UN’APPROFONDITA E ORIGINALE OPERA DI SERGIO CARUSO SULL’EPOCA E IL PENSIERO DI JOHN SELDEN (1584-1654) di Claudia Giurintano

Sergio Caruso, straordinario di filosofia politica presso l’Università degli Studi di Firenze, ha recentemente pubblicato un’interessante opera in due tomi (La miglior legge del Regno. Consuetudine, diritto naturale e contratto nel pensiero e nell’epoca di John Selden (1584-1654), Milano, Giuffré Editore, 2001, pp. 1023) su John Selden, autore con Edward Coke dellaPetition of Rights, interlocutore di Ugo Grozio e amico di Thomas Hobbes. Si tratta di un ampio e approfondito lavoro di ricerca iniziato nel 1982 presso la British Library di Londra e il fondo Magliabechiano della BNC di Firenze, i cui risultati, come il titolo suggerisce, tra l’altro, mettono in evidenza come la migliore legge del regno sia la consuetudine che, in Selden, assume valenze etico-politiche più che giuridiche.

Selden influenzò la cultura inglese del suo tempo e la sua fortuna fu registrata anche in America. J. Locke lo definì "dotto e giudizioso" (p. 894) e nel Settecento le opere di Selden furono lette dagli studiosi francesi Leclerc e Barbeyrac, dagli enciclopedisti Diderot e d’Alembert; in Germania da Pufendorf; in Italia da Vico, Maffei, Ansaldi, Finetti, Longano (p. 915-935). Al contrario, rileva Caruso, il silenzio degli studiosi italiani contemporanei non viene spiegato se si considera che le sue opere non sono affatto irreperibili o "noiose".

Nato in piccolo sobborgo di East Terring, nella contea del Sussex, nell’Inghilterra meridionale, John Selden era figlio di uno small farmer, appartenente alla yeromanry, i piccoli possidenti con una rendita annua di almeno quaranta scellini anche se, tra il Cinque e il Seicento, la yeromanry era una classe in crisi. Frequentata la grammar school e - grazie all’aiuto di alcune persone - l’Università di Oxford, fu ammesso all’Inner Temple, una delle quattro corporazioni giuridiche; nel 1607, infatti, scrive la tesi di abilitazione Anaelecton Anglo-Britannicon che costituisce la prima delle sue opere (p. 436). Negli anni 1607-1610 compone Janus anglorum, Jani anglorum facies altera e England’s Epinomis una sorta di enciclopedia storica delle istituzioni. Selden è consapevole che "la storia della costituzione inglese è una storia di scontri tra raggruppamenti d’interessi […] e dunque storia dei punti di equilibrio di volta in volta raggiunti e convenuti tra quelle forze" (p. 454).

Selden incarna la "sapiente mescolanza di gallantry e cautela, audacia e silenzi, coerenza morale e prudenza politica" (p. 107); la sua personalità si distinse per l’arte della diplomazia interpersonale e l’arte di "navigare di bolina" "seguendo la rotta che fa col vento il minimo angolo possibile" (ivi). Proprio nelle pagine di uno testi più importanti di Selden, Table Talk, egli spiega agli amici quando conviene parlare e quando tacere; una sorta di manuale che non ha nulla di machiavelliano ma, piuttosto, rappresenta un insieme di accortezze politiche di difesa e non protese alla conquista del potere.

