1. Origine e definizione.
Il presente scritto è stato sollecitato dal dibattito che attualmente si sta svolgendo in diverse sedi sul principio di sussidiarietà. Proprio l’interdisciplinarietà di cui tale principio è oggetto e l’uso ricorrente che ne viene fatto nei più svariati ambiti - nazionale, internazionale, storico, giuridico - ha fatto sentire l’esigenza di una riflessione complessiva che tenga conto della definizione del concetto, dell’ambito di applicazione e delle modalità con cui concretamente si applica o s’intenderebbe applicare quello che da più parti viene indicato come la chiave di volta degli sviluppi futuri della vita associativa ed istituzionale sia in Italia sia in Europa.
In diversi casi, il dibattito cui ci si riferisce non è incentrato direttamente o esplicitamente sul principio di sussidiarietà, ma sul nuovo modo di intendere e di organizzare i rapporti tra individuo ed istituzioni e tra istituzioni locali e centrali in una fase storica di crisi della centralità dello Stato e di messa in discussione delle sue prerogative e della sua sovranità fortemente sentita ai giorni nostri nella società della vecchia Europa.
Il tentativo di sbloccare la situazione e di cercare prospettive future, ha impegnato autori di diversa matrice, ma anche politici e, più in generale, addetti ai lavori, a riflettere sul principio di sussidiarietà, ciascuno nell’ambito di sua competenza, dando però la sensazione ad un osservatore esterno di trovarsi di fronte a fenomeni diversi indicati con la stessa espressione. In realtà, ad un esame più attento, si giunge alla conclusione che se divergenze di opinione sembrano esservi, queste non si riferiscono ad una generalissima definizione che, a ben vedere, è rintracciabile in tutti gli autori e che li vede unanimemente concordi, ma si riferisce ad un diverso modo di intenderne l’applicazione con conseguenze in prospettiva a volte diametralmente opposte sul funzionamento della società e delle istituzioni che questa si è data.
Ciò che risulta necessario è, quindi, un dibattito aperto ed interdisciplinare tale da rendere possibile un cammino coerente verso soluzioni univoche che consentano il dispiegarsi del principio in tutte le sue potenzialità per un progresso mondiale che non sia utopia.
L’art. 5 del Trattato CE(1), al secondo comma, recita:
"Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario"(2).
Tale articolo è stato introdotto dal Trattato di Maastricht(3) ed è stato oggetto di dibattiti, dichiarazioni e protocolli aggiuntivi volti a delinearne il contenuto e le modalità di applicazione da parte di tutte le istituzioni europee.
Ciò che preme sottolineare è che dal 1992, data di stipula del Trattato di Maastricht, tale principio è entrato formalmente nel novero dei principi cardini della costruzione europea: è, sinteticamente e semplicisticamente, il principio che regola i rapporti tra Stati e istituzioni europee. E’ per questo di fondamentale importanza analizzarne il contenuto. Da un punto di vista etimologico, "il termine ‘sussidiarietà’ deriva dal latino subsidium, che indica le truppe di riserva"(4), ma chiunque si accosti al principio di sussidiarietà, avrà modo di leggere e ascoltare preliminarmente che tale principio ha origine nella Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) e che la sua prima formulazione si ritrova nell’enciclica di Papa Pio XI(5) Quadragesimo Anno del 1931, la quale così afferma:
"Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera supplettiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle"(6).
Ad una ricerca più attenta delle origini del principio di sussidiarietà, quella che possiamo leggere nella Quadragesimo Anno è in realtà citata come "la descrizione divenuta classica"(7) oppure "la definizione classica"(8), per portare solo due esempi.
Viene indicato nel vescovo Ketteler(9) colui che alla fine del XIX secolo
"ben prima della pubblicazione delle encicliche sociali […] ha formulato in maniera pertinente questo principio ed è stato il primo a parlare di ‘diritto sussidiario’. […] ‘Ogni membro inferiore si muove liberamente nella propria sfera e gode del diritto della più libera autodeterminazione e autogoverno. Solo quando il membro inferiore di questo organismo non è più in grado di raggiungere da solo i propri fini o di far fronte da solo al pericolo che minaccia il suo sviluppo, entra in azione in suo favore il membro superiore’ (Kettelers Schriften I, 403; II, 21, 162)"(10).
Ma, a volere andare oltre la Dottrina Sociale della Chiesa, di cui la Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII rappresenta la svolta che apre una nuova pagina(11), chi si è posto il problema delle origini del principio di sussidiarietà ha potuto scrivere, come J. Höffner, che "quanto al contenuto, si tratta di un principio di antichissima sapienza umana"(12). Höffner, a partire dal libro dell’Esodo, cita, in una breve carrellata, alcuni degli autori nei cui scritti è possibile rintracciare riferimenti al principio di sussidiarietà nei termini di un riconoscimento delle pluralità e della diversità di cui bisogna tener conto e che bisogna armonizzare, non soffocare. Tra questi ritroviamo Tommaso d’Aquino quando si richiama ad Aristotele, e Dante nel De Monarchia.(13)
In una trattazione più ampia e specificatamente dedicata al principio di sussidiarietà, C. Millon-Delsol(14), studiosa di filosofia politica, ribadendo che la Chiesa cattolica "ne inventa il vocabolo ma non l’idea"(15), scrive:
"Benché nata nel XIX secolo con la denominazione attuale, l’idea di sussidiarietà nasce alle origini del pensiero politico europeo. Trova il proprio fondamento nello spirito greco, nella filosofia cristiana medievale e nella visione germanica della società"(16) e ancora:
"Il principio di sussidiarietà, anche se si applica concretamente nelle strutture moderne come la struttura federativa e presso delle nazioni oggi alquanto prive di ideali religiosi, non può rinnegare le sue radici tomiste"(17)
Scritta per celebrare i quarant’anni dalla Rerum Novarum, la Quadragesimo Anno mostrando il fallimento sia del capitalismo sia del socialismo e aggiornando il pensiero leonino, ribadisce, in maniera organica, l’esistenza di una ‘terza via’(18) che tenga conto del carattere al tempo stesso individuale e sociale dell’uomo(19).
Elemento fondante di tale via è il principio di sussidiarietà il quale riconosce l’esistenza di diverse entità che, a partire dall’individuo, si identificano nei ‘corpi intermedi’ e nello Stato e che si trovano tra loro in relazione tale che, però, alle entità inferiori (per dimensione e struttura, non per dignità) non venga tolta la possibilità di svolgere quei compiti a cui possono adempiere "con le forze e l’industria propria"(20).
La formulazione di questo principio è, quindi, legata a una precisa visione dell’uomo e della società(21) ma anche alla situazione storica contingente che impone una riflessione dei rapporti tra Stato e società nella sfera economica.
E’ di immediata evidenza che questo principio, nato per regolare i rapporti tra lo Stato e le società inferiori nella sfera economica, venga per estensione applicato a tutte le forme associative, e in tutti i campi, nei confronti dell’individuo. All’individuo deve essere lasciata la più ampia sfera d’azione fin dove da solo raggiunge i suoi obiettivi. Ma "la società non è più in grado di sopravvivere quando ognuno persegue i propri interessi particolari"(22). Compito dello Stato è garantire la "pubblica e privata prosperità"(23). Quindi, sia nella Rerum Novarum che nella Quadragesimo Anno si attribuisce allo Stato il diritto di intervento sulla base della nozione di bene comune(24). Ma, con l’esplicita enunciazione del principio di sussidiarietà, la Quadragesimo Anno associa al diritto-dovere di intervento dello Stato il dovere di non ingerenza del medesimo. Nella stessa enunciazione troviamo la giustificazione e la limitazione dell’azione dello Stato (e, in generale di qualsiasi entità superiore) nei confronti dell’entità inferiore:
"perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera supplettiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle"(25)
Il principio di sussidiarietà è sempre stato affiancato ad espressioni quali ‘bene comune’ e ‘solidarietà’ e tutti i testi richiamati fin qui ne fanno riferimento e oggetto di analisi ogni qualvolta trattano di sussidiarietà.
