AA. VV., La Legazia Apostolica. Chiesa, potere e società in Sicilia in età medievale e moderna, a cura di Salvatore Vacca, presentazione di Cataldo Naro, Caltanissetta - Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2000, pp. 302.
Il volume inaugura una nuova collana di studi dedicati alla storia e alla cultura siciliana e raccoglie le relazioni del Convegno organizzato dal Centro per lo studio della storia e della cultura di Sicilia della Facoltà Teologica di Sicilia, tenuto il 30-31 ottobre 1998 a Roma presso l’Istituto Luigi Sturzo.
Argomento del seminario: la storia della Legazia Apostolica, istituto giuridico inaugurato dalla bolla Quia propter prudentiam tuam di Urbano II, con la quale, nel 1098, il conte Ruggero diventava "legato nato" della Chiesa romana come ricompensa per avere liberato la Sicilia dagli Arabi e averla restituita alla cristianità. Nel corso dei secoli quella prerogativa fu sottoposta a restrizioni, annullamenti, reintegrazioni offrendo spesso l’occasione a dispute più o meno violente come quella del 1711 nota come controversia liparitana diventata, nel nostro tempo, tema di un famoso libro di Leonardo Sciascia.
Il monarca siciliano, in quanto legato nato, aveva ampi poteri di governo espressi nella formula Regia monarchia sicula che comprendeva, oltre al diritto temporale, anche quello ecclesiastico.
Relatori degli otto contributi, di cui consta il volume, sono, secondo l’ordine degli interventi: Salvatore Fodale, Salvatore Vacca, Ferdinando Maurici, Leo De Simone, Gaetano Zito, Adolfo Longhitano, Rino La Delfa, Francesco Michele Stabile. Trattasi di docenti dell’Università di Palermo, della Facoltà Teologica di Sicilia e dello Studio teologico San Paolo di Catania, i cui lavori hanno il merito di aver segnalato una nuova e importante documentazione che permette di approfondire il tema della Legazia Apostolica e di affrontarlo in una prospettiva innovativa.
Salvatore Fodale sottolinea come lo storico che affronta lo studio della Legazia Apostolica in Sicilia si ritrova a percorrere l’intera storia della politica ecclesiastica isolana poiché gli istituti del giurisdizionalismo siciliano furono assorbiti dalla Regia Monarchia e presentati come corollari del potere di Legazia. Egli si esprime per un ridimensionamento del privilegio concesso nel 1098 sostenendo che "l’autorità del conte sulla Chiesa si giustificava per se stessa, a prescindere dal riconoscimento ottenuto dalla Sede apostolica".
Salvatore Vacca, nel suo intervento, offre una "visione d’insieme di un tema le cui indicazioni ed informazioni generali e particolari, su fatti e momenti, uomini ed eventi collegati tra di loro sono già molto noti" (p. 23), ma che, con l’analisi delle fonti – normanne, sveve, romane filonormanne, filosveve e filoromane - permette di rivisitare criticamente quelle stesse fonti spesso scarse, ambigue, parziali e discordanti. Vacca afferma che i normanni si rivelano vassalli del papato, ma la loro forma di vassallaggio "non prevede beneficio e, pur da posizioni inferiori, sono in condizione di imporsi sempre al loro dominus" (p. 63). I sovrani siciliani, cioè, da una parte hanno appoggiato il papato, dall’altra furono vassalli "indomabili, molto più potenti del loro signore, il papa, e poco scrupolosi nell’impiegare i mezzi di pressione politica e militare" (ibidem).
Ferdinando Maurici traccia la storia delle diocesi siciliane nei secoli XI e XII sottolineando come nel corso di poco meno di due secoli (dal 1061 al 1246) la Sicilia si fosse trasformata da provincia periferica del dar al-Islam in "terra cristiana e cattolica, neolatina, occidentale" (p. 85). Il vescovado di Troina viene fondato durante la conquista normanna; e fu da Troina, da San Marco, da Petralia che partì "l’avanzata normanna verso i valli profondamente islamizzati dell’isola".
Leo De Simone, nel suo contributo, si occupa dell’arte normanna in Sicilia come proiezione simbolica di modelli politico-teologici. Egli si serve di alcune significative "esemplificazioni che interagendo tra loro potranno costituire griglia ermeneutica utilizzabile per la corretta lettura […] di ogni reperto nella significazione linguistica del discorso fluente delle arti, in genere, e nella fattispecie durante il periodo normanno, e nel loro confluire simbolico verso l’unità significativa di senso impressa al discorso stesso nel progetto culturale e/o ideologico da cui esso è sfociato come simbolo" (p. 89).
Gaetano Zito analizza la storia della Legazia Apostolica nel Cinquecento partendo dai Capibrevi (1598) di Giovan Luca Barberi che costituirono fonte autorevole e imprescindibile per dirimere tutte le questioni inerenti al diritto ecclesiastico per la Sicilia. Zito ritiene che la Legazia apostolica e la Regia Monarchia assurgono a filo rosso "che annoda la storia dell’isola per tre secoli ne offre una interessante e feconda chiave di comprensione" (p. 166); il sovrano di Sicilia, di qualsiasi dinastia, afferma il relatore, non pensava di rinunziare ad una forma peculiare di giurisdizione in ambito ecclesiastico "che lo rendeva unico nella cristianità e che gli era stata servita, gli veniva chiesta e giustificata proprio dai fedeli sudditi siciliani" (ibidem).
Adolfo Longhitano studia il ruolo avuto dal Tribunale della Regia Monarchia nel governo delle Chiese siciliane e nelle controversie giurisdizionaliste del ‘700. Il monarca, in quanto legato nato poteva "presentare i vescovi al papa per la nomina, esercitare i diritto di regio patronato sulle diocesi e sui beni, subordinare la validità dei provvedimenti pontifici al regio exequatur, esercitare il diritto di spoglio alla mano morta dei vescovi" (p. 167). Il Tribunale della Regia Monarchia era costituito da una magistratura unica. Nel ‘700 il giudice esercitava una potestà giudiziaria ed esecutiva; giudicava gli ecclesiastici esenti (che erano direttamente soggetti alla giurisdizione della Santa Sede), i reati commessi dai religiosi fuori dal chiostro; poteva avocare a sé qualsiasi causa ecclesiastica di competenza degli ordinari e trattare in appello i giudizi svolti dinanzi ai tribunali ecclesiastici delle diocesi siciliane. In base alla potestà esecutiva il giudice, invece, poteva rendere inefficace qualsiasi provvedimento preso dalle autorità ecclesiastiche, vigilare sulla disciplina monastica, assolvere coloro che fossero incorsi in censure ecclesiastiche e dichiarare nulle le scomuniche.