L’infanzia e la giovinezza di Selden coincidono con un momento felice per l’Inghilterra caratterizzato da tutto un fermento culturale voluto da Elisabetta I ma anche da controversie religiose. In campo religioso, la sovrana fu sempre decisa a colpire chiunque attentasse al carattere nazionale della Chiesa inglese. Era questa la teoria detta erastianismo - dal nome grecizzato del medico e teologo svizzero Thomas Liebler (1524-1583) - pienamente condivisa da John Selden anche se in lui il termine si svuota di ogni forma sanguinaria. L’erastianismo "gradito alla Corona per ragioni politiche" fu apprezzato in Inghilterra anche da parecchi uomini di legge e di lettere per ragioni culturali. Ma se Selden fu erastiano politicamente fu arminiano spiritualmente. Jacob Harmensen aveva elaborato un calvinismo temperato e meno rigoroso poiché, rispetto a Calvino, riteneva che la misericordia divina "mirata alla salvezza di tutti, si lascia condizionare dal libero comportamento di ognuno" (p. 160). Quello di Selden fu un arminianesimo "inglese", i cui aderenti, chiamati "latitudinari", più che la "via media" predicavano la "via lata": "un modo di intendere la fede cristiana nella cui larghezza (latitudo) ci fosse spazio per tutti gli adiaphora o differenze irrilevanti" (p. 163).

Selden entrò giovane nella Società degli Antiquari dove si guadagnò un grande rispetto. Egli aggiunse alla conoscenza delle lingue classiche - greco e latino - le lingue sacre e l’ebraico. La sua reputazione sarà tale da essere considerato alla fine della sua vita il più erudito degli Antiquaries. Si trattava di una associazione di "Studi Storici", fondata nel 1572, i cui membri si riunivano una volta la settimana per discutere questioni archeologiche ma anche problemi legati alla storia delle istituzioni. In verità, osserva Caruso, vi erano tre tipi di antiquari: quelli inflessibili - come Selden - nella ricerca documentale; quelli compiacenti a fornire argomenti storici a favore della compravendita di nobiltà in generale o per mettere in luce benemerenze di certe famiglie, e, infine, i "veri e propri falsari al soldo degli arrivisti" (p. 123). Nel 1614 e, poi, ampliata, nel 1631, Selden pubblica Titles of Honour,una ricerca storico-giuridica di argomento araldico. La pubblicazione nasceva in un periodo in cui si assisteva a una certa inflazione dei titoli nobiliari; i titoli più importanti venivano esibiti o rivendicati mentre quelli medio-bassi risultavano più facilmente commerciabili (p. 469). E lo stesso Giacomo I, nel disperato bisogno di denaro, aveva cominciato a dedicarsi alla vendita dei titoli. Con Titles of Honour Selden "mette in guardia contro l’adulazione, il servilismo e l’idolatria di cui certi titoli meramente umani, vengono troppo spesso circondati" (p. 472). L’opera, sottolinea Caruso, è principalmente storiografica con rilevanti aspetti sistematico-dottrinali. Nelle prime pagine il pensatore inglese vede, bodinianamente, l’origine dello Stato dall’unione delle famiglie. Egli, pertanto, ammette l’esistenza di una monarchia paterna all’interno delle prime famiglie ma, contrariamente a ciò che sostenevano i fautori dell’assolutismo, afferma che "il primo ad elevarsi fu uno stato popolare: una democrazia". Tale riflessione viene chiarita nella seconda edizione del 1631 nella quale l’autore mette in dubbio l’antecedenza cronologica della democrazia affermando che la monarchia appare comunque la forma di governo più antica. (p. 481).

Nel periodo giacobita sir Edward Coke rappresenta, insieme a Selden, una delle figure più importanti della vita politica inglese e uno dei più autorevoli esponenti degli studi parlamentari. Speaker della House of Commons, Coke ebbe il merito di contrapporre "al divino mistero della prerogativa regia", il "mistero laico della common law" (p. 66). Coke proclamò una limitazione della prerogativa regia affermando che il re non poteva far diventare illecito ciò che prima non lo era. La common law risultava immodificabile non solo da parte del re, ma anche del Parlamento il quale, a sua volta, non poteva che limitarsi a interpretarla. A Selden, invece, spetterà il compito di far prendere coscienza al Parlamento del suo carattere di "rappresentanza bicamerale della nazione intera, nel pubblico interesse" (p. 74).

