La storia della graduale transizione della Sicilia dal fascismo al sistema democratico ha uno specchio - di parte fascista - nel settimanale I Vespri d’Italia, pubblicatosi a Palermo tra il 1949 ed il 1963. Fu una storia pacifica e ragionevole, senza violenza né traumi né vendette d’un qualche rilievo. Così emerge anche da I Vespri d’Italia.
Il fascismo, infatti, sebbene il suo processo come movimento politico e forma di governo dello Stato italiano si fosse concluso già il 25 luglio 1943 con il voto contrario a Mussolini da parte del Gran Consiglio o al massimo con la liberazione del Nord, in Sicilia non aveva avuto conclusione con un fatto interruttivo ben preciso. Per effetto dell’occupazione della Sicilia da parte degli angloamericani, che ha risparmiato al Sud la guerra civile, esso aveva continuato ad esistere nelle coscienze di molti cittadini, soprattutto di quelli che - da funzionari o da militari - avevano servito onestamente e convintamente il Paese durante il Ventennio o avevano combattuto nella Repubblica Sociale fino al 25 aprile del 1945, data passata alla Storia come quella della liberazione dell’Italia dai tedeschi (e dal fascismo), e che poi erano ritornati in Sicilia nella propria famiglia ed alle proprie occupazioni.
Nel 1949, data di fondazione de I Vespri d’Italia, comunque, sebbene non fossero passati che quattro anni dalla fine della guerra e tre anni dalla caduta della monarchia, i problemi dell’Italia erano ormai molto diversi. La Storia era corsa velocemente.
Entrata in vigore, nel 1948, la Costituzione repubblicana ed insediatosi il Parlamento, l’anno successivo, in gennaio, il Governo De Gasperi aveva chiesto al Dipartimento di Stato americano di sostenere la richiesta dell’Italia di far parte della NATO. In marzo si svolgeva l’accesissimo dibattito in Parlamento per l’adesione ufficiale, con il noto ostruzionismo e l’appendice di manifestazioni di protesta da parte di socialisti e comunisti in molte piazze d’Italia, affrontate violentemente dalla polizia. Fra il 18 ed il 27 marzo Camera e Senato, a larga maggioranza, autorizzeranno comunque il Governo ad aprire le trattative. Il 4 aprile fu firmato a Washington il Patto atlantico. Il 5 maggio venne istituito il Consiglio d’Europa con lo scopo di promuovere l’integrazione tra gli Stati europei. La guerra ed il regime fascista erano ormai veramente alle spalle.
I problemi interni erano costituiti dal dibattito sulla legge approvativa del Piano Fanfani per l’incremento della costruzione di abitazioni e la riduzione della disoccupazione nel settore edilizio, mentre a Cortemaggiore l’AGIP di Enrico Mattei faceva entrare in funzione un giacimento di metano capace di produrre 23 milioni di metri cubi di metano al giorno. Il comunismo mostrava ancora un volto massimalista e rivoluzionario e, sul piano dei principi, ostentava una ideologia materialista ed atea, per cui, il 12 luglio, il Santo Uffizio comminava la scomunica dei suoi aderenti e di quelli che ne accettassero, sostenessero o divulgassero le idee. Fortemente sostenuto dal P.C.I., il movimento contadino si impegnava, proprio nel 1949, in robuste manifestazioni rivendicative del diritto alla terra, con relative occupazioni; il che avveniva anche in Sicilia. Dal punto di vista economico-sociale, l’Italia accelerava la sua trasformazione da paese prevalentemente agricolo in paese industriale.
In un tale contesto i problemi nazionali si coloravano in Sicilia di aspetti legati più particolarmente alla sua Storia. Da circa due anni operava il regime autonomistico e l’Assemblea regionale tentava di darne la massima espressione mediante una serie di leggi dai contenuti fortemente innovatori nell’economia e negli assetti sociali. In contrapposto, si manifestava la reazione dello Stato attraverso un rigido controllo sulla produzione normativa regionale e la contestazione di interi istituti, quali, ad esempio, quello della sostituzione del potere regionale a quello prefettizio o quello della spettanza dei poteri di polizia al Presidente della Regione. Era, d’altra parte, emersa una nuova e diversa classe politica - da Alessi ad Aldisio, a Scelba, Restivo, Colajanni, La Loggia, Li Causi, ecc. - fortemente autonomistica e sicuramente democratica, ed era con questa classe che il giornale cominciava a dialogare, spostando l’ottica delle proprie considerazioni.
Dal punto di vista politico e della stabilità delle classi dominanti, il pericolo da scongiurare non era certamente quello di una possibile rinascita del fascismo, ma quello di una profonda eversione comunista, per cui proprio nel 1949, come rileva lo storico Renda, centinaia erano i dirigenti politici, per lo più comunisti, incarcerati in attesa di giudizio, assestandosi così anche profonde ferite ai diritti politici, di associazione, di riunione, di circolazione e di stampa(1). Il cosiddetto "pericolo fascista" sarebbe riapparso nella diffusa opinione pubblica - artificiosamente elaborato per interessi elettoralistici - molto tempo dopo, agli inizi degli anni Sessanta, in occasione della crisi avutasi con l’elezione del governo Tambroni, come possibile cemento fra ideologie politiche altrimenti inconciliabili ed in vista di un possibile ingresso dei partiti di sinistra nel governo o, comunque, per una loro accettazione nell’ambito del potere.
