarismo. La borghesia non può essere che borghese(Sorel), vale a dire avida di dominio, cieca e violenta. Contro la sua violenza noi dobbiamo preparare la nostra. Pensiamoci e prepariamoci"

Dalle pagine dell’Avanti!, Mussolini mostra un ottimismo e una soddisfazione, se pur non scevra di frecciate polemiche alla CGL e alla Direzione del partito, per i risultati dello sciopero generale, che di fatto non corrispondono ai suoi veri sentimenti. Egli capisce, ma non può apertamente dirlo ai fedeli lettori socialisti che ne sarebbero rimasti quantomeno confusi, che il fallimento dello sciopero generale ha segnato la fine della speranza in un socialismo rivoluzionario, capace di contare sulla classe e sulle sue lotte, non per un fine economico, ma per far trionfare l’idea di un ordine nuovo fondato sulla giustizia sociale. Così, pur esaltando la partecipazione numerica allo sciopero - secondo le stime ufficiali circa un milione di dimostranti -, la sua diffusione dal nord, al sud, dai piccoli centri rurali alle grandi città industriali, non può nascondere la delusione per la defezione del potente sindacato dei ferrovieri, la cui adesione allo sciopero sarebbe stata determinante, soprattutto in relazione alla paralisi del traffico ferroviario e per la decisione della CGL, che aveva unilateralmente decretato la fine dello sciopero, allo scadere delle 48 ore, preoccupata, insieme al gruppo parlamentare socialista, di porre fine, con una tale azione di forza, alla collaborazione politica con la borghesia progressista per il raggiungimento di mete economiche vantaggiose per il proletariato:

"(..) Una politica di realizzazioni riformiste - quale viene sognata dai nuovi e vecchi postulanti al potere - scriveva il futuro duce all’indomani della fine di quello sfortunato esperimento rivoluzionario - sarebbe impotente, anche ammettendo che si svolgesse in condizioni favorevoli ad attenuare gli antagonismi di classe, perché nostra funzione e nostro scopo è appunto quello di accelerare fino al possibile il ritmo di questi antagonismi, di esasperarli, sino a che l’antitesi fondamentale della società borghese si risolva, attraverso l’atto fatalmente rivoluzionario, nella sintesi liberatrice del socialismo. Se - puta caso - invece dell’on. Salandra, ci fosse stato l’on. Bissolati alla Presidenza del Consiglio, noi avremmo cercato che lo sciopero generale di protesta fosse stato ancor più violento e decisamente insurrezionale"(133)

Che la Settimana Rossa avesse provocato la crisi del partito è confermato non solo dall’atteggiamento di Mussolini, dalla maturazione del suo pensiero politico verso il concetto di Nazione , - che già nel 1913 era per lui costituita dal proletariato e dal popolo (134)- ma anche dalla reazione, registrata dai maggiori quotidiani del tempo, della stragrande maggioranza dei giovani socialisti italiani, come per esempio Pastore che confermerà in un suo articolo che

"..La settimana Rossa fu per noi, giovani socialisti rivoluzionari, una delle cause principali che ci spinsero a riesaminare tutto: teoria e pratica"(135)

Sull’altro fronte, quello dei conservatori, la Settimana Rossa ebbe il merito di ricompattarli tutti attorno al governo. Non solo giornali tradizionalmente conservatori, come La Stampa o Il Corriere della Sera, condannarono perentoriamente la violenza delle manifestazioni di protesta socialiste, invocando un governo più forte e capace, ma anche Il Secolo, portavoce del radicalismo, si scagliò decisamente contro lo sciopero generale e i suoi sostenitori, accusandoli di seminare solo violenza e vittime e di spingere verso la reazione anche i liberali di sinistra. I nazionalisti, poi, approfittarono della situazione per scagliarsi contro la debolezza e l’inettitudine di un governo che dava l’impressione

" di impetrare quotidianamente ed umilissimamente dalla longanime tolleranza di lor signori sovversivi, il (..) diritto all’esistenza"(136)

Andò, addirittura, oltre Enrico Corradini su Il Dovere Nazionale del 13 giugno dichiarando che

"(..) Ed è tempo ormai che la nazione si desti e faccia essa la sua rivoluzione; non la rivoluzione da commedia della demagogia sua padrona ,ma quella del popolo contro la demagogia per redimere finalmente la nazione dalla servitù e dalla vergogna".

La divisione del proletariato su interessi di categoria portava Corradini ad indicare la Nazione come espressione vera di unità popolare e la difesa di essa come primaria rispetto al problema sociale; stranamente, pochi mesi dopo, anche Mussolini avrebbe parlato, lo stesso linguaggio, convintosi che nel crogiolo dell’idea nazionale potessero annullarsi le differenze di classe, con la conseguente soluzione del problema sociale.

I giornali cattolici, in genere, condannarono la protesta popolare e alcuni di essi accusarono anche il governo e il Parlamento di eccessiva inerzia, approfittando dell’accaduto per spingere gli elettori, nelle prossime elezioni amministrative a sostenere appunto i cattolici, che pur astenendosi dagli estremismi socialisti, avrebbero garantito la protezione ai più deboli(137)

Al di là delle polemiche e delle accuse incrociate di responsabilità e di fellonia, il dato di fatto inconfutabile rimaneva il fallimento dello sciopero generale. Occorreva, dunque, analizzarne i motivi; lo fecero gli anarchici, i socialisti, Mussolini, i sindacalisti rivoluzionari come De Ambris. Quest’ultimo ebbe il coraggio di ammettere che la rivoluzione era fallita, perché nessuno, ad eccezione di Malatesta, credeva in essa:

" Noi che sentiamo la fatale necessità della violenza per la soluzione dei conflitti sociali - scriveva De Ambris - ci dibattiamo continuamente in una tragica contraddizione. Tutto l’anno si predica il dovere dell’azione eroica e della consapevole non metaforica rivolta; ma poi quando il momento auspicato del risveglio proletario viene e la massa cessa d’esser prona e si leva negli impeti sublimi del più puro ardore di sacrifizio, siamo ancora noi che accorriamo per contenere lo slancio superbo, per quetarne la tempesta di sdegno. Così neghiamo in un giorno la propaganda fatta durante mesi. La massa ci guarda sorpresa e disorientata."(138)

Lo stesso Mussolini che un anno prima in occasione del grande sciopero di Milano aveva dissuaso la folla dal continuare nella protesta, riconoscendo che senza l’appoggio di una parte dell’esercito la rivoluzione non sarebbe mai scoppiata, un anno dopo, tutto sommato, pur incoraggiando i rivoltosi dalle pagine dell’Avanti! e pur augurandosi il successo dello sciopero generale, era della stessa opinione. Secondo la testimonianza dell’amico Torquato Nanni, non solo i fatti di Ancona lo avevano preso alla sprovvista, ma anche nel momento di maggiore entusiasmo egli fu sempre scettico sui risultati della manifestazione che, tuttavia, ai suoi occhi, avrebbe dovuto avere un carattere quasi pedagogico, nei confronti delle masse, convincerle cioè a sfruttare la forza del numero, la violenza insita nelle loro rivendicazioni, per spaventare la classe borghese, per affermare la propria potenza. Puntava, dunque, su una giornata storica, su una scossa da impartire e alle masse e al quietismo dei dirigenti socialisti.(139) A chi gli faceva notare che continuare nella prova di forza avrebbe significato provocare altre vittime rispondeva, in un famoso articolo su Utopia, con parole di Turati, dietro cui però appariva l’afflato passionale e idealistico di Mazzini:

"..Ma che importano dieci o cento morti? Tutti i giorni il proletariato lascia migliaia dei suoi lungo il calvario della sua fatica. Non disse una volta l’on. Turati che i " cadaveri sono le pietre miliari dell’ascensione proletaria?"

Passata la bufera all’interno del partito, Mussolini abbandonò la prudenza che lo aveva distinto in quei giorni e incominciò a confutare le posizioni dei suoi avversari riformisti, si badi bene, non dalle pagine dell’Avanti! che come organo ufficiale del partito doveva essere tenuto fuori dalle polemiche interne per dare del movimento socialista italiana un’immagine compatta, bensì dalle colonne di una rivista che egli stesso aveva fondato e che sarebbe stata la palestra principale della sua evoluzione politica: parliamo di Utopia. Da lì egli aveva già cominciato, fin dal primo numero, la confutazione della dogmatica marxista e soprattutto del revisionismo riformista, primo passo, questo, verso l’abbandono del partito che si sarebbe attuato da lì a pochi mesi:

"... è possibile dopo la revisione riformista, una revisione rivoluzionaria del socialismo ? E’ possibile. E’ urgente. Una revisione del socialismo dal punto di vista rivoluzionario, si giova, in questo momento di un complesso di fattori, tra i quali due sono, a parer nostro, preminenti: il fallimento del riformismo politico, la crisi dei sistemi filosofici positivisti."(140)

All’indomani della fine dello sciopero e dell’onesto riconoscimento del suo fallimento, sempre dalle pagine di Utopia, Mussolini esprime il suo sfogo sincero, privo dai condizionamenti, che, comunque, gli imponeva la linea politica da rispettare sul giornale di partito, in relazione a ciò che lo sciopero avrebbe potuto significare per la storia del proletariato italiano e del socialismo, se il gruppo parlamentare socialista e la CGL, ispirati al gradualismo riformistico, non gli avessero tarpato le ali:

"(..) Il movimento del giugno non è stato soltanto uno sciopero generale, ma qualche cosa di più e di meglio; non è stato una sommossa cieca, ma un’insurrezione con obiettivi abbastanza precisi: se è mancato lo stato di fatto rivoluzionario, c’era però diffuso lo ‘stato d’animo’ rivoluzionario: il desiderio, l’aspettazione di qualche cosa di nuovo; quell’aspettazione ardente che Joung, viaggiando in Francia prima della Rivoluzione, riscontrava nei contadini oppressi dal giogo feudale: (...) qualche cosa si è decomposta; una sfiducia antica ha dato luogo ad una speranza nuova; la impossibilità è divenuta possibilità,; l’eventualità lontana, attuosità vicina; il problema della rivoluzione ( parola sublime!) di ‘una’ rivoluzione è posto finalmente sul tappeto: non si tratta ormai che di mobilitare e di scatenare le forze contro le istituzioni che ci reggono e la cui fragilità è .. cristallina (..) Il movimento, ad ogni modo, ha varcato i confini della cronaca ed è già consegnato alla storia. Cominciato bene, non è finito troppo bene.(..) Ma il documento ufficiale del dissenso dei riformisti è l’ordine del giorno votato dal Gruppo parlamentare socialista(141). Non ritornerò sul ‘modo’ e sui ‘precedenti’ di quell’ordine del giorno. Non chiederò ancora una volta - sarebbe inutile ormai! - da chi e da quanti fu votato. E’ un segreto di stato, fors’anco .. di Pulcinella. Mi limiterò a criticarlo(...) Quell’ordine del giorno è infelice. Infelice come la fine dell’ostruzionismo col quale i deputati socialisti hanno cercato di turlupinare la platea con atteggiamenti di maniera. Ho torto anch’io: quello di aver taciuto per carità di partito. Carità che altri non sente. La conclusione è che il riformismo ha rivelato ancora una volta la sua anima conservatrice. Una cosa intanto è chiara: in Italia esiste uno stato d’animo rivoluzionario. I moti di giugno lo hanno dimostrato. L’impalcatura sociale scricchiola paurosamente (..) Il pericolo è che la rivoluzione ci sorprenda troppo presto, che ‘precipiti’ per forza d’eventi più ancora che per volontà di uomini. Ma la rivoluzione sarà. Invano la deprecano i riformisti d tutte le scuole. Si capisce! Ciò li turberà un poco. Essi si preoccupano della ‘pelle’ del proletariato, ma è della loro che sono, in realtà, ‘preoccupati’. Conosciamo il loro ‘pacifismo’. Non sarà la rivoluzione sociale? Che importa! Ogni rivoluzione politica, diceva Carlo Marx, è anche sociale(..) L’Italia ha bisogno di una rivoluzione e l’avrà."

Contestava anche il dogma dell’esistenza di un socialismo unico per tutte le nazioni che non tenesse conto delle peculiarità dei vari popoli:

"(...)Il socialismo internazionale ‘moderno’ è una frase priva di senso. Non c’è un vangelo unico di socialismo per tutte le nazioni, nel quale tutti si debba giurare, per la scomunica maggiore. Ogni nazione si è foggiata il ‘suo’ socialismo. Il periodo dell’egemonia tedesca nel socialismo internazionale sta per tramontare"(142)

La settimana Rossa creò un forte travaglio nell’animo di Mussolini, non solo per il rude scontro tra la realtà e il sogno, - una massa senza armi non avrebbe mai potuto aver la meglio su un esercito organizzato - , ma soprattutto perché nacque in lui il sospetto che lo slancio rivoluzionario fosse mancato non solo al partito e al sindacato, ma soprattutto al proletariato. Quella sfiducia nella massa amorfa che si era fatta strada in lui dopo le letture di Sorel, di Bergson, di Le Bon, di Pareto, aumentava suo malgrado e lo portava a pessimistiche conclusioni. Alle stesse conclusioni era giunto anche Prezzolini

"Non c’è in Italia nei partiti avanzati la sufficienza intellettuale, morale e pratica per un nuovo governo. Non c’è la "capacità delle classi proletarie".. Di queste cose i migliori dei partiti socialista e repubblicano sono convinti quanto me"(143);

mentre Papini si rammaricava non solo perché il sistema borghese non aveva fatto niente per alleviare i disagi delle classi popolari, ma soprattutto perché i partiti rivoluzionari

".. non avevano fatto quello che bisognava fare per far riuscire la loro rivoluzione e per impedire sacrifici inutili di sangue, di tempo e di quattrini"

e concludeva chiedendosi amaramente se

".. oggi i partiti nuovi hanno tanti uomini nuovi che farebbero meglio messi al posto dei vecchi"(144) E Salvemini su l Unità:

"..I tumulti dei giorni scorsi non sarebbero avvenuti invano se i condottieri dei partiti democratici non avessero dedicato tanti anni della loro attività e delle loro scaltrezze a vuotare di ogni contenuto specifico l’azione dei loro partiti, distraendoli sistematicamente da tutti i problemi concreti della vita nazionale, esaurendoli nell’anticlericalismo commediante e nella conquista di microscopiche leggine sociali o nell’accattonaggio di lavori pubblici per i cooperatori disoccupati"(145)

Le opinioni espresse da questi uomini ci dimostrano che non fu casuale il loro appoggio al primo Mussolini.