Dopo la Riforma aveva preso forma un vero e proprio diritto ecclesiastico tipicamente inglese. Selden sarà critico nei confronti di tutte le corti ecclesiastiche sia per le funzioni penali di tipo repressivo, sia per qualunque tipo di giudizio; al vertice dei tribunali ecclesiastici vi era, infatti, la court of High Commission che estendeva la sua competenza in materia di offese morali "fino a comprendere la manifestazione d’idee avverse o difformi rispetto alla religione di Stato" (p. 85). Selden si sentì sempre uno schietto protestante e non nascose mai la sua avversione per la Chiesa di Roma. Egli, però, non dubitò mai dell’importanza delle Sacre Scritture e della Rivelazione in esse contenuta: "sia l’Antico che il Nuovo Testamento erano intesi da lui come una sorgente di verità - non solo morali, ma anche storiche - da intendere alla lettera" (p. 149). Selden assunse le Scritture come fonti primarie di valore incontestabile anche se riteneva che ogni cristiano aveva il diritto-dovere di leggere la Bibbia in assoluta autonomia "con l’ausilio della ragione e senza soggiacere ad alcuna interpretazione autoritativa" (ivi).

La Chiesa, per Selden, "non ha giurisdizione su nulla, né può rivendicare diritti di sorta o competenze riservate sul terreno civile; neppure su quelle cose che le sono tradizionalmente dovute […] e neppure su quelle materie che venivano ritenute di competenza delle corti ecclesiastiche (pp. 155-156). Lo stesso matrimonio è, per il pensatore inglese, un contratto di diritto civile e le parole del Vangelo "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" stabiliscono un limite che deve essere definito dalla ragione umana - ragione artificiale - del giurisperito e, prima ancora, dalla ragione naturale "mix di diritto naturale e semplice ragionevolezza" (p. 156).

Dopo Elisabetta, Giacomo I riconosce che ogni monarca deve rispettare le leggi fondamentali del Regno benché "fornito di prerogative divine". Egli, scrive Caruso, "parlava di un "patto" col popolo, cui viene promesso di rispettare le leggi fatte per esso", ma si trattava di una legge tutta interna alla coscienza del re" (p. 57) e, cioè, di un’osservanza insindacabile e insanzionabile. Il sovrano ricorreva a un’immagine di un patto tra Dio e Noé nel quale Dio in persona stava per il re e Noè simboleggiava il popolo. Tali pretese, osserva l’autore, discordavano da quei paradigmi giuspolitici consolidati nella tradizione inglese ed espressi nelle opere di Giovanni di Salisbury, di Hooker, di Glanville, Bracton e Fortescue.

Caruso sottolinea come Giacomo I avesse commesso almeno tre errori nella sua azione di governo: sul piano politico, ideologico e personale. Sul piano politico poiché il sovrano non si rese conto che la Camera dei comuni era insofferente verso ogni tipo di dipendenza; sul piano ideologico perché portò avanti la formula della rivendicazione del diritto divino che, evidentemente, allarmava i membri del Parlamento inglese; e, infine, sul piano umano perché "adottò uno stile megalomane e talora arrogante" (p. 90). Da tutto ciò si possono capire le ragioni del lungo conflitto che nel periodo giacobita si ebbe tra la "prerogativa" regia e i "privilegi" del Parlamento. Le pretese di diritto divino - sia del re, ma anche del papa – venivano interpretate dal pensatore inglese come "giochi di prestigio per tirar fuori denaro e potere ai laici" (p. 159).

Nel 1614 Giacomo I scioglie il Parlamento dando il via al governo provvisorio di George Villiers, poi duca di Buckingham. In questo periodo, Selden pubblica De laudibus legum Angliae di Fortescue, un’opera nella quale il dominio politico e regale veniva considerato quello "dove il re non può governare che sulla base di leggi approvate dal Parlamento, di contro al governo regale tantum, dove la monarchia scivola nel dispotismo" (p. 175).