In quanto ai fascisti o a quelli che lo erano stati o che, comunque, rivendicavano il rispetto del proprio pensiero politico e delle azioni compiute durante il Ventennio e, soprattutto, nella lotta civile in cui avevano combattuto o si erano schierati da "quella" parte, va detto che, non avendo le commissioni di epurazione epurato quasi nessuno, si erano in gran parte reinseriti nella vita civile, nelle amministrazioni, nell’insegnamento e nelle professioni, senza particolari problemi. Commentando negativamente un tale processo, Bocca osserva, del resto, che "ancora nel 1960 sessantadue prefetti arrivano dal Regime e solo cinque fra essi hanno partecipato alla Resistenza" e che "l’unica vera epurazione della polizia è consistita nell’allontanamento dei partigiani, gli unici veti alle nomine nello Stato Maggiore dell’esercito sono di ufficiali partigiani"(2).
Una volta sorto, nel 1946, il Movimento Sociale Italiano, molte delle persone di sentimenti fascisti vi avevano aderito con l’entusiasmo e la passione tipiche d’una fede. Proprio nel 1949, il 30 luglio, il M.S.I. si riuniva a Roma nel secondo congresso nazionale, e qui trovavano integrazione le diverse anime del fascismo stesso: quella repubblicana, quella nazionalista, quella sociale o socialista, quella moderata, conservatrice e monarchica, nella sintesi espressa dal concetto di Stato nazionale del lavoro, ispirato appunto dai presupposti della dottrina sociale del fascismo, nella cui elaborazione il travaglio e la conciliazione delle varie tendenze erano durati, d’altra parte, tutta la vita pragmatica del P.N.F.
A Palermo, coordinatore regionale del nuovo partito era stato nominato nel 1948, Alfredo Cucco(3). Egli era reduce dalle funzioni di vice-segretario nazionale del P.N.F., che gli erano state conferite nel 1943, dopo diciassette anni di suo allontanamento dalla politica e di vicende giudiziarie che lo colpirono con l’accanimento della persecuzione, sebbene con risultati sempre a lui favorevoli(4), ma soprattutto tornava dall’essere stato presidente del Comitato nazionale per la Sicilia per l’assistenza ai siciliani trovatisi al Nord dopo la spaccatura dell’Italia tra Repubblica Sociale e Regno d’Italia; quindi era stato sottosegretario alla cultura popolare del governo della Repubblica Sociale ed infine segretario nazionale del partito ed imputato come fascista, poi assolto senza conseguenze di alcun rilievo.
Nei predetti incarichi politici Cucco aveva vissuto intensamente la tragedia dei bombardamenti feroci sulla Sicilia e dell’occupazione da parte degli angloamericani; aveva organizzato accoglienza ed assistenza per i profughi siciliani in varie città del Nord, ma soprattutto aveva riflettuto sui problemi della Sicilia nel contesto nazionale insieme a tutta una classe di siciliani illustri che aveva saputo coinvolgere nel lavoro del Comitato.
In Sicilia, a guerra finita, tutte queste persone, che avevano appena finito di lavorare in un clima di solidarietà italiana, fuori da schemi di parte e di faziosità, per l’unico superiore interesse dei loro corregionali e della Patria, ripresero a Palermo, intorno a Cucco, il discorso sospeso a Roma(5). A Palermo, del resto, il clima della Resistenza e della guerra civile, ossia quello che veniva definito il "vento del nord", andava giungendo molto lentamente e veniva accolto dall’opinione pubblica generale con una certa diffidenza, non essendovi stata mai in Sicilia alcuna vera contrapposizione violenta tra fascisti ed antifascisti: nemmeno dopo il 25 luglio del 1943. Non si era avverato quello che Pietro Nenni aveva auspicato nel 1945: "Dal Po in su troveremo, con una netta prevalenza della sinistra, un solo potere organizzato, quello dei Comitati di Liberazione; un solo esercito, quello dei partigiani; una sola forza propulsiva: le grandi organizzazioni contadine, le grandi organizzazioni operaie, i tecnici e gli intellettuali che hanno dato un contributo notevole alla Resistenza (…). Si tratta di preparare la saldatura del Sud col Nord"(6). Il cosiddetto "vento del nord" non era arrivato in Sicilia, e ciò "non soltanto perché la guerra civile materialmente non fu combattuta a sud di Roma, ma perché non ne fu compreso ed apprezzato lo spirito (…). La guerra civile fu estranea all’anima ed alla mentalità del Mezzogiorno d’Italia"(7).
Tale essendo stata, dunque, la storia umana e politica dei siciliani, poté accadere che nei molti siciliani che, da fascisti o da non antifascisti, erano rimasti a vivere in Sicilia nel corso della guerra, sia mancato ogni motivo di interruzione traumatica dei loro sentimenti e delle loro convinzioni. Erano rientrati altresì dal nord molti tra quelli che avevano servito la Repubblica Sociale nei reparti armati dell’esercito, "mossi - come riconosce De Felice - dal patriottismo, dal senso dell’onore, dal desiderio di riscattare l’Italia dal tradimento consumato dal Re e da Badoglio e dal rispetto verso sé stessi"(8) ed erano oltremodo fieri del dovere compiuto.