Dopo la seconda Guerra Mondiale alcuni sociologi cristiani hanno tentato di sintetizzare nel termine sussidiarietà anche i concetti di bene comune e solidarietà(26). Ma le tre espressioni vanno tenute distinte. "Il principio di sussidiarietà presuppone quello di solidarietà e del bene comune, ma non si identifica con essi"(27).
Non vi è nulla di più adatto delle parole di Giovanni XXIII nella Mater et Magistra per definire ‘bene comune’ come:
"l’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona"(28)
Esso non è un insieme di beni particolaristici e non si oppone ad essi ma li ingloba e li supera. La sua realizzazione comporta la possibilità per l’uomo, per ogni uomo, di realizzare liberamente i propri fini. Tutto ciò non in un’ottica egoistica ed individualistica ma sociale e solidale. Tutti devono partecipare alla realizzazione del bene legati, come sono, da un vincolo di interdipendenza.
L’uomo, secondo l’ormai famosa definizione di San Tommaso, è un essere sociale e questo vuol dire che nella realizzazione della socialità si ha la realizzazione del suo essere persona. Per far ciò è necessaria la collaborazione di tutti in maniera responsabile. Questo non significa che la società (o lo Stato) diventa il fine dell’agire umano. La società è un mezzo per la realizzazione dell’aspetto sociale dell’uomo e l’ambiente entro il quale si creano le condizioni per la sua libera espressione.
Ciò è espresso e si realizza attraverso il principio di solidarietà la cui applicazione prevede un comportamento responsabile e non egoistico secondo un vincolo di carità fra i singoli in quanto membri della stessa famiglia umana(29).
Questo principio esprime i legami e gli obblighi mutui vigenti tra società e singoli. Soltanto con la consapevolezza dell’interdipendenza si potrà avere consapevolezza della corresponsabilità della dignità umana. Se, esercitando la carità, che è lo strumento del principio di solidarietà, si porranno in essere le condizioni affinché gli altri, tutti fino agli estremi del mondo, abbiano la possibilità di raggiungere la realizzazione di sé, vorrà dire che per me vi sarà la possibilità e le condizioni per la realizzazione piena e totale.
L’impegno solidale per il bene altrui, sacrificando il bene particolaristico di oggi, è l’impegno alla realizzazione del sommo bene, del bene comune.
Il principio di sussidiarietà è strumentale a tutto ciò. Esso dà indicazioni sulla strada migliore da seguire nell’organizzazione sociale per attuare il principio di solidarietà nel cammino verso il bene comune. Esso implica l’intervento dell’entità superiore se l’entità inferiore non è in grado di realizzare i suoi obiettivi con le sue sole forze.(30)
Ma bisogna fare attenzione a non identificare la ‘sussidiarietà’ con la ‘supplenza’, i due termini vanno tenuti ben distinti. E questa distinzione è chiara in Giovanni Paolo II. Egli indica la "funzione di supplenza" una delle funzioni (nonché eventuale) che lo Stato può svolgere nell’esercitare il diritto di intervento(31), ma tale funzione non esaurisce il principio di sussidiarietà.(32)
Il termine ‘supplenza’ richiama l’idea di ‘sostituzione’: l’entità superiore interviene per adempiere ciò che l’entità inferiore non riesce a svolgere con le forze sue proprie, supplisce l’entità inferiore. Ma la supplenza è una modalità accidentale di esercizio della sussidiarietà, circoscritta a particolari circostanze: l’insufficienza dell’entità inferiore(33). Venute meno tali circostanze, l’entità inferiore deve poter riprendere il suo ruolo. L’entità superiore deve metterla nelle condizioni di farlo(34).
La sussidiarietà è molto più del semplice ‘agire al posto di’, che porta con sé i germi e i rischi dell’interventismo abusato, con grave pregiudizio della libertà dell’uomo in quanto singolo e in quanto associato(35). Essa implica sì l’idea di ‘aiuto’, ma di un aiuto anche e il più possibile indiretto. L’intervento dello Stato, però, non si intende ‘eventuale’ o ‘secondario’, lo Stato (l’entità superiore in genere) non interviene solo ‘all’occorrenza’. Esso ha compiti suoi propri che continua ad esercitare pur nella libertà di iniziativa e d’azione del singolo (o dell’entità inferiore in genere). Questi compiti non potrebbero altrimenti essere svolti da altri(36). Al limite, entrando nell’ottica "di un’organizzazione a gradi successivi e ad incastro"(37), tipica del principio di sussidiarietà, tali competenze potrebbero essere esercitate da un’entità superiore se fosse necessario, ma mai da un’entità inferiore. E’ per questo che il principio di sussidiarietà è stato anche definito come "metodo ascendente di decentralizzazione"(38), per cui l’entità inferiore delega alla superiore ciò che non riesce a fare da sé (invertendo la comune idea di decentralizzazione(39), ed è per questo che, in quest’ottica ascendente, potremmo dire che lo Stato ha una ‘competenza originaria’ (in quanto non delegata da nessuno ma, ipoteticamente, delegabile ad entità superiori) su tali funzioni.
Le funzioni su cui lo Stato ha tale competenza sono quelle di stimolo, promozione, organizzazione, supplenza, integrazione, controllo, garanzia di sicurezza e di giustizia, tutti compiti già individuati da Giovanni XXIII e ribaditi, da ultimo, da Giovanni Paolo II(40). Sono, quindi, funzioni essenziali ed insostituibili dello Stato "anche se i gruppi inferiori sono correttamente organizzati e adempiono la loro propria missione"(41). Sono i pre-requisiti, consentono di creare le condizioni, per l’instaurazione di una società basata sulla libera proliferazione dei ‘corpi intermedi’ attraverso cui è poi possibile la piena realizzazione dell’essere persona(42).
‘Corpi intermedi’, ‘società inferiori’, ‘comunità inferiori’, ‘gruppi sociali’, ‘organismi intermedi’, ‘unità sussidiarie’: sono tutte espressioni che ricorrono infallibilmente accanto al termine ‘sussidiarietà; essi sono la logica conseguenza di una visione pluralista della società(43).
A tal proposito si parla anche di ‘dottrina delle società intermedie’(44) o di ‘teoria dei corpi intermedi’(45) ed è direttamente collegata all’idea di socialità dell’uomo, alla natura sociale dell’uomo, per cui l’associarsi, lo stare in gruppo, è un dato antropologicamente assodato(46) e ha lo scopo di soddisfare bisogni a diversi livelli di complessità.(47)
Le società (intese come raggruppamenti di individui più o meno organizzati per un fine comune)(48) preesistono allo Stato ed è perciò che L. Lorenzetti scrive che la teoria dei corpi intermedi in termini antistatalisti ("per rivendicare privilegi, arrogarsi competenze, in contrapposizione col potere statale") è da rivedere:
"La logica da seguire non è quella della difesa di fronte allo stato, quanto piuttosto della costruzione di uno stato come luogo direttivo e unificatore dove il particolare e gli interessi legittimi dei gruppi si aprano obbligatoriamente al bene di tutta la comunità"(49);
"la ragione portante del pluralismo non è l’affermazione astratta di un principio di libertà e tanto meno l’affermazione di un potere di fronte ad un altro potere, ma la coscienza di un migliore servizio all’uomo"(50).
Scrive Papa Giovanni Paolo II:
"Sembra, infatti, che conosce meglio il bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso"(51).
In quest’ottica lo Stato, ci dice E. Chiavacci:
"vale solo come gradino necessario per l’estensione della carità a raggi sempre più ampi. […] Lo stato è, e deve comprendersi come un momento o un modo contingente di essere della società civile"(52).