Rino La Delfa coglie gli influssi francesi e, in particolare, la teologia francese di stampo giansenista e gallicana, nella riflessione ecclesiologica siciliana al termine dell’età moderna. L’autore sottolinea come tali influssi abbiano trovato spazio in alcuni autori siciliani che se ne servirono per dare "sostanza teologica alle loro istanze regaliste, senza assumere quelle accentuazioni politico-religiose riscontrabili in alcune e non in tutte le posizioni gallicane d’oltralpe" (p. 213). Egli si sofferma soprattutto sull’impostazione regalista del palermitano Stefano Di Chiara, canonico della Cattedrale e professore di diritto canonico e su quella gallicana di Paolo Filippone, professore di teologia dogmatica, vescovo e giudice di monarchia.
Chiude il volume Francesco Michele Stabile con una attenta analisi della Legazia apostolica nell’Ottocento cioè nel periodo in cui si assiste alla sua crisi e alla sua dissoluzione. Nel dicembre del 1860 Vittorio Emanuele, sotto l’influsso del ministro di grazia e giustizia Cassinis, di estrazione giurisdizionalista, promise a Palermo di mantenere "salve quelle antiche prerogative". Ma la rivoluzione del 1860 e la nuova situazione politica spinsero il papa a convocare una commissione prelatizia presieduta dal cardinale Caterini, prefetto della congregazione del Concilio, con il compito di studiare la documentazione sul Tribunale di Monarchia. La proposta della Congregazione fu l’abolizione definitiva del Tribunale di Monarchia mentre la Legazia scomparve con l’approvazione della legge delle Guarentigie del 1871 (art. 15) che segnò la fine del clero liberale giurisdizionalista. E fu così che "l’ultimo privilegio medievale, frutto di una concezione ecclesiologica che vedeva nel potere del re un ministero ecclesiale", alla vigilia del Concilio Vaticano I, tramontò per sempre.
Claudia Giurintano
M. T. FALZONE, Da questo vi riconosceranno. Chiesa e poveri in Sicilia in età contemporanea, Caltanissetta – Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2000, pp. 283.
Il libro riprende le lezioni tenute a Palermo nell’Anno Accademico 1998/99 presso la Facoltà Teologica di Sicilia nell’ambito della Cattedra di Storia del Cristianesimo in Sicilia. Obiettivo del saggio è rilevare quanto la Chiesa di Sicilia abbia operato a servizio dei poveri nell’età contemporanea. Se, scrive l’autrice, la storia della carità della Chiesa siciliana non sembra discostarsi dal resto d’Italia, è pure vero che nell’Isola essa ha registrato alcuni ritardi che l’hanno diversificata anche per alcune vicende storiche come l’istituzione giuridica della Legazia Apostolica e il legame con Napoli durante il governo borbonico.
Il volume si apre con un excursus storico della carità della Chiesa di Sicilia dalle origini del cristianesimo al Settecento per continuare poi nello studio della normativa assistenziale nel periodo borbonico dal 1734, con Carlo III di Borbone, fino all’Unità d’Italia. Caduta la monarchia borbonica si assiste a un mutamento non solo in campo politico, ma anche in ambito ecclesiale, poiché nel quadro della "questione meridionale" che vide acuirsi il problema della povertà del Sud, la Chiesa "divenuta povera essa stessa […] ispirandosi alle motivazioni evangeliche, intraprese nuovi modi e nuovi canali di espressione" (p. 67).
Dopo il 1860, si registrano cambiamenti qualitativi e quantitativi "nelle strutture e negli agenti della pastorale, negli operatori e negli apostoli di carità" (p. 8). Nel secondo Ottocento molte sono le figure di "apostoli di carità" che non solo danno vita a istituti religiosi ma che avvertono l’esigenza di condividere le sorti della popolazione povera. E’ il caso del vescovo di Catania Giuseppe Benedetto Dusmet, di Giacomo Cusmano a Palermo, del cardinale Giuseppe Guarino e di Annibale Maria Di Francia a Messina.
Negli anni Novanta del XIX secolo, la Chiesa, dinanzi ai Fasci siciliani, tenta con i contadini un confronto diverso dai precedenti interventi paternalistici e tendenti a conciliare le tensioni tra ricchi e poveri. E’ in questi anni che si assiste al decollo del movimento cattolico sociale in Sicilia con i vescovi "leoniani" e i preti e laici "sociali". Il periodo fascista segna alcuni sviluppi legislativi nei confronti della assistenza anche se la situazione economica siciliana non subisce grandi miglioramenti come pure la carità della Chiesa che "non riesce a promuovere una cultura nuova nel campo dell’attenzione ai poveri" (p. 155).
Nell’immediato secondo dopoguerra l’attività caritativa della Chiesa vive un’epoca nuova, poiché essa si mette al passo con la modernità anche se permangono vecchie retroguardie. Solo con il post-Concilio la Chiesa si fa più attenta al tema del confronto con i poveri e con la povertà. La Chiesa ha progressivamente indicato le linee della sua riflessione sulla carità "con la proposta della prassi ecclesiale: la comunità cristiana vista come soggetto di carità, nelle sue tre dimensioni essenziali, Parola, liturgia, testimonianza; la collocazione della pastorale della carità dentro la pastorale organica; la testimonianza della carità quale via privilegiata della nuova evangelizzazione; il dovere di coniugare la carità con la giustizia e la mondialità come respiro della nuova evangelizzazione" (p. 203). E nell’isola, il clima della Chiesa post-conciliare - anche se connotato da una "sicilianità" che non appare "esente da fenomeni di violenza, da contrasti e da ritardi" - fa sempre più emergere una decisa ansia di riscatto e di benessere.
Claudia Giurintano
G. MARRONE, Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna, Palumbo, Palermo 2000, pp. 263.
Non è opera di primo impianto questa Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna, che Giovanni Marrone propone a servizio degli studi e ad arricchimento della storiografia patria, ma anche ad erudito diletto delle persone colte; è nuova edizione di un testo venuto alla luce cinque anni prima, al quale l’Autore, mantenendone sostanzialmente immutati struttura e contenuto, aggiunge oggi il frutto di ulteriori ricerche d’archivio che gli hanno consentito di ampliare il quadro, "per molti aspetti allucinante", della condizione carceraria lungo il corso del Cinque e Seicento e di arricchirlo anche di curiosi episodi.
Quasi inconcepibili, per via dello stato disastroso delle strutture carcerarie e per l’orrore dei sistemi detentivi del tempo, le condizioni di vita nelle prigioni della Sicilia, e perciò – per quel che il libro al riguardo rivela – illuminante quest’opera; ma non solo per questo, come non solo per i risultati del fecondo scavo condotto nei depositi della Sicilia e di Spagna, che hanno offerto all’Autore materia per la sua intensa descrizione della realtà carceraria, è parimenti sconvolgente il generale quadro sociale del tempo, ché l’intera prospettiva della storia criminale dell’isola in quei primi secoli dell’età moderna emerge dal libro densa di devastante consistenza.