Tutte queste persone si chiedevano se veramente i Vent’anni, che ora erano ufficialmente da disprezzare, fossero stati tutti negativi. Si chiedevano se si fosse trattato di "vent’anni senza storia" o di una parentesi nella storia, chiusa la quale, "il discorso riprende al punto in cui era stato interrotto, il sole torna a risplendere su dal cielo, la felicità a regnare in terra. Tutta una generazione di italiani, o più generazioni accomunate dallo stesso destino nel Ventennio, bollate di viltà o di stupidità, gettate in mare! Tutto il lavoro profuso attorno a problemi nuovi e vecchi, problemi di organizzazione corporativa, problemi coloniali e africani, problemi economico-sociali imperniati attorno alla bonifica del monte e collina e piano (…); tutto il sincero entusiasmo di tanta gioventù, il calore di adesione di tanti cittadini allo Stato, il senso di fraternità nazionale che ha caratterizzato molti felici momenti del Ventennio, tutto, tutto come non sia stato, anzi, peggio ancora, ammesso solo come male?"(9).
Ci si chiedeva che cosa si fosse voluto in quei vent’anni, intorno a che cosa si fosse lavorato, quale fosse stato il cemento che aveva unito milioni di italiani. Gioacchino Volpe, lucidamente già nel 1946, riassumeva così le risposte che gli attoniti vinti davano forse a sé stessi: "Si volle risollevare lo Stato dal discredito e dall’impotenza in cui era caduto, ravvalorare internazionalmente la nazione, pacificarla socialmente e tentare nuove forme di collaborazione fra le classi e nuove e più rappresentative forme di rappresentanza politica; ravvivare il sentimento di solidarietà del Paese con i milioni di fratelli sparsi per il mondo; assicurare ad esso un minimo di indipendenza economica di fronte ai grandi complessi effettivamente autarchici, perché si traducesse in maggior indipendenza politica; accrescere il suo lavoro ed elevare il concetto del lavoro, di ogni lavoro, a fini non di classe, ma di bene generale della Nazione; bonificare le sue colonie e avviare verso di esse una parte di quella nostra emigrazione che stava diventando dissanguamento ed a cui del resto tante porte di beati possidenti si venivano chiudendo; imprimere un più energico impulso alla sua agricoltura e creare nuovi liberi contadini; rinnovare le classi di governo e dare una virile educazione alla gioventù, organizzare una solida assistenza alle famiglie, alla madre, al fanciullo (…); compiere, per quel tanto che può essere compiuta, l’opera di conciliazione dello Stato italiano con la Chiesa e col Papato. Per questo, tanti italiani si sono riscaldati nel Ventennio, tanti di essi hanno "servito" il Fascismo o compiuto atti rilevanti a favore del regime. Erano scopi riprovevoli, da doversi battere il petto, anche se impari poi si dimostrarono molti modi e mezzi di attuazione, e tanti omeri troppo inferiori alla soma?"(10).
Idealmente e culturalmente era ragionando su questi punti che i cosiddetti "nostalgici" reclamavano in quegli anni, da vinti ma non da colpevoli, di avere il rispetto da parte dei propri concittadini e di meritare il diritto di poter esprimere del tutto liberamente le proprie opinioni sul passato recente e di poter partecipare alla ricostruzione ed al governo del proprio Paese. In quanto al regime conclusosi, "creare un nuovo fascismo? Ogni parola, come ogni cosa, ha il suo tempo, oltre il quale essa è anacronistica"(11).
Inoltre essi si trovavano carichi di energia morale, sebbene fossero stati sconfitti; perché, come notava Piero Operti, "vittoria e sconfitta sono fatti enormi e contano assai nel momento in cui si avverano, ma, allontanandosi nel tempo, le loro dimensioni si riducono e ciò che conta, ciò che rimane stabilmente acquisito è la prova di energia morale e di coesione nazionale che un popolo ha saputo dare"(12).
Con tutti i predetti argomenti Alfredo Cucco coniugava negli anni del primo dopoguerra la sua grande fede nelle potenzialità dei siciliani ed una costante attenzione verso gli interessi della nostra regione, secondo un modo di vedere maturato ed approfondito negli anni in cui presiedette, appunto, a Roma ed a Venezia, il Comitato nazionale per la Sicilia.
Erano tutte tali ragioni che animavano le discussioni che si sviluppavano in un certo circolo di intellettuali che, sul finire appunto degli anni Quaranta, si raccoglieva a Palermo intorno a lui. Si diceva: "Tutto il dolore, tutto il pianto, tutti i sacrifici e le privazioni e le distruzioni ed i lutti subiti in più di tre anni non possono andare perduti, tutto il sangue versato, di soldati, di donne, di vecchi, di bambini, non può essere stato offerto invano!"(13). E si sottintendeva: "lutti subiti" e "sangue versato dai siciliani per la Patria comune".