Nel 1617 Selden dà alle stampe The History of Tithes - una delle più approfondite trattazioni storico-giuridiche - nella quale egli sostiene che le decime non potevano essere un’istituzione divina anche se non trae egli stesso tale conclusione ma si limita a suggerirla (p. 537). Egli accusa il clero di essere una classe oziosa e ignorante che affida il suo potere a simboli esteriori privi di una vera cultura. Convocato di fronte al Privy Council, alla presenza di Giacomo I, l’autore cercò di sostenere che il fine del suo libro era quello di rafforzare la legittimazione delle decime producendo argomenti diversi da quelli insostenibili di diritto divino. Il sovrano "fece finta di crederlo" e tutto finì con la proibizione del libro e la distruzione della prima tiratura. Tale censura, osserva Caruso, paradossalmente, andò a vantaggio di Selden poiché le polemiche che seguirono, piuttosto che danneggiarlo, andarono a beneficio della sua carriera.

Nel 1617 egli scrive Mare clausum pubblicato solo nel 1635 dopo ampie modifiche, in risposta al libro di Grozio Mare liberum. Mare clausum rappresentava "un’astuta miscela di giusnaturalismo e storia, di ragione ed erudizione, di analisi etico-giuridiche e di realismo politico" (p. 621). Lo scontro tra i due pensatori testimoniava il conflitto di interessi tra l’Olanda - grande potenza navale - e l’Inghilterra che aspirava a ricoprire quel ruolo. Secondo Grozio è irragionevole, impossibile "appropriarsi del mare aperto, perché questo, a differenza della terra, è per sua natura indefinito e naturalmente abbondante" (p. 610). Fu Giacomo I a decidere di affidare proprio a Selden - quello stesso intellettuale che era stato portato davanti al Privy Council - il compito di difendere gli interessi inglesi affermando, contro Grozio, l’idea del dominium maris; il tutto però con grande rigore logico e senza contraddizioni poiché Grozio era il più grande giurisperito di quel secolo. Ma l’imminente fine della tregua di Anversa e la guerra dei Trent’anni, scoppiata nel 1618, spinsero il sovrano inglese a non continuare su quella polemica che finirà senza neanche cominciare.

Gli anni 1617-1646 sono caratterizzati da tutta una produzione ebraista: Selden pubblica Of The Jews in England - nel quale affronta il ruolo degli ebrei nel prestito a interesse - e i saggi storico-legali sul problema delle successioni. Tra questi scritti va menzionato il De jure naturali et gentium juxta disciplinam Hebraeorum opera nella quale l’autore esprime non solo la concezione ebraica del diritto naturale ma offre un importante contributo filosofico alla storia del diritto (p. 661). Qui l’autore ritiene che il diritto naturale, per essere definito "diritto", deve essere un comando: una legge deve essere coattiva e, pertanto, deve essere percepita dal destinatario come sanzionabile (p. 678). Nel 1646 pubblica Uxor Hebraica, un’ approfondita trattazione in tre libri sul diritto matrimoniale degli antichi israeliti con particolare riguardo allo status di moglie, ai casi di ripudio, alle forme di divorzio (p. 729).

Con il sostegno di alcune famiglie aristocratiche Selden entrò come deputato nella Camera dei comuni: due volte sotto Giacomo I e poi sotto Carlo I, infine, alla vigilia della Rivoluzione, come membro del gruppo moderato. Negli anni 1621-1649, di intensa battaglia contro l’assolutismo, egli sarà sempre in prima fila occupandosi, in particolare, della rivendicazione dei privilegi dei Comuni, della verifica dei poteri e autonomia dell’ordine del giorno.

Selden riteneva abusato il principio secondo cui Salus populi suprema lex esto. Esso era stato impiegato ora a favore dell’assolutismo regio e dell’arbitrio delle corti, ora contro l’assolutismo e a favore del consenso.