Studioso attento e personalità umbràtile e schiva, Marrone convive con la sua produzione storiografica una sorta di comunanza strategica, in cui ritmi biologici e materiale esternazione letteraria hanno le medesime pulsioni, condividono una vicenda sobria e severa. Questa condizione di intellettuale appartato e temperante, poco propenso alla esposizione di se stesso oltre quel che gli è imposto dagli obblighi del suo insegnamento di Storia moderna nella Facoltà di lettere dell’Università di Palermo, si riflette nel suo mestiere di autore, professato con vigile continenza, ma anche con sorvegliata e proba passione, sì che ogni suo libro ha la misura di un traguardo conseguito al termine di un lungo e accarezzato sodalizio con la materia della propria trattazione: è così che l’indagine e lo studio si fanno riflessione, costruzione storica, narrazione, e il tempo della memoria ritorna vivido in limpide esposizioni che si offrono al lettore esemplari nella qualità raffinata della struttura e della trattazione; vi è, insomma, il gusto e la piacevolezza del discorrer di storia, dell’asservire il rigoroso impianto filologico e critico che regge la trattazione al piacere di narrare nella sua opera storiografica.
Una tale condizione, nella quale il Ranke addita l’essenza più vera, non solo stilistica, della migliore storiografia, emerge intera dalla sua pubblicistica, aristocraticamente rarefatta, come dicevamo, quasi che l’Autore volesse, con la rappresentazione della propria stessa temperanza, ammonire del lungo rapporto di sentimentale confidenza e del serio e meditato lavoro da cui ha gestazione ogni sua opera. E infatti l’intera produzione dell’ultimo trentennio – La schiavitù nella società siciliana dell’età moderna (1973), L’economia siciliana e le finanze spagnole nel Seicento (1976), Giuseppe La Farina storico e pubblicista (1981), qualche lavoro sul Villabianca (1988) e questo libro infine che oggi annotiamo -, ancorché talora di ostica e algida materia (si pensi alle finanze del Viceregno spagnolo), ha sempre, nei modi con cui è condotto il discorso storico, i ritmi e i colori di una valente misura letteraria conferita all’austero esercizio della scienza, o cioè della Storia. Può darsi che in questo sia da vedere il segno, in verità sempre orgogliosamente e amorosamente professato, di una magistrale scuola.
Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna dischiude, dunque, il sipario su una terra che, lasciatesi alle spalle già da vari decenni le dense caligini di un Medioevo colmo di tutte le contraddizioni politiche e sociali e le violenze e la barbarie dei tempi, si ritrova ancora a dover fare i conti con le corrotte scorie trasmessele in fosco retaggio da quel mondo morto, che in realtà o in molte delle realtà dei nuovi tempi, adattandosi ai mutati schemi politici e istituzionali, sopravvive con tutte le sue tensioni e le sue nequizie in costumanze e rapporti sociali rimasti pressoché immutati.
In effetti, proprio da quella società medievale in disgregazione, che dagli anni del Vespro all’età di Alfonso d’Aragona, per lo spazio d’oltre un secolo ha vissuto una lunga e cruenta fase di anarchia, attraversata dall’alterna arroganza e dalle belluine imprese di una feudalità potente e arrogante che per troppo tempo ha stremato l’isola e la ha avvinta in una condizione di autentica agonia civile e di immiserimento sociale, prende le mosse il libro. Del resto, non potrebbe intendersi il fenomeno criminoso – il dilagare della delinquenza urbana, la piaga del fuoruscitismo e del brigantaggio in ambiente rurale, la gestione organizzata della violenza privata – senza aver riguardo alle sue radici storiche, a quella lunga crisi del diritto e dello Stato che per l’intero corso del Trecento e parte del Quattrocento fu vicenda speculare a quel complesso impasto di strapotere delle classi egemoni, di arbìtri signorili, di accrescimento dei livelli di pauperismo, e per conseguenza a quei vasti episodi di disperata fuga dalle situazioni di bisogno e di ricerca dei mezzi di sussistenza, che si concretizzò appunto nel ricorso alle attività del crimine.
Non fu fenomeno sporadico, né – quel ch’è più – appartenne solo alle turbe di diseredati datisi al delitto e alle grassazioni per vivere, ché – rileva Marrone – il brigantaggio venne a costituire "l’attività più produttiva di molti signori, titolari di uffici in taluni delicati settori dell’amministrazione, come la capitania e la castellania".
Conclusasi col ristabilimento – talora poco più che apparente, in verità – dell’autorità dello Stato la lunga fase di anarchia baronale, l’eredità del passato sopravvisse nei comportamenti successivi, sì che, sia che fossero comitive autogestite di masnadieri a esercitare il crimine nelle campagne e persino spesso a tenere quasi in stato di assedio paesi e città, sia che nelle terre feudali fossero bande organizzate in funzione di milizia del signore ad operare violenze ed arbìtri privati, in una sorta di reità legalizzata e comunque impunita, la criminalità, rinsanguata da sempre nuovi reclutamenti, fu fenomeno endemico e pressoché connaturato alle condizioni sociali e alla struttura di potere nella Sicilia del Cinque e Seicento.
Non di rado le bande, soprattutto quando numerose e potenti, vissero una sorta di tolleranza pattizia nelle terre feudali, quando addirittura non stabilirono – come si è accennato – rapporti di complicità o di servizio con organi di istituzioni permeate dall’illegalità: il bandito veniva così a inserirsi in un contesto di cooperazione col ceto dominante o con gli organi dello Stato, che gli assicurava da un canto libertà di manovra e l’impunità dei suoi misfatti e dall’altro gli procacciava materiali benefici nella funzione di braccio armato al servizio di potentati locali.
Se anche, a volte, non mancò alle strutture dello Stato di concretizzare in reazione taluni provvedimenti coercitivi, questi non sortirono duraturo risultato, quando addirittura non ebbero a rivelarsi produttivi di negativi effetti: fu il caso delle "compagnie d’arme", istituite nel 1543, ai tempi di Carlo V, come polizia di campagna al comando di un "capitano d’arme", di cui già venti anni più tardi doveva il parlamento invocare la soppressione, tante furono le prepotenze e le malversazioni di cui queste squadracce si rendevano autrici. Furono un autentico flagello, rileva Marrone, che poi, venendo a dire di uno di questi masnadieri, tale Mario de Tomasi, e avvalendosi delle carte del processo celebrato nel 1583 contro di lui rintracciate nell’Archivio di Simancas e riprodotte in appendice al testo, ne ricostruisce l’"esemplare carriera", rilevandone l’alto livello di efferatezza nel criminoso esercizio di una giurisdizione costellata di delitti: e tuttavia un tale individuo non si ebbe alla fine che una clemente condanna alla inabilitazione perpetua.