Anche Prampolini aveva interpretato magistralmente la tempesta che scuoteva l’animo del futuro duce:

"... vide che nulla di concreto - nel senso che egli sognava - rimaneva di quell’incendio, e tentò confortar sé stesso e il proletariato, dando dignità di dottrina al moto popolare... Tentò di teorizzare anche l’inteorizzabile,.. ci vide l’atto di un dramma, e scrisse che con altri atti successivi e più vasti, il dramma arriverebbe all’epilogo" (146)

Dal socialismo al fascismo

Pochi si sono preoccupati - come sostiene Nolte - di indagare il passaggio di Mussolini dal socialismo, all’interventismo e poi al fascismo. Anzi ha fatto comodo alla storiografia di sinistra mettere in ombra il ruolo che egli svolse all’interno del socialismo italiano fino alla svolta del 1914:

"Alla vigilia della guerra mondiale, dopo la sua rapida ascesa , egli non è certo il Duce del socialismo italiano, ma tuttavia è la personalità più colorita, più affascinante e più ricca di forza espressiva del suo partito, un politico di importanza europea".(147)

Se si è parlato di salto della quaglia, di tradimento, di opportunismo politico, ma si è poco messo in rilievo come il passaggio dal socialismo al fascismo, che non può non essere ricollegato ai fatti di Ancona e all’adesione alla logica militarista degli altri partiti socialisti europei, fosse una evoluzione del pensiero politico mussoliniano che non poteva, tuttavia, prescindere dalla sua formazione anarchico-marxista.

Secondo Nolte l’evoluzione del pensiero mussoliniano sarebbe il logico prodotto del rapporto tra i due pensatori - Marx e Bakunin - che influenzarono particolarmente il pensiero del futuro duce, rapporto che fino ad ora è sempre stato negato e che invece esiste..

Mussolini si professò sempre marxista ortodosso, anche se in effetti il suo rifiuto dei dogmi, non aveva nullo di ortodosso; si dichiarò, tuttavia, sempre contrario all’idolatria di Marx, sforzandosi di comparare e integrare quella dottrina con le nuove correnti di pensiero che avevano i loro caposcuola in Bergson, Pareto, Sorel e anche Nietzsche. Accetta il confronto non solo con altri pensatori, alcuni dei quali ritenuti antitetici a Marx, ma anche con gli avversari politici, con chi, come Prezzolini sostiene che la dottrina marxista non è universale, poiché essa era adattabile solo a quel particolare sistema industriale e sociale esistente in Inghilterra nella prima metà dell’ottocento. Il suo marxismo, dunque, non è impermeabile alle nuove idee frutto dei mutati tempi, né è così ortodosso da impedirgli il sorgere di dubbi come avviene dopo l’approfondito studio di Sorel e del suo mito dello sciopero generale che gli farà capire la perdita da parte del partito dello spirito rivoluzionario e violento. Nega e respinge il parlamentarismo, poiché ritiene che il partito debba agire non integrandosi nello Stato, con l’accettazione del suo sistema istituzionale e quindi con la lotta all’interno di esso, ma al di fuori dello Stato che deve essere abbattuto mediante la rivoluzione, poiché è proprio lo Stato con i suoi mezzi oppressivi, primo fra tutti l’esercito, il vero nemico del proletariato. Perciò il socialismo non può non essere antimilitarista. Ma lo Stato che Mussolini mira a stravolgere è lo Stato borghese, non lo Stato in genere che egli non considera alla maniera marxista una infrastruttura, bensì alla maniera hegeliana come l’organismo regolatore della società, il cui compito naturale è quello di difendere i più deboli e non di fare da scudo alla classe borghese. La prova si avrà al momento in cui raggiunge il vertice del potere e abbandona la rivoluzione fascista per difendere ed esaltare il concetto di Stato.

Si è detto che Mussolini avesse recepito il concetto di violenza dallo studio di Sorel. Ma un marxista ha forse bisogno di Sorel per credere nella violenza che è insita nel pensiero di Marx, grande esaltatore del vandalismo della Comune?(148)

La violenza ha per Marx una funzione ostetrica, dar vita ad una società nuova, essa è universale, ma transitoria. Per Sorel invece la violenza deve essere perpetua, perché essa rappresenta la dialettica sociale, lo scontro di classe, che è una precondizione dell’umanità e perché solo attraverso la violenza le masse, gli oppressi, vengono sensibilizzati alla ricerca e alla costruzione di un mondo nuovo.

Secondo Nolte, il concetto di violenza in Mussolini è tratto dalla logica marxista: la violenza è vista come mezzo risolutore dei mali della società. Perciò egli giudica espressione di decadenza del socialismo il riformismo, il socialismo parlamentare, il socialismo degli avvocati, che prescindono dalla violenza e spingono invece alla collaborazione innaturale con una classe con cui è invece indispensabile lo scontro.

"Gli interessi del proletariato sono antagonisti a quelli della borghesia. Fra queste due classi nessun accordo è possibile. Una di esse deve sparire... La lotta finale - scriveva - sarà violenta catastrofica, poiché i capitalisti non rinunceranno volontariamente al loro potere economico e politico".(149)

Con il termine socialismo degli avvocati, Mussolini vuole combattere la tradizione socialista italiana che è una tradizione borghese; il socialismo italiano fu voluto dagli intellettuali e non dagli operai. Come Lenin punta su una netta divisione delle classi e in ciò richiama anche Sorel che diffida della dirigenza dei partiti socialisti, composta da borghesi che guidano proletari.(150)

Un altro contrasto con l’ortodossia marxista è costituito dall’attenzione quasi esclusiva che essa riserva al proletariato operaio, ignorando quello contadino. Marx, peraltro, immaginava uno specifico teatro per la rivoluzione operaia: una società industrializzata in cui la classe detentrice dei capitali e dei mezzi di produzione avesse ottenuto il massimo sfruttamento del proletariato operaio. Quando l’immiserimento di quest’ultimo fosse arrivato all’apice, sarebbe automaticamente scoppiata la rivoluzione sociale con la conseguente abolizione della proprietà privata, delle classi sociali e dello stato. Questa visione limitativa della società portava Mussolini a pensare che Marx nell’elaborare la sua dottrina avesse tenuto conto unicamente della società industriale inglese, in cui viveva, senza tener conto delle condizioni sociali ed economiche proprie del resto d’Europa. In verità Marx stesso aveva compreso i limiti della sua dottrina e nel 1856, in una lettera ad Engels, aveva riconosciuto che senza l’apporto contadino l’azione del proletariato industriale sarebbe stata destinata al fallimento. Preannunciava, cioè, quella alleanza tra contadini e operai che sarebbe stata la parola d’ordine di Lenin, ma che non fu mai elaborata da Marx e dai suoi seguaci a livello di teoria.(151) Mussolini si rendeva, dunque, conto che in un’Italia rurale come era quella dell’inizio del secolo, nonostante il boom industriale di quegli anni, la teoria di Marx era inapplicabile. Il non tenere in conto il proletariato contadino, che costituiva la colonna portante dell’economia italiana e di quella della maggior parte dei paesi europei, era particolarmente grave per un uomo come lui che veniva dagli ambienti contadini della Romagna, dove aveva avuto più successo la predicazione anarchica, perché ai contadini si rivolgeva.

Seppure la sua formazione culturale e politica era avvenuta prevalentemente fra gli ambienti operai degli emigrati in Svizzera o degli irredenti trentini, le sue prime esperienze politiche e sindacali furono fatte fra i contadini della sua Romagna, allo scopo di eliminare la mezzadria e ridurre lo scontro alle due sole classi dei proprietari terrieri e dei braccianti nullatenenti. Per questi ultimi egli rivendicava la proprietà delle trebbiatrici attraverso la costituzione di cooperative sociali in cui, il bracciante incolto potesse imparare a sfruttare la forza del numero per il conseguimento di interessi collettivi. L’eliminazione della mezzadria aveva una sua logica tipicamente marxista, condurre cioè alla radicalizzazione della lotta di classe, senza la quale sarebbe stata impossibile la rivoluzione.

L’ambiente contadino sarà sempre presente in lui, anche quando è costretto a trasferirsi nella più industriale città italiana; l’educazione impartitagli dal padre anarchico, non verrà mai accantonata, anche perché egli comprenderà col passar del tempo che l’autentica realtà italiana è proprio quella che proviene dalla campagna , dalle lotte, ma anche dalle tradizioni del mondo contadino.

Mussolini si dimostra marxista anche quando ostenta il suo disprezzo per la massa amorfa. Quando parla di minoranze e di élite usa solo dei termini diversi rispetto a Marx, che non nasconde il suo disprezzo per il sottoproletariato e a Lenin che parla invece di aristocrazie operaie, di avanguardia dura come l’acciaio, temprata nell’acciaio.(152) Egli si considera marxista ortodosso, pur giudicando la teoria di Pareto, il cui corso di lezioni frequentava con curiosità all’università di Zurigo, come

" la più geniale concezione sociologica dei tempi moderni. La storia non è che una successione di élite dominanti. Come la borghesia si è sostituita al clero e alla nobiltà nel possesso della ricchezza e del dominio politico, così la borghesia sarà sostituita dal proletariato, la nuova élite sociale che sta formando oggi nei suoi sindacati, nelle sue leghe, nelle sue camere del lavoro i nuclei della futura organizzazione economica a basi comuniste"(153)

Egli dunque applica al principio della dialettica storica di Marx la teoria delle élite paretiane che egli chiama élite proletarie, rimarcando, comunque, uno scetticismo e una sfiducia generica nei confronti delle maggioranze, quindi nella democrazia parlamentare. Questa sua sfiducia è tutto sommato presente in Marx , in Lenin, in Pareto, in Bergson, in Le Bon, in Sorel , ma anche in Nietzsche. Il concetto di minoranza come gruppo di forti è propria del darwinismo sociale di Spencer, ma si avvicina pericolosamente al concetto di superuomo di Nietzsche.

Tale crogiolo culturale è proprio di un periodo di transizione, quale era quello che si viveva alla vigilia della guerra mondiale che avrebbe cambiato il volto geografico, ma anche sociale ed ideologico dell’Europa intera, è proprio di una generazione che aspira al cambiamento e che, in vista di tale cambiamento trova un unione ideale che supera le differenze ideologiche. E’ per questo che il giovane Mussolini cerca gli strumenti per realizzare il mondo nuovo indifferentemente da Marx, da Pareto o da Nietzsche che apparentemente non avrebbero nulla in comune. Nolte sostiene, anzi, che il rapporto tra Marx e Nietzsche sia l’intuizione più valida di Mussolini.

Il rifiuto del pacifismo riformista da parte di Mussolini, l’esaltazione della rivoluzione, del ricorso alla violenza, solo mezzo per forgiare e distinguere il gruppo dei forti e degli eroi, è proprio del marxismo , ma si avvicina molto anche alle teorie di Nietzsche. Nel commentare una conferenza di Treves su Nietzsche, alla base del cui pensiero sta la volontà di potenza, la filosofia della forza, Mussolini, senza volerlo, mette in evidenza i punti di collegamento tra l’autore di Così parlò Zarathustra e Marx. Sottolinea, infatti, l’antigermanesimo di Nietzsche, il disprezzo per la mentalità feudale e mercantile della Germania, contro cui quegli teorizza la rivolta degli schiavi. Nietzsche è dunque anticapitalista come Marx, ma come quest’ultimo è anche anticristiano, poiché si scaglia contro una religione che esalta la valle di lacrime terrena, che enfatizza il concetto di rassegnazione, togliendo all’uomo ogni stimolo, ogni enfasi e facendone lo schiavo dei più forti. Ed è infine antiborghese. Il superuomo è il prodotto della follia che si scaglia contro il buon senso borghese, è per Mussolini colui che incarna la forza della volontà, volontà con cui l’uomo afferma la sua potenza sulle leggi della natura e con cui si erge ribelle per distruggere il mondo esistente e per forgiare l’ordine nuovo e l’uomo nuovo. Egli si sforza di interpretare il pensatore tedesco, bersaglio favorito dei marxisti, in veste socialisteggiante e rifiuta di scendere nei particolari, quando la sua difesa di Nietzsche si scontra con principi che sono all’antitesi del socialismo. Così quando afferma che i nemici di Nietzsche sono Dio e la plebe, cerca di convincersi e di convincere i lettori che la plebe per il pensatore tedesco non ha un significato classista, egli piuttosto si rivolge alla massa amorfa schiava della morale cristiana, incapace di ribellarsi e di cambiare il mondo. Nietzsche per Mussolini incarna quell’idealismo, quella passionalità, quella cultura dell’eroismo, il sogno della giovinezza che egli non trova negli scritti di Marx.

Se Mussolini indebolisce il concetto marxista della rivoluzione fondata sulla legge naturale, sostituendolo con quello dell’ideale che deve sempre stare alla base dell’azione del proletariato, ciò - secondo Nolte - non è riconducibile tanto alla diversa personalità fra i due personaggi che gli furono guida, appunto Marx e Nietzsche, quanto alla differenza dei tempi in cui vissero. Il futuro duce vive in pieno gli anni ruggenti del primo novecento, quando, se da un lato l’uomo tende ad esaltare le conquiste della scienza e della tecnica, come una definitiva vittoria sulla natura, dall’altro si sente stanco di un’epoca in cui il positivismo è stato portato alle conseguenze più estreme, annullando la passionalità, il sentimento, l’idealismo, l’individualità insomma. Cresciuto all’ombra di Costa, nutrito dalle letture paterne di Bakunin, educato dalla conoscenza del pensiero di Kropotknin, di cui fu negli anni dell’esilio in Svizzera il primo traduttore in italiano, non può rinnegare quegli ideali libertari che si alimentano di passioni e di sentimento e rifiutano i freddi schematismi del naturalismo e del determinismo:

" ... Noi attraversiamo un periodo di praticismo e tecnicismo che ci soffoca. Non si vuol sentire parlare di ideali remoti. La parola è alle cifre, ai mastri, ai bilanci. Dovunque si grida: praticità, tecnicità, gradualità. Andiamo verso un’umanità meccanica e meccanizzata, raziocinante fino all’esasperazione, fino all’eliminazione dei valori sentimentali che pure hanno avuto tanta importanza nella storia (..) e ancora: (..). l’umanità ha bisogno di un credo. E’ la fede che muove le montagne, perché dà l’illusione che le montagne si muovano. L’illusione è, forse l’unica realtà della vita."(154)

In questa affermazione è facile trovare Sorel e la sua teoria del mito. D’altra parte questa contestazione di Mussolini del materialismo marxista, che lo porterà, dopo la guerra, ad approdare al concetto di nazione, è condiviso da uno dei suoi più grandi avversari Carlo Rosselli:

"... al di sotto della realtà delle classi c’è un’altra realtà più profonda, che il comunismo ha ignorato, la realtà della nazione... La realtà della nazione, come rapporto dell’uomo alla sua tradizione e alla sua storia, non può venir dedotta dall’economico, come rapporto tra l’uomo e la natura",(155)

La crisi dell’internazionalismo e il passaggio dalla neutralità all’interventismo

Il giovane Mussolini, che vede nel progresso della scienza e della tecnica il mezzo principale per l’abbattimento delle frontiere e che crede nella solidarietà delle classi proletarie di tutto il mondo, non può che essere internazionalista, e non può non vedere nel culto della nazione un segno della decadenza della classe borghese, un residuo storico del romanticismo, ormai non più adatto al ruggente nuovo secolo, un attributo proprio della reazione e del militarismo. Ma il suo pacifismo subisce, a sua insaputa, il primo scossone quando comincia a parlare di guerra civile, guerra interna fra le classi - e un tentativo in tal senso fu da lui fatto in Romagna in occasione dell’impresa libica - e quando ipotizza l’internazionalizzazione della rivoluzione socialista. Il motto marxista che Mussolini fa suo, Proletari di tutto il mondo unitevi, accanto all’anti patriottismo, nasconde i germi del militarismo, poiché presuppone la necessità fatale di una conflagrazione generale che abbia la funzione catartica e ostetrica dello sciopero generale soreliano. La stessa sua azione di fiancheggiamento degli irredentisti trentini, durante il suo soggiorno a Trento, è vista da Nolte non come un presagio del suo futuro nazionalismo, bensì come un atto di giustizia nei confronti dell’italianità che veniva soffocata e oppressa dall’autoritarismo asburgico col sostegno del clero; in tal caso il suo credo socialista e il suo profondo anticlericalismo non potevano non fargli appoggiare la lotta irredentista.