Si formò così la linea del pensiero politico di fondo che avrebbe animato il settimanale I Vespri d’Italia e che Giuseppe Tricoli sintetizza in questi termini: "La lotta contro la mafia e per la sicurezza nelle campagne, lo Stato come valore nazionale partecipato e modernizzante, anche sotto l’aspetto assistenziale ed educativo, l’impresa coloniale africana come immagine speculare dell’anelito esistenzialista dei siciliani; la colonizzazione del latifondo e la valorizzazione della campagna e dell’agricoltura, secondo un modello di sviluppo equilibrato rispondente alla vocazione della cultura e dell’anima popolare siciliana; la valorizzazione del lavoro come fattore creativo, soggetto e non oggetto dell’economia, sottratto, perciò, alla mercificazione alienante del capitalismo: questi erano stati i fattori, i valori, i miti, i veicoli della nazionalizzazione che, mortificati dalla disfatta del 1943, venivano ridestati dal messaggio appassionato di Alfredo Cucco e riproposti, storicisticamente attualizzati, nella nuova fase della politica italiana"(14).
Il giornale nacque il 2 gennaio 1949 con la direzione ufficiale di Nino Di Forti e Luciano Ingianni. "Non sarà questo un giornale di partito", diceva l’editoriale-presentazione di Cucco, "i Vespri combatteranno per l’Italia contro le forze abbiette dell’anti-Italia, per l’ordine contro il disordine, per la giustizia sociale contro le iniquità e le ingiustizie, per la religione e la moralità contro l’ateismo ed ogni immoralità, per i sacri interessi della Nazione contro tutti i suoi detrattori esterni ed interni… Non vedranno nemici se non nei nemici d’Italia, sentiranno fratelli - anche se di parte avversa - tutti coloro che, prima di ogni altro, si manifesteranno e saranno italiani"(15). E si rivolgeva ai mutilati di guerra, agli ex combattenti (allora, ve ne erano ancora della prima guerra mondiale e delle guerre coloniali), alle famiglie di caduti ed agli italiani in genere "che in ogni tempo avete amato incondizionatamente l’Italia", e dedicava una certa attenzione ai problemi dei trecentomila profughi giuliani e dalmati ed ai siciliani emigrati.
Certo, nei primi numeri l’attenzione era, come naturale, rivolta al "punto di partenza": il ritorno dalla Legione straniera di Bottai (n. 3 del 1949), il quale era trattato ovviamente male dall’editorialista, avendo Bottai, come è noto, votato contro il Regime nella fatale notte del 25 luglio; la condanna del Generale Graziani a 19 anni di carcere (n. 19 del 7 maggio 1950); la scomparsa - e forse la ricomparsa - dei documenti che Mussolini aveva con sé sulla strada, anch’essa fatale, da Milano a Como, prima che fosse ucciso (n. 20 del 14 maggio 1950); la scoperta della circolare "Badoglio" del 26 luglio 1943, che ordinava di "aprire il fuoco a distanza anche con mortai ed artiglieria, senza preavviso" in caso di turbamenti dell’ordine pubblico d’ogni genere (n. 10 dell’1 ottobre 1950); le indagini della magistratura di Milano sulla fucilazione di Carlo Borsani, cieco e mutilato di guerra, già insignito della medaglia d’oro.
Una particolare attenzione era anche riservata ai pericoli di eversione costituiti dai progetti rivoluzionari, ancora coltivati da una parte degli ex partigiani di provenienza comunista nel nord d’Italia. Si dava, così, particolare evidenza ai bollettini mensili del Ministero dell’Interno che davano conto delle armi rinvenute, commentando accanitamente il contrasto tra i discorsi di pace fatti ufficialmente dai socialcomunisti e quelle riserve di potenziale bellico non consegnato dopo la fine della guerra. Ancora nel 1950, con un titolo su nove colonne, si faceva il resoconto di mitragliatrici, fucili, pistole, bombe ed altri esplosivi rinvenuti, sebbene fossero passati già cinque anni dalla fine della guerra(16).
Era un’attenzione alle cose che interessavano in maniera attuale - e non ancora storicamente - gli italiani e, particolarmente, la categoria di siciliani che per le dette ragioni non avvertivano che vi fosse stato motivo per una interruzione nel loro sentire politico. Per essi, dunque, il giornale costituiva un mezzo di aggregazione ed un organo di difesa morale ed un settimanale rifornimento di coraggio. Umanamente, incanalava la testimonianza della loro onestà intellettuale e del loro lecito pensiero: perché la Storia un giorno si potesse forse scrivere non "inaudita altera parte".
Non si trattò, comunque, d’una voce irragionevolmente apologetica, se il giornale stesso contestava la qualificazione con il neologismo "neofascista" ed il 20 gennaio 1963 poteva annunziare con soddisfazione che, "sebbene la Camera dei deputati avesse concesso, qualche tempo prima, l’autorizzazione a procedere a carico dell’on. Prof. Alfredo Cucco per il reato di apologia, con riferimento ad una pubblicazione comparsa su un numero speciale de "I Vespri d’Italia" dedicato alla rievocazione storica della marcia su Roma, l’autorità giudiziaria, su conforme richiesta del Procuratore della Repubblica e del giudice istruttore, ha ordinato l’archiviazione per inesistenza di reato".