Nel 1621, Giacomo I pronuncia un discorso con cui definisce i privilegi del Parlamento una concessione della Corona. Fu allora che le due Camere decisero di commissionare a Selden un expertise storico-legale, al fine di replicare al re. Selden dimostrò che quei privilegi erano originari anche se ammetteva che esistevano prerogative della Corona. Nonostante tale precisazione il pensatore inglese venne arrestato insieme a quei membri della Camera dei Comuni che erano considerati responsabili della protesta. Si trattò, specifica Caruso, di misure dimostrative definibili né più né meno che arresti domiciliari. A quelle vicende seguì, il 6 gennaio del 1622, lo scioglimento del Parlamento. L’esperienza del carcere accomunò Selden a sir Francis Bacon anche lui membro della Società degli Antiquari, anche lui avvocato e membro della Camera dei Comuni. Come deputato Selden affermò il primato della legge e i diritti del Parlamento contro le pretese assolutistiche della Corona. Egli sostenne la battaglia per l’Habeas Corpus; una battaglia senza successo poiché solo dopo la sua morte il testo verrà ratificato da Carlo II.

In riferimento ai pretesi privilegi del re, l’autore dichiarava che "a King that claimes Priviledges in his owne Kingdome […] is just as a Cook" (p. 215). Dunque, come Giacomo I amava paragonare il suo rapporto con il popolo come quello tra Dio e Noè, così Selden paragona l’ufficio del re a un ruolo servile: quello di un cuoco. Il re non era che il servitore dello Stato.

Dopo gli arresti nel 1621 per ordine di Giacomo I, Selden fu rinchiuso in varie prigioni dal 1629 al 1631, sotto Carlo I, per aver collaborato con Coke alla Petitions of Rights. Carlo I, figlio di Giacomo, salì al trono nel 1625. Nuovi cambiamenti si registravano nella vita politica inglese poiché si andavano sempre più delineando due partiti: uno del re e uno del Parlamento. Di quest’ultimo facevano parte, tra gli altri, Selden, Coke, Diggers, Elliot, Pym. Nel 1625 Carlo I scioglie il suo primo Parlamento ma per esigenze politico militari è costretto a convocarne un secondo nel febbraio del 1626. La nuova Camera dei Comuni accetta di votare sussidi e crediti di guerra ma decide anche di farne una legge vigente solo al termine della sessione parlamentare (pp. 221-222). Con tale strategia il Parlamento evita di farsi sciogliere dal re; al tempo stesso esso prepara un’inchiesta sul fallimento della spedizione di Cadice, procede all’impeachment di Buckingham. Dinanzi a tutte queste tattiche il sovrano si dice costretto a scogliere il Parlamento ma, sottolinea acutamente Caruso, finisce per rimanere prigioniero del Parlamento poiché, così facendo, resta ancora senza sussidi.

Nel 1628, Selden pubblica l’opera Marmora Arundelliana nella quale illustra e commenta più di quattrocento pezzi tra busti, statue e tabelle marmoree appartenenti al conte di Arundel che aveva raccolto in Grecia e in Italia tali antichità e aveva ora chiamato Selden per catalogarle e interpretarle. Il 17 marzo 1628 si assiste alla prima riunione del terzo Parlamento; la Camera dei Comuni ha tra i suoi membri gli intellettuali più importanti: Selden, Coke, Pym che portano il dibattito ad alti livelli. Fra il 1628 e 1629 Selden interviene sui principali argomenti politico-costituzionali: garanzie di libertà, habeas corpus, immunità parlamentari, privilegi del Parlamento, tassazione, tutte questioni che confluiscono nellaPetitions of Rights (p. 234).

Selden affermava che perfino l’antica costituzione poteva essere modificata dal Parlamento; con ciò egli non voleva certo modificare la Magna Charta ma voleva solo sottolineare che ciò sarebbe stato possibile. Il principio assolutistico e bizantino Quod principi placuit legis habet vigorem - al quale si erano ispirati Giacomo I e Carlo I - pertanto, andava capovolto affermando che solo quello che piace al Parlamento ha forza di legge: "ogni volere del principe è legge, in quanto il popolo ha conferito a lui e trasferito su di lui ogni sua autorità e potere, per mezzo di una legge" (p. 521).