D’altra parte gli stessi Marx ed Engels erano convinti che le nazioni grandi e progredite avessero più diritti delle piccole nazioni, la cui lunga oppressione dimostrava la mancanza in loro di capacità vitale. Tale concetto appare antitetico a quello di fratellanza fra i popoli. Tale aggressività mancava nella versione più moderata del marxismo, il riformismo che aveva avuto grande diffusione, con il suo gradualismo e con il suo pacifismo, in tutta Europa. Appunto perché moderato, perché portato all’immobilismo, all’attesa fatale di una rivoluzione per la cui realizzazione la volontà dell’uomo appariva assorbita dal determinismo storico, non poteva affascinare i giovani ribelli che vedevano nel nuovo secolo un’epopea di cambiamenti, rispetto ai quali l’uomo, con le sue capacità e la sua volontà di potenza, sarebbe stato il principale fattore nella realizzazione dell’ordine nuovo. Tanto meno il minimalismo marxista poteva conquistare uno spirito irrequieto come quello del trentenne Mussolini che lo considerava, anzi, la negazione del marxismo:

"( ...) Ora il buon senso minaccia di sifilizzare anche l’idea di rivoluzione.- scriveva Mussolini - Non ne vedete i sintomi? Una volta il socialismo era degli ‘scamiciati’, dei ‘malfattori’, della ‘canaglia’; oggi è già poli, policé, anzi. E’ colto, ci tiene a mostrare di essere ragionevole, tanto sentimentale che piange e fa piangere, ha un sacro orrore del sangue, detesta l’avventura. Vuol essere sicuro, metodico, cautelato, previdente. Il linguaggio dei socialisti non è più sbracato, come quello di un tempo. E’ manierato, lezioso, piano, pedestre, senza spigoli, pieno di eufemismi, ufficioso, ufficiale, grigio, ‘temperato’, tollerante. Confrontate una pagina di Marx con una di Bonomi o di Turati. Scorgerete l’abisso... Chi ascolta la voce insidiosa di quest’equivoco personaggio non sarà mai audace... Preferirà la palude alla vetta, il riposo alla marcia, la pace alla guerra."(156)

Egli oltrepasserà la frontiera dell’ideologia marxista quando, alla vigilia della guerra, dopo che i socialisti di tutta Europa avevano fatto prevalere gli interessi nazionali a quelli di classe e avevano abiurato all’antimilitarismo, comprenderà che l’internazionalismo non unisce la classe proletaria mondiale; è la nazione, non la classe, l’elemento che cementa il popolo, che non è solo il proletariato. E’ l’Idea e non le conquiste economiche che, al contrario, lo dividono per la presenza dei diversi interessi di categoria, che porterà il proletariato verso la costruzione di un mondo nuovo senza classi.. Infatti, in un intervista concessa a Ludwig, quando ormai era il duce dell’Italia fascista, alla domanda su che cosa sarebbe accaduto se l’Internazionale si fosse posta unitariamente contro la guerra rispose:

"Ciò avrebbe creato una situazione del tutto diversa. Se l’avesse fatto e fosse rimasta fedele, tutto sarebbe diventato completamente diverso"(157)

Sul " voltafaccia" di Mussolini, concretizzatosi nel suo famoso articolo del 18 ottobre 1914, che gli sarebbe costato la direzione dell’Avanti! e l’espulsione dal partito, si è molto scritto, quasi sempre, però, in termini di sarcastica condanna. Si è ipotizzato di tutto, da un suo vendersi alla Francia che, tramite l’intercessione di Naldi, direttore de Il Resto del Carlino, gli avrebbe finanziato il suo nuovo quotidiano, Il Popolo d’Italia, solleticandolo nelle sue ambizioni giornalistiche, ad una sua presunta insoddisfazione per il ruolo secondario occupato nel partito e alla sua aspirazione di raggiungere, tramite l’abbandono dello stesso, la leadership di un nuovo soggetto politico.

Sui finanziamenti al nuovo giornale di Mussolini che vide la luce incredibilmente presto, il 15 di novembre, meno di un mese dopo il famigerato articolo che gli era valso le dimissioni dall’Avanti! - a cui sarebbe seguita l’espulsione dal partito - , si è ricamato molto. I sospetti sul fatto che il futuro duce si fosse potuto vendere pur di ottenere una tribuna tutta sua da cui manifestare senza reticenze, ma soprattutto senza condizionamenti, le sue idee, sono stati alimentati proprio dalla repentinità che accompagnò il nascere del nuovo quotidiano. Anche se Naldi in un abboccamento avuto con l’ex direttore dell’Avanti! lo aveva incoraggiato a perseguire il sogno di un suo giornale sostenendo che per farlo occorreva poco, una rotativa, dei redattori e della carta, sappiamo tutti che l’elemento fondamentale era e rimane ancor oggi il denaro:

"(...) Non ci sono tipografie disponibili a Milano - avrebbe risposto Mussolini -. E poi dove trovare il denaro? Un denaro che io possa accettare?(158)

L’aiuto economico gli venne indubbiamente dal Naldi, sostenuto anche dalla federazione dei Lavoratori del mare, che aveva tutto l’interesse di potenziare la corrente interventista con l’apporto di un altro quotidiano il cui direttore, per il carisma esercitato sui lettori, sarebbe stato una pedina fondamentale per manipolare l’opinione pubblica in direzione antineutralista. Pare che Naldi fosse anche un agente governativo, precisamente del ministro degli Esteri di San Giuliano, e un rappresentante degli interessi politici francesi in Italia, nonché della grande industria, degli Agnelli, degli Ansaldo, ecc., che dall’ingresso in guerra dell’Italia si aspettava grossi profitti. Dietro le Messaggerie italiane, che avrebbero avuto il compito della distribuzione del giornale e dietro Naldi, si celavano, dunque, i capitali dei grandi industriali del nord. Per questo motivo Mussolini fu sottoposto ad un vero e proprio processo da parte di una commissione d’inchiesta presieduta dal presidente dei probiviri dell’Associazione lombarda dei giornalisti, per difendersi dall’accusa di indegnità mossagli dai suoi ex compagni di partito.

Poteva dunque Mussolini accettare quei soldi per varare il "suo" giornale?

Secondo De Felice, se tali denari potevano dirsi inaccettabili da un punto di vista socialista, lo erano invece dal punto di vista interventista, visto che i suoi finanziatori "interventisti sinceri o interventisti per interesse, sempre interventisti erano, sul piano politico concreto i loro fini erano, in pratica, gli stessi di Mussolini"(159).Né questi accettò mai contropartite o fu particolarmente benevolo con essi. Si può dunque accettare la tesi del grande biografo mussoliniano, secondo il quale, il suo passaggio dal neutralismo all’interventismo non fu certo dovuto a ragioni economiche, - d’altra parte pochi erano tanto disinteressati al denaro quanto Mussolini, se si pensa che il suo primo atto come direttore dell’Avanti! fu quello di decurtarsi lo stipendio - ma da una vera e propria crisi ideale interiore.

Pochi, tuttavia, si sono preoccupati di analizzare tale processo interiore che, tra sofferenze, incertezze, delusioni, autoflagellazioni, avrebbe traghettato questo giovane uomo di trent’anni verso una sponda politica opposta a quella che era stata, peraltro, la culla delle sua formazione culturale e spirituale.(160) Tale travaglio, perché indubbiamente di un travaglio si trattò, può cogliersi solo dalla lettura e dall’esame particolareggiato degli scritti da lui pubblicati nel periodo drammatico che va dall’attentato di Sarajevo al fatidico 18 ottobre, quando, abbandonata ogni reticenza e ogni dovere di fedeltà alla linea del partito, decise di fare l’estremo passo.

Non bisogna, tuttavia, giudicare tale scelta, al di fuori del contesto determinato dalle eresie di cui il marxismo era stato vittima, a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo, eresie che, in fondo, non erano altro che tentativi di adattare i dogmi alla realtà in continuo movimento e che scaturivano anche dal ribellismo proprio della gioventù del novecento, fatalmente influenzata dai movimenti irrazionalisti, che tutto predicavano, cadendo spesso in assurde contraddizioni, fuorché l’immobilismo e la fede nei principi irremovibili della dottrina.

Anche Mussolini, conquistato dal sorelismo che rappresentava quel movimento che ormai l’ortodossia socialista, ancorata al riformismo, negava, affascinato dall’anarchismo individualista di Stirner e dal Superuomo di Nietzsche, che davano al ruolo dell’uomo, come protagonista, e della sua volontà, molto più spazio rispetto alle teorie deterministiche marxiane, fin dal ritorno dal suo esilio in Svizzera, cominciò a sentirsi troppo costretto dai dogmi inconfutabili della dottrina che con tanto entusiasmo aveva abbracciato.

Le sue incertezze, le insoddisfazioni proprie di uno spirito che scalpitava imprigionato nelle pastoie dell’ideologia e che aspirava a forgiare una nuova Idea, capace veramente di cambiare il mondo, che, peraltro, non sarebbe mai cambiato se non si fosse modificato radicalmente l’uomo, furono per un certo periodo di tempo placate nella speranza di poter essere egli stesso l’artefice di uno svecchiamento all’interno del suo partito, da portare avanti dalle pagine dell’Avanti! che, per inciso, nel corso della sua direzione triplicò la tiratura.

Un primo tentativo di svegliare il partito dal torpore in cui era caduto nel corso della dittatura giolittiana, addomesticato dalle promesse di riforme dello statista di Dronero, fu fatto durante la fatidica Settimana Rossa.

In quell’occasione – come è stato già detto - egli aveva cercato con tutte le forze, pur scontrandosi con la riottosità del Partito e con la netta opposizione del gruppo parlamentare e della CGL, di sperimentare l’arma dello sciopero generale ad oltranza, come arma di lotta ideologica e non economica, come prova generale per la futura e imminente rivoluzione proletaria.

Era stato deluso, non solo dal comportamento degli organi istituzionali del partito e del sindacato, ma soprattutto lo aveva scoraggiato la mancanza di compattezza della classe proletaria. La posizione assunta dal potente sindacato ferrovieri, per esempio, lo aveva convinto che il proletariato non costituiva una classe unica, ma un complesso di classi divise dagli interessi di categoria, perché non più uniti dall’ideale della rigenerazione sociale, proprio quell’ideale che propugnava il mito dello sciopero generale di Sorel:

"(...) Per dieci anni dal 1900 al 1911 il marxismo è stato bandito dal socialismo italiano.- scriveva Mussolini nel luglio successivo al fallimento dei moti di Ancona - La mozione di Brescia che al marxismo si ispirava, fu qualificata ‘ anarchica’. ( già: c’è un solo socialismo autentico al mondo: quello riformista). Quanti marxisti adesso in Italia! (..) Marxisti costoro! Noi dubitiamo che in Italia ci siano o ci siano stati dei marxisti degni del nome. Certo è che i riformisti, specie quelli italiani - così accomodanti - sarebbero ripudiati da Marx. (...) Il riformismo non solo diverge, ma è ormai in antitesi ‘perfetta’ col marxismo, comunque lo si presenti: lugubre o gaio, classico o moderno. Infine, noi non contestiamo ai riformisti il diritto di ‘interpretare’ il marxismo, dopo averlo rinnegato e vituperato infinite volte. Solo, rivendichiamo per noi lo stesso diritto di interpretazione e di esegesi. Voi vedete il marxismo attraverso l’interpretazione evoluzionistica, positivistica della storia, noi lo vediamo (..) attraverso un’interpretazione idealistica, più moderna.(..) Anche nel marxismo c’è la lettera e lo spirito. E’ di questo che noi siamo imbevuti: è lo spirito del marxismo, e non tanto la dottrina marxista nella sua espressione formale e superabile, ciò che informa la nostra Weltanschauung".(161)

Se il suo motto era stato fino a quel momento "la solidarietà della nazione cessa all’apparire della solidarietà universale della classe!"(162), avrebbe dovuto di li a poco, ricredersi, nell’apprendere che i socialisti d’oltralpe, tedeschi, austriaci, belgi, francesi, non solo avevano votato insieme alla borghesia i crediti di guerra, accantonando l’internazionalismo che era uno dei pilastri della dottrina, ma una volta scoppiata la conflagrazione europea avevano con entusiasmo imbracciato le armi, dimentichi di ogni forma di solidarietà di classe e fieri di marciare assieme alla borghesia, nell’Union sacrée, contro il proletariato delle altre nazioni. Il comportamento del socialista francese Hervé era emblematico; accanito sostenitore dell’antimilitarismo fino alla vigilia dello scoppio della guerra, si era poi arruolato volontario nell’esercito francese, divenendo un esaltatore del patriottismo e del militarismo. Prima dell’inizio delle ostilità aveva scritto, per il suo giornale l’Humanité, un articolo di fondo che avrebbe riscosso molto successo fra i socialisti italiani, in cui lanciava il grido, proprio dell’antimilitarismo socialista: A bas la guerre! Auspicando la rottura dell’alleanza tra la Francia e la Russia, pur di non seguire quest’ultima in una guerra offensiva contro l’Austria, aveva promosso, sempre dalle pagine del suo giornale, che era l’organo di stampa dei socialisti francesi, una solenne dimostrazione franco-tedesca, sui boulevards parigini, contro la guerra.