Stato, corpi intermedi, individui hanno la stessa dignità e diritto ad esistere e non esauriscono i modi in cui si può svolgere la vita associata per il raggiungimento del bene comune(53).
Nel principio di sussidiarietà è evidente la compresenza di diversi elementi, tra loro opposti che riescono a convivere nella stessa enunciazione.
Si tratta del diritto-dovere dello Stato di intervenire nello svolgersi della vita societaria del singolo in quanto tale e/o in quanto associato.
E’ un diritto in virtù di quelle che qui sono state chiamate competenze originarie. E’ un dovere alla luce del principio di solidarietà quando l’intervento indiretto non è sufficiente a garantire il cammino verso il bene comune con grave pregiudizio della dignità umana(54).
Ma si tratta anche, egualmente e contemporaneamente, del dovere di non intervenire nel momento in cui l’entità inferiore o quella ad essa più prossima trova soluzioni adatte e non pregiudizievoli per il bene comune in virtù della libertà d’autonomia(55).
Lo Stato trova nel principio di sussidiarietà la legittimazione e il limite al suo potere di intervento.
Riguardando alla storia del principio di sussidiarietà e alle circostanze storiche nelle quali la sua organica enunciazione si è andata formando, appare evidente l’evoluzione, e i motivi di tale evoluzione, del contenuto di questo principio. Esso nasce in un contesto liberista come esigenza di responsabilizzare l’autorità statale nei confronti dei più deboli e dei più poveri (il riferimento è a Ketteler per il quale i corpi intermedi sono posti come garanzia dagli abusi) e si sviluppa in un contesto che ha visto i pericoli dell’interventismo statale e gli eccessi del comunismo. Il principio di sussidiarietà diviene così "il principio difensivo del singolo di fronte al potere politico"(56). Dagli anni ’70 in poi il principio di sussidiarietà subisce un ripensamento alla luce della mondializzazione dei problemi, della consapevolezza dell’accresciuta interdipendenza, della crisi delle democrazie occidentali e delle disfunzioni dello stato assistenziale.
La crisi del concetto di Stato va vista, quindi, come esigenza di rivisitazione del suo ruolo e delle sue competenze e, in un’epoca di spinte autonomiste all’interno e spinte federative all’esterno dello Stato stesso, che vede messo in pericolo il tradizionale concetto di sovranità abituato com’era all’idea di doverlo difendere da tutto e tutti e che si trova ad affrontare anche i pericoli della globalizzazione e i processi di frammentazione(57), il principio di sussidiarietà si pone come principio organizzativo universalmente applicabile per le sue caratteristiche di flessibilità e dinamicità.
Occorre precisare che durante tutta la trattazione si sono utilizzati pressoché indifferentemente i termini di Stato, entità superiore, società.
Il motivo sta nel presupposto dal quale parte chi scrive e cioè che il principio di sussidiarietà è, si ribadisce, un principio organizzativo sia sociale che politico e la sua applicazione può avere carattere universale. Come abbiamo avuto modo già di accennare, lo Stato è solo un tassello di un cammino verso una pacifica organizzazione mondiale(58).
2. Il dibattito in Italia.
Il dibattito relativo alla crisi dello Stato sociale, al centralismo, all’inefficienza uniti alle spinte secessioniste del Nord e alle spinte integrative dell’Europa, ha come filo conduttore, in Italia, il costante riconoscimento della necessità della riforma della II Parte della Costituzione presentata come soluzione di tutti i mali della nostra nazione.
Tra i temi trattati, il dibattito che ne è seguito si è acceso sull’art. 56 del testo licenziato dalla Bicamerale volto ad introdurre il principio di sussidiarietà nel testo costituzionale.
Nell’arco di un paio d’anni si susseguono convegni, interventi, dibattiti in varie sedi e ci si chiede cosa sia, a cosa serva, quali conseguenze possa portare con sé l’introduzione di questo principio nel nostro sistema istituzionale(59).
Quel che risulta chiara è l’identificazione di due dimensioni, di una duplice valenza, del principio di sussidiarietà. Si tratta della sussidiarietà in senso verticale relativa all’organizzazione delle competenze tra enti pubblici locali e Stato e la sussidiarietà in senso orizzontale relativa ai rapporti tra pubblici poteri e autonomie private(60).
Mentre c’è chi ritiene che l’articolo licenziato dalla Bicamerale introduca entrambe le dimensioni del principio di sussidiarietà, altri sostengono che esso si riferisca alla sola dimensione verticale, tralasciando quella orizzontale, quella che garantirebbe il riconoscimento dell’autonomia privata(61).
Benché il fallimento della Bicamerale abbia rimandato la questione relativa all’introduzione di tale articolo, resta il fatto che la vaghezza dei termini usati e, in certi casi, l’intento di strumentalizzare tale vaghezza, pone l’osservatore di fronte al contrapporsi di interpretazioni diverse, addirittura opposte.
Non si tratta, però, di riconoscere le due dimensioni del principio di sussidiarietà che, peraltro, già alcuni hanno notato siano difficili da scindere "perché, nell’applicazione concreta, le interferenze tra sussidiarietà orizzontale e verticale sono molte"(62), qui si vuole riaffermare l’originaria e naturale unità del principio. Esso non ha aspetti, non ha dimensioni ed esprime un preciso disegno politico e sociale fondato sull’armonia.
3. In Europa.
La storia dell’Unione Europea, invece, sembra ormai definitivamente improntata al principio di sussidiarietà. Il dibattito collegato a tale principio è giunto ad una fase matura in ragione del fatto che di esso se ne ritrova traccia già a partire dagli anni 80.
In sede di elaborazione del Trattato di Amsterdam, è stato approvato un ‘Protocollo sull’applicazione del principio di sussidiarietà e di proporzionalità’ il quale completa il contenuto dell’art. 5 del Trattato CE formalizzando e recependo integralmente le conclusioni del Consiglio Europeo di Birmingham del 16 ottobre 1992 e quelle del Consiglio Europeo di Edimburgo dell’11 e 12 dicembre 1992(63).
Il problema del principio di sussidiarietà, nonostante l’accordo sui criteri-guida oramai ufficialmente in vigore, resta quello della giustificazione teorica e dell’interpretazione di un principio senza dubbio dinamico ma anche fortemente problematico. Tali interpretazioni possono sinteticamente definirsi come pro-Unione o pro-Stati a seconda della valenza positiva o negativa riconosciuta all’intervento comunitario.
La soluzione adottata dal Protocollo sembra quella di un "criterio neutro per la ripartizione del potere d’agire tra i vari livelli di governo, sul rispetto del quale vigilano le istituzioni comunitarie"(64).
Ciò che ne emerge, però, è un principio di sussidiarietà volto a considerare e a mantenere l’azione comunitaria come secondaria rispetto all’azione dei singoli Stati. Quell’accezione di neutralità precedentemente evidenziata sembrerebbe scemare nei successivi paragrafi del testo. In realtà, quanto descritto non sembra dare adito a nessun tentativo di comprimere o ampliare le competenze dell’uno o dell’altro attore. Quella che ne viene fuori è certamente un’idea di elastico applicata all’azione comunitaria.
Senonché, l’impressione è che venga trattato il solo aspetto relativo al dovere di non-ingerenza, insito nel principio di sussidiarietà, accompagnato da una concezione di intervento secondario con funzione di supplenza tralasciando quel diritto-dovere di intervento caratterizzato da azioni di stimolo, coordinamento, promozione, organizzazione, integrazione, controllo e garanzia di sicurezza che abbiamo visto essere parte integrante della corretta applicazione del principio di sussidiarietà nella sua accezione originaria e che ricade in capo all’entità superiore rispetto alle inferiori.