La Petition conteneva alcune disposizioni importanti: che il re non poteva imporre tasse senza il consenso del Parlamento; che nessuno poteva essere perseguitato o sottratto ai suoi giudici naturali; che il re non poteva "acquartierare nelle case di privati cittadini soldati di terra e di mare" (p. 243). Carlo I sanzionò l’Atto dei diritti, sciolse le Camere (10 marzo 1629) pubblicando un manifesto nel quale spiegava le basi del suo governo. Seguirono altri arresti: Selden venne accusato di "espressioni sediziose" e fu rinchiuso nella torre di Londra e liberato, in seguito, solo grazie all’aiuto di influenti amici.

Nel 1635 Selden dà alle stampe il Mare clausum che in un anno ebbe almeno cinque edizioni. "Come inglese e come patriota - scrive Caruso - era preoccupato della sfida olandese" (p. 270); l’Olanda non voleva riconoscere alcuna validità all’ordinanza del 1609 che la escludeva dal pescare gratis lungo le coste inglesi e scozzesi. Selden riordina le sue meditazioni del 1619 e pubblica la sua risposta alle tesi di Grozio. Tale opera mise Selden in ottima luce tanto che il re gli propose importanti cariche come quella di Lord Guardasigilli che rifiuterà per vari motivi: morali (cioè per fedeltà ai propri valori); psicologici (per il risentimento) e politici (nel senso che pur essendo un moderato egli non vuole trovarsi, nel momento finale dello scontro tra Corona e Parlamento, dalla parte sbagliata). Egli accetterà solo la carica di responsabile degli archivi di Stato più consona ai suoi interessi (p. 346).

Senza Parlamento la situazione editoriale peggiorò notevolmente: per decreto della Star Chamber la censura divenne preventiva. Selden riteneva, invece, che si dovesse poter leggere di tutto anche nella sfera della religione. Fu così che alla fine degli anni trenta nacque il Tew Circle grazie alla sensibilità di Lord Falkland, John Hales e W. Chillingworth. Nel Circolo cominciarono a riunirsi "gentiluomini colti e aperti, generalmente latitudinari" (p. 285) che prediligevano argomenti sul rapporto tra politica e religione. In questi stessi anni Richard Milward (1609-1680) segretario e amanuense di Selden, comincia a trascrivere i pensieri del suo padrone - riferiti al periodo 1634-1654 - sugli argomenti più vari che, nel loro insieme, costituiranno il famoso lavoro Table Talk (p. 758).

In esso il lettore trova analizzate alcune categorie sociali del tempo: clero, autori di libri, Lord. Selden diffida dei parroci affermando che il ministero divino non è altro che un mestiere che, certo, non si può improvvisare. Egli consiglia al "povero laico" di smettere di credere a tutto quello che gli uomini di Chiesa dicono e, dall’altro lato, consiglia ai preti di smettere di "ingannare i laici" se non vogliono "pagarla cara" (p. 306). Se questo è l’attacco ai ministri della Chiesa, Selden accusa i Lord di recente creazione di vivere nell’adulazione "nella posizione meno favorevole per assumere coscienza di sé e del mondo che li circonda" (p. 309). In Table Talk emergono le due polarità concettuali di Selden: funzione ed essenza; fede e ragione; emerge un Selden antropologo - che consiglia ai politici a non sottovalutare mai l’human invention (p. 782) -; psicologo dell’ipocrisia umana e delle umane paure e sociologo ante litteram (p. 788).