Era lo stesso uomo che si sarebbe arruolato, di li a poco, volontario per difendere il suolo francese, ma la sua scandalosa scelta sarebbe stata commentata con estrema, insolita pacatezza dal socialista Mussolini:

"(..) Hervé che definisce - come noi pure la definiamo - ‘immonda la guerra’, non è un ‘guerrafondaio’ anche se andrà alla frontiera, così come non è un delinquente il pacifico cittadino che deve d’un tratto ricorrere alla browning per difendersi dall’attacco del bandito"(163)

Un primo passo, dunque, verso l’interventismo: giustificazione della guerra come legittima difesa.

L’orgoglio e l’onore di Mussolini sarebbero stati, in seguito, solleticati dalle critiche dei socialisti europei ai socialisti italiani. Ne Il secolo del 25 settembre, su un’intervista allo stesso Hervé, campeggiava un titolo a tutta pagina: I socialisti francesi libereranno Trento e Trieste a cui erano seguiti gli inviti di Guesde e di Sembat e infine, la clamorosa dichiarazione di Vaillant:

"(..) I socialisti sinceri ed intelligenti sono i soli che contino o raccolgano qualcosa per noi. Non abbiamo né sforzi, né discorsi da fare per indurli a venire con noi"(164)

Questi fatti avrebbero portato Mussolini a dichiarare:

"(..) L’Internazionale socialista è morta.. Ma è mai vissuta? Era un’aspirazione non una realtà"(165)

I suoi biografi Pini e Susmel, sostengono che il motivo che accelerò il cambiamento di posizione di Mussolini fu l’invasione tedesca del Belgio. Da quel momento in poi noi ci troviamo di fronte due Mussolini o meglio due anime dello stesso uomo; una è l’anima ufficiale del Mussolini direttore dell’Avanti! sostenitore della neutralità assoluta deliberata dalla Direzione del partito, redattore del Manifesto del 21 settembre contro la guerra, promotore del referendum fra gli iscritti al partito, conclusosi con l’accettazione di circa 500.000 iscritti del principio della neutralità assoluta, cosa che lo aveva portato a scrivere sul suo giornale:

"(...)In ciò il proletariato italiano si è affermato meravigliosamente concorde, al di sopra dei parziali dissensi teorici e tattici. Questa unità di propositi e di forze peserà nel gioco della politica italiana.

Ora i proletari siano vigilanti.

Qualora l’Italia intendesse rompere la neutralità per aiutare gli Imperi Centrali, il dovere dei proletari italiani - lo diciamo forte in questo momento - è uno solo: insorgere" (166)

L’altra è l’anima del Mussolini eretico, scalpitante, entusiasmato dall’interventismo di Battisti che non riesce ancora a spogliarsi della maschera di neutralista, ma non riesce fino in fondo a nascondere, non solo a chi lo conosce bene, ma anche ai suoi lettori, i suoi veri sentimenti(167)

Indubbiamente l’invasione tedesca del Belgio fu un pretesto che il futuro duce afferrò al volo per giustificare la partecipazione alla guerra dei socialisti europei(168), cosa questa, che aveva effettivamente determinato in lui una profonda confusione e che aveva alimentato dubbi, già da tanto tempo emersi, nella sua fede apparentemente granitica nel verbo di Marx.

Quindi, cerca sostegno alla sua posizione, ancora latente, ma indubbiamente ormai più vicina all’intervento che alla neutralità, nell’opinione di alcuni socialisti italiani, particolarmente degni di stima, come i socialisti dell’Unità di Firenze, giornale fondato e diretto dal grande Gaetano Salvemini(169)

In un articolo dell’Unità, riportato da Mussolini sul suo quotidiano, si critica la posizione del partito socialista italiano ancorata alla neutralità assoluta, sostenendo che la guerra non sarebbe contraria ai dogmi del marxismo che, di per se stesso non è pacifista; se esso infatti esalta la violenza interna fra le classi, perché dovrebbe condannare quella esterna fra le nazioni?

Mussolini assume l’atteggiamento di chi debba riprendere i giornalisti dell’Unità, che con tale ragionamento escono decisamente fuori dal cammino marxista:

"(...) Nei rapporti interni - pontifica - la violenza è violenza di classe che si esercita da parte del proletariato contro i padroni o gli organi dello Stato: è violenza che tende ad affrettare la liberazione della classe soggetta: è violenza fatta dal proletariato per la tutela dei suoi interessi.

La violenza nei rapporti internazionali cambia totalmente carattere: in quanto si esercita fra le nazioni e non più fra le classi per motivi in antitesi cogli interessi del proletariato. Nella violenza fra le nazioni, il proletariato è uno strumento passivo nelle mani dei governi che rappresentano le classi dominanti della nazione(..). Tuttavia (...) Il proletariato può ‘subire’ questa tragica necessità finché sia impotente a liberarsene, ma non può accettarla e tanto meno esaltarla o invocarla"

Esiste ancora in lui l’ostacolo dato dallo scontro tra classe e nazione, quando sarà riuscito a superare tale dualismo e a far comprendere ai suoi compagni che è la nazione e non la classe l’elemento unificatore del popolo, allora potrà estrinsecare la sua posizione di interventista:

"(...)Ponendoci sul terreno di classe - avrebbe scritto qualche giorno dopo - noi siamo salvi da tutte le insidie ed è appunto sul terreno di classe che noi riaffermiamo la nostra implacabile opposizione alla guerra(..)(170)

Tuttavia, trova dei punti in comune con le opinioni espresse dal giornale di Salvemini, soprattutto nel passo in cui si afferma:

"(...) Solamente la neutralità o, con le necessarie garanzie, l’intervento a danno del blocco austro - germanico, risponderebbero ai nostri interessi reali. Chi non segue questa tattica condanna al disastro"

"(..) Se lo scrittore dell’Unità avesse più attentamente seguito le manifestazioni del Partito socialista - risponde Mussolini - avrebbe visto che per diverso cammino noi siamo giunti quasi alla stessa conclusione. Noi abbiamo, infatti, previsto ed escluso - pena l’insurrezione all’interno - un intervento dell’Italia a favore del blocco austro - tedesco e questa inazione dell’Italia ( ..) si risolve non certo in un vantaggio, ma in un ‘danno’ pel blocco austro - germanico, che ci auguriamo esca dalla competizione disfatto"(171)

Respinge, peraltro, l’ipotesi salveminiana di un intervento accanto all’Intesa, non solo per una questione di principi, ma anche per l’impreparazione militare dell’esercito italiano. La questione di principi, dovrebbe escludere ogni altra forma di giustificazione; il fatto è che l’homme qui cherche vuole convincere innanzi tutto se stesso e sa che i principi sono già stati da lui ampiamente superati.

Il 16 agosto lo scalpitante direttore dell’Avanti! fa ancora un passo verso quel ponte ideale che lo traghetterà sulla sponda opposta: egli pone al lettore, - rispondendo ad un articolo di Bordiga favorevole alla neutralità assoluta - una differenziazione tra la posizione ideale del socialismo e la realtà contingente che muta in continuazione:

"(..) Purtroppo la ‘posizione mentale’ del socialismo è una cosa, e la posizione storica del socialismo è un’altra. La prima è determinata dalla logica pura per cui date certe premesse dottrinali ne conseguono determinate conseguenze in un rapporto dialettico di causa e effetto; la posizione ‘storica’ del socialismo è il risultato dell’azione complessa di diversi fattori e circostanze. L’uomo non è o non è soltanto un animale raziocinante, ma è anche un essere senziente: talvolta la ragione è sopraffatta dal sentimento e la logica non resiste all’empito della passione. Non si può pensare, se non sul terreno della’ logica pura’ un socialismo totalmente estraneo e refrattario al gioco delle influenze ambientali: bisognerebbe supporlo come una creazione miracolosa de toute pièce senza radici nel passato, senza contatti colla realtà del presente,.. e con quali probabilità di vita nell’avvenire? Nessuna. Una costruzione meravigliosa, ma assurda. Anche l’assurdo può essere meraviglioso. Noi pensiamo all’"unico" di Stirner. Ora secondo l’inesorabile ‘logica’ pure dei principi, l’atteggiamento dei socialisti francesi e tedeschi sarebbe incomprensibile e ingiustificabile(..); ma se noi non ci rinchiudiamo ‘nella solitudine astratta della nostra coscienza’ come dice appunto Bordiga, il nostro giudizio dovrà necessariamente essere diverso. Bisognerà ‘comprendere’ prima di condannare"(172)

Il 9 settembre Mussolini inizia un comizio al Teatro del Popolo di Milano, durante l’assemblea della sezione socialista, con parole nuove e quasi blasfeme per un marxista, che suonano, quasi, come il preludio del suo abbandono:

"La questione dal punto di vista dei nostri principi deve essere prospettata ricordandoci di essere socialisti, e, dal punto di vista nazionale, ricordandoci di essere italiani.(..)"

E conclude:"(...) Noi non siamo né irredentisti, né patriottardi, né democratici in un certo senso, né massoni, né tanto meno bloccardi...Potremo accettare la guerra, ma patrocinarla significherebbe passare la barricata e confondersi con gli altri che intendono la guerra ... igiene del mondo!

Noi siamo sulla via buona, socialisticamente; non intendiamo, con questo, di affermare che le nostre idee non potranno mutare, poiché solo i pazzi e i morti non cambiano.

Se domani si determinerà l’evento nuovo, noi decideremo!"

Il 5 ottobre Il Giornale d’Italia intervista Mussolini a proposito di alcune dichiarazioni rilasciate al suddetto quotidiano dal noto socialista catanese Lombardo - Radice, su una presunta simpatia del direttore dell’Avanti! per l’intervento dell’Italia accanto alle potenze dell’Intesa. Si trattava, in effetti di uno scambio epistolare privato fra i due dovuto alle dimissioni dal partito del socialista siciliano, per il suo dissenso dalla posizione ufficiale dei socialisti italiani in relazione al problema della guerra. Il Lombardo - Radice aveva deciso di raccontare per lettera a Mussolini i motivi che lo avevano portato alla clamorosa decisione, forse perché aveva intuito, come lo avevano intuito in molti, la sua segreta posizione riguardo al problema, per cui sperava di trovare nel giovane direttore una solidale comprensione . Alla lettera del socialista catanese Mussolini così aveva risposto:

"(..) Se l’Italia vorrà agire, essa non troverà ostacoli da parte dei socialisti,... ecc. Io sono andato più oltre e ho detto che la guerra( contro l’Austria) non solo non ci avrebbe praticamente contrari, ma piuttosto ‘simpatizzanti’

Ora solo chi non conosca i precedenti dell’atteggiamento di neutralità assunto dal Partito socialista, può stupirsi di ciò. La verità è che la neutralità socialista fu, sin dal principio e per ragioni formidabili, affetta da palese ‘parzialità’: quindi in un certo senso ‘condizionata’(...) Simpatica verso la Francia, ostile verso l’Austria(..) I socialisti dicevano al Governo: se voi andate contro la Francia, dovrete prima fiaccare un moto rivoluzionario all’interno. Ma l’atteggiamento da tenersi nell’altro caso, quello cioè di guerra all’Austria, non veniva contemplato. (..) Ho detto altrove ciò che penso dello sciopero generale, fatto per evitare la guerra. Se lo sciopero non è bilaterale fra i proletari delle nazioni in conflitto(...) il proletariato dell’unica nazione che rispondesse alla mobilitazione con lo sciopero generale avrebbe dinnanzi due eventualità egualmente tragiche: insuccesso e fallimento dello sciopero. E allora: feroce repressione all’interno, indebolimento della nazione di fronte all’esercito della nazione nemica che non ha scioperato(..)

(..) io ho scritto al Lombardo - Radice e ripeto pubblicamente qui, che in caso di guerra all’Austria - Ungheria il Partito socialista italiano non tenterà un’opposizione pratica di fatto, pur scindendo le sue dalle altrui responsabilità(..) Il socialismo non è solo dottrina, è fatto; non è solo una ‘posizione mentale’ cioè logica, ma una ‘posizione storica’ cioè pratica(..) Se nel regno della teoria c’è ‘la guerra’, nel regno della storia e della vita ci sono ‘le guerre’. Tutte le guerre hanno determinati caratteri comuni(..) ma non vi sono nella storia due guerre che siano uguali completamente l’una all’altra. (..) E - tornando al discorso di prima - una guerra contro l’Austria non è, per l’Italia, la stessa cosa di una guerra contro la Triplice Intesa(...)"(173)

Due giorni dopo, un articolo di Mussolini compariva su Il Resto del Carlino giornale apertamente interventista. Tale articolo costituiva la risposta del Direttore dell’Avanti! al giornalista Libero Tancredi che, elencando le sue contraddizioni e intuendo l’esistenza di una sua volontà segreta diversa da quella ufficiale del partito a cui il romagnolo doveva inchinarsi nelle pagine del giornale da lui diretto, per dovere d’ufficio, lo chiamava ironicamente uomo di paglia.

L’articolo di Mussolini era preceduto da un " cappello", firmato dalla redazione de Il Resto del Carlino, che è interessante riportare per intero per comprendere l’infuocato clima politico del momento:

"Noblesse oblige. Il Direttore dell’Avanti! domanda di rispondere a Libero Tancredi nelle sue colonne. Ecco fatto. E non polemizzeremo con l’ospite. Egli, del resto, rivendica a sé il diritto - riconosciuto all’Idea Nazionale, al Popolo Romano, al Resto del Carlino - di mutare idea. Naturalmente. Ma Mussolini ci aveva abituati a dar di ‘rinnegato’ a chi mostrava le proprie crisi spirituali. Prendiamo ora atto della ‘sua’ crisi. E osserviamo: i giornali nominati hanno chiaramente rispecchiato nelle loro colonne il mutato atteggiamento dei loro ispiratori e scrittori; perché l’Avanti! li ha beffeggiati? E infine: il Mussolini ha mutato, sta bene. O come mai l’Avanti! ha continuato a battere, imperturbabile, una monotona e sterile negazione? Ecco una differenza che il Mussolini non ha nemmeno tentato di discutere."