Il fatto vero è che il principio di sussidiarietà è inserito in un articolo (l’art. 5 del Trattato CE) complesso che annovera altri due principi che, a ben vedere, devono inevitabilmente integrarsi con esso in una visione d’insieme.
Il 1° comma sancisce il principio delle attribuzioni di competenze: l’ambito nel quale la Comunità può esercitare i propri poteri è delimitato dalle competenze conferite e dagli obiettivi assegnati dai Trattati. Sono queste le competenze esclusive.
Il 2° comma sancisce il principio di sussidiarietà mentre il 3° comma esprime il cosiddetto principio di proporzionalità talmente correlato a quello di sussidiarietà che il protocollo sull’applicazione, più volte citato, li considera congiuntamente. Tale comma recita:
"L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato".
Nel suo insieme l’art.5 contiene tutti gli elementi del principio di sussidiarietà nel suo senso originario poiché tra le competenze assegnate vi sono quegli interventi di coordinamento, di stimolo, di integrazione, e così via, di cui dicevamo e che si concretizzano nelle varie politiche previste dal Trattato CE mentre il principio di proporzionalità in sé è già integrato con quello di sussidiarietà, nel senso (parziale) ivi accolto, a motivo della regolamentazione congiunta della loro applicazione e rappresenta l’aspetto limitativo del principio stesso.
4. Conclusioni.
L’etimologia della parola ‘sussidiarietà’, ricollegandosi al significato militare di truppe di riserva, sembra richiamare il concetto di ‘supplenza’. Ma, il nostro principio non è assolutamente riducibile o identificabile con tale termine nel senso di sostituzione, del ‘non agire fino a quando’ in quanto l’entità superiore ha compiti suoi propri che è tenuta ad adempiere a prescindere dalla sufficienza dell’azione dell’entità inferiore.
Forse l’adozione del termine ‘sussidiarietà’ è riconducibile e giustificabile nel più generico significato del termine subsidium ossia ‘aiuto’, sostegno’, ‘rimedio’(65). In questo caso, però, non dovrebbe abbracciarsi uno solo di questi significati ma tutti e tre assieme per avvicinarsi ad un’idea un po’ più completa di ciò che per sussidiarietà si deve intendere.
L’applicazione della sussidiarietà non è riducibile a un mero processo di decentramento. Anche in questo caso i due termini sono concettualmente lontani e l’esperienza europea ci spiega che non sono identificabili: l’entità superiore per decentrare, delegare competenze, deve prima esercitarle e l’Unione, in quanto cantiere aperto, è lontana da questa immagine. Eppure il principio di sussidiarietà è sancito, il suo esercizio è regolamentato e il suo rispetto soggetto a vigilanza.
Inoltre, decentrare significa decidere quali, come e in che misura, assegnare competenze all’entità inferiore. Parafrasando, il decentramento dà l’idea di competenze octroyées. Ma come si ‘concede’ si può anche ‘negare’: una volta ‘accordato’ l’esercizio di una funzione, l’entità superiore è ugualmente legittimata a togliere tali competenze riuscendo sempre ad addurre motivazioni plausibili forte del ruolo delegante in quanto, in questo disegno, la titolarità delle competenze è in capo all’entità superiore che le gestisce con carattere di imperium. "Ogni forma di decentramento, - spiegava Gaspare Ambrosini - anche se è esteso, implica sempre l’idea di delegazione, di trasferimento di poteri dal centro ad enti od istituti della periferia o comunque ad entità non statali, ed implica conseguentemente la facoltà di revocarli"(66).
Tutto ciò contraddice visibilmente quanto stabilisce il principio di sussidiarietà originariamente inteso.
Occorre considerare, inoltre, che parlare esclusivamente di decentramento in tema di sussidiarietà significa limitarsi all’aspetto politico-amministrativo della convivenza umana mentre la sussidiarietà mette in gioco anche e innanzitutto la società civile in un disegno organizzativo che vede i due aspetti imprescindibili. Non a caso la definizione contenuta nella Quadragesimo Anno parla genericamente di "comunità", "maggiore e più alta società" o "minori e inferiori comunità"(67) senza distinguere tra istituzioni politiche e organizzazioni sociali ma è pacifico che si riferisca inequivocabilmente anche, e soprattutto, allo Stato.
A conferma di ciò possiamo leggere, sempre nella Quadragesimo Anno, qualche rigo dopo:
"Perciò è necessario che l’autorità suprema dello Stato, rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento […] allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità"(68).
L’entità politico-istituzionale dovrebbe ‘rimettere’ anche ad entità tipiche della società civile. E non ‘concedere’ o ‘delegare’ ma ‘rimettere’ nel senso che ‘trasferisce’ ma, può dirsi anche, nel senso che ‘restituisce’. La situazione storico-politica del tempo e la forma prescrittiva della frase in questione sembrano accreditare quest’ultima considerazione.
La ‘sussidiarietà’ non è un concetto di diritto amministrativo, è autonoma rispetto al ‘decentramento’ e, semmai, ne usa le implicazioni giuridiche per giungere alla realizzazione del suo disegno in campo istituzionale. Per implicazioni giuridiche deve intendersi il processo normativo che viene ad instaurarsi per la realizzazione del decentramento amministrativo, genericamente inteso, e che, in una struttura fortemente accentrata, sarebbe un passo verso la realizzazione del progetto che la sussidiarietà presuppone ed implica.
Il termine ‘sussidiarietà’ è ingannevole rispetto al suo contenuto perché pone al centro dell’attenzione l’entità superiore, ciò che può e non può fare inducendo a dibattere perciò sui suoi diritti.
Al contrario, lo scopo è quello di valorizzare e porre al centro la persona, e l’entità inferiore, come soggetto responsabile e creativo che, in quanto singolo e in quanto associato, contribuisce alla realizzazione del bene comune. E’ questo il disegno costruito dalla sussidiarietà.
Proprio per porre fine all’ambiguità terminologica ed eliminare ogni rischio di inganno Eugenio Guccione conia una nuova espressione:
"A tal riguardo saremmo propensi a chiamare principio di autoefficienza questo principio di sussidiarietà. […] "Autoefficienza", a nostro avviso, dice di più. E’ un nome più chiaro, più evidente. Si lascia cogliere subito nella sua essenza"(69).
"Con il termine "autoefficienza", fermo restando il dovere degli enti superiori (e, fra tutti, lo Stato) a "sussidiare" gli inferiori, si vuole mettere maggiormente in rilievo il diritto di ciascun ente ad autogestirsi nei limiti delle proprie risorse e possibilità"(70).
Come il termine ‘sussidiarietà’, quello di ‘autoefficienza’ pone l’accento sui soggetti protagonisti del principio stesso. Solo che, in questo secondo caso, il nuovo nome ha il pregio di riaffermare la centralità e il protagonismo dell’ente inferiore.
Posto che la difficoltà sta proprio nell’identificare un termine che sia sintesi della complessa realtà che il principio costruisce e descrive, si potrebbe proporre un’ipotesi interpretativa di tale nuova denominazione che, estremizzando, si mostri soggetta ad un’applicazione dalle conseguenze anche questa volta distorte del principio stesso. Gli enti inferiori (si può dire gli enti in genere) hanno la tendenza a non riconoscere i "limiti delle proprie risorse e possibilità". Vi è il rischio che l’entità inferiore tenda a non accettare l’aiuto sussidiario non riconoscendo la sua insufficienza con evidenti pericoli di inefficienza della sua azione e conseguenze negative sul raggiungimento del bene comune.