Particolarmente rilevante è lo studio del rapporto tra Selden e Hobbes. Entrambi lavoravano sull’idea di legge di natura come espressione della ragione naturale; ed è facile, osserva Caruso, pensare che, entrambi erastiani, si impegnarono in accanite discussioni di argomento politico religioso. Hobbes certamente condivise la dura critica all’ignoranza del clero; l’idea che nelle verità cristiane non c’è niente da analizzare e niente da dedurre. L’analisi attenta dei due pensatori inglesi mostra, secondo l’autore, una certa influenza seldeniana su Hobbes anche per alcune convergenze di idee e principi tra cui: l’erastianismo politico; il razionalismo anglicano (avverso nel metodo alla tradizione filosofica degli scolastici) e, infine, l’autonomia naturale degli individui (p. 316). Una differenza rilevante viene registrata in termini di contratto poiché in Hobbes il sovrano è concepito come "terzo non contraente", in Selden, al contrario, il monarca è parte del contratto (p. 829). Selden, pertanto, reinterpreta l’idea di patto in termini laici e utilitari in modo che la figura del re risulti desacralizzata (p. 831).

Il "breve Parlamento" convocato dopo undici anni durò, come il suo stesso nome suggerisce, solo poche settimane (13 aprile - 15 maggio 1640). Il re convoca nuove elezioni dalle quali verrà fuori il più lungo e combattivo Parlamento della storia inglese: il Long Parliament. Tra gli argomenti più dibattuti da questo Parlamento vi fu quello in materia di organizzazione ecclesiastica. Nel 1641 i vescovi della Camera dei Lord vennero espulsi, si venne a formare un partito radicale che propugnava l’abolizione completa dell’episcopato. Selden affermerà che "i vescovi stanno al basso clero come l’aristocrazia sta al popolo; l’episcopato è l’aristocrazia del clero" e pertanto c’è bisogno dei vescovi in un regime monarchico come c’è bisogno di aristocrazie che medino il rapporto dei sudditi con il re (p. 332).

Il tema dei privilegi parlamentari fu, in parte, trattato da Selden nel 1642 nell’opuscolo Priviledges of the Baronage of England e, certamente, nel Table Talk. Egli considera le leggi, sul piano giuspolitico, un contratto fra re e popolo: "nel contrattualismo seldeniano solo il re, finché regge il contratto, è in un certo senso "sovrano" fornito per legge di poteri superiori a quelli di chiunque altro" (p. 367). Il Parlamento è l’organo rappresentativo del popolo intero ma Selden diffida del popolo: "idea vaga e pericolosa" tanto che preferisce parlare di sudditi.

Il 1643 è l’anno di lutti per l’Inghilterra; la guerra civile assume l’aspetto di lotta fra royalists roundheads cioè, fra cavalieri sostenitori del re e puritani. Selden è ostile alla guerra civile ma finisce per elaborare una teoria della rivoluzione. C’è una guerra civile e bisogna scegliere il male minore: è meglio che stravinca il Parlamento piuttosto che il re!(p. 374). Il popolo può prendere le armi contro il sovrano quando il contratto è infranto. Ma chi stabilisce la rottura del patto? Egli ritiene si possa prendere a modello il duello: esso è lecito quando non esistono vie legali per raddrizzare un torto. Ma il costume autorizza i sudditi a un duello contro il sovrano? Scrive Selden a tal proposito: "Though there be non written law for it, yet there is custom, which is the best law of kingdom" (p. 377). Il costume, dunque, è la migliore legge del regno ma: "la prescrizione d’impugnare le armi contro un re fedifrago non è una common law" (p. 378) nel senso stretto degli avvocati. Si tratta piuttosto, spiega Caruso, di "costumanze" che trascendono e fondano l’ordinamento in quanto "politico".