L’articolo di Mussolini, chiamato dal Tancredi " uomo di paglia" per i suoi mutamenti di opinione, è più aggressivo che difensivo, ma soprattutto appare come un sincero sfogo del travaglio interiore dell’uomo, più che del politico:

"(...) Di che mi accusa il Tancredi con l’avallo compiacente del Carlino? ‘Di non aver saputo dare al giornale che dirigo una direttiva sicura, ecc.’( ..) per dare una direttiva ‘sicura’ ad un giornale, mentre si compie colla guerra una delle più grandi liquidazioni della storia, e il ieri non è più, e il domani non ancora si delinea(...) bisogna avere o il cervello di un genio che vede e prevede tutto, o il cervello di un idiota che accetta il destino senza indagarlo.

Ma se non sono un genio, non sono nemmeno un idiota. E non mi vergogno di confessare che nel corso di questi due mesi tragici, il mio pensiero ha avuto oscillazioni, incertezze, trepidazioni. E chi dunque fra gli uomini intelligenti d’Italia e di fuori non ha subito - più o meno profondamente - il travaglio di questa crisi interiore? E dov’è il giornale che dall’inizio della guerra ad oggi abbia seguito una direttiva ‘sicura’ Chi me lo sa indicare? Forse l’Idea nazionale, triplicista agli inizi e antitriplicista oggi? Forse il Resto del Carlino? Ma se lo stesso Popolo Romano, funerario e quindi... proclive all’immobilità, è stato dapprima triplicista e poi, dopo l’intervento inglese, si è convertito alla causa della neutralità... E forse che queste mie incertezze sono rimaste custodite come un segreto o non si sono, invece, fatalmente e necessariamente riverberate sul giornale.(...) Chiunque abbia seguito l’Avanti! avrà notato il corso del mio pensiero. Sono stato francofilo - nel senso politico e sentimentale della parole - sino al giorno del Patto di Londra (..) quando poi ho saputo che nelle carceri della repubblica ci sono centinaia dei detenuti politici (...) quando ho letto gli articoli di certi giornali francesi autorevoli non sequestrati e nei quali si propugnava la ‘spartizione’ della Germania sconfitta(..)i miei entusiasmi francofili hanno subito un altro più marcato raffreddamento: allora mi sono detto e l’ho stampato(..) che la vittoria della Triplice Intesa rappresentava per l’Italia e per la causa del socialismo ‘il minor male’(..) E nel caso di guerra dell’Italia all’Austria non ho sempre detto e stampato - anche ieri - che l’atteggiamento dei socialisti italiani, o di gran parte di essi, sarà ‘praticamente’ diverso? Non ostile, ma in un certo senso simpatico? Dov’è dunque l’antitesi ‘perfetta’ di cui va cianciando l’allegro Tancredi?(...) I miei giudizi sulla neutralità ( governativa) li mantengo, ma tra quelli pubblici e privati non v’è differenza di sorta(..) E’ giudicando le cose dal punto di vista nazionale o di obiettività critica, che io ho avuto momenti di repulsione contro questa neutralità governativa, che è bassa, mercantile, non illuminata da qualche speranza, una neutralità di ripiego, degna di gente che vive alla giornata.(..) La nostra opposizione alla guerra è stato un movimento di propaganda socialista, di diffusione di principi e nulla più(..)"

Concludeva, infine, ribattendo alle accuse dei suoi detrattori che insinuavano l’esistenza di una contropartita economica alla base del suo mutamento di opposizione:

"(...) non conosco ‘adattamenti’ per amor di stipendio. Sono troppo ‘irregolare’ nella mia vita per nutrire di queste preoccupazioni(..)(174)

Vorrei sottolineare nell’articolo il passo in cui si parla di neutralità non illuminata da qualche speranza, neutralità di ripiego, degna di gente che vive alla giornata. Proprio in queste frasi si nota il pensiero più intimo dell’homme qui cherche, dell’inquieto giovane dei ruggenti anni del nuovo secolo che aborrisce la routine, l’adattamento, la politica dei piccoli passi propria dell’Italietta giolittiana, che aspira alle grandi mete, ai grandi ideali, all’affermazione dell’eroismo individuale e collettivo ad una palingenesi generale che acceleri la nascita dell’ordine nuovo.

Ormai scopertosi, Mussolini può parlare di guerra contro l’Austria come guerra nazionale per il completamento dell’unità, per il compimento di quell’epopea risorgimentale che la borghesia aveva fatto affogare nell’affarismo e nell’egoismo individuale, impedendo così che dalle rovine delle guerre d’indipendenza si ergesse un popolo nuovo, fiero del suo passato, motivato a combattere per un eroico avvenire :

"(..) La borghesia italiana ha un problema nazionale da risolvere. Certo. Lo risolva e si ‘vergogni’ di farsi sostituire dagli stranieri(..) io sono venuto a valutare l’eventualità di un intervento italiano nella conflagrazione europea da un punto di vista puramente e semplicemente nazionale. Il che non esclude che sia ‘proletario’"(175)

Infine, il 18 ottobre con l’articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, Mussolini rompe ogni indugio e passa inequivocabilmente nel campo degli interventisti a favore dell’Intesa. Giustifica in vari modi questa sua decisione, che sa bene avrebbe avuto enormi ripercussioni sul suo avvenire politico, sulla quale spera che tutto il partito lo segua:

"(...) La neutralità ‘assoluta’ doveva portarci ad assumere un atteggiamento di nirvanica impassibilità o di cinica indifferenza dinnanzi a tutti i belligeranti(..) Ma una neutralità in siffatta guisa ‘assoluta’ non è quella che il Partito Socialista ha sostenuto e patrocinato sin dagli inizi della crisi. La nostra neutralità è stata sin da allora ‘parziale’. Ha distinto. E’ stata una neutralità austrotedescofoba e, per converso. Francofila. (..) la neutralità assoluta minacciava di ‘imbottigliare’ il Partito e di togliergli ogni possibilità e libertà di movimento futuro. Accendere con una formula - che non imprigiona la storia - delle ipoteche sull’avvenire incerto, oscuro, imprevedibile, è un rischio estremo per un Partito che voglia combattere e non semplicemente e comodamente... sognare(..)

Probabilmente Mussolini, alla vigilia di un intervento italiano pressoché sicuro, al fianco dell’Intesa, aveva intuito che se il partito socialista avesse tenuto lontane le masse dagli eventi, delegando ogni onere, ma anche ogni onore alla borghesia, si sarebbe ripetuto il fallimento proprio del Risorgimento. La borghesia si sarebbe addossata l’onere della guerra, ma ne avrebbe tratto tutti i benefici, lasciando al popolo i dolori e la sua atavica miseria . Solo un proletariato combattente, motivato, cosciente del suo ruolo, avrebbe potuto rendersi protagonista degli inevitabili cambiamenti del dopoguerra. D’altra parte lo stesso Turati aveva, in un’altra occasione, riconosciuto che gli assenti hanno sempre torto.

Mussolini finalmente esterna ciò che per tanti mesi aveva covato dentro per non apparire un socialista eretico; riconosce, cioè, che i problemi nazionali esistono anche per i socialisti. E per avvalorare questa sua posizione ricorre all’aiuto dei più noti socialisti europei da Amilcare Cipriani che aveva dichiarato che " i socialisti italiani dovrebbero ‘concedere’ all’Italia di scendere in guerra contro l’Austria Ungheria" ad Eduard Vaillant, a Hyndmann, capo dei marxisti inglesi, che aveva auspicato l’intervento dell’Italia, per salvaguardare l’indipendenza dei piccoli stati come il Belgio e il Lussemburgo, per anticipare la fine del conflitto, per ottenere l’emancipazione delle nazionalità oppresse e infine, per assicurarsi i territori a cui essa giustamente aspirava.

"(...) Tutto ciò dimostra - concludeva Mussolini - che noi non possiamo " imbozzolarci" in una formula, se non vogliamo condannarci all’immobilità. La realtà si muove a ritmo accelerato(..) Vogliamo essere - come uomini e come socialisti - gli spettatori inerti di questo dramma grandioso? O non vogliamo esserne - in qualche modo e in qualche senso - i protagonisti? Socialisti d’Italia badate: talvolta è accaduto che la ‘lettera’ uccidesse lo ‘spirito’. Non salviamo la ‘lettera’ del Partito se ciò significa uccidere lo ‘spirito’ del socialismo!(176)

Tale articolo determinò un vero terremoto in casa socialista; fu convocata per il 19 ottobre, a Bologna, la Direzione del Partito e in quell’occasione Mussolini subì un vero e proprio processo, durante il quale - ma lo fece anche dopo - cercò, invano, di convincere i compagni a seguirlo nel cammino intrapreso:

"(...) Vi assumereste la responsabilità, voi che dirigete il Partito, di questo massacro a scadenza illimitata quando vi fosse la certezza che un intervento italiano potrebbe determinare la fine? (..)"(177)

Comprendendo che la sua posizione non avrebbe potuto essere condivisa dal Partito, egli presentò le dimissioni rifiutando sdegnosamente una soluzione di compromesso proposta dal segretario Vella; questi gli suggeriva di chiedere un congedo di due tre mesi, ma Mussolini considerò la proposta lesiva della sua dignità:

"(...) Insisto nelle dimissioni presentatevi fino da ieri perché non voglio rinnegare i miei principi. Già troppo ho sofferto in questi giorni per seguirvi sul vostro terreno: se l’argomento non fosse stato oggi discusso, io un giorno o l’altro avrei dovuto rompere la consegna e dire francamente il mio pensiero(...)"(178)

Perché aveva aspettato tanto per uscire da una situazione ormai diventata troppo ambigua? Le ragioni sono tante; per esempio la ritrosia ad abbandonare un Partito sotto la cui ala era cresciuto e aveva forgiato il suo pensiero. Ma anche probabilmente la consapevolezza di giocarsi il suo futuro politico, proprio quando si avviava ad assumere, soprattutto dopo l’indiscutibile successo riportato al congresso di Ancona, la leadership del movimento socialista.(179) Prevalse, infine, il suo spirito d’avventura, nonché la convinzione di dover sostenere e propagandare solo gli ideali in cui effettivamente credeva.

Ormai libero dai doveri d’ufficio, che nell’ultimo periodo erano diventati troppo pesanti per il suo spirito libero, Mussolini può ormai esprimere le sue opinioni senza ritegno. Si dilunga, quindi, proprio nel corso di un’assemblea della sezione socialista milanese, su una questione che fino a quel momento aveva solo sfiorato e comunque trattato sempre secondo l’ottica marxista: il ruolo della nazione nel suo futuro politico :

"(...)Il Partito socialista Tedesco ha mancato al suo scopo per il fatto che non ha mai scisso la nazione dalle classi, vediamo, invece, se non sia possibile trovare un terreno di conciliazione fra la nazione che è una realtà storica e la classe che è una realtà vivente.

E’ certo che la nazione rappresenta una tappa nel progresso umano, la quale non è ancora superata. Lo abbiamo visto in Austria, dove vi sono otto popoli che non formano una nazione, ma uno Stato. Che cosa è avvenuto in Austria, dove, secondo si è detto, doveva farsi un primo esperimento di internazionalismo? Questo esperimento è completamente fallito, appunto per questione di nazionalismo. Il sentimento di nazionalità esiste, non lo si può negare! Il vecchio antipatriottismo è cosa tramontata e gli stessi luminari del socialismo, Marx ed Engels, hanno scritto a proposito di patriottismo pagine che vi farebbero scandalizzare!(..)

(...) Turati ha chiuso la sua conferenza in via Circo con questo grido altamente ammonitore: "Guai agli assenti!" I vinti avranno una storia: gli assenti no! Se l’Italia rimarrà assente, sarà ancora la terra dei morti, la terra dei vili! Io vi dico che il dovere del socialismo è di scuotere questa terra di preti, di triplicisti, di monarchici e concludo assicurandovi che nonostante le vostre proteste e i vostri fischi la guerra travolgerà tutti"(180)

Molti compagni lo seguirono sulla strada dell’intervento; alcuni in nome della Nazione e del completamento dell’epopea risorgimentale, altri in nome della classe, poiché solo nella guerra vedevano la possibilità di un futuro rivolgimento sociale interno, a cui, per il momento né il partito, né il sindacato, né le masse, si mostravano pronti. Lo stesso Gramsci approvò l’iniziativa mussoliniana:

"(...) Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in un’unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista. Egli vorrebbe che il proletariato avendo acquistato una chiara coscienza della sua forza di classe e della sua potenzialità rivoluzionaria, e riconoscendo per il momento la propria immaturità ad assumere il timone dello Stato (...) permettesse che nella storia fossero lasciate operare quelle forze che il proletariato, non sentendosi di sostituire ritiene più forti(..) Né la posizione mussoliniana esclude( anzi lo presuppone) che il proletariato rinunzi al suo atteggiamento antagonistico e possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa ed impadronirsi delle cose pubbliche (...)"(181)

Indubbiamente Gramsci aveva perfettamente interpretato gran parte delle motivazioni del romagnolo, non poteva, però, capire che esisteva anche una questione nazionale che era affiorata, malgrado tutto, in lui fin dai tempi lontani del soggiorno trentino. Proprio allora erano sorti i primi dubbi sulla validità del dogma marxista dell’Internazionalismo operaio, visto il comportamento dei socialisti trentini, con a capo Battisti, che accantonavano gli stessi problemi di classe, di fronte a quelli relativi all’identità nazionale. Non può nascondere a sé stesso né ai suoi lettori il disprezzo nutrito per i cattolici e i liberali del Trentino, "austriacanti", che si vergognano di parlare italiano o per gli stessi operai, capaci di barattare la loro nazionalità con riforme sociali. E proprio a Prezzolini, congratulandosi per la nascita della Voce che vuole far conoscere l’Italia agli Italiani e creare l’animum italiano è una missione superba, confida il suo sdegno nel constatare la partecipazione di politici italiani trentini alle celebrazioni dell’eroe nazionale austriaco Andrea Hofer e gli omaggi da loro resi all’imperatore.(182). Tali rivelazioni fatte a Prezzolini porteranno quest’ultimo, nel recensire il saggio di Mussolini Il Trentino visto da un socialista, ad avanzare delle forti perplessità sulla sua ortodossia marxista:

"(...) si sente un socialista che non è tanto socialista da amare i tedeschi; che è opposto a loro come carattere; che concepisce in un modo più italiano la lotta politica; che riconosce, infine, la validità della lotta nazionale e rimprovera alla borghesia trentina di non essere irredentista sul serio(..)"(183)

Affacciandosi all’interventismo egli sposa un’idea già da tempo affiorata nella sua coscienza politica, quella del socialismo nazionale. Pur rimanendo, infatti, fortemente antiborghese, - del resto nel suo intimo lo rimarrà sempre, anche quando costretto dalla necessità di mantenere il potere si accompagnerà ai cosiddetti "poteri forti" - abbandonerà definitivamente l’internazionalismo marxista, proponendosi di condurre in porto un’azione politica capace di fare del proletariato italiano, attraverso la formazione di un’entità social - nazionale, il protagonista del completamento dell’azione risorgimentale mazziniana, nonché del futuro rinnovamento dello stato e della società. Tale interpretazione ci pare confermata dalle parole da lui pronunciate il 24 novembre, nel corso dell’assemblea della sezione socialista milanese che avrebbe votato la sua espulsione dal partito per indegnità morale:

"(...)Voi credete di perdermi. Voi vi illudete. Voi mi odiate perché mi amate ancora. Sono e rimarrò un socialista: ci sono 12 anni della mia vita di partito che sono e dovrebbero essere garanzia.