Accogliendo tale nuova denominazione, chi si ponesse ad interpretare il principio sulla base di questa nuova sintetica definizione terminologica (così come è stato possibile fare per ‘sussidiarietà’) potrebbe ravvisarvi un diritto all’autoefficienza che, inteso come assoluto, porterebbe con sé i rischi di un suo esercizio egoistico (come diritto-pretesa ad essere autoefficiente) da parte di entità insofferenti a qualsiasi valutazione di efficienza promossa dall’esterno che vivrebbero come ingerenza. Estremizzando, in un’evoluzione negativa e non auspicabile, viene richiamata l’immagine di una struttura atomizzata, non comunicante, in cui ogni ente potrebbe chiudersi a riccio in un atteggiamento difensivo, non solidale, anziché aprirsi al pluralismo creativo. Sarebbe un’autoefficienza che si traduce in autolimitazione per propria volontà di essere onnicomprensiva. E’, comunque, un’ipotesi che dovrebbe sottoporsi al vaglio di interpretazioni e riflessioni più approfondite.
In una prospettiva diversa, c’è chi, prendendo direttamente spunto dal naturale ambito politico-istituzionale in cui si ritrova meglio realizzata l’applicazione di tale principio (la federazione) ha parlato di ‘principio federativo’.
È il caso di Benjamin Häring che, nel suo già citato Liberi e fedeli in Cristo, intitola un suo paragrafo: Il principio federativo (principio di sussidiarietà) come risposta alla necessità di un’autorità mondiale(71).
Sottolineando che in questo autore tale principio è visto in una più che condivisibile prospettiva mondiale e cosmopolita(72) (che è intrinseca al principio stesso e che la Dottrina Sociale della Chiesa non ha mancato mai di sottolineare)(73) si nota come egli ritiene il principio di sussidiarietà il principio della struttura federativa atta, quest’ultima, ad organizzare l’intera famiglia umana.
Ma anche per Eugenio Guccione:
"federalismo e principio di sussidiarietà procedono di pari passo. Anzi si può dire che costituiscono un binomio, in quanto una federazione non basata sul principio di sussidiarietà sarebbe un organismo senza vita e il principio di sussidiarietà al di fuori di un sistema federale non avrebbe efficacia"(74).
Senonché il richiamo diretto al federalismo rischia di non trovare consensi fra quanti vedono in questa espressione il concretizzarsi di una struttura che divide anziché unire (si pensi a Mazzini).
La denominazione ‘federativo’ richiama immagini e strutture organizzative non accettabili neanche da parte di chi vede la sovranità nazionale in campo internazionale come un bene intangibile e, in questo caso, l’applicazione e lo stesso riconoscimento del principio potrebbero essere soggetti ad ostruzionismo e incontrerebbero non pochi ostacoli e difficoltà.
Infine, si nota che ‘federativo’ è un termine che pone l’accento sull’aspetto istituzionale richiamando alla mente un’organizzazione politica la cui preoccupazione è la divisione di competenze fra i diversi livelli della struttura federale. È ciò che accade al nostro principio in campo europeo o quando si tratta di decentramento: l’attenzione è rivolta a regolamentare quali competenze devono svolgere quali istituzioni. Invece, ribadiamo, il principio di sussidiarietà ingloba e tratta anche dell’organizzazione societaria, è un principio che riguarda l’organizzazione umana in genere.
La ricerca di una denominazione universalmente accettabile e, al contempo, rispettosa della sostanza del principio è impresa ardua.
Sarebbe possibile proporre di spostare l’attenzione sull’oggetto del principio e non sui soggetti e tentare di riflettere sul concetto di competenza.
Luigi Lorenzetti, trattando la voce Sussidiarietà nel Dizionario delle idee politiche, a un certo punto parla di "principio di competenza" come principio in base al quale l’autorità politica svolge il suo ruolo di rispettare e favorire la responsabilità delle persone e dei gruppi intermedi.(75)
La questione che sorge qui è la relazione tra diritto e competenza. I due concetti certo non coincidono. Sia l’entità superiore sia l’entità inferiore hanno il diritto ad esercitare determinate competenze. La distribuzione di tali competenze può variare in base ai luoghi e ai momenti storici proprio in virtù del principio in questione. In questa visione, però, vengono posti sullo stesso piano tutte le entità, non che non lo siano per dignità ma l’idea che viene richiamata è quella della competizione per l’accaparramento e l’esercizio di tali competenze quando, invece, la titolarità di tutte le competenze è in capo alla "persona" che le esercita in forma singola o associata e, in questo secondo caso, è come se ne delegasse l’esercizio all’entità di cui però fa parte o ne determina la costituzione (con la partecipazione attiva, con il voto…).
Si vuole dire che l’esercizio delle competenze da parte dei diversi enti di cui la persona fa parte non è altro che uno dei modi in cui la persona esercita i diritti di cui è titolare. Il disegno del nostro principio è l’armonioso esercizio delle competenze dei diversi enti ai vari livelli in un’ottica collaborativa di corresponsabilità creativa. Spiegare cosa significhi concretamente questo è la maniera di giungere ad una denominazione che possa dirsi più vicina delle altre al senso di tale principio.
Ispirandoci a un testo scritto da Giuseppe Barbaccia e Francesco Conigliaro, La comunità politica(76), possiamo dire che
"la base portante della nostra teoria è il termine-concetto-realtà ‘persona’ come struttura"(77). "Il concetto di ‘persona’ risponde ad un’istanza sintetica e non analitica […] ed è l’unico che possa essere applicato all’essere umano, percepibile solo come ‘sistema’ di totalità e non confrontabile se non con se stesso"(78).
Il concetto di persona porta con sé i concetti corollari di "sussistenza, unità, identità, finitezza, inseità, perseità, automeditazione, razionalità, libertà, finalità, creatività, responsabilità, relazione"(79).
Ed è questo il protagonista del nostro principio che, ponendolo al centro del suo disegno, ne fa il soggetto attivo e creativo della sua applicazione.
Quello che si realizzerebbe è un disegno di organizzazione umana non gerarchizzata in cui la persona può realizzarsi ai vari livelli e nelle più diverse forme in una solidale responsabilità creativa dove i doveri e le responsabilità verso gli altri si coniugano con la creativa realizzazione di sé in un tutto armonioso.
Tutto ciò sembra sintetizzarsi nel nostro principio che, più che un principio regolativo, appare come il disegno di un modus vivendi, di un’organizzazione umana che rispetta e valorizza le diversità, in cui ciascuno (in quanto "sistema") si realizza in diversi ambiti decisionali o meno.
Ed ecco che le istituzioni politiche (strettamente intese) e chi ci è prossimo non vengono più sentite come "altro" ma come "noi" innescando processi di partecipazione responsabile e solidale.
Tutto questo si realizza non in un processo deterministico ma in un divenire volontaristico attraverso la diffusione di valori, di principi posti alla base di strutture democratiche pluralistiche e plurali che garantiscano il confronto, il dialogo a tutti i livelli per la realizzazione della partecipazione responsabile e che garantiscano il libero formarsi di spazi di dialogo per la realizzazione della partecipazione creativa.
Concordando con Paolo Ferrari da Passano(80) per quanto attiene al rifiuto di un’impostazione del problema nei termini statici di una gerarchia di soggetti che riduca il nostro principio alla individuazione delle "precedenze" di intervento(81), specchio di uno schema lineare volto alla sola considerazione e soluzione del rapporto soggetto-bisogno, occorre spostare l’attenzione sul rapporto soggetto-soggetto, che precede il rapporto soggetto-bisogno(82), partendo da una impostazione tridimensionale del principio, "più rispettoso della complessità sociale"(83), che vede il contemporaneo intervento di tutti i soggetti in ruoli diversi nelle varie fasi di soddisfacimento del bisogno stesso: l’entità superiore non è assente nella fase di intervento dell’entità inferiore che è, in prima istanza, protagonista dell’azione; l’entità inferiore non sparisce nella fase di intervento dell’entità superiore ma è presente con un diverso ruolo(84) (non da protagonista dell’azione ma da compartecipe, per esempio, come membro in spazi di dialogo). In ogni stadio, ogni persona e ogni entità svolge il suo ruolo che, rispetto al bisogno, può modificarsi (non è, quindi, statico). In questa visione tridimensionale, si è di fronte ad una sinergia tra ruoli tutti contemporaneamente operanti in misura diversa nelle diverse circostanze.