Difficile era, d’altra parte, lo stesso voler rievocare storicamente i fatti del Ventennio, ove si fosse voluta mantenere una linea di libertà di giudizio, dato lo stretto spazio intercorrente fra una appassionata indagine storica dei fatti ed il rischio di incriminazione per reato di apologia del cessato regime(17), nonché per violazione dell’art. 290 del codice penale prevedente il reato di vilipendio delle Forze armate della Liberazione. Ma l’attenzione per quella storia recente si andava anch’essa evolvendo, attratta com’era sempre più dalla realtà in rapida evoluzione.
Il giornale si rivolgeva soprattutto ai siciliani fieri di esserlo e di sentirsi, insieme, italiani, additando come via preliminare ad ogni soluzione dei problemi riguardanti la ricostruzione quella della "pacificazione", al quale fine riteneva che i siciliani potessero svolgere un ruolo efficace; non per nulla la testata del giornale richiamava uno spirito, quello dei Vespri siciliani, da diffondere in Italia, come l’energia morale unitaria ed appassionata propria dei siciliani. Si veda così con quanto interesse il giornale commentava il messaggio del Papa Pio XII in occasione del natale 1949 ed alla vigilia dell’Anno Santo: in esso si condannava "l’imprudente intolleranza e lo spirito di rappresaglia, soprattutto quando la vendetta sia esercitata dal pubblico potere contro chi ha piuttosto errato che peccato, o quando la stessa pena meritatamente inflitta si prolunghi oltre ogni limite ragionevole" e si pregava perché "inspiri il Signore consigli di riconciliazione e di concordia (…), si ponga fine a quei residui di leggi straordinarie (…) dopo lunghi anni dalla cessazione del conflitto armato"(18).
Il riferimento alle leggi speciali contro i vinti e l’invocazione d’una pacificazione tra gli italiani divisi dalla recente guerra civile erano evidenti ed il giornale non mancò di rilevarlo e di contestare la poca eco che il messaggio pontificio aveva avuto negli uomini cristiani della Democrazia Cristiana; come, del resto, per anni non mancò di rilevare positivamente ogni tentativo di riconciliazione e di fratellanza provenienti da associazioni, da religiosi e da cappellani militari: Padre Blandino della Croce annunziava sul giornale che il 4 ottobre, ricorrenza di S. Francesco, si sarebbero svolte ad Assisi adunanze di frati e cappellani militari nel segno appunto di una pacificazione cristiana(19).
In questo spirito di auspicata pacificazione, il settimanale esprimeva soddisfazione quando poteva riferire che "al congresso di Trieste dell’Associazione mutilati ed invalidi di guerra, con l’approvazione dei cinquecento delegati convenuti, veniva decisa l’ammissione degli ex combattenti della Repubblica Social Italiana nelle file del sodalizio"(20); mentre, sempre nello stesso spirito e con evidente accettazione dei valori cattolici, il 20 gennaio 1950 esaltava la figura di Michele Pavone appena eletto presidente dell’Azione Cattolica diocesana. Il fatto, del resto, denotava in sé quel trapasso indolore (oggi si direbbe soft) che si è detto essersi verificato in Sicilia, essendo stato durante il Ventennio il professore Michele Pavone, noto urologo, tutt’altro che lontano dal fascismo: "Dunque è chiaro e preciso - osservava il giornale - che Azione Cattolica non è affatto la stessa cosa che D.C.", intravvedendo in un primo tempo nel mondo cristiano, forse, spazi possibili e più ampi di quelli dell’area della "nostalgia" per la sua funzione ricostruttrice della coscienza nazionale(21).
In una siffatta concezione del proprio ruolo, una delle prime posizioni che il giornale dovette assumere in relazione al nuovo assetto dello Stato fu quella nei confronti della appena sorta Autonomia regionale e quindi nei confronti dell’ente Regione e dell’Assemblea regionale.
Gli articoli contenuti nei primi numeri mostrano una certa difficoltà a conciliare la linea di fondo, nazionalista ed unitaria, con il nuovo regime istituzionale che, tutto sommato, era stato concepito per servire gli interessi peculiari della Sicilia, interessi che proprio Cucco aveva sempre evidenziato in una posizione talvolta perfino rivendicatoria(22).
Troviamo, così, nei primi numeri del giornale diversi articoli in cui ci si preoccupa di chiarire la linea al riguardo: "Noi che per il separatismo non abbiamo mai professato simpatia …", e tuttavia "il separatismo vive nelle case, nello squilibrio economico e sociale per cui la vita del lavoro qui è più dura … L’Autonomia può avere una grande funzione purché non scada nel regionalismo, di cui l’aspetto più evidente è la nascita di una nuova burocrazia(23) e non abbia una "visione piccina dei suoi compiti", così paventandosi già quello che poi sarebbe successo, ossia l’omologazione degli istituti autonomistici con la politica di Roma, attraverso le linee unitarie dei partiti; la qualcosa avrebbe portato i deputati regionali a "considerare la loro elezione un passo della loro carriera politica, una tappa dell’ascesa verso Montecitorio e Palazzo Madama". Pur non opponendosi all’istituto autonomistico, dunque, ci si soffermava sulle "incognite ed i pericoli del regionalismo", preoccupandosi che portare alle estreme conseguenze il regionalismo in tutto il territorio nazionale avrebbe potuto determinare l’abbandono di una visione unitaria dei problemi nazionali.