A debellare la rigogliosa pianta del banditismo non valse nemmeno la spietata azione repressiva del viceré D’Ossuna, un governante di gran tempra, che, già all’arrivo in Sicilia, nel 1611, ebbe subito l’impatto con quella realtà a Messina, "dove trovò una popolazione in preda alla paura, praticamente sequestrata dalla criminalità dilagante, dove nessuno era più signore né del suo patrimonio né della sua casa, e la maggior parte dei mercanti fuggiti per le continue estorsioni e i furti subiti". Se andò bene per alcun tempo, quando più tardi lasciò il governo dell’isola per passare a Napoli, la Sicilia tornò tosto preda del banditismo, poiché – osserva acutamente l’Autore – se pur vigorosa era stata l’azione di questo governante, essa tuttavia recava in sé il germe della caducità, in quanto inalterato restava il contesto sociale da cui traeva origine il fenomeno della criminalità. Quel fenomeno presentava già, a inizio del Seicento (ma non solo da allora) una composizione dualistica: da un canto, forte e ben protetto nelle campagne, v’era il banditismo, articolato in numerose comitive armate, esercenti una strategia autonoma, ma in molti casi operanti quali braccio armato della criminalità organizzata; dall’altro appunto quest’ultima, "coi suoi vertici e il suo centro operativo nelle città demaniali, in quelle feudali, in molti luoghi religiosi", sorta di "mafia" ante litteram. Così l’espianto dell’idra funesta doveva rilevarsi irrealizzabile obiettivo.
Erano la stessa struttura della società siciliana, le carenze istituzionali, l’organizzazione economica della proprietà fondiaria a rendere impervia la strada della repressione: il brigantaggio sempre meno era esercizio di categorie marginali di disperati (non fanno storia i modesti ladroni di passo) e sempre più fu risorsa di gruppi "professionali", forti e ben diretti, costituiti da uomini decisi che nel fuoruscitismo trovavano il proprio tornaconto. Per queste bande gli sterminati latifondi dell’isola costituivano sicuro rifugio, allo stesso tempo in cui, per via del sempre più vasto ricorso da parte dei proprietari terrieri al regime del campierato per il controllo della sicurezza, un’altra categoria di malfattori veniva a prender posto nella patologia del crimine: e, infatti, i campieri, strumenti di un dominio illegale legalizzato, non mancarono all’occasione di porre in essere un’opera di autentica spoliazione nei confronti dei borgesi, protetti da una subdola rete di complicità e di amicizie.
Il fatto è, come si è detto, che in una Sicilia erede di un regime di anarchia fomentato dal ricatto feudale, alimentato dai ripetuti governi di fazioni, preda delle violenze e dell’arbitrio, educata allo spirito di sopraffazione (quello stesso che in varia maniera ancor oggi, purtroppo, continua ad allignare), povera e diseredata, il potere criminale aveva gettato profonde radici, innestandosi quale componente ineluttabile e tracotante nelle costumanze e nella struttura sociale di questa povera terra; ed ebbe manifestazioni atroci e di inaudita violenza. Mancò ogni rilievo di pietà nei fatti della criminalità siciliana, ogni aura di romanticismo nelle attività del brigantaggio siciliano del XVI e XVII secolo.
L’azione repressiva fu sempre incerta, ambigua, molte volte efferata non meno che il fenomeno che perseguiva o intendeva perseguire, scarsamente pedagogica e, come si è detto, di effimero esito. Appartiene a un tale contesto il quadro che l’Autore disegna della realtà carceraria del tempo: ed è analisi acre e impietosa di una condizione senza luce, documentata con acuta acribia, ma anche con commosso sentire, attraverso l’escussione di una fitta documentazione d’archivio e il racconto di molteplici episodi, dai quali i torti del sistema – farraginosa lunghezza ed arbitrio dei procedimenti, fatti di corruzione e di odioso sopruso, orrore delle segregazioni in spaventosi dammusi, disumano trattamento dei reclusi e così via – emergono a comporre lo scenario di una drammatica e miserevole realtà. Né a siffatte condizioni si sarebbe avuta prossima la soluzione, "ché anzi – è l’amara conclusione di questo bel libro – per molti aspetti e per ragioni di natura sociale ed economica, esse si sarebbero aggravate sempre di più".
Salvo Di Matteo
S. Di Matteo, Almanacco siciliano 2001, con un testo di Bruno Caruso, Kalós, Palermo 2000, pp. 177.
Remota è la tradizione degli almanacchi. Ne ebbero i Greci e i Romani, che li chiamavano Annales e Fasti ed erano, per la verità, qualcosa di non troppo dissimile dai successivi calendari e annuari; nel Medioevo recarono soprattutto notizie astronomiche; più tardi ancora, predizioni astrologiche, notizie su papi e re e principi, consigli di medicina, informazioni sui lavori dei campi, aneddoti e facezie; l’invenzione della stampa e la curiosità creatasi intorno a questo tipo di pubblicazioni ne favorì la diffusione. Il salto, tuttavia ancora incerto, verso l’almanacco letterario – che è tipico di questo genere – si fece nel Seicento, allorché vi si inserirono racconti, poesie, piccole illustrazioni, notizie sui santi: caratteristico l’Almanach de Liège, nato nel 1636.
Nel pieno Settecento i contenuti si perfezionarono, si affinarono, e col parigino Almanach des Muses (1765-1833), nel quale il calendario già veniva a costituire la parte meno rilevante a confronto della ricca antologia di racconti, di liriche, di notizie storiche e di Corte che vi era contenuta, la fortuna dell’almanacco esplose fulminea, dilagò per l’Europa; già cinque anni più tardi nella severa Germania lo imitò il Musen-Almanach, cui collaborarono con poesie nientemeno che Klopstock e Goethe; così in altri Stati, e fin nella Danimarca: fu un’autentica moda, una mania, che proseguì costante per tutta l’epoca romantica.
E in Sicilia? Qui tipico almanacco del tempo fu il Notiziario di Corte, che nel tardo Settecento, per vari anni, il dottissimo Rosario Gregorio compilò per incarico del Governo, e vi scrisse gustose e dotte divagazioni storiche e curiosità erudite; altri ve ne furono più tardi, di carattere popolare.
Il successo generò la specializzazione, e già nel primo Ottocento l’almanacco cominciò a proporsi quale repertorio di notizie utili in vari campi della cultura o della scienza o dell’arte o delle attività umane, o anche come zibaldone di conoscenze divulgative in tema di storia, di geografia, di costume o di testi narrativi di dilettevole lettura.