Universalizzando, si tratta della compartecipazione di tutti nei diversi ruoli, in misura diversa, per la realizzazione del bene comune come bisogno mondiale.
Ciò a cui si pensa è una comunità mondiale in cui la persona è libera di scegliere di realizzarsi in diversi ambiti creando tali ambiti in comunione dialogale con gli altri. In questa maniera ha la possibilità di soddisfare le sue esigenze, da quelle semplici a quelle complesse e, nel recupero dei valori di solidarietà e carità, si sentirà responsabile verso l’altro percepito come "noi" partecipando così alla realizzazione del bene comune.
Spariscono così le ambiguità che lasciano il posto ad un progetto realizzabile perché dinamico e universale in quanto fondato sulla persona.
Il nostro principio, così inteso, ci restituisce l’immagine di un mondo pacificato in cui ciascun individuo crea e partecipa a diverse entità comunionali che si incastrano ed hanno diversa dimensione tenuto conto delle esigenze per le quali vengono create. La partecipazione potrà essere diretta o per rappresentanza, ma anche in questo caso, la persona avrà sempre la possibilità di rappresentare i suoi interessi in quanto singolo o in quanto associato partecipando della vita democratica delle istituzioni politiche, da quelle locali a quelle mondiali.
Se l’ONU fosse un’autorità mondiale democratica per il governo delle questioni di carattere mondiale, nella costruzione del principio di sussidiarietà si dovrebbero avere istituzioni che, oltre a rappresentare i governi nazionali, rappresentassero i popoli e realizzassero canali di dialogo e partecipazione per le organizzazioni di categoria e per quanti fossero accomunati da un interesse da tutelare. Le decisioni verrebbero sempre prese di concerto con la più ampia consultazione e il più ampio accordo. Le procedure potrebbero non risultare snelle ma gli argomenti trattati sarebbero di carattere mondiale necessitando, quindi, del più ampio accordo.
Per questioni circoscritte, che non riguardano la globalità dei popoli, l’ente interessato sarebbe quell’istituzione regionale creata sulla base di affinità storiche, geografiche o economiche. Ci si può riferire al già consolidato esempio degli Stati Uniti d’America o alla costituenda Unione Europea che, intervenendo per le sole questioni di interesse comune, garantirebbe la rappresentanza dei governi nazionali nel Consiglio e dei popoli nel Parlamento europeo. L’Unione sembra strutturata anche per la partecipazione delle rappresentanze locali nell’elaborazione della normativa comune con il Comitato delle Regioni a cui affiancare il confronto con le rappresentanze associative.
Lo stesso schema dovrebbe ovviamente realizzarsi a livello statale con un Parlamento che veda la rappresentanza dei popoli in una camera e degli enti locali in un’altra e un governo che operi di concerto coi governi locali che rappresentano e discutono le proprie problematiche insieme alle associazioni dei cittadini creando così ambiti di dialogo e di concertazione per la soluzione comune di tali problematiche. Ciascuna entità, conservando la sua specificità, la metterebbe al servizio degli altri in un reciproco arricchimento.
E’ così che, a livello comunale, il proliferare dell’associazionismo dovrebbe essere accompagnato dal diffondersi di canali e ambiti di confronto e dialogo in cui tali associazioni possano esprimersi per la soluzione delle problematiche e la realizzazione delle iniziative. Il clima partecipativo darebbe libero sfogo alla creatività e il sentirsi partecipe stimolerebbe la solidarietà in una società sostenuta dal ritrovato valore della dignità umana che, in quanto libera di esprimersi, innescherebbe un processo incrementale in cui la consapevolezza dell’individualità realizzabile nella comunionalità che si arricchisce delle diversità porterebbe alla pacifica convivenza che, a partire dalla famiglia, si espanderebbe nel mondo.
Così, dalla famiglia al mondo, tutti dovrebbero potere esercitare il loro diritto ad esprimersi, a partecipare al governo comune nelle istituzioni che loro stessi creano ai diversi livelli e attraverso le associazioni che volontariamente fondano e utilizzano per l’espressione della loro creatività in una costruzione a incastro nella quale, si ribadisce, la consapevolezza della diversità e la libera espressione di tutte le diversità, come eguale dignità alla partecipazione del governo comune, realizzerebbe quell’unità che sarebbe la pace mondiale.
Il principio di sussidiarietà, quindi, più che un principio è un progetto, è la sintesi di quel progetto che, per potersi realizzare, deve diventare prima "una realtà nella mente, nei cuori e nella volontà di tutti i popoli"(85).
NOTE:
(1) -Trattato che istituisce la Comunità Europea adottato a Roma il 25 marzo 1957, entrato in vigore il 1° gennaio 1958 e ratificato in Italia con L. n.1203/57.
(2) -A. Verilli - S. Minieri, L’integrazione europea dopo Maastricht, Napoli, Edizione Simoni, 1996, p.106.
(3) -Trattato sull’Unione Europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993 e ratificato dall’Italia con L. n.454/92. L’articolo introdotto dal Trattato di Maastricht era l’art. 3B divenuto art. 5 con il Trattato di Amsterdam, firmato il 17 giugno 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999, che all’art. 12 prevede la rinumerazione di tutti gli articoli sia del Trattato CE sia del Trattato sull’Unione Europea.
(4) J. Höffner, La Dottrina Sociale Cristiana, Roma, Paoline, 1986, p.39.
(5) -Cfr. L. Lorenzetti, Sussidiarietà, in E. Berti - G. Campanini (a cura di), Dizionario delle idee politiche, Roma, Editrice Ave, 1993, p.884 dove, tra l’altro, si legge: "Sembra sia stato coniato da G. Gundlach uno dei redattori della Quadragesimo Anno (1931)"; B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, III, Roma, Paoline, 1981, p. 351; G. Mongiardo, Il Pensiero Sociale della Chiesa, Roma Tipografia Poliglotta Vaticana, 1968, p. 552; G. Dalla Torre, Il principio di sussidiarietà e lo sviluppo della società italiana, Prolusione d’inaugurazione del IX Corso della Scuola Diocesana di formazione sociale e politica presso il centro Don Orione, Palermo, 1998. Papa Giovanni XXIII, Mater et Magistra (40), in F. Pierini (a cura di), Le Encicliche Sociali, Milano, Paoline, 1996, p. 210.
(6) -Papa Pio XI, Quadragesimo Anno (80), in F. Pierini (a cura di), Le Encicliche Sociali, Milano, Paoline, 1996, p. 124.
(7) -L. Lorenzetti, Etica Sociale Cristiana, in T. Goffi-G. Piana (a cura di), Corso di Morale, IV, Brescia, Queriniana, 1985.
(8) J. Höffner, op. cit., p. 40.
(9) -Cfr. C. Millon-Delsol, Lo Stato della Sussidiarietà, (trad. R. Sapienza), Gorle, Casa Editrice CEL, 1995, p. 16: "Senza dubbio è stato Monsignor Ketteler che l’ha enunciato per primo, alla fine del XIX secolo e Pio XI gli ha dato la forma attuale nella Quadragesimo Anno nel 1931".
(10) J. Höffner, op. cit., pp. 42-43.
(11) -Cfr. B. Sorge, Introduzione, in R. Baione (a cura di), Il Discorso Sociale della Chiesa da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Brescia, Queriniana, 1988, pp. I-XXV.
(12) J. Höffner, op. cit., p. 41.