La posizione nei confronti dell’istituzione "Regione siciliana" venne comunque assorbita negli anni successivi dalla valutazione della concreta azione politica regionale, anche perché a partire dalle elezioni del 1951 il M.S.I. ebbe i suoi eletti in seno all’Assemblea regionale.
Interessante è allora rilevare come il giornale, pur ricco di editoriali sul ruolo dell’Alleanza atlantica, sulla nascente Comunità europea, sulla politica nazionale, tratti della politica regionale assai raramente e soltanto da una posizione di critica e di opposizione nei confronti delle maggioranze. E ciò, fino al 1958, quando fu eletto presidente della Regione Silvio Milazzo, sostenuto da una maggioranza composta da una parte di democratici cristiani, da socialisti, comunisti, monarchici e missini, due esponenti dei quali ultimi divennero addirittura assessori.
I Vespri commentavano così per la penna di Cucco: "Il fenomeno Milazzo ci sembra sia stato poco capito e spesso male interpretato da molti scrittori di oltre lo Stretto. Per noi quello che è certo è che l’opinione pubblica siciliana, nella sua stragrande maggioranza, lo ha accolto più che favorevolmente, perché ha avvertito con sensibilità isolana la lezione data alla partitocrazia in genere ed a quella democristiana in ispecie. Noi, anche tempo addietro, abbiamo levato la voce contro certi inconsulti atteggiamenti (di Fanfani, n.d.a.) che pretendevano prendere di petto gli uomini più qualificati della politica democristiana: Scelba, Aldisio, Restivo, Alessi e compagnia, pur trattandosi di nostri avversari. (…) I siciliani, anche se avversari, di fronte all’accanimento di potenti o prepotenti contro siciliani che si sono quotati da tempo ed in modo sicuro nella valutazione pubblica, insorgono e si moltiplicano in solidarietà operante, assumendo qualche volta aspetti ribellistici"(24).
Non si trattava, comunque, di un giornale locale; e questo appariva come una scelta ben precisa. Non dedicò attenzione particolare alle cronache di Palermo o della Sicilia (eccezion fatta per una evidente predilezione che traspare per i problemi di Castelbuono, paese natale di Cucco, primo fra tutti quello della produzione della manna) e, del resto, fu un settimanale a diffusione nazionale, sia per abbonamenti che per vendita nelle edicole delle principali città italiane. E si diffondeva in Sicilia presso le stesse persone che al pomeriggio acquistavano il quotidiano L’Ora del popolo, di intonazione comunista, senza che con ciò ci si sentisse di portare l’una o l’altra etichetta sul petto.
I collaboratori, per altro, erano persone di un mondo anche non politico ed anche non giornalistico. Tra quelli a cui chi scrive ha potuto dare un volto vanno ricordati: il giornalista Nuccio Portale, che per qualche tempo sostenne il peso dell’impostazione generale del settimanale; Michelangelo Collotti, ex magistrato; Giuseppe Maggiore, noto giurista penalista e scrittore; Alfredo M. La Grua che poi avrebbe fondato e diretto per quasi un quarantennio il Corriere delle Madonie; la raffinata pubblicista e scrittrice di arte e turismo Giulia Sommaria; gli storici Giuseppe Tricoli, Gaetano Falzone, Edmondo Cione ed Antonio Magàvero Fina; i giornalisti o futuri tali Franco Licata, Mario Vannini, Attilio Lucchese, Vito Vaiarelli, Franz Maria D’Asaro, Giovanni Cataldo; gli scrittori Titta Madia e Castrenze Civello; ed ancora Carlo De Leva, Fulvio Leoni, Umberto Guglielmotti, Francesco Cavallaro, Nino Vetri, Orazio Pedrazzi, Ignazio Bisesi, Lino Piscopo, Alfredo Aprile, Eugenio Ciancimino, Giuseppe Mammina, Francesco Palamenghi Crispi. Nino Rosselli, lo straordinario caricaturista "Cimabuco" della belle époque palermitana, disegnava ogni settimana una splendida vignetta per la prima pagina.
Liquidato, nel 1961, sotto la spinta delle note rivolte di piazza, il governo Tambroni sostenuto anche dai voti del M.S.I., l’elettorato di destra entrò nel lungo tunnel dell’emarginazione ed i suoi eletti nel ghetto in cui lo collocava quella "conventio ad escludendum" che si chiamò arco costituzionale. La preoccupazione del giornale, espressa in modo martellante da decine di articoli e per anni, fino alla sua cessazione, fu da quel momento per i rischi politici e morali della cosiddetta "apertura a sinistra", ossia per l’ammissione del partito socialista e, come si paventava, dello stesso P.C.I. nell’area delle possibili coalizioni governative.