Al duello egli aveva dedicato già nel 1610 un’opera dal titolo Duello or single combat opera che offre spunti di critica sociale e giuridico-politica. Il duello è una istituzione sociale espressione di un éthos che giunge al presente dal passato ( p. 456). Il codice cavalleresco aveva la funzione di considerare gli uomini uguali, sia moralmente che materialmente, proprio nell’occasione del duello. E le stesse Scritture, del resto, non escludono in certi casi il ricorso alle armi. La "santità" del duello stava, secondo Selden, nell’idea che i conflitti relativi alla parola data dovevano potersi risolvere in modo rituale (p. 465).

Alla morte di Pym, "testa pesante della rivoluzione", la leadership passa nelle mani di Oliver Cromwell. Selden è probabile che diffidasse di quella intransigenza con cui Cromwell si opponeva a ogni prospettiva di riconciliazione e diffidasse anche di quelle simpatie presbiteriane. Ma la nuova leadership assunse un atteggiamento opposto: "all’intransigenza politica affianca una larga apertura sul piano religioso". Tale cambio di rotta gli farà guadagnare il favore e l’interesse dell’anziano Selden. Nel 1645 questi entra nella Commissione ristretta di dodici persone alle quali il Parlamento demandava la riorganizzazione dell’Ammiragliato cioè il complesso di istituzioni civili, militari, amministrative e giudiziarie.

Alla esecuzione della decapitazione di Carlo I Selden non volle prendere parte nonostante egli avesse sostenuto che ci sono circostanze in cui, rotto il contratto tra principe e sudditi, la decisione è affidata alle armi (p. 409). Egli non si lasciò mai andare a esplicite esaltazioni di Cromwell. Il suo realismo, osserva Caruso, la sua prudenza di uomo settantenne, lo spinsero al silenzio. Nel 1651 Cromwell promulga il Navigation Act diretto contro l’Olanda. Ancora una volta emerge il sentimento patriota di Selden che lascia che il suo scritto del 1635 abbia un ulteriore diffusione e, lui stesso, criticato dalla pubblicistica olandese, risponde nel 1653 con le Vindicae, ultimo scritto pubblicato in vita.

Tra il 1650 e il 1655 Selden dà alle stampe un’opera monumentale De synedriis continuando a mostrare il grande interesse per la storia delle istituzioni d’Israele in epoca biblica. Qui l’autore, soffermandosi sul periodo mosaico, vede nella suddivisione della terra di Canaan fra le dodici tribù, l’origine e la legittimazione del potere popolare. Ciò, però, osserva Caruso, non vuol dire che la democrazia è per Selden il regime originario. L’esistenza di un potere popolare non coincide con il governo del popolo ma con l’esistenza di limiti invalicabili da parte di qualunque potere sovrano (pp. 737-738). Il pensatore inglese si muove sul piano logico e non cronologico senza volere accordare alla democrazia un primato. Egli si mostra favorevole alla monarchia costituzionale consona alla tradizione politica di un popolo, come quello inglese, "amante della libertà" (p. 819). Le critiche che egli mosse a Giacomo I e a Carlo I non riguardarono mai la monarchia in quanto tale ma furono sempre rivolte agli abusi, all’assolutismo.

Il lavoro di Sergio Caruso ha il merito di colmare la lacuna della storiografia italiana nei confronti di questo grande pensatore inglese. I due pregevoli tomi rappresentano la più completa e sistematica ricerca che sia stata mai pubblicata in Italia e in Inghilterra. L’autore ha corredato il secondo tomo di una ampia bibliografia che raccoglie la letteratura critica o secondaria e quella coeva o primaria utile a quanti volessero continuare non solo nello studio del pensiero di Selden ma anche del periodo storico in cui egli visse e operò. Selden, come lo stesso Caruso evidenzia, ha una sua modernità registrabile nel rifiuto dei luoghi comuni di matrice scolastica; nel ripensamento sulla natura umana in termini diversi dall’aristotelismo cristiano; nella sua "enfasi sulla volontà come ingrediente indispensabile di ogni normatività" (pp. 838-840); nella sua capacità di impiegare parole e di evocare immagini; nell’essere, in una parola, fautore della laicità dello Stato e della cultura.

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