Tali contenuti, che ne facevano una autentica enciclopedia popolare, ebbe per l’appunto il fortunatissimo Almanacco italiano (1896), che per quasi l’intero primo quarantennio del Novecento pubblicò la Casa editrice Bemporad, affiancandogli nel 1920 l’Almanacco della donna italiana, folto di storie di donne illustri, di una pingue rassegna letteraria, di notizie mondane, di biografie esemplari di dame dell’alta società; per chi voleva più dotte divagazioni c’era l’Almanacco letterario Bompiani, ancor oggi reperibile nel mercato antiquario. Negli ultimi tempi, la rinata moda dell’almanacco tende a farne un’agenda con un repertorio di minute informazioni pratiche rigorosamente collegate ai giorni del calendario.
Questo è, in fondo, nelle ragioni dell’almanacco: accompagnare l’anno a venire con una congerie di letture a volta a volta amene, utili, istruttive, gravi o giocose, che valgano da rapido ammaestramento nelle minute incombenze della quotidianità o da arricchimento della cultura o da spensierata divagazione: letture, insomma, non moleste, dilettevoli. E in una tale ottica, appunto, si pone questo leggiadro e forbito Almanacco siciliano. La Sicilia, del resto, è miniera preziosa e inesauribile, mirifica e stimolante di materiali della cultura nei campi della storia, dell’arte, delle tradizioni, delle lettere, dell’archeologia, delle scienze naturali, sì da offrire abbondanti spunti a uno studioso come Salvo Di Matteo.
Ne è venuto fuori un divertissement erudito e arguto, forse senza precedenti. Qui dodici storie, una per ogni mese dell’anno, si svolgono lungo un ampio arco cronologico (dalla fine del V secolo a. C. alla costruzione del ponte di Messina, che l’Autore, con sottile finzione, attesta essere avvenuta proprio nell’anno 2001), narrate con levità e squisitezza di scrittura, a divulgare una serie di straordinarie "verità" storiche, alcune delle quali talmente strabilianti da apparire impossibili; ma il giuoco letterario è così sottile e sì abilmente condotto, e tale è il potere dell’adescamento, sì perfetto l’incastro fra elementi dell’invenzione e reale consistenza degli eventi e dei personaggi (o di alcuni di essi) collocati in precisi contesti storici, che il lettore ne resta intrigato, tanto più che l’Autore, aduso alle antiche carte degli Archivi e delle Biblioteche, dichiara le proprie fonti documentarie o storiografiche e assevera la propria verità con precisi riferimenti. Fra le narrazioni, la vicenda della bellissima Laide di Iccara, il segreto dell’arte idraulica degli Arabi, la fine di Cola Pesce, la "boccaccesca" avventura siciliana di Boccaccio, il ritrovamento di uno scheletro di gigantessa preistorica, il terremoto di Noto, la prima emersione dell’isola Ferdinandea, le malefatte del mandarino ospite nel palazzo reale di Palermo, la cronaca dello sbarco angloamericano in Sicilia, e appunto la poetica parabola intorno alla costruzione del ponte di Messina; una bella testimonianza di Bruno Caruso ("Il chiodo fisso") conclude l’opera.
A corredo delle narrazioni storiche, una serie di cronologie, queste rigorosamente esatte (un autentico perfido artificio diretto a meglio accreditare la frode storiografica dell’Autore), enuncia gli eventi che hanno caratterizzato i tempi nei quali si collocano gli avvenimenti descritti; e, messe insieme, costituiscono, per frammenti, una sorta di storia annalistica della Sicilia.
Terzo polo di interesse è, in questo almanacco, una fitta serie di biografie, criticamente commentate, degli insigni siciliani che hanno caratterizzato la temperie culturale e l’ambiente umano dei decenni nei quali si inquadrano le singole storie: eruditi, artisti, architetti, poeti, letterati, scienziati, santi, uomini politici (anche i greco-siculi e gli arabi di Sicilia, a non dire dei personaggi a noi più prossimi) emergono nitidi nella loro immagine e nelle loro opere in queste che possono considerarsi i frammenti di uno splendido dizionario dei siciliani illustri. Nell’almanacco danno la misura di un’altra ottica possibile nel considerare il passato: quella che guarda alla vita e alle opere di coloro che la storia la fecero.
Dalla Presentazione dell’Editore
C. Rosselli, Scritti scelti, a cura di G.B Furiozzi, Prefazione di V. Spini, Firenze, Alinea, 2000, pp. 152.
In coincidenza con il centenario della nascita, e a oltre sessant’anni dalla morte, la figura e l’opera di Carlo Rosselli hanno visto un grande risveglio d’interesse e un fiorire d’iniziative in ogni parte d’Italia e perfino all’estero. Vale dunque la pena di chiedersi il perché oggi, soprattutto nella sinistra democratica, si torni a vedere il fondatore di "Giustizia e Libertà" come un importante punto di riferimento politico, ma anche etico e culturale. La risposta non è molto difficile: con la crisi del comunismo e la caduta del muro di Berlino, è tornato necessariamente attuale il socialismo liberale, ovvero una forma di socialismo non strettamente dipendente dall’ideologia marxista e quindi non legato alle sue alterne fortune. Tra le ultime iniziative editoriali, si segnala questa utile antologia di scritti rosselliani, che vanno dal 1923 al 1937, anno del suo barbaro assassinio ad opera di terroristi francesi finanziati dai servizi segreti italiani. Norberto Bobbio ha osservato, tempo fa, che coloro che si sono dedicati alla causa del socialismo liberale hanno sempre vissuto una condizione di esilio: i fondatori, durante il ventennio fascista, un esilio politico; i suoi aderenti, nel secondo dopoguerra, un esilio "morale" nel proprio Paese. Oggi, finalmente, questo esilio è cessato e molti studiosi e uomini politici hanno dovuto ammettere, come ha osservato Nadia Urbinati, che il socialismo liberale "ha acquistato modernità con il passare del tempo". Sbaglia di grosso, dunque, secondo il Furiozzi, chi (come Giuseppe Bedeschi) ha definito il socialismo liberale "una utopia sterile e inattuale". Mentre dominava l’ideologia della classe operaia egemone, della dittatura del proletariato della collettivizzazione dei costumi e delle coscienze, il messaggio liberalsocialista di Carlo Rosselli sembrava certo anacronistico e ritardatario. Non è stato così. Ha vinto Rosselli e hanno perso i suoi avversari.