Si era avuto, del resto, in Sicilia, già nel settembre 1961, il primo governo regionale organico di centro-sinistra presieduto da Salvatore Corallo e quindi, nel dicembre del 1963, si sarebbe arrivati alla costituzione del primo governo nazionale di centrosinistra. Troppo vicino era ancora il ricordo del Fronte democratico popolare del 1948 tra P.C.I e P.S.I. ed I Vespri si rivolgeva ora con fiducia e speranza verso i centristi della D.C. e verso la stessa Chiesa cattolica e informava così: "L’on. Scelba, ministro dell’Interno, si è fatto sentire e non solo ha levato la voce virilmente, ma ha preso posizione coraggiosa di vero cristiano e di buon democratico contro il socialismo e i socialisti"; e citava: "Guido Gonella (…) che è indubbiamente tra le figure più rappresentative della DC, per ingegno, per cultura, per interezza morale, per unanime estimazione, è insorto - spiritualmente si intende - e continua ad insorgere contro un’apertura che solo gli uomini di scarsa fede possono concepire. Non più tardi di ieri egli ha confermato: Non voglio che i cattolici si assumano la triste responsabilità di essere i liquidatori dello Stato democratico e nazionale sull’altare del marxismo". "D’altra parte - continuava il giornale - Andreotti, che molti insistono nel giudicare "l’uomo di domani", condensa la sua opposizione in un avvertimento che fa riflettere e fremere: "Quando la DC avrà bruciato tutti i vascelli di riserva (quelli che permisero di governare a Zoli, a Segni, a Tambroni), per Nenni diventerà uno scherzo da bambini costringerla a qualsiasi cambiamento".
I rapporti col mondo politico cattolico appaiono sempre più conflittuali, man mano che si passi dai primi anni Cinquanta verso gli anni Sessanta: da un lato, il riferimento continuo e quasi ostentato ai valori cristiani, ai buoni principi della famiglia ed ai sani costumi degli italiani, il rispetto per le gerarchie ecclesiastiche, stretti rapporti con religiosi e sacerdoti e gli accorati appelli in funzione anticomunista ai cattolici della Democrazia Cristiana; dall’altro, le più aspre critiche, fino all’invettiva ed al dileggio, sono quasi sempre per l’apparato D.C.; rivelando, ciò, forse aspettative tradite o rabbia repressa per un comune viaggio ideologico e storico che il direttore del giornale, responsabile anche di un partito in Sicilia, vedeva sempre più farsi difficile(25).
Ma forse fu proprio quel legame stretto con la visione nazionalista ed insieme sicilianista, tradizionale e cristiana - e non politico-confessionale - e soprattutto continuista rispetto ad un passato che appariva sempre più condannato dalla Storia ufficiale, su cui si basava la linea del giornale, che sarebbe stato il suo elemento di debolezza nei confronti del nuovo assetto culturale-politico che andava formandosi presso la borghesia italiana.
Nel 1963 Alfredo Cucco fu colto da ictus cerebrale. Il giornale proseguì per alcune settimane ma, con il concludersi di quell’anno, cessò le pubblicazioni: quasi fosse venuto a mancare - con la fonte della sua memoria storica, che gli dava la ragion d’essere - il suo ossigeno vitale.
In quel tempo la Storia correva ancora più velocemente: i socialisti, come visto, erano entrati nel governo del nostro Paese e le stesse gerarchie della Chiesa non se ne stupivano neanche più. La distanza dal "Ventennio" era ormai di un ventennio. Un’altra generazione, nata dopo la guerra, si stava affacciando alla vita culturale e politica dell’Italia e già si intravvedeva all’orizzonte quello che sarebbe stato il Sessantotto, con le sue irrisioni ai valori della vecchia Italia provinciale e le sue traumatiche trasformazioni nel costume degli italiani: profonde o superficiali, vere o recitate che fossero, ma tali ormai da non fare sentire più alcun legame con la storia dell’Italia d’anteguerra e quindi tali anche da far concentrare, dall’immaginazione di masse intere, nella parola "fascismo", convenzionalmente e come se si trattasse di un neologismo, tutto il male pensabile che ogni sana coscienza politica non poteva che rigettare.
Quel tempo e quelle esperienze che avevano dato forza al nostro giornale non furono più, dunque, una parte della nostra storia (Bocca), ma furono letti soltanto secondo la "vulgata" ammessa dal Partito Comunista, detentore di molto potere nelle Università, nell’editoria e nei giornali, e l’improbabile - se non impossibile – "restaurazione" fascista fu considerata, secondo l’utile opera di disinformazione da cui gli anni Settanta specialmente furono afflitti, come l’unico vero pericolo attuale per la democrazia. Sarebbe dovuto passare un altro ventennio, sarebbe dovuta scomparire - come generazione e come comunità umana - quella cui in Sicilia appartenevano gli scrittori ed i lettori de I Vespri d’Italia, si sarebbero dovute spegnere le passioni ruotanti intorno a quel ventennio (le cattive quanto le buone) perché tutto il fenomeno, dal 1919 al 1945, potesse essere studiato secondo i canoni scientifici della Storia. Ed è in quest’ottica che la riconsiderazione delle annate de I Vespri d’Italia può svolgere ora, affrancata dal ruolo giornalistico o di persuasione politica, la funzione di granello prezioso di conoscenza della storia di quegli anni.