(13) -Ivi, pp. 41-42. Cfr, anche E. Guccione, Dal Federalismo mancato al Regionalismo tradito, Torino, Giappichelli Editore, 1998 il quale, parlando di Gioacchino Ventura e di Luigi Sturzo, scrive che il principio di sussidiarietà "sebbene mancasse ancora una sicura definizione, di cui soltanto nel 1931 si occuperà Pio XI con la Quadragesimo Anno, tuttavia era implicito nei loro scritti ed era chiaramente deducibile da essi" (ivi, p. 11).
(14) C. Millon-Delsol, op. cit..
(15) Ivi, p. 15.
(16) Ivi, p. 17.
(17) -Ivi, p. 16. "La sussidiarietà rappresenta […] un’idea politica e sociale specificamente europea, saldamente legata alla nostra tradizione" (Ivi, p. 10).
(18) -Quadragesimo Anno (15), p. 87: "la sola via di una salutare restaurazione [è] la cristiana riforma dei costumi". Cfr. anche ivi, (143), p. 157. Contrario alla concezione di ‘terza via’ si dirà Papa Giovanni Paolo II nella SRS (41), p. 645: "La dottrina sociale della chiesa non è una ‘terza via’ tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. […] essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale".
(19) -Cfr. Ivi, p. 13 e L. Lorenzetti, Sussidiarietà, in E. Berti-G. Campanini (a cura di), op. cit., p. 884; sul concetto di terza via come immagine della società alternativa a quella individualista (individualismo filosofico) e quella organicistica, cfr. C. Millon-Delsol, op. cit., pp. 180-183.
(20) -Quadragesimo Anno (80), in F. Pierini, op. cit., p. 124.
(21) -Per una esposizione sintetica di tale visione cfr. J. Höffner, op. cit., pp. 33-39; cfr. anche C. Millon-Delsol, op. cit., pp. 31-47 per una esposizione dello sviluppo storico di tale visione passando dall’organicismo al personalismo.
(22) J. Höffner, op. cit., p. 38.
(23) Rerum Novarum (26); cfr. anche Quadragesimo Anno (25).
(24) -Cfr. J. Y. Calvez-J. Perrini, Chiesa e società economica, Milano, Centro Studi Sociali, 1964, p. 510.
(25) Quadragesimo Anno (80).
(26) Cfr. J. Höffner, op. cit., p. 40
(27) J. Höffner, op. cit., p. 40; cfr. anche L. Lorenzetti, Sussidiarietà…op. cit., p. 884.
(28) -MM (51), p. 214. Per un’altra definizione si veda Concilio Vaticano II, Gaudium et spes (74), p. 263: "il bene comune si concreta nell’insieme di quelle condizioni di vita sociale che consentono e facilitano agli esseri umani, alle famiglie e alle associazioni il conseguimento più pieno della loro perfezione". Sul concetto di bene comune come legittimazione dello Stato cfr. A. Passerin D’entreves, La dottrina dello Stato, Torino, Giappichelli Editore, 1967, pp. 313-326.
(29) -Cfr. Centesimun Annus (51), p. 759 laddove, in tema di esigenza di ‘corresponsabilità’ che deve abbracciare tutti gli uomini, si legge "Questa esigenza non si ferma ai confini della propria famiglia, e neppure della nazione e dello Stato, ma investe ordinatamente tutta l’umanità, sicché nessun uomo deve considerarsi estraneo o indifferente alla sorte di un altro membro della famiglia umana".
(30) -Per quanto fin qui esposto circa la relazione tra i tre principi di sussidiarietà, bene comune e solidarietà e, conseguentemente, il concetto di socialità, cfr.: L. Lorenzetti, Etica…op. cit., pp. 70-72; J. Höffner, op. cit., pp. 35-38; E. Chiavacci, Principi di morale sociale, in Corso di Teologia Morale, Bologna, EDB, 1971, pp. 26-33; J. Y. Calvez-J. Perrin, op. cit., pp. 196-198.
(31) -Centesimus Annus (48), p. 754, riportato alla p. 27 di questo capitolo.
(32) -Sul tema sussidiarietà-supplenza e compiti dello Stato cfr. J. Y. Calvez-J. Perrini, op. cit., pp. 195-196, 507-509, 512-513. Cfr. anche C. Millon-Delsol, op, cit., pp. 10-12
(33) -Cfr. ivi, p. 513. Per l’idea di insufficienza della società cfr C. Millon-Delsol, op. cit., che la pone alla base della sua riflessione sul principio di sussidiarietà, e in particolare il cap. I dove ricerca le radici del principio presso gli antichi greci e scrive: "l’idea di non ingerenza significa una ingerenza limitata all’utilità circoscritta dalle insufficienze della società" (p. 28).
(34) -"Qualora […] intervenga l’organizzazione superiore, lo scopo principale dovrebbe essere quello di permettere alla prima di riprendere il suo ruolo il più presto possibile" (L. Lorenzetti, Etica…op. cit., p.71). Cfr. anche, dello stesso autore, Sussidiarietà…op. cit., p. 886.
(35) -Giovanni Paolo II ci mette in guardia a tal proposito: "Simili interventi di supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo" per impedire l’ampliamento dell’intervento statale "in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile" e, a tal proposito, si riferisce alle disfunzioni dello Stato assistenziale che provoca la deresponsabilizzazione della società. (Cfr. CA (48), pp. 754-755).
(36) -Pio XI definisce i compiti dell’autorità suprema (direzione, vigilanza…) come "le parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle" (Quadragesimo Anno (81), cit.).
(37) -C. Millon-Delsol, op. cit., p. 129.
(38) L. Lorenzetti, Sussidiarietà…op. cit., p. 885.
(39) -Se, però, si sposta il centro dallo Stato all’uomo o, meglio, alla persona (in quanto essere individuale e sociale), ecco che il termine ‘ascendente’ appare superfluo.
(40) -Mater et Magistra (40), pp. 209-210; Centesimus Annus (48), pp. 753-756. Cfr. anche L. Lorenzetti, La società e l’uomo, in L. Lorenzetti (diretto da), Trattato di etica teologica, III, Bologna, EDB, 1981, p. 94.
(41) -J. Y. Calvez-J. Perrin, op. cit., p. 513.
(42) -Cfr. E. Chiavacci, op. cit., p. 30.
(43) -Cfr., tra gli altri, G. Mattai, Morale Politica, Bologna, EDB, 1971, pp. 167-168, 182-184: "Nel linguaggio dei documenti ecclesiastici vengono chiamati corpi intermedi e dai giuristi Stato-comunità. […] Gli enti privati con le loro autonomie locali non possono essere soffocati da un eccessivo interventismo statale, ignaro del principio di sussidiarietà e della insostituibile preziosità delle iniziative private e del pluralismo associativo" (p. 183).
(44) -E. Chiavacci, op. cit., p. 27.
(45) -L. Lorenzetti, La società…op. cit., pp. 94-95.
(46) -Cfr., p. es., G. Costanzo, La costruzione dell’uomo (Elementi di antropologia culturale), Roma, Bulzoni Editore, 1970, pp. 27-28.
(47) -Cfr. E. Chiavacci, op. cit., pp. 27-28. Sul tema del pluralismo sociale come modo di rispondere liberamente nelle forme più varie alle esigenze della personalità umana e non come affermazione astratta di un principio di libertà né di un potere di fronte ad un altro potere cfr. L. Lorenzetti, Etica…op. cit., pp. 65-70.
(48) -"uno stesso uomo si trova in una serie di società globali di vario tipo e ampiezza, più o meno coordinate fra di loro" che si propongono "il mutuo aiuto generico, in tutte o in molte situazioni di bisogno" (E. Chiavacci, op. cit., p. 26).
(49) L. Lorenzetti, La società…op. cit., p. 95.