Sbaglia anche chi, come Asor Rosa, ha parlato a suo tempo di esso come di una "improvvisazione teorica", perché non tiene conto della lunga tradizione, italiana ed europea, alla quale il pensiero rosselliano si riallaccia, esplicitamente o idealmente. Se infatti l’espressione "socialismo liberale" fu coniata nel 1890 dal deputato radical - socialista Alfred Naquet, già da alcuni decenni, in Francia e in Inghilterra, vi erano stati pensatori (da Pierre Leroux e Stuart Mill) che avevano cercato di conciliare socialismo e libertà. Denominatore comune di tutti costoro è che il socialismo non coincide necessariamente con il marxismo, come stava a dimostrare il movimento laburista inglese, che per Rosselli restò sempre un modello, come il movimento tradunionista era stato per Mazzini. Non per nulla, Carlo Rosselli è stato anche definito "il Mazzini del XX secolo". Perché fosse stato costretto a diventare oppositore con ogni mezzo del governo del suo Paese, lo spiegò egli stesso in un passo della deposizione resa nel novembre 1930 dinanzi al Tribunale di Lugano in occasione del processo Bassanesi per il volo dimostrativo su Milano: "Avevo una casa: me l’anno devastata. Avevo un giornale: me l’hanno soppresso. Avevo una cattedra: l’ho dovuta abbandonare. Avevo dei maestri, degli amici - Amendola, Matteotti, Gobetti - me li hanno uccisi". Se per ripristinare la democrazia egli era pronto ad usare ogni mezzo, anche rivoluzionario, era però sostenitore del metodo gradualista nella realizzazione del socialismo. Era il concetto della cosiddetta "rivoluzione democratica", teorizzato allora anche da Giuseppe Saragat e da Piero Calamandrei. Rosselli è, in sostanza, un socialista che coglie il valore universale del principio di libertà, valido quindi anche per i socialisti, e il valore universale di quello che egli chiama "metodo liberale di governo": ovvero le regole della democrazia, che per lui non sono né di destra né di sinistra.
Gabriella Portalone
M. GUCCIONE, Amnesy International. Racconti da dimenticare, prefazione di Enrico Vaime, Roma, Pagine 2000, pp. 112.
Appare inconsueto, per la nostra Rivista, recensire un lavoro letterario che niente ha a che fare con la storia propriamente detta, ma che, tuttavia, finisce per raccontare, in chiave umoristica, scanzonata, spesso paradossale, la storia dell’uomo nel suo comportamento di ogni giorno. Si tratta dell’ultima fatica di un siciliano come noi, trapiantato da molti anni a Roma, desideroso di coinvolgere i suoi lettori verso una visione nuova della vita e dei problemi di ogni giorno, rispetto ai quali ci impone quasi l’oblio, partendo già dal titolo che è un capolavoro di arguzia: Amnesy International. È il tentativo da parte di un uomo di successo, - docente universitario, esperto internazionale dello sviluppo, poliglotta, autore di libri di poesie e di racconti umoristici - di osservare la vita con gli occhiali rosa dell’ironia, invitando i suoi lettori a mettere da parte, anche per pochi minuti ogni giorno, i temi seriosi, ma spesso troppo angosciosi del mondo di oggi, dove, grazie alla velocità delle comunicazioni, anche il lamento di un povero mendicante indiano, giunge e noi con tutto la sua drammaticità, destandoci sensi di colpa e imponendoci uno stile di vita severo e lontano da ogni occasione di gioia e di sorriso. Allora si va a cinema, non per divertirsi dopo una lunga giornata di lavoro, ma per abbeverarci, grazie a film impegnati e incomprensibili, dei mali esistenziali e delle brutture che ci circondano; si ascolta la musica, non per dare diletto allo spirito stanco, ma per partecipare, attraverso canzoni tristi, difficili e spesso disarmoniche, al dolore del mondo; si legge un libro o si segue un programma televisivo per essere meglio informati sulle angosce che tormentano il nostro prossimo più o meno lontano. Marcello Guccione, lungi dal presentarsi come il cinico ed insensibile epicureo, attento solo alla ricerca del piacere, all’elogio della risata, al disinteresse altrui, vorrebbe soltanto, basandosi sui giochi di parole, sugli aforismi, sui più gustosi calembours, spingerci a sdrammatizzare la vita e a vedere l’umorismo anche nella tragedia per poter sopravvivere al dolore universale che ci circonda. Anche per pochi minuti al giorno, dunque, amnesy, amnesia generale. Lo fa con 55 racconti, più o meno brevi, con protagonisti immaginari che possono essere, indifferentemente, uomini, animali o oggetti di uso quotidiano, producendo così, quello che Enrico Vaime definisce, nella Prefazione, un vaccino contro la banalità e la ripetitività del linguaggio, costituito da termini che prima vengono accettati per timidezza, passività, conformismo, e che poi, però, finiscono per condizionare ogni attimo della nostra vita. Il lavoro di Marcello Guccione ci invita a cercare nei vocaboli significativi diversi da quelli che siano abituati ad attribuire ad essi, significati più umani o anche più ridicoli, a volte anche paradossali, che riescono a farci rivivere in chiave comica, non solo le situazioni più serie e spesso non divertenti della vita, come per esempio il matrimonio, ma anche avvenimenti storici su cui si sono versati fiumi di inchiostro e da cui si sono tratte interpretazioni le più diverse e contrastanti, come per esempio, la scoperta dell’America: "(...) Purtroppo il viaggio andò male fin dallo sbarco e qualcuno vedendo il livello dell’albergo sul porto aveva esclamato "terra, terra". Alla reception non trovarono il fax delle prenotazioni e il personale non rispondeva alle domande, faceva l’indiano; c’era un gran caldo e ti pungevano le Vespucci; sulla spiaggia un continuo va e vieni di "quiere cumprà". Roba dell’altro mondo! (...)" (p.39). oppure a proposito delle disgrazie di tutti i giorni la cui eco avvelena anche i momenti di serenità: "Era stato un uomo brillante: quando abbracciava una causa, ottimo oratore, faceva discorsi a braccio. Deluso, ripeteva spesso ‘mi cascano le braccia’, finché in un incidente le perse davvero. Testimone ad un processo, si mortificò all’invito al giuramento ‘Alzi la mano destra’; passò un brutto momento quando un bandito gli intimò ‘ in lato le mani!’. Così si ridusse a giocare a carte con amici comprensivi (che sapevano che lui aveva sempre giocato...con i piedi) e, d’estate, andare al lago più adatto per lui, Braccia - no (...)" (p.22). Libri di questo genere, scelti di tanto in tanto per interrompere le faticose e spesso deprimenti incombenze quotidiane, ci aiutano a dare il dovuto valore ad un bene oggi sempre più raro: il semplice sorriso.
D. LODATO, La secolare Accademia del Parnaso Canicattinese. Canicattì, gli arcadi, il barone, Canicattì, 1998, pp. 316.
Veramente pregevole quest’ultima opera di Diego Lodato, consacratosi ormai storico ufficiale della città di Canicattì, per far conoscere ad un pubblico più vasto di quello dei suoi stessi concittadini, la bizzarra ed incredibile istituzione culturale che fu l’Accademia del Parnaso, fucina di appassionante umorismo, di intelligente satira politica e di vera, dilettevole poesia popolare.