NOTE:
(1) Renda F., Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. III, Palermo 1987, p. 290
(2) Bocca G., Il filo nero, Milano 1995, p. 124.
(3) -Alfredo Cucco nacque a Castelbuono (Pa) il 26 gennaio 1893. Medico oculista, fu docente di oculistica nell’Università di Roma ed incaricato di demografia nella Facoltà di giurisprudenza di Palermo. Fondò e diresse vari giornali, fra i quali, negli anni Trenta, Sicilia Nuova ed il settimanale La Fiamma e, tra il 1949 e il 1963, I Vespri d’Italia. Fu autore di libri sia scientifici che di carattere storico-politico, fra cui Il discorso della salute, nonché Uomini e popoli, testo di demografia, e Non volevamo perdere, i cui riferimenti editoriali sono contenuti nelle successive note (4), (13), (21). Nel campo politico, fu dirigente dei movimenti nazionalisti siciliani ed aderì al fascismo fin dalle sue origini. Durante il c.d. Ventennio fu segretario federale del P.N.F. a Palermo; quindi si allontanò dalla politica a causa di un clima di ingiusti sospetti determinatisi su di lui durante la presenza del Prefetto Mori a Palermo sul finire degli anni Venti, cui seguirono dei processi tutti conclusisi poi con ampie assoluzioni. Nel governo della Repubblica Sociale Italiana fu sottosegretario alla Cultura popolare e, nel 1943, l’ultimo segretario nazionale del P.N.F.. Dopo la guerra fu tra i fondatori e dirigenti del M.S.I. e fu eletto deputato al Parlamento della Repubblica. Morì a Palermo il 21 gennaio 1968.
(4) Cucco A., Non volevamo perdere, Bologna 1949.
(5) -Tricoli G., Alfredo Cucco, un siciliano per la nova Italia, Istituto siciliano studi politici ed economici (Isspe), Palermo s.i.d.
(6) -Nenni P., Adeguarsi al Nord, in "Avanti", 31 marzo 1945. Lo stesso, il 1° marzo, scriveva a proposito dell’impermeabilità della Sicilia al vento del Nord che "per avere un’idea della situazione basta per esempio il fatto che in provincia di Ragusa il Comitato di liberazione è in crisi perché non è stato possibile accogliere la domanda dei socialisti che i membri del comitato non fossero degli ex fascisti".
(7) Almirante G., Autobiografia di un "fucilatore", Milano 1973, p. 100.
(8) De Felice R., Mussolini l’alleato: la guerra civile, Torino 1998, p. 128.
(9) Volpe G., L’Italia che fu, Milano 1961, p. 356.
(10) Ibidem, già pubblicato in Pagine Libere, Roma 20 luglio 1946.
(11) Ibidem.
(12) Operti P., Prefazione a L’Italia che fu, cit.
(13) Cucco A., Non volevamo perdere, cit., p. 12.
(14) Tricoli G., Alfredo Cucco, un siciliano per la nova Italia, cit.
(15) I Vespri d’Italia, 2 gennaio 1949, n. 1.
(16) -Ivi, 24 settembre 1950, n. 39: "All’insegna della colomba e dei partigiani della pace! Cannone 1, mitragliatrici 5, fucili mitragliatori 26, fucili e moschetti automatici 208, moschetti e fucili da guerra 558, pistole e rivoltelle 428, bombe da mortaio 800, bombe a mano 2199, proiettili d’artiglieria 1696, armi bianche 181, cartucce 100.856, petardi e detonatori 2.392, esplosivi Kg. 257.700, mine 45, miccia metri 653, radiotrasmittenti 3 (dal bollettino mensile delle armi rinvenute. Luglio 1950)".
(17) -Cfr. decreto legislativo lgt. 27 luglio 1944, n. 159; l. 3 dicembre 1947, n. 1546; l. 20 giugno 1952, n. 645.
(18) I Vespri d’Italia, 8 gennaio 1950, n. 2.
(19) Ivi, 8 gennaio 1950, n. 2.
(20) Ivi, 3 dicembre 1961, n. 46.
(21) Ivi, 9 gennaio 1949, n. 2.
(22) Cucco A., Non volevamo perdere, cit.
(23) I Vespri d’Italia, 8 gennaio 1949, n. 2.
(24) -Ivi, 15 novembre, 1958, n. 49. Per la più recente bibliografia sul tema v. oggi: Grammatico D., La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo, Palermo 1996; Menighetti R. – Nicastro F., L’eresia di Milazzo, Caltanissetta-Roma 2000.
(25) -Cfr., fra l’altro, in I Vespri d’Italia, Cucco A., Luci ed ombre, 3 dicembre 1961, n. 46; F.L., La DC è ormai nelle mani del PSI, 7 gennaio 1962, n. 1; Leoni F., Togliatti possibilista è più pericoloso di prima, 9 dicembre 1962, n. 46; Almirante G., Il Marxismo lavora, ivi.