(50) L. Lorenzetti, Etica…op. cit., p. 69.
(51) Ca (48), p. 755.
(52) E. Chiavacci, op. cit., p. 29.
(53) -Cfr. G. Mattai, Morale Internazionale, in Corso di Teologia Morale, Bologna, EDB, 1972, p. 29: "Lo Stato […] non è né la prima né l’ultima forma di politicità; anzi esso rappresenta una specie di logos spermatikòs rispetto a quella più alta modalità della vita sociale e della storia che è la comunità definitiva universale".
(54) Cfr. J. Y. Calvez-J. Perrin, op. cit., p. 509.
(55) Cfr. C. Millon-Delsol, op. cit., p. 14.
(56) E. Chiavacci, op. cit., p. 32.
(57) -I riferimenti sono agli Stati occidentali, alla loro cultura e alla loro storia. Per i Paesi in via di sviluppo, organizzazioni statali fragili, sovranità deboli o democrazie inesistenti, il discorso sullo stato sarebbe da rivedere ma non come un passaggio obbligato per il loro sviluppo anzi, per essi potrebbe essere vantaggiosa l’applicazione del principio di sussidiarietà come la si intenderà definire in questo lavoro senza dovere attendere che le loro organizzazioni politiche attraversino le fasi già attraversate dallo Stato occidentale. Sull’idea di organizzazioni politiche senza stato e sulla autonomia del concetto di potere politico rispetto a quello di Stato cfr. G. Pasquino, Introduzione, in G. Pasquino (a cura di), Manuale di scienza della politica, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 14 e 16-17. Cfr. anche A. Panebianco, Burocrazie pubbliche, in ivi, p. 393. Cfr. anche F. Attinà, La politica internazionale contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1989, pp.12-14 e 72-99 per una prospettiva sistemica della storia dello stato fino all’odierno sistema globale. Per il problema frammentazione/globalizzazione cfr. F. Attinà, Tendenze e problemi della globalizzazione e della frammentazione, in AA.VV., Unione Europea e Mediterraneo fra globalizzazione e frammentazione, Bari, Cacucci, 1996, pp. 11-29. Per una riflessione filosofico politica sul concetto di Stato e la sua giustificazione cfr. A. Passerin D’entreves, op. cit., in cui, al cap. III, viene analizzata la genesi del termine ‘Stato’.
(58) -Senza, con questo, cadere nell’evoluzionismo di Spencer e J. Novicow che nel libro La Fédération de l’Europe, Paris, Félix Alcan Editeur, 1901, scrive: "La fédération triomphera un jour, C’est inevitable. Mais quand luira ce jour? Voilà ce que nul mortel ne saurait dire" (p. 729). "La fédération poussera au cosmopolitisme" (p.327). "Par extensions successives, l’aire de la fédération européenne finira par s’étendre sur le globe entier" (p. 757).
(59) -A titolo di esempio si segnalano i cicli di seminari organizzati dall’Università LUISS Guido Carli su temi di carattere costituzionale, tenuti da un gruppo di costituzionalisti romani, i cui resoconti sono consultabili sul sito www.luiss.it/semcost. Il ciclo di seminari 1997/98 ha riguardato proprio l’analisi dei lavori della Bicamerale e il principio di sussidiarietà è stato oggetto specifico di due di questi: Sussidiarietà, autonomie territoriali e sociali del 14/11/1997 e Principio di sussidiarietà, poteri pubblici e autonomia privata del 05/12/1997.
(60) -Cfr. G. Dalla Torre, Il principio di sussidiarietà …op. cit., p.1; G. Vittadini, Un patto nuovo tra Stato e Società, estratto da "La Repubblica" del 26.04.98 e pubblicato sul sitowww.cuneo.net/sussidiarietà, G. Bressa, op. cit., p.1 e C. Mercuri-F. Politi (redatto da), Principio di sussidiarietà, poteri pubblici e autonomia privata, Seminario sulla revisione della Costituzione del 05.12.1997 pubblicato sul sito www.luiss.it/istituti/stugiu/semcost. Cfr. anche P. Ferrari Da Passano, Il principio di sussidiarietà, "La Civiltà Cattolica", II, 1998, pp. 544-546.
(61) -Cfr. A. Chiappetti e G. C. De Martin relatori al seminario Principio di sussidiarietà, poteri pubblici…op. cit., p. 8; G. Vittadini, op. cit., p. 2; P. L. Fornari, Sussidiarietà, associazioni in trincea, "Avvenire" del 01.12.1998, p. 4 : "Come ha scritto l’economista Stefano Zamagni la versione approvata dell’art. 56 recepisce la dimensione verticale della sussidiarietà. Ma nega quella orizzontale".
(62) -Resoconto dell’intervento di P. Ridola al seminario Principio di sussidiarietà …cit.. Cfr. anche P. Ferrari Da Passano, op. cit., p. 552: "le due dimensioni si implicano a vicenda. Secondo noi, se è comprensibile e giustificato tenere distinti i due aspetti, è altrettanto evidente che essi sono interdipendenti".
(63) -Cfr. A. Tizzano, Brevi considerazioni introduttive sul Trattato di Amsterdam, "La Comunità Internazionale", LII, 4/1997, p. 688.
(64) Ibidem.
(65) -Cfr. L. Castiglioli-S. Mariotti, Vocabolario della lingua latina, Torino, Loescher, 1996, p. 1240.
(66) -Questa spiegazione venne data da Gaspare Ambrosini durante la commemorazione del 30° anniversario della prima seduta dell’Assemblea Regionale Siciliana in un discorso nel quale egli ribadì la distinzione tra i concetti di ‘decentramento’ e ‘autonomia’. Quest’ultima comporta il riconoscimento alle regioni, a livello costituzionale, di poteri irrevocabili da parte del legislatore ordinario (brano riportato in E. Guccione, Dal Federalismo… op. cit., p. 24).
(67) Quadragesimo Anno (80), in op. cit.
(68) Ivi (81).
(69) E. Guccione, Dal Federalismo…op. cit., pp. 105-106.
(70) Ivi, p. 105, nota 3.
(71) B. Häring, op. cit., p. 481.
(72) -Ivi, p. 442: "Oggi il principio di sussidiarietà e la struttura federativa sono d’importanza vitale, proprio perché è necessario che si stabiliscano organizzazioni mondiali e si instauri una qualche forma di autorità mondiale".
(73) -Circa la concezione della comunità mondiale nella Dottrina Sociale della Chiesa cfr., tra gli altri, i già citati J. Höffner, op. cit., tutta la sezione V (La Comunità dei popoli), pp. 271 ss. e G. Mattai, Morale internazionale, cit., pp. 22-29.
(74) E. Guccione, Dal Federalismo…op. cit., p. 105.
(75) L. Lorenzetti, Sussidiarietà…op. cit., p. 885.
(76) G. Barcaccia-F. Conigliaro, La comunità politica, Palermo, Ila Palma, 1979.
(77) Ivi, p. 8.
(78) Ivi, p. 16.
(79) Ivi, p. 69
(80) Cfr. P. Ferrari Da Passano, op. cit., pp. 546-551.
(81) Cfr. ivi, pp.547-548.
(82) -Cfr. ivi, pp.544-546. "il dare la prevalenza al rapporto tra soggetti piuttosto che a quello con le cose spiega meglio come, per esempio, nella riflessione della dottrina sociale della Chiesa, il principio di sussidiarietà non sia ormai più considerato isolatamente ma sempre in relazione con l’altro – quasi un correttivo – della solidarietà. Quest’ultimo ha proprio lo scopo di ricordare i legami (appunto di solidarietà) che intercorrono tra i vari soggetti" (ivi, p. 546).
(83) Ivi, p. 548.
(84) Cfr. ivi, p. 549.
(85) B. Häring, op. cit., p. 482.