Nata negli anni venti - anche se per decreto si era stabilito che le sue origini risalissero all’epoca di Carlo V, - dall’idea di alcuni bontemponi locali, di estrazione sociale e culturale quanto mai varia, tale Accademia, che assomigliava più ad un circolo goliardico, nonostante l’impegnativo nome, frutto anch’esso di sottile ironia, era conosciuta, nel ventennio fascista, dalla grande stampa nazionale, nonché dai più noti intellettuali del tempo, molti dei quali chiesero di esservi ammessi come arcadi. E’ il caso di Pirandello, che in ossequio a tale Accademia, fece rappresentare, in anteprima mondiale, nel 1927, la sua commedia Sei personaggi in cerca d’autore, proprio nel Teatro Sociale di Canicattì, pregevole opera attribuita al Basile, di Marco Praga, di Tommaso Marinetti, di Giovanni Gentile, di Ettore Romagnoli, di Massimo Bontempelli, di Héléne Tuzet, di Angelo Musco, di Marta Abba, di Trilussa, fino in tempi più recenti di Renato Guttuso e Leonardo Sciascia che la definì "un’accademia letteraria ‘sui generis’..secolare per decisione dell’assemblea" (p. 88) che risolveva "le questioni scabrose con l’emissione di decreti, che al pari dei dogmi non si discutono. Ed è infallibile al pari e più del Papa" (pp. 121-122)
Di tale originale istituzione, che Thilger definì "la più audace e geniale satira politica e del costume" a cui, secondo santi Correnti, sarebbe " difficile contendere la palma dell’umorismo istituzionalizzato in Sicilia", ideatori furono un gruppo di verseggiatori, che tuttavia possiamo consacrare con il lauro di poeti, particolarmente versati nell’umorismo e nella satira, che, riunendosi nell’osteria di don Ciccio Giordano, o nella farmacia del dott. Diego Cigna, si prodigarono "a creare un mondo fantastico in cui tutto si svolge alla rovescia, dove l’immaginazione si confonde con la realtà, dove la carriera si percorre a ritroso, dove i veri maggiori sono i minori, dove gli asini sono saggi e sapienti e dove i soci, detti arcadi, pur se nella vita discordi, si ritrovano poi, come le Muse sulle vette del Parnaso, tutti concordi, tutti amanti della poesia, tutti con i petti frementi di canti, o meglio come è detto nel sottotitolo della ‘ parnasiana’, ‘di canti, di code, meditazioni e ragli’ e tutto ciò con l’intento (…) ‘di mettere in ridicolo la vita in ciò che questa meriti; di scherzare sulle scemenze umane e sulle cose serie; di prendere a gabbo i presuntuosi, i manierosi, i pieni di fumo, le fame malcreate" (pp. 7-8)
Tale Accademia, provvista di ‘sede urbana con acqua corrente’ e di ‘sede rurale con annesso orto’, era fornita anche di un esilarante statuto il quale, peraltro, stabiliva nell’art. 9, che chi avesse osato denigrare Canicattì per il suo scoppiettante nome, oggetto troppo spesso di ridicole battute, sarebbe stato rieducato e indottrinato affinché si imprimesse indelebilmente nella sua testa che "la città è culla e sede del Parnaso della quale è lustro, vanto e decoro".
Per cui accadde al noto commediografo Marco Praga, che in una sua commedia. La suocera, raccontava che un cancelliere di pretura per punizione era stato trasferito, nientemeno… a Canicattì, di ricevere dall’Accademia del Parnaso una vibrante protesta in versi, tanto colma di umorismo, da spingerlo, non solo a scusarsi con la cittadinanza, ma a chiedere addirittura l’adesione all’Accademia, cosa, peraltro, già prevista dall’art. 9 dello Statuto che stabiliva che ai denigratori di Canicattì sarebbe stato concesso ad honorem il diploma di arcade maggiore. (Ricordiamo che gli Arcadi maggiori era le figure marginali, mentre i veri protagonisti erano gli Arcadi minori, sempre in ossequio al principio della carriera percorsa a ritroso).
Presidente dell’Accademia era l’oste don Ciccio Giordano che restò tale anche dopo la sua morte, visto che il decreto relativo alla sua immortalità era sancito dall’art. 5 dello Statuto che così recitava: "Presidente dell’Accademia è don Ciccio. Giordano. Egli è immortale ed infallibile. Se fra quello che gli scappa detto e la verità vi è discrepanza, è la verità che deve essere corretta e non lui" (p. 149). Chiara allusione ai consensi plebiscitari delle dittature del tempo, dove l’infallibilità del capo era un dogma. E non fu il solo caso di satira politica: al motto fascista noi tireremo dritto, i Parnasiani rispondevano:
Scusassimi, signuri, pi piaciri…
Pi u manicomiu è giusta chista via?
Si fila sempri drittu…va a finiri
Sicuramenti ddà …vossignuria.
Ad un povero soldato in licenza per il puerperio della moglie che un burlone aveva indirizzato all’Accademia per ottenere un prolungamento del congedo, imperturbabilmente era stato rilasciato il seguente attestato:
"Nulla osta da parte di questa Secolare Accademia del Parnaso che il soldato Sferrazza Vincenzo del V Rgt. Fanteria, fruisca di una proroga di quarantott’ore in continuazione del permesso concessogli, per delicati motivi di famiglia, diretti eziandio all’auspicato incremento della nostra razza ariana"
Segretario generale era il farmacista Cigna, uomo politicamente molto impegnato, fondatore di vari giornali locali, ma soprattutto uomo dotato di finissimo umorismo.
L’avv. Sammartino, divenuto nel dopoguerra senatore della Repubblica, cosa che lo aveva fatto sentire degradato rispetto al titolo d’Arcade minore, era il viaggiatore piazzista dell’Accademia, colui cioè che consegnava premi e diplomi e che intratteneva, come diremmo oggi, i rapporti di public relations. Per cui quando il giornalista del Corriere della Sera Arnaldo Fraccaroli scrisse su quel quotidiano che a Canicattì si vedevano per strada più polli, capre e porci che persone, toccò a Sammartino, nella sua veste di viaggiatore piazzista, andarlo a trovare a Milano, nella sede del giornale, con un adeguato dono. Entrato nella stanza del giornalista, l’avvocato aveva prontamente rovesciato sulla sua scrivania due bei polli ruspanti, dicendo: " Ecco due illustri cittadini canicattinesi venuti a conoscerla e a ringraziarla a nome di tutti gli altri polli" (pp. 261-262). Il giornalista, dapprima disorientato, era poi esploso in una sonora risata e scusandosi per quanto aveva scritto, aveva accettato di buon grado il diploma d’arcade maggiore consegnatogli da Sammartino che, sempre con due polli, si era presentato a Trilussa per portargli il diploma.