Non è possibile tramutarsi l’animo. Il socialismo entra nella carne. Ci divide una questione che turba le coscienze(...) Il tempo dirà chi avrà ragione: questa questione non si era mai affacciata al patito socialista. L’epopea napoleonica chiude un secolo. Waterloo è del 1814. Alla fine del 1914 forse qualche altra corona cadrà per terra e qualche altro albero della libertà sorgerà(...) E quando verrà l’ora, voi mi vedrete ancora, lo vogliate o no, al vostro fianco, perché non dovrete credere che la borghesia sia entusiasta del nostro intervenzionismo: ringhia, teme qualche cosa, suppone che il proletariato quando abbia le baionette possa servirsene per qualche suo scopo sociale. Non crediate che io mi separi gaiamente da questa tessera. Strappatemela pure: ma non mi impedirete di essere in prima fila per la causa del socialismo. Viva il socialismo. Viva la rivoluzione."(184)

NOTE:

(1) -Il vertice del partito, già prima del Congresso, appariva perfettamente convinto che ad Ancona Mussolini avrebbe trionfato. Significativo a tale proposito è l’articolo scritto, alla vigilia del Congresso, da Giovanni Zibordi sulla Critica Sociale del 16-31 marzo 1914: "[...] Nei fini, nel volere, egli (Mussolini) è socialista, nella mentalità e meglio ancora nella psicologia , egli è il classico rivoluzionario italiano, romagnolo, nutritosi e rinforzatosi poi di storia francese, dall’89 alla Comune. Egli è sinceramente così, e sinceramente vive una seconda vita, quando vibra nel comizio, si esalta nell’ardore della folla, s’illude e s’inebria se vede in piazza cento persone che gridano. Allora scrive ab irato quegli articoli o quelle frasi, di cui non sembra ricordarsi in altri momenti dell’opera sua, o quando qualcuno gli chiede conto di quegli impulsi". G. Zibordi, Quel che dovremo dire ad Ancona, in Critica Sociale, 16-31 marzo 1914.

(2) -Sui relativi vantaggi determinati dalla politica giolittiana di riforme, cfr. Leonida Bissolati, Le elezioni generali politiche e gli insegnamenti dello sciopero generale, in Critica Sociale, a cura di M. Spinella, A. Caracciolo, R. Amaduzzi, G. Petronio, Milano 1959, vol. I, pp. 222-230. Sul suffragio universale cfr., inoltre, gli scritti del discepolo di Sorel, Berth che, partendo dalle considerazioni del maestro, si dichiarava antidemocratico e antiparlamentare:"[...] Se la monarchia è il martello che scaccia il popolo, la democrazia è l’ascia che lo divide: entrambe portano ugualmente alla morte della libertˆ. Il suffragio universale[...]  ateismo politico nel peggiore significato della parola. Come se dalla somma di una quantitˆ qualsiasi di suffragi potesse mai risultare un pensiero generale !.. Il modo pi sicuro per far mentire il popolo  istituire il suffragio universale”(Berth, Les mŽfaits des intellectuels, Paris, 1914, p.80).

(3) -Luigi Lotti La Settimana Rossa, Firenze 1965, Premessa.

(4) -Ernst Nolte Il Giovane Mussolini, Gallarate 1993, p. 25.

(5) -J. Jaurs, Oeuvres, VI, in " Etudes sociales", II, 1897-1901, Paris 1933, pp. 193.

(6) -Compte rendu stenographique non officiel de la version francaise du cinquime congrs socialiste international tenu ˆ Paris du 23 au 27 septembre 1900, in "Cahiers de la Quinzaine", S. II, XVI Cahier, Paris 1901, pp. 98- 103. Citato in AA. VV. Antologia del pensiero socialista - La seconda Internazionale, a cura di Alfredo Salsano, Bari 1981, p. 14.

(7) Ibidem, p. 15-16.

(8) -perciò considerava essenziale che anche i socialisti facessero sentire la propria opinione nei riguardi dell’affare Dreyfus che in quei momenti aveva spaccato in due la Francia: "[...] in nome della lotta di classe noi possiamo riconoscerci tra noi per le direzioni generali della battaglia da combattere; ma quando si tratterà in quale misura dobbiamo impegnarci nell’affare Dreyfus, o in quale misura i socialisti possano penetrare nei pubblici poteri, vi sarà impossibile risolvere tale questione limitandovi ad invocarne la formula generale della lotta di classe [...] In ogni caso particolare dovrete esaminare l’interesse particolare del proletariato. E’ dunque una questione di tattica e noi non diciamo altro" J. Jaurs, Oeuvres, cit. p. 193.

(9) Ibidem p. 23.

(10) -Un’analoga posizione avrebbe preso Mussolini nel 1910 in un articolo, intitolato Sensibilità, pubblicato da La Lotta di Classe, n.27 del 9 luglio 1910, in cui così si esprimeva: "[...] Io trovo che molti socialisti si commuovono con troppa frequenza per le disgrazie della borghesia, e rimangono impassibili per quelle del proletariato[...] quando si tratta di qualche fottuto borghese che va repentinamente al diavolo, quando si tratta della pelle fine e profumata delle damine aristocratiche, molti socialisti spremono le loro riserve di liquido lacrimale. Diventano pietosi davanti alla tragedia borghese, mentre i borghesi non sono stati né diventeranno mai pietosi davanti alla tragedia proletaria[...]"

(11) Rosa Luxemburg, Scritti politici, a cura di L. Basso, Roma 1974, p. 416.

(12) -A. Labriola, La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Roma - Bari, 1976, pp. 196-204; Luciano Cafagna, Antonio Labriola. Democrazia e socialismo in Italia, Milano 1954 e ancora, Antonio Labriola e la revisione del marxismo attraverso l’epistolario con Bernstein a cura di Giuliano Procacci in Istituto G. G. Feltrinelli, Annali, II, 1960.

(13) -B. Croce Come nacque e morì il marxismo in Italia in Antonio Labriola La concezione materialista della storia, Bari, 1945, p. 312; Cfr. Roberto Michels, Storia del marxismo in Italia, Roma 1909.

(14) -Antonio Labriola, A Proposito della crisi del marxismo, in Discorrendo di socialismo e di filosofia, Bari 1944, p. 164.

(15) Antonio Labriola, Democrazia e socialismo in Italia, Milano 1954, p. 98.

(16) -G. Tricoli, Benito Mussolini - L’uomo - Il rivoluzionario - Lo statista e la sua formazione ideologica, Roma 1996, p. 71.

(17) -Benito Mussolini, Tentativi di revisionismo, in Avanti!, n. 79, 3¡ giugno 1913, XVII.

(18) -Ibidem pp. 25 e ss.

(19) -B. Mussolini, Le eresie che risorgono e le eresie che muoiono. Nell’imminenza del Congresso nazionale del partito a Reggio Emilia, in Lotta di Classe, n. 127, 29 giugno 1912, III.

(20) -G. Tricoli, op. cit. p. 79.

(21) -E. Santarelli, La revisione del marxismo, op. cit.

(22) -C. Morandi, Per una storia del socialismo in Italia, in Belfagor, a. I, 1946, n° 2.

(23) -E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Introduzione, Milano 1962, p. 13 e, dello stesso autore, Il socialismo rivoluzionario in Italia, in Origini del fascismo, Urbino 1963; cfr. inoltre, E. Landolfi, L’idea di Nazione e la politica espansionistica in un grande interprete del marxismo: Antonio Labriola, in Rassegna Siciliana di Storia e Cultura n. 5, dicembre 1998, anno II, pp. 63-78.

(24) -A. Labriola , Democrazia e socialismo in Italia, Milano 1954, p. 111.

(25) -O. Malagodi, Imperialismo. La civiltà industriale e le sue conquiste, Milano 1901, p. 27.

(26) -F. Turati, Il partito socialista italiano e le sue pretese tendenze, Milano 1902, pp. 9-10.

(27) -Lenin invece diede un giudizio molto duro del revisionismo e dei suoi seguaci affermando che nel periodo in cui il marxismo si affermava con successo "(..) il liberalismo ritorna travestito da opportunismo socialista. Insomma la vittoria del marxismo costringe i suoi nemici a travestirsi da marxisti." Citato in E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano 1964, p. 73.

(28) -F. Turati, Le vie maestre del socialismo, Bologna 1921.

(29) -R. Michels, Storia critica del movimento socialista italiano, Firenze 1926, p. 330.

(30) -Cfr.: Aldo Venturini e Pier Carlo Masini, La crisi del marxismo (una polemica di fine secolo); Carlo Rosselli, Il socialismo liberale, Roma - Firenze, 1945.

(31) -E. Santarelli, La revisione del marxismo, cit. p. 21.

(32) -B. Mussolini, Lo sciopero generale e la violenza, in Il Popolo, n. 2736, 23 giugno1909, X. Si tratta di un commento critico dell’opera di G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, pubblicata quello stesso anno a Bari dalla Laterza.

(33) B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1942, p. 280.

(34) -F. Pelloutier, Histoire des Bourses de travail, Paris, 1902. La diffusione delle teorie di Bernstein e l’elevamento del tenore di vita del proletariato operaio favorirono, dunque, specialmente in Francia, il fiorire della corrente gradualista e parlamentarista che sarebbe addirittura sfociata nel ministerialismo di Jaurs e Millerand. Ma il proletariato operaio si sentì presto tradito dall’alleanza tra socialisti e borghesi e grazie alla spinta di pensatori come Lagardelle e Monatte riprese l’azione diretta per la rivendicazione dei propri diritti, optando, cioè, per una revisione del marxismo non in senso conciliarista, ma in senso rivoluzionario.

(35) In Antologia del socialismo, op. cit. p.331.

(36) -H. Lagardelle, Avant -propos a Enquete sur la grve gŽnŽrale in Le mouvement socialiste, 1904, II.

(37) -Ibidem p. 135- 143. Mussolini fu particolarmente affascinato dalle teorie di Lagardelle e tra di loro nacque un’amicizia e una stima reciproca che si sarebbe protratta per sempre. In un recente libro sulla vita e il pensiero di Hubert Lagardelle, scritto da Ulderico Munzi e Marco Antonini, edito dalla Sperling & Kupfer, L’uomo che poteva salvare il Duce, si narra appunto di una delicata missione affidata dal governo francese a Lagardelle, perché si recasse a Roma e facendo leva sulla amicizia esistente tra lui e Mussolini, convincesse quest’ultimo ad avvicinarsi maggiormente alla Francia e a sottrarsi all’abbraccio con la Germania.

(38) H. Lagardelle, Le socialisme ouvrier, Paris, 1911, p. 325.

(39) -B. Mussolini, La teoria sindacalista, in Il Popolo, n. 2713, 2u7 maggio 1909, X. In tale articolo Mussolini, direttore de Il Popolo, di Trento, recensisce sul suo giornale l’ultima opera di Giuseppe Prezzolini, appunto La teoria sindacalista, in cui l’autore, pur non definendosi socialista, dimostra di disprezzare il gradualismo riformista che addormenta le masse e rende torpida la gioventù e sempre più condizionata dal materialismo: "[...] Perché un centesimo di più all’ora, se deve significare soggezione più lunga? Perché maturare nelle classi sociali gli interessi, a mo’ dei borghesi, se questo deve dare un attaccamento meschino al comodo momentaneo e legare di più, colla zavorra dell’avarizia, il proletariato alla terra dell’asservimento? Meglio una coscienza nuova, che un taschino più gonfio, una volontà più tesa, che un’assicurazione contro la vecchiaia"_(G. Prezzolini, La teoria sindacalista, Napoli, 1909, p. 58).

(40) -G. Sorel, Scritti politici e filosofici, a cura di G. Cavallari, Torino 1975 pp. 221-222. Stranamente il Sorel sindacalista rivoluzionario, teorico del mito dello sciopero generale, pervenne in seguito a posizioni revisioniste. Negli anni che precedettero la fine del secolo egli si incontrò con le teorie di Bernstein e le accettò pienamente, convinto, nel clima di benessere apportato dall’industrializzazione massiccia e dalla modernizzazione dell’agricoltura nel suo Paese, della inconsistenza dei dogmi marxisti." Bisogna avere il coraggio di proclamare a gran voce che le basi della costruzione collettivista sono false. - avrebbe affermato in seguito -. La legge bronzea dei salari, la legge del concentramento capitalista, la legge della correlazione della potenza economica e politica, sono state tutte smentite dai fatti. Quindi il processo necessario, immanente, dell’antagonismo così spesso descritto, non esiste più e la catastrofe fatale, annunciata dall’ortodossia marxista, manca della ragione generatrice". Cfr. G. Sorel, La crisi del socialismo scientifico, in Critica Sociale, 1¡ maggio 1898, pp. 134-138.

(41) -G. Sorel , Riflessione sulla violenza, traduzione italiana, Bari 1974, pp. 1174-180 e 182-185.

(42) -G. Sorel, Le illusioni del progresso, in Scritti politici, cit. p. 520.

(43) G. Sorel , Riflessioni, cit. pp. 182-185.

(44) Ibidem, p. 200.

(45) -B. Mussolini La Settimana Rossa, in Utopia, cit. Sull’utilità dello sciopero generale Sorel porta come prova la grande battaglia sferrata nei suoi confronti dai socialisti parlamentari che non avevano, invece, mai combattuto le innocue teorie del socialismo utopistico: " Se per converso lottano contro l’idea dello sciopero generale ciò si deve al fatto che, nei loro giri di propaganda, s’accorgono che essa è talmente consona all’anima operaia, da essere capace di dominarla nel modo più assoluto, e da non lasciare posto alcuno ai desideri che i parlamentari possono soddisfare. Essi s’avvedono che quell’idea è talmente fattiva che, una volta entrata negli animi, questi sfuggono a qualsiasi controllo padronale, e per conseguenza il potere dei deputati si riduce a morte." Passo riportato da Mussolini nell’articolo sopracitato.