L’Accademia univa nell’umorismo personaggi d’estrazione estremamente diversa: un barone, Agostino La Lomia, noto alle cronache mondane degli anni sessanta, un venditore ambulante, Pietro Cretti, un farmacista, Diego Cigna, un oste, Ciccio Giordano, un avvocato di grido, poi senatore, Salvatore Sammartino, un professore universitario Calogero Sacheli, un sarto, Peppi Paci, un avvocato, malato di politica e poesia come Francesco Macaluso. Anche politicamente si trattava di personaggi diversi fra loro: all’ardente socialista Cigna, si contrapponeva lo sturziano Sammartino, al fedele fascista Giordano, l’antifascista Macaluso.
L’Accademia non faceva distinzioni di sesso, quindi era aperta anche alle donne purché, se erano sposate, ci fosse, come prescriveva l’art. 31 il "consenso del marito o di chi ne fa le veci"
Lo stemma dell’Accademia era la scecca di Padre Martines, sacerdote ed arcade minore, la quale un giorno, in occasione della visita del Club Alpino di Girgenti, si rifiutò di entrare nella sede urbana, suscitando così lo spiritoso commento dell’avv. Sammartino: "E’ la prima volta che un somaro si rifiuta di entrare in un’Accademia". In ossequio alla scecca e ad un certo professore di Girgenti che soleva salutare solo gli asini e mai le persone, si stabilì, con delibera assembleare, che dovessero, da quel momento, salutarsi tutti gli asini:
Ma si s’avi a livari lu cappeddu
A quanti scecchi veni di incuntrari,
è vita ca po’ fari un puvureddu
cu lu cappeddu mmanu sempri a stari?
Fondata, effettivamente il 21 gennaio del 1921, adottò, per i suoi diplomi un cliché che non si capiva bene se rappresentasse un cane o un leone, perciò, nell’incertezza, l’Accademia si riunì e stabilì con decreto "Questo cane è leone". Con i decreti poteva trasformarsi anche la realtà, infatti, l’articolo decimo dello statuto stabiliva: "L’apparenza inganna. I Parnasiani possono pubblicare qualsiasi fotografia, qualunque cosa rappresenti, purché la didascalia illustri ampiamente ciò che, in effetti, deve raffigurare" (p. 131)
L’ideale dell’uomo cui ispirarsi era Pinco Pallino, l’antieroe per eccellenza cui tutta l’umanità doveva mostrarsi riconoscente perché, "Essendo buono a nulla, nulla oh benedetto! Fece. Perenne esempio e monito per gli altri Grandi". A tale personaggio immaginario che si contrapponeva al mito del Superuomo, tanto di moda nel tempo, il Parnaso stabiliva di tributare un monumento, un mezzo busto a testa fissa, al contrario di quello che suggeriva di fare per tutti gli altri monumenti che, per evitare la distruzione ad ogni cambiamento di moda e di regime, avrebbero dovuto avere la testa svitabile. Per Pinco Pallino che non aveva mai fatto niente, che era il prototipo dell’uomo della strada che "osserva, ma non vede, che sente e non consente, che capisce e non capisce", l’espediente non era necessario, poiché a nessuno mai sarebbe venuto in mente di abbattere il suo mezzo busto. Diversamente era capitato ad un illustre canicattinese, Alfonso Arena, diplomatico e fascista, ucciso nel 1929 da avversari politici, al quale il regime aveva deciso di erigere un monumento nei pressi del Municipio cittadino. Caduto il regime, anche il monumento era caduto oggetto della rabbia degli antifascisti e della vendetta dei notabili di turno. Era rimasto solo il piedistallo su cui, nella attesa di erigere un monumento a qualche grande confacente al nuovo regime, si era deciso di collocare un vaso smaltato, pieno di fiori, di quel tipo che in Sicilia si suole chiamare lemmu e che si suole usare per altri bisogni. Tale vaso, posto su di un piedistallo, suscitava la curiosità dei forestieri cui argutamente rispose con una poesia uno degli arcadi minori, lo spiritosissimo Enrico Cacciato:
(…) E gli stranieri stanno a domandare
con interesse vero ed ansietà
se il "lemmu" fu poeta o militare.
Ma noi che già sappiam la verità:
" Fu un grande eroe" (teniamo a precisare)
che tenne sempre a mollo il baccalà.
Esilaranti erano le beffe che questa accolita di buontemponi, rimasti bambini nel cuore, e desiderosi di coprire le brutture del mondo con il velo dell’umorismo, perpetravano nei confronti delle istituzioni più serie.
Quando fu fondata l’Accademia d’Italia, per esempio, fu il Parnaso a mandarle le prime felicitazioni cui rispose lo stesso presidente Tittoni con un telegramma di ringraziamenti e di calorosi auguri all’antica ed illustre consorella" che costituiva, peraltro, il primo atto ufficiale della neonata Accademia.. (p.159).Quando ci si accorse della burla, come scrisse Il Tempo di Roma, si accusò l’accademia canicattinese d’antifascismo. I Parnasiani si difesero affermando che la loro Accademia meritava di essere chiamata consorella dell’Accademia d’Italia, perché fra i suoi molteplici meriti, c’era anche quello di aver contribuito a dirimere una controversia internazionale come quella che contrapponeva l’Italia e la Spagna in relazione alla vera nazionalità di Cristoforo Colombo. L’Accademia, riunitasi in seduta plenaria, con la partecipazione straordinaria della somara che, per l’occasione inforcò gli occhiali, dopo lunghi studi ed estenuanti ricerche, giocando sulla pronunzia spagnola delle due elle, così decretò:
Dichiara st’’Accademia Seculari
Ca avennu li ricerchi fatti beni
Daveru ca nun potti mai truvari
D’Italia in tutti quanti li tirreni
Paisi ca putissi arrigistrari
Lu nomu di Collon. Da cui ni veni
Ca, essennu li Collon tutti spagnoli,
cu è Collon l’Italia nun lu voli. (p.163)
Quando la poesia fu inviata alle principali accademie e giornali italiani, grande fu lo sconcerto di storici e letterati, finché, compreso il gioco di pronunzia, ci si congratulò universalmente, tra fragorose risate, con i Parnasiani per la loro incredibile arguzia.
Un’opera come questa, portata a termine con impegno e con amore da Diego Lodato, non solo è pregevole perché contribuisce a diffondere la storia della cultura popolare della provincia, ma soprattutto perché riesce a suscitarci momenti di profonda allegria, che ci fanno dimenticare, per un po’, quanto sia purtroppo diverso questo nostro mondo rispetto alle immagini con cui i Parnasiani lo hanno trasformato.