(46)- Ne L’avenir socialiste des syndacats, pubblicato nel 1898, Sorel dˆ del sindacato un’immagine che ricorda molto quella delle associazioni di Proudhon :"... sindacato nel quale si raggruppano i lavoratori che hanno dato prova, ad un grado particolarmente elevato, di capacità produttive, di energie intellettuali e di attaccamento ai compagni, in seno al quale la libertà è in via di organizzazione e nel quale, in ragione delle necessità economiche, lo spirito di solidarietà è sempre fortemente teso". In tale definizione è facilmente intuibile non solo la fede nella compattezza del proletariato, - è il numero che costituisce la forza e la potenza - ma anche il riconoscimento di un’élite di una aristocrazia operaia, alla maniera di Marx e di Lenin, con il ruolo di guida, tuttavia, emersa dal seno stesso del proletariato operaio e non dalla classe borghese G. Sorel, L’avenir socialiste des syndacats, Paris 1898, p. 29.

(47) G. Prezzolini, La teoria sindacalista, Napoli 1909.

(48) -Arturo Labriola, La crisi politica del partito socialista, Roma 1904, p. 254.

(49) -Ivanoe Bonomi, Riformismo socialista e riformismo rivoluzionario, in, op. cit. vol. I, pp. 208-209.

(50) -E. Leone, Prefazione a G. Sorel Lo sciopero generale e la violenza, Roma 1906, pp. III - X.

(51) -E. Leone op. cit. pp. III-X.

(52) -G. Sabatucci ( a cura di) Storia del socialismo italiano, vol. II, L’Età giolittiana. La crisi del riformismo e gli intransigenti( 1911-1914) di M. Degli Innocenti, Roma 1980, p. 411. Mussolini si espresse sempre negativamente riguardo al sabotaggio e al boicottaggio, malgrado esso fosse stato considerato dai vari congressi socialisti come arma valida di rivendicazione di classe. Proprio la serrata imposta dai padroni della ‘Miani e Silvestri’ nel gennaio - febbraio del ’14 gli diede il destro di commentare questo tipo di metodo di lotta, che in quel caso aveva determinato la netta sconfitta della classe operaia. Cfr. B. Mussolini, Gli scioperanti delle officine ‘Miani e Silvestri’ si ripresentano al lavoro; Dopo lo sciopero della ‘Miani e Silvestri’. Una Lettera dell’Unione Sindacale; Chiarimento necessario, in Avanti! del 25, 26 e 28 febbraio 1914.

(53) E. Santarelli, La revisione del marxismo, cit. p. 164.

(54) -Su Errico Malatesta cfr.:A. Borghi Errico Malatesta, Milano 1947; L. Fabbri, Malatesta, l’uomo e il pensiero, a cura di C. Zaccaria e G. Berneri, Napoli 1951. Sul suo pensiero politico cfr.: E. Malatesta, Scritti scelti, a cura di C. Zaccaria e G. Berneri, Napoli 1947-1954.

(55) -Su Luigi Fabbri e su Pietro Gori cfr.: U. Fedeli, Luigi Fabbri, Torino 1948 e P. Gori Opere, Milano, 1949.

(56) -Ibidem, pp. 3-5, Cfr. E. Santarelli, Il socialismo anarchico Milano 1959; A. Borghi Mezzo secolo di anarchia, Napoli 1954.

(57) K. Liebknecht, Scritti politici, a cura di E. Colletti, Milano 1971, p. 201.

(58) E. Malatesta in Volontà, n. 10 del 13 agosto 1913, riportato in L. Lotti, op. cit. p.8.

(59) -Oltre alla anconetana Volontà che divenne il portavoce del movimento anarchico nazionale, sorsero in quel periodo parecchi altri giornaletti anarchici fra cui il Libertario di La Spezia, il romano Pensiero Anarchico, L’Avvenire anarchico di Pisa, Gli Scamiciati di Novi Ligure, Il ’94 di Massa Carrara, La Donna Libertaria, diretto da Maria Rygier, che divenne il portavoce del movimento anarchico femminile italiano e i periodici La Scuola moderna di Clio, che si stampava a Como e l’Università Popolare di Milano. I giornali socialisti circolanti in quel periodo nel territorio nazionale erano 226 e 56 quelli repubblicani. Cfr.: L. Lotti, op. cit. pp. 9-10.

(60) -Da una media di circa 28000 copie con punte raramente pervenute a 34000, durante la gestione Treves, con l’avvento di Mussolini alla guida del giornale si assisterà ad un aumento continuo della tiratura fino ad arrivare ad una media di 60000 copie giornaliere, con punte di 100.000, nel marzo del 1914. Cfr. G. Tricoli, op. cit. p. 196; R. De Felice Mussolini giornalista, Bergamo 1995.

(61) G. Tricoli, op. cit., pp.195- 196.

(62) -Nel 1906 il sindacalismo rivoluzionario aveva recepito una forte spinta soprattutto dalla pubblicazione in Italia de Lo sciopero generale e la violenza di Sorel e de Il sindacalismo di Enrico Leone; in quello stesso anno inoltre era stato ristampato a Lugano Riforme e rivoluzione di Arturo Labriola. Sulle vicende del sindacalismo italiano a partire dal 1907 Cfr. P. Orano La vigilia sindacalista dello stato corporativo, Roma 1939; R. Michels Storia critica del movimento socialista italiano, Firenze 1926; E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Milano 1964.

(63) -G. Spadolini La lotta sociali in Italia, Firenze 1948; AA. VV. Sindacalisti Italiani, a cura di R. Melis; I. M. Sacco Storia del sindacalismo, Torino 1947; A. Gradilone, Storia del sindacalismo in Italia, Milano 1959; B. Uva Vita e morte del sindacalismo rivoluzionario italiano in Storia e politica, 1963, pp. 403-427.

(64) L. Lotti, op. cit. p. 24.

(65) Alceste de Ambris in L’Internazionale, n. 431, 30 novembre 1912.

(66) B. Mussolini, Assassinio di Stato, in Avanti! n. 7, 7 gennaio 1913, XVII.

(67) -Cfr.: G. Tricoli, op. cit.; E. Santarelli Socialismo rivoluzionario e " mussolinismo" alla vigilia del primo conflitto europeo, in Rivista storica del socialismo, 1961, pp. 531-571.

(68) B. Mussolini , Avanti!, n. 46, 15 febbraio 1914.

(69) -L. Bissolati, Le elezioni generali politiche e gli insegnamenti dello sciopero generale, in Critica Sociale, op. cit. p. 227.

(70) -B. Mussolini, Le parole di un rivoltoso, in Avanguardia Socialista, n. 67, 3 aprile 1904, II.

(71) -B. Mussolini , I ‘Sinistri’ alla riscossa, in La Folla, n. 6, 9 febbraio, 1913, II, La Morta Gora (Confessioni di un deputato), in Avanguardia socialista, n.17, 11 marzo 1905, II_(2¡ serie).

(72) -B. Mussolini, Lo sciopero generale, in Avanti!, n. 157, 8 giugno 1913, XVII. Dello sciopero della Miani e Silvestri che era un’industria metallurgica milanese, il futuro duce parla in un articolo pubblicato sull’Avanti! del 30 gennaio 1914, Dalla serrata alla ‘Miani e Silvestri’ all’agitazione dei tramvieri. In tale articolo Mussolini enuncia i motivi della serrata che consistevano nel fatto che i titolari dell’impresa si rifiutavano di aprire la fabbrica, fin quando le maestranze non si impegnassero a non commettere più atti di sabotaggio.

(73) G. Tricoli, op. cit. p. 202.

(74) -Benito Mussolini, Sintesi del discorso pronunciato a Milano, nella Casa del Popolo, il 16 giugno 1913, in Avanti!, n. 166, 17 giugno 1913, XVII; sull’antiborghesismo di Mussolini, di cui i rigurgiti non mancarono di farsi sentire nemmeno nei momenti di maggior consenso della sua dittatura, quando il fascismo aveva ormai abiurato al rivoluzionarismo delle origini, cfr. A. Argenio, Mussolini, il fascismo e la polemica antiborghese, in Nuova Storia Contemporanea, luglio agosto 2001, pp. 55- 72; L’ultima parte della citazione  tratta dall’articolo di Mussolini, pubblicato sull’Avanti! del 1 luglio 1913, n. 180, XVII, Dalla magia...alla nevrosi. Tale articolo fu scritto in occasione della polemica scoppiata con la Critica Sociale, sempre a proposito dello sciopero generale, e in risposta ad un altro articolo fortemente critico di Emanuele Modigliani.

(75) G. Tricoli, op. cit. p. 197.

(76) -B. Mussolini, Al largo, in Utopia, n. 1, 22 novembre 1913. Con questo numero iniziava la feconda pubblicazione della rivista Utopia, il giornale personale di Mussolini che gli permetteva - secondo ciò che scrisse Prezzolini - di sentirsi più ‘se stesso’ di completarsi. "[...] Qui posso parlare in prima persona. Altrove rappresento l’opinione collettiva di un Partito, che può essere ed è, quasi sempre, anche la mia; qui rappresento la mia opinione, la mia Welanschauung, e non mi curo di sapere se essa concorderà o no con l’opinione media del Partito. Altrove sono il soldato che ‘obbedisce’ alla consegna; qui invece sono il soldato che può anche ‘discutere’ la consegna [...]". (B. Mussolini, L’impresa disperata, in Utopia, n. 1, 15 gennaio 1914, II).

(77) -B. Mussolini, Il valore storico del socialismo, riassunto della conferenza tenuta al Politeama di Firenze, l’8 febbraio 1914, in Avanti!, n. 46, 15 febbraio 1914, XVIII.

(78) -B. Mussolini, Concretiamo il partito! Risposta a G. M. Serrati, in Avanti!, n. 47, 16 febbraio 1913, XVII.

(79) -B. Mussolini, Al "Lavoro", in Avanti!, n. 16, 16 gennaio 1913, XVII. Si tratta di una polemica risposta ad un articolo di critica del comportamento dei socialisti rivoluzionari sul problema degli eccidi, pubblicato, giorni prima, su Il Lavoro di Genova.

(80) J. Jaurs Oeuvres, VI, in Etudes sociales, II, 1897-1902 ,Paris 1933, p. 193-194.

(81) -B. Mussolini, Il congresso di Brest e un tentativo di revisionismo socialista, in Avanti, n. 42, 11 febbraio 1913, XVII.

(82) -B. Mussolini, Per l’intransigenza del socialismo, in Avanti!, n. 36, 5 febbraio 1913, XVII.

(83) -B. Mussolini, Per l’Avanti!, Discorso pronunciato al teatro V. Emanuele di Ancona, il 26 aprile 1914, I giornata del XIV Congresso socialista Italiano. Dal Resoconto stenografico del XIV Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano, Città di Castello, 1914, p. 28.

(84) -L. Lotti, op. cit. pp. 38-39.

(85) -R. De Felice, Il Congresso di Ancona, in Mussolini il rivoluzionario (1883- 1920), Torino 1995, pp. 177-220.

(86) -Guesde in Antologia del socialismo, op. cit. p. 281.

(87) -Il 25 gennaio Cipriani fu eletto deputato, ma non arrivò mai a Montecitorio, essendosi rifiutato di prestare giuramento alla monarchia Savoia. Cfr. R. De Felice, op. cit. p 178;_C. Treves (Il Vice), L’elezione di Cipriani in Critica Sociale, 1-15 febbraio 1914.

(88) -B. Mussolini, Contro la Massoneria, discorso pronunciato al teatro Vittorio Emanuele di Ancona il 27 aprile 1914, II giornata del XIV Congresso Nazionale del Partito socialista Italiano. Dal Resoconto stenografico, op. cit., pp. 133-137.

(89) B. Mussolini, Il Congresso di Ancona, in Avanti!, 1 maggio 1914, XVIII.

(90) B. Mussolini, l’anno che è morto, in Avanti!, n.1, 1 gennaio 1914, XVIII.

(91) -Sulla campagna antimilitarista di Malatesta e sui fatti di Ancona Cfr.: L. Lotti, op. cit.; E. Santarelli Aspetti del movimento operaio nelle Marche, Milano 1958, E. Santarelli Le Marche dall’Unità al Fascismo. Democrazia repubblicana e movimento socialista, Roma 1964.

(92) -B. Mussolini, I fatti di Ancona, in Avanti!, n. 157, 8 giugno 1914, XVIII.

(93) -Articolo del Corriere della Sera dell’11 giugno 1914 riportato da L. Lotti, op. cit. p. 97.

(94) -Sui fatti di Roma cfr.: S. Bertelli, Socialismo e movimento operaio a Roma dal 1911 al 1918, in Movimento operaio, 1955 , pp. 65-90, A. Caracciolo, Roma capitale dal Risorgimento alla crisi dello stato liberale, Roma 1956.

(95) -L. Valiani, Scritti di storia. Movimento socialista e democrazia, Milano 1983, p. 300.

(96) -B. Mussolini, Per la proclamazione dello sciopero generale. Discorso pronunciato all’Arena di Milano il 9 giugno 1914, in Corriere della Sera, 11 giugno 1914, n. 159, XXXIX.

(97) Ivi; L. Lotti, op. cit. pp. 124-125.

(98) -C. Colella, Preludio della "Settimana Rossa" in terra di Bari, novembre 1913 - maggio 1914, Bari 1954.

(99) L. Lotti, op. cit. p. 152.

(100) Ibidem, p. 155.

(101) -Articolo riportato da La Confederazione del Lavoro, nn. 305-306, 15 giugno - 1 luglio 1914, p. 575, in L. Lotti, op. cit. p. 153.

(102) -Atti del Processo della Settimana Rossa, conservati nella Biblioteca Comunale di Ancona, VII, Deposizioni della Pubblica Sicurezza ed altri, p.218, riportato da L. Lotti, op. cit. p. 101.

(103) -L. Valiani, op. cit. p. 302 e seg.

(104) -B. Mussolini, Lavoratori d’Italia, scioperate! in L’Avanti! n. 158, 9 giugno 1914, XVIII.

(105) -E. Malatesta, La rivoluzione in Italia - La caduta della monarchia sabauda, in Supplemento al n. 23 della Volontà, 12 giugno 1914.

(106) -B. Mussolini, Lo sciopero deve continuare, discorso pronunciato all’Arena di Milano il 10 giugno 1914, in Corriere della Sera , n. 159, 11 giugno 1914, XXXIX e in Avanti!, n. 159, 11 giugno 1914, XVIII. Sul " soldo del soldato" ovvero sulla necessità di far penetrare la propaganda socialista soprattutto nelle caserme, Mussolini si era già ampiamente espresso nel corso del suo discorso elettorale, tenuto al teatro Comunale di Forlì", la sera del 18 ottobre 1913, il cui sunto è riportato nei numeri 290 e 291 dell’Avanti! dei giorni 19 e 20 ottobre 1913. In quell’occasione si era così espresso: "[...] Bisogna attaccare il militarismo come istituzione[...] Predicheremo la diserzione? La rivolta delle caserme? O ci limiteremo alla solita deprecazione o deplorazione orale? Tutte le frazioni del socialismo, dalle più rosee alle più accese, ripudiano i primi due mezzi. Io credo che il mezzo migliore di propaganda antimilitarista sia ancora la costituzione del sou du soldat. Bisogna preconizzarlo e propagandarlo senza restrizioni dovunque. (B. Mussolini,_Il programma del partito socialista).

(107) -L. Lotti, op. cit. pp. 239-240.

(108) -B. Mussolini, Per la cessazione dello sciopero generale. Discorso pronunciato all’Arena di Milano l’11 giugno 1914 e riportato dall’Avanti! del 12 giugno 1914, n. 160, XVIII.

(109) -Questi i dati riportati dall’Internazionale del 20 giugno 1914, n. 164.

(110) G. Salvemini, Una rivoluzione senza programma, in L’Unità, 19 giugno 1914.

(111) -Ivanoe Bonomi, Riformismo socialista e riformismo rivoluzionario, in Critica Sociale, op. cit. vol. I, p. 208, articolo del 1909, pubblicato nel XIV fascicolo della rivista. Anche Leonida Bissolati si era espresso sulla stessa lunghezza d’onda: "[...] lo sciopero generale, come l’insurrezione, non può essere benefico al proletariato se non a patto di raggiungere immediatamente uno scopo ben determinato e preciso. Se no, lo sciopero è una rivoluzione abortita, che serve soltanto a provocare e rinforzare la reazione [...]"._L. Bissolati, Le Elezioni generali politiche e gli insegnamenti dello sciopero generale , in Critica Sociale, op. cit. p. 227.

(112) R. De Felice, Il Congresso di Ancona, op. cit. p. 209.

(113) B. Mussolini La Settimana Rossa, in Utopia, nn. 9-10, 15-31 luglio 1914.

(114) B. Mussolini, La settimana rossa, in Utopia, n. 9-10, 15-31 luglio 19154, II.

(115) -G. Zibordi, Continuando a discutere di cose interne di famiglia, in Critica Sociale, 1-15 agosto 1914. Già cinque anni prima, sulla stessa rivista, Zibordi aveva condannato il sindacalismo rivoluzionario criticando: "[...] l’inconsistenza di metodi teorici cui manc˜ troppo finora il materiale sperimentale, o una non simpatica e non educativa indifferenza intorno ai massimi problemi del divenire sociale: il quale ha bisogno, non di fedi cieche e di mentiti miraggi, ma di indirizzi consaputi e di mete su cui splenda un faro e non una lucciola [...] Una visione socialista del movimento operaio, e un’azione conforme, rappresentano una guarentigia di trasformazione sociale profondamente rivoluzionaria nella meta, ma evolutiva, civile ed equa nel cammino. Essa non solo assicura una relativa ‘pace nella guerra’ rispetto al fine ultimo, ma oggi stesso, negli effetti suoi immediati, può significare un potente mezzo equilibratore dei singoli diritti e di singoli sforzi, una salvaguardia dei supremi interessi reciproci della collettività. Il socialismo, nella sua meta come nel suo cammino, è una gran legge di umana disciplina e di severa equità" (G. Zibordi, Per la difesa del socialismo. L’occhio levato alla meta, in Critica Sociale, op. cit. vol. I p.302-303, articolo pubblicato nel numero XIX del 1909.

(116) B. Mussolini, Tregua d’armi, in Avanti!, n. 160, 12 giugno, 1914, XVIII.

(117) -B. Mussolini, Dopo il fatto compiuto, in Avanti!, n.342, 10 dicembre 1912, XVI. La frase precisa, in riferimento alla politica estera del governo, decisa senza sentire la volontà della base popolare, era la seguente: "Ma la Nazione - intendiamo parlare del proletariato e del popolo - è assente".

(118) -O. Pastore La Settimana Rossa e gli anarchici, in Rinascita, n. 9, settembre 1955.

(119) L’Idea Nazionale, n.23, 19 giugno 1914.

(120) G. Spadolini, Giolitti e i cattolici, pp. 349-351.

(121) Articolo di Alceste De Ambris in L’Internazionale, n.164, 20 giugno 1914.

(122) -T. Nanni, ,Bolscevismo e fascismo alla luce della critica marxista. Benito Mussolini, Bologna 1924, p. 177.

(123) -B. Mussolini, Al Largo, in Utopia, n.1, 22 novembre 1913.

(124) -"Il Gruppo, riunitosi per deliberare circa i risultati degli ultimi avvenimenti popolari, mentre ravvisa in essi la fatale e anche troppo preveduta conseguenza della politica delle stolte classi dirigenti italiane, la cui cieca pervicacia nel sostituire alle urgenti riforme economiche e sociali i criminosi sperperi militaristi e pseudo - colonialisti frustra l’opera educativa e disciplinatrice del Partito Socialista per la trasformazione graduale degli ordinamenti politici e sociali e riabilita nelle masse il culto della violenza, riafferma il concetto fondamentale del socialismo internazionale moderno, giusta il quale le grandi trasformazioni civili e sociali, ed in particolare la emancipazione del proletariato dal servaggio capitalistico, non si conseguono mercŽ scatti di folle organizzate, il cui insuccesso risuscita e riattizza le più malvagie e stupide correnti del reazionarismo interiore [...] dichiara quindi la necessità da parte del Gruppo di persistere più che mai sul terreno parlamentare e nella propaganda fra le masse[...] intensificando, al tempo stesso l’opera assidua e paziente, la sola veramente e profondamente rivoluzionaria di organizzazione, di educazione e di intellettualizzazione del movimento proletario[...].

(125) B. Mussolini, la Settimana Rossa in Utopia, n. 9-10, 15-31 luglio 1914, II.

(126) Articolo di G. Prezzolini, in La Voce, n. 12, 28 giugno 1914.

(127) -G. Scalia (a cura di),La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, vol. IV, Lacerba. La Voce (1914-1916), Torino 1961, p. 301.

(128) -G. Salvemini, Una rivoluzione senza programma, in L’Unità del 19 giugno 1914.

(129) -Articolo di Prampolini su Giustizia, n. 3293, 19 giugno 1914.

(130) -E. Nolte, op. cit. p. 11 e 16; solo lo studioso italoamericano Gaudens Medaro, ha messo in rilievo, prima di De Felice e Tricoli, l’evoluzione politica di Mussolini durante la giovinezza, fermandosi tuttavia al 1912. Molto più completa invece l’analisi del Tricoli nella sua opera postuma già citata, analisi che viene attuata attraverso un’accurata e sterminata indagine storiografica e che ci dà un quadro, mai prima delineato, della formazione culturale e politica del giovane Mussolini.

(131) E. Nolte, op. cit. pp. 22-25.

(132) -Benito Mussolini, Karl Marx (Nel 25¡ anniversario della sua morte), in La Lotta di_classe, n. 10, 12 marzo 1910.

(133) -B. Mussolini, Il socialismo degli avvocati, in La lotta di classe, n. 25, 25 giugno 1910, I.

(134) -Ibidem p. 31.

(135) -Ibidem, p. 34.

(136) -B. Mussolini, Intermezzo polemico, in La Lima, n. 16, 25 aprile 1908, XVI.

(137) -R. De Felice, Mussolini, il Rivoluzionario, op. cit., pp. 59 e seg.

(138) -B. Mussolini, Da Guicciardini a... Sorel, in Avanti!, in. 198, 18 luglio 1912, XVI.

(139) C. Rosselli, Il problema dell’ateismo, Introduzione, p. 150.

(140) -E. Nolte, I tre volti del fascismo, Milano 1993; G. Tricoli, Benito Mussolini, op. cit. 213 e seg.

(141) B. Mussolini, Caccia al buon senso, in La folla, aprile 1913.

(142) E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano 1932, p. 89.

(143) R. De Felice, La crisi della guerra, in Mussolini il rivoluzionario, op. cit. p. 275.

(144) Ivi, p. 286.

(145) -R. De Felice, ivi, pp.271- 281. De Felice è uno dei pochi che se ne sia occupato in maniera obbiettiva, scevra da pregiudizi ideologici e soprattutto con il supporto di materiale documentario.

(146) -B. Mussolini, Intermezzo polemico. Battute di preludio in Avanti!, n. 199, 21 luglio 1914, XVIII.

(147) -B. Mussolini, Per l’Avanti! Discorso pronunciato al teatro Vittorio Emanuele di Ancona il 26 aprile 1914 prima giornata del XIV, cit.

(148) -B. Mussolini, ‘La guerra è immonda’, in Avanti!, n. 214, 5 agosto 1914, XVIII.

(149) -B. Mussolini, La lavata di capo, in Avanti!, n. 270, 30 settembre 1914, XVIII.

(150) -L’homme qui cherche (B. Mussolini), Note di guerra, in Utopia, n. 11-12, 15 agosto - 1 settembre 1914, II.

(151) -B. Mussolini, Mezzo milione di organizzati sono col partito socialista per la neutralità assoluta dell’Italia, in Avanti!, n. 215, 6 agosto 1914, XVIII.

(152) -Tre anni dopo avrebbe scritto. "[...] Fu quello un periodo assai breve del resto, in cui motivi di o3rdine politico frenarono il mio interventismo latente iniziale. Forse io avevo in animo di condurre il partito alla sua più alta manifestazione antebellica, per poi, compiuta l’affermazione di principio, scendere sul terreno della realtà". In Edoardo e Duilio Susmel (a cura), B. Mussolini, Opera Omnia, Firenze - Roma, 1990, vol. IX, p. 91. Sull’indecisione di Mussolini in questo critico periodo della storia e della sua vita personale, segnaliamo un articolo di Azione socialista, pubblicato il 19 settembre e intitolato, appunto, I due Mussolini: "[...] Il giovane direttore dell’Avanti! s’è affinato in diplomazia. Riferiscono quelli che gli sono vicini che egli freme per via del foruncolo francese( quella specie di mal francese comune ai democratici e ai rivoluzionari di tutte le nazioni e ch’egli felicemente definì" a quel modo all’assemblea della sezione milanese), di quel foruncolo che gonfia e brucia ogni giorno di più[...] Ma il guaio è che ogni giorno che passa il gioco diplomatico diventa più difficile per Mussolini, anzi per i due Mussolini, che un bel giorno, riscaldandosi l’ambiente[...] finiranno per litigare sul serio. Chi dei due vincerà? C’è chi sente già echeggiare per la via di San Damiano l’Addio mia bella addio[...].

(153) -B. Mussolini, Il militarismo brutale inizia la sua gesta di sangue, in Avanti!, n. 214, 5 agosto 1914, XVIII.

(154) -Questi sarà il primo a congratularsi con Mussolini quando quest’ultimo deciderà di passare il Rubicone: " Caro Mussolini, ho letto in treno il tuo magnifico articolo sulla neutralità ‘non’ assoluta. E sento il bisogno di fartene i miei rallegramenti: il tuo istinto sano e forte ti ha fatto arrivare anche questa volta alla linea buona di condotta. E non è piccolo atto di coraggio il tuo, questo di rompere la lettera per salvare lo spirito dell’internazionalismo, in questo nostro paese di sagrestani formalisti e chiacchieroni.

Tuo Gaetano Salvemini"

In Avanti!, n. 291, 21 ottobre 1914, XVIII.

(155) B. Mussolini, ciò che il socialismo può dire, in Avanti!, n.244, 4 settembre 1914, XVIII.

(156) B. Mussolini, In tema di neutralità, in Avanti!, n.. 222, 13 agosto 1914, XVIII.

(157) B. Mussolini, Al nostro posto, in Avanti!, n. 225, 11 agosto 1914, XVIII.

(158) -B. Mussolini, Neutralità e socialismo, intervista concessa a Il Giornale d’Italia, n. 275, 6 ottobre 1914, XIV.

(159) -Benito Mussolini risponde a Libero Tancredi. Fra uomini di paglia, in La patria - Il Resto del Carlino, n. 278, 8 ottobre 1914, XXX.

(160) -Benito Mussolini, Fra la paglia e il bronzo, in La Patria - Il resto del Carlino, n. 283, 13 ottobre 1914, XXX.

(161) Avanti!, n. 288, 18 ottobre 1914, XVIII.

(162) -Intervista concessa da Mussolini a Il Secolo, il 20 ottobre 1914, in Il Secolo, n. 17435, 21 ottobre 1914, XXXIX.

(163) -B. Mussolini, Opera Omnia, op. cit., vol. Vi p. 406.

(164) -In un articolo di commento al Congresso, Il Congresso di Ancona. L’apoteosi di un metodo e di due uomini, firmato Cisalpino, l’ Azione Socialista aveva avanzato l’ipotesi che, malgrado l’elezione di Lazzari alla segreteria del partito, il vero trionfatore e il futuro incontrastato leader fosse appunto Mussolini: "[...] I fedeli dell’intransigenza e della rivoluzione li amano entrambi di uguale amore, ma seguirebbero il sopraggiunto, abbandonando, senza rimpianti, il vecchio soldato, ov’essi si separassero, perché sulle masse dalla mentalità rivoluzionaria, il Mussolini, con quella figura di asceta, quella voce a mormorio di foresta, quel gesto di persona quasi agitata sempre da un incubo, esercita fatalmente una potenza fascinatrice e trascinatrice".

(165) -Discorso pronunciato da Benito Mussolini nel Salone dell’Arte Moderna a Milano il 10 novembre 1914,durante l’assemblea della sezione socialista milanese. In Avanti!, n. 312, 11 novembre 1914, XVIII.

(166) -A. Gramsci, Neutralità attiva e operante, in Il grido del popolo, 31 ottobre 1914.

(167) -G. Tricoli, Benito Mussolini, l’uomo, il rivoluzionario, ecc. op. cit. p. 130.

(168) Ivi, p. 132.

(169) -L’intervento di Mussolini in assemblea è riportato dall’Avanti! e da Il Popolo d’Italia del 25 novembre 1914.